domenica 17 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?Gli scrittori sacri (IV)


CAPITOLO IV

GLI SCRITTORI SACRI

Non ci resta dunque, come unica fonte di informazioni, che gli scrittori sacri; ma, anche qui, a parte gli indizi magri e contestabili che possiamo estrarre dai vangeli, incontriamo solo il vuoto; e i vangeli [1] stessi “sono dei poveri documenti” (Havet,  le Christianisme et ses Origines).
Ecco l'elenco completo delle opere che possiamo consultare:
san Paolo: Epistole Cardinali;
Luca (?): Atti degli Apostoli;
Epistole apocrife attribuite a san Paolo, san Pietro, san Giovanni, san Giacomo, ecc.;
4° Gli apocrifi;
5° Oracoli delle Sibille;
6° Gli evangelisti: Marco, Matteo, Luca e Giovanni.

SAN PAOLO

È il solo degli scrittori del Nuovo Testamento la cui esistenza sia pressappoco certa, benchè nessun autore profano ne faccia menzione e non sia affatto citato nei vangeli. “Tuttavia” (Huxley, Science et Religion, pag. 279, nota 1), esiste una scuola di critica teologica che mette, più o meno in dubbio, la realtà storica di Paolo e l'autenticità stessa delle quattro epistole cardinali”. Queste Epistole sono: l'epistola ai Romani, le due epistole ai Corinzi e l'epistola ai Galati. Comunque sia, la stragrande maggioranza degli esegeti le ammette, ma respinge, in totalità o in parte, le altre dieci lettere poste sotto il nome di Paolo e ricevute dalla Chiesa. Senza entrare nei lunghi dettagli delle ragioni che ci hanno condotto a questa conclusione, diciamo fin da subito che seguiremo l'opinione dei critici che riconoscono come quasi certe solo le Epistole Cardinali. Sono state probabilmente composte tra il 56 e il 58 e sono, di conseguenza, i documenti più antichi che noi possediamo sul cristianesimo; solo a questo titolo, esse hanno già di gran lunga più valore dei vangeli, più giovani, la cui autenticità è inoltre  infinitamente più contestata e che non potrebbero, da alcun punto di vista, meritare la stessa fiducia. Vedremo del resto, più avanti (4° parte), i motivi che ci portano a concedere a queste epistole un'importanza e un'autorità che siamo obbligati a rifiutare ai vangeli e alle altre parti del Nuovo Testamento.
Gli Atti degli Apostoli attribuiti ad un certo Luca sono la nostra unica fonte di informazioni su Paolo, che sembra, in effetti, aver ben svolto il ruolo principale, se non essenziale, nella fondazione della nuova religione; è dunque necessario accontentarsene, nonostante il meraviglioso di cui sono ricolmi ci costringe a sfidarli grandemente. Ritorneremo allora più tardi sulla documentazione degli Atti e sul grado di fiducia da consentire loro. Le epistole di Paolo non ci danno alcun dettaglio biografico sul loro autore, se non che egli si lamenta qualche volta della sua salute (Galati 4:13, 2 Corinzi 12:7); al di fuori delle questioni di polizia e di disciplina religiosa delle Chiese che l'Apostolo governa, esse contengono solo noiose discussioni teologiche. In mancanza di ogni verifica possibile, ammetteremo dunque, fino a un certo punto, la veracità dell'autore degli Atti, eliminando, beninteso, tutti gli eventi soprannaturali che elargisce questa guida poco sicura.
Nato a Tarso, in Cilicia (Atti 22:3) Saulo o meglio Paolo — un sacco di ebrei avendo preso l'abitudine di ellenizzare il loro nome — è venuto a stabilirsi molto presto a Gerusalemme [2] dove ha seguito gli insegnamenti dal fariseo Gamaliele, dottore della Legge (Atti 5:34-22:3). Fu dapprima uno dei persecutori più feroci del cristianesimo nascente (Atti 8:3 — 9:1-2 — Galati 1:13); ma, a seguito di una visione sulla via di Damasco (35 circa), la città in cui, munito di un mandato del Sommo Sacerdote, si è recato per far imprigionare gli aderenti della setta nazarena, [3] fu “rinvenuto”, altrimenti detto convertito, e divenne il più ardente propagatore della nuova religione, dispiegando nella sua recente missione lo stesso fanatismo furioso che aveva mostrato nella persecuzione.
Abbandonando a Pietro e agli Apostoli (Concilio di Gerusalemme) il ruolo ingrato e oscuro di predicare il vangelo ai circoncisi, vale a dire agli ebrei, si riservò il compito relativamente facile e particolarmente fruttuoso di portare la Buona Novella ai gentili (Galati 11:7 — Romani 3:16), vale a dire, alla massa enorme dei pagani presso cui era già cominciato, da parecchi secoli, il proselitismo ostinato degli ebrei. Percorrendo la Siria, l'Asia Minore, l'Acaia, ritornò a Gerusalemme per la terza volta nel 58, e fu imprigionato a Cesarea. Da lì, fu condotto a Roma, dove rimase prigioniero due anni ancora e dove, in seguito, perdiamo del tutto la sua traccia, siccome gli Atti degli Apostoli terminano bruscamente a questo punto, sia che il libro fosse stato lasciato incompiuto dal suo autore, sia che il seguito sarebbe stato perso o soppresso più tardi.
La tradizione fa decapitare Paolo a Roma, sotto il regno di Nerone, il 29 giugno 66, nello stesso momento in cui Pietro vi è crocifisso; ma questa leggenda non poggia su alcun fondamento serio, e ci vuole infinitamente buona volontà per persuadersi che il Principe degli Apostoli  sia mai giunto nella capitale dei Cesari. Comunque sia, leggendo gli Atti, e specialmente le Epistole Cardinali, si sente fortemente che non stiamo trattando qui un essere di convenzione, una sorta di fantasma vaporoso come il Cristo, ma, al contrario, un uomo di carne ed ossa, energico, appassionato, perfino allucinato, continuamente in lotta violenta contro gli avversari che gli contestano il governo delle chiese che lui ha fondato. Gli Atti di Tecla, libro apocrifo, ma che, come documentazione, può avere tanto valore quanto gli Atti degli Apostoli, lo dipingono così: “Un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte infatti aveva le sembianze di un uomo, a volte l'aspetto di un angelo”.
Ammettendo come autentiche le quattro epistole cardinali, ci si aspetta di trovarvi delle informazioni molto abbondanti sulla carriera e sulla fisionomia di Gesù. Infatti, le lettere di Paolo sono anteriori di quasi mezzo secolo ai vangeli; l'autore viveva a Gerusalemme al tempo in cui il Messia predicava e al momento della Passione (Atti 22:3); il rivale di san Pietro ha quasi la stessa età del Cristo; si trova in rapporto costante con i Nazareni, prima come nemico implacabile, poi come apostolo fanatico. Cento volte, ha dovuto incontrare Gesù, inseguirlo con il suo odio e turbare i suoi sermoni; più tardi, è in relazioni più o meno discontinue, più o meno amichevoli, con i principali capi nazareni. Bene! Per quanto possa apparire straordinario, mai una sola volta, parla di Gesù come di un essere reale: si occupa solo di Cristo risorto e mai del Redentore vissuto. Sembra dire di non averlo affatto conosciuto: “Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così” (2 Corinzi 5:16). Tutto ciò è molto strano.
Non è affatto meno singolare che, subito dopo la sua visione, Paolo si metta lui stesso a predicare il Cristo nelle sinagoghe, senza preoccuparsi di intendersela con gli Apostoli, i quali, soli, hanno ricevuto dal Signore  la missione di portare la Buona Novella alle nazioni; che lui non voglia nemmeno avere il minimo scambio con loro. È direttamente dal Messia, è da Gesù morto e sepolto che, per una rivelazione soprannaturale, afferma di aver appreso le parole che egli ha pronunciato durante la Cena (1 Corinzi 11:23-33) e non affatto dagli Apostoli che assistettero a questo banchetto supremo e coi quali sembra essere stato sempre in condizioni assai cattive. È solo dopo tre anni di predicazione appassionata (nel 38) che lascia Damasco, dove l'odio degli ebrei ortodossi mette la sua vita in pericolo, per ritornare una prima volta a Gerusalemme, dove nessuno dei nazareni lo conosceva. (Galati 1:22) — [4] — e rende visita a Pietro, spingendosi fino al punto di rifiutare di vedere gli altri apostoli, “solo Giacomo, il fratello del Signore” (Galati 1:19), ben lontano dal cercare di informarsi presso di loro delle avventure di Gesù e delle sue dottrine. Non si preoccupa affatto di più di entrare a contatto con la madre del Salvatore, di cui non pronuncia mai il nome, e che sembra non esistere affatto per lui; ha ancora meno il pensiero di indagare sui discepoli di Emmaus, Cleofa e un altro, i presunti testimoni della resurrezione, nonostante la credenza nella resurrezione è per lui tutto il cristianesimo (1 Corinzi 15:14). Nell'ipotesi della realtà di Gesù, questa indifferenza costante dell'apostolo dei gentili verso tutto ciò che riguarda il suo maestro è più che inammissibile: Paolo ha l'aria di temere ogni precisazione che contraddirebbe la sua tesi della resurrezione e lui preferisce inseguire tutto sveglio, il suo sogno di Damasco.
Quattordici anni dopo (anno 52), ritorna per un momento a Gerusalemme, non per saperne di più, ma per rivelare a Pietro la sua ferma intenzione di continuare a predicare il vangelo agli incirconcisi, lasciandogli solo gli israeliti da convertire e dichiarandogli la sua ferma volontà di non lasciarsi affatto dirigere da lui, né “da coloro che sembravano più considerevoli”. Pietro, Giacomo e Giovanni, “le colonne”, sono obbligati a cedere. È impossibile ammettere che se Gesù fosse stato un essere reale, che se gli apostoli fossero stati veramente i luogotenenti di Cristo, istituiti dalla sua autorità divina, Paolo avrebbe osato trattarli con tanta disinvoltura e disprezzo davanti ai cristiani che li riconoscevano per capi e avrebbe potuto accontentarsi di dire che essi sembravano i più considerevoli.
Così, questo potere che si attribuisce il focoso fondatore del cristianesimo, non è affatto da Gesù che lo ha ricevuto, tanto meno dagli Apostoli che la frequentazione di Cristo ha dovuto coronare di un'aureola abbagliante e dotare di un prestigio indiscutibile: no, egli non riconosce per nulla la loro autorità, e non ha per loro né il minimo rispetto né la minima condiscendenza; è dalla sua stessa passione (Galati 1:12) che deriva il diritto di comandare la Chiesa; il Cristo non è ai suoi occhi che il pretesto necessario per prendere la direzione dell'innumerevole esercito di giudaizzanti. Non importa se Gesù sia esistito o no, ciò non ha per Paolo alcuna importanza ed egli non esita affatto a dirlo (2 Corinzi 5:16). [5]
Alla lettura delle epistole, si prova dunque un'immensa delusione: la personalità fugace del Messia, che non si è riusciti ad afferrare da nessun'altra parte, ci sfugge ancora qui, nel libro che ci sembrava dover insegnarla meglio.
Tuttavia, dobbiamo soffermarci un istante su un passo di Paolo (Galati 1:22) che ci mostra, che intorno all'anno 38 esistevano già diverse Chiese cristiane in Giudea; a Gerusalemme, Pietro e Giacomo, “il fratello del Signore” sembravano i principali personaggi, “le colonne” (Galati 2:9) del loro piccolo gruppo. Se, quindi, ammettiamo l'autenticità delle epistole cardinali, ne consegue che Pietro e Giacomo non sono affatto degli esseri immaginari. Inoltre, se supponiamo che il Pietro-Cefa delle epistole sia lo stesso apostolo Simon-Pietro-Cefa dei vangeli come lo presumono quasi all'unanimità gli esegeti, siamo guidati a riconoscere, per conseguenza, l'esistenza di un testimone possibile della predicazione di Cristo, sebbene la realtà di Simone e  la sua identità con Cefa non dimostrino affatto necessariamente quella di Gesù, poiché non sappiamo nulla di certo sulle relazioni che hanno potuto aver assieme, dato che le epistole non fanno affatto la minima allusione e non lasciano intravedere da nessuna parte che Pietro abbia potuto aver visto Gesù; anche nelle leggende, così poco credibili, riportate più tardi dai vangeli, il ruolo di Pietro è molto insignificante, quasi nullo: sembra un confidente di tragedia, la cui azione non sta in alcun modo sul pezzo e la cui utilità consiste unicamente nel dare la replica all'eroe. Nulla ci impedisce dunque di credere che il Principe degli Apostoli, colonna della Chiesa di Gerusalemme, abbia avuto la sua visione di Damasco, così come Paolo, e si sia messo egualmente a predicare la venuta del Messia, di sua propria iniziativa, senza averlo frequentato più di quanto san Giuseppe abbia frequentato il suo sogno. In dei racconti così confusi, non si sa a quale indizio un po' stabile aggrapparsi.
Questa traccia dell'esistenza di Gesù è quindi già molto impercettibile; eppure, cosa inaspettata, malgrado l'affermazione per una volta concordante dei quattro vangeli, malgrado la conferma di Paolo (1 Corinzi 9:5) e degli Atti (1:14), proprio nessuna confessione cristiana, sia cattolica, sia protestante, sia ortodossa, non vuole concedere che Gesù abbia avuto dei fratelli, [6] e la Chiesa cattolica romana rifiuta di riconoscere nel Pietro-Cefa della epistola ai Galati, il continuatore dell'opera di Gesù; i credenti  respingono dunque così, per partito preso, quest'unica e minuscola traccia della realtà del Messia.
Per giunta, collocando Giacomo al primo rango nella Chiesa primitiva, Paolo è in contraddizione con i vangeli, che non danno alcun ruolo ai fratelli di Gesù che il Signore respinge duramente, secondo i sinottici; e soprattutto con il vangelo di Giovanni che assicura (7:5) che “neppure i suoi fratelli credevano in lui”. Tuttavia, Paolo, testimone oculare, è di gran lunga il più degno di fede. Quattordici anni dopo (52), al suo secondo ritorno a Gerusalemme, Paolo ritrova ancora Giacomo, Pietro e Giovanni, tra i capi principali della Chiesa nascente; nel 54, ad Antiochia, Pietro rimane sempre molto influente, il che non impedisce affatto all'apostolo dei non-circoncisi di resistergli apertamente (Galati 2:11-14), ma non vi è più una menzione di Giacomo, nè di Giovanni, che scompaiono dalle epistole. [7]

GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Gli Atti degli Apostoli che mettiamo qui davanti ai vangeli, sebbene siano posteriori ai primi tre, perché vi possiamo trarre un numero maggiore di fatti ammissibili, sono la sola opera che ci informa direttamente sugli inizi della Chiesa cristiana.  Sono, tuttavia, assai distanti dalla morte del Redentore sufficiente e anche dalla predicazione di Paolo: la data della loro redazione difficilmente si può, infatti, far risalire fino all'anno 100, in quanto presuppone quella del terzo vangelo conosciuto dell'Autore. Lo scrittore afferma da subito (1:1-2) che, in un libro precedente, ha parlato di tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato,  dall'inizio della sua missione fino alla sua ascensione, e dedica questo secondo lavoro, così come il primo (Luca 1:3, Atti 1:1), a un certo Teofilo, sconosciuto tanto quanto lui. La Chiesa, e gli esegeti al suo seguito, hanno quindi ammesso, sulla fede di questo preambolo, che gli Atti e il terzo vangelo siano della stessa mano. Sebbene non vi sia in quest'ipotesi nulla di incredibile, delle contraddizioni assai numerose e degli altri indizi permettono comunque dei dubbi seri. Ad esempio, l'evangelista non parla affatto del suicidio di Giuda (non più del resto di Marco, Giovanni o Paolo), mentre l'autore degli Atti fa della morte del traditore un resoconto dettagliato che differisce parecchio effettivamente da quello di Matteo (Atti 1:18-19, Matteo 27:3-8). Più avanti (9:3-9, 27:6-11, 26:12-16), la conversione di Paolo, di cui non vi è affatto menzione nelle epistole, è raccontata fino a tre volte, con delle leggere varianti, ripetizione che può far supporre che gli Atti non siano affatto tutti interi usciti dalla penna del presunto Luca, cosa che possiamo già sospettare confrontando i primi quindici capitoli — nei quali Paolo è solo un personaggio molto secondario —, coi seguenti, dove occupa l'intero posto e dove l'autore, per la prima volta, parla in prima persona; un'altra differenza essenziale è la maniera in cui parla dei farisei in entrambe le opere: mentre il terzo evangelista li copre di maledizioni e ingiurie (11:43-44), negli Atti, al contrario, Paolo si fa gloria di essere fariseo e figlio di fariseo (Atti 23:6) e pronuncia il più vivo elogio di questa setta (Atti 26:5). Infine, mentre il terzo vangelo è quello che amplifica di più il ruolo di Maria, almeno nel mito del concepimento verginale, gli Atti si degnano appena di nominare una sola volta la madre del Salvatore e senza associare a questa menzione la minima importanza. Si noti anche che il Luca degli Atti non conosce affatto Giuseppe di Arimatea che, secondo il Luca del vangelo (23:53) si prende cura dei funerali del Salvatore: “Gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi... lo deposero dalla croce e lo misero nel sepolcro” (Atti 13:27, 29)
Qualunque ne sia della questione secondaria dell'identificazione dell'autore degli Atti degli Apostoli con il cosiddetto Luca del vangelo che, peraltro, non è affatto più nominato in un'opera che nell'altra, vi sono delle serie riserve sul grado di fiducia da accordare a questo libro, a parte la stessa profusione di miracoli che già disturbano la nostra  fiducia. Torneremo più tardi (4° parte) su questo soggetto.
Non più di Paolo, l'autore degli Atti non fa la minima allusione alla persona di Gesù. [8] Quanto agli Apostoli, in un verso introdotto assai goffamente (1:13), il Luca, degli Atti, ne dà, è vero, una lista conforme a quella del Luca del vangelo; ma, al di fuori di Pietro, di cui vi è menzione solamente nei primi quindici capitoli e che si eclissa in seguito; di Giovanni, il cui nome viene semplicemente ripetuto cinque o sei volte, senza commenti; e di Giacomo di Zebedeo (12:2), di cui una riga ben asciutta indica il martirio, la loro esistenza non è nemmeno ricordata nel resto dell'opera: non sembrano aver giocato alcun ruolo nell'organizzazione delle prime Chiese e Paolo non li conosce affatto. Molto probabilmente non hanno affatto maggiore consistenza delle dodici tribù di Israele sulle quali devono regnare e il loro numero fatidico è solo una reminiscenza della Bibbia. Allo stesso modo, il  paragrafo successivo (1:14) cita con rammarico, Maria e i fratelli di Gesù per dimenticarli totalmente subito dopo.
Gli Apostoli, di cui l'autore degli Atti non ha nulla da dire, abbandonano la scena, scomparendo, ad altri personaggi sconosciuti agli evangelisti: Stefano, il diacono Filippo (che non si deve affatto confondere con l'Apostolo dallo stesso nome), il centurione Cornelio, ecc. Questi nuovi attori si affacciano per un attimo alla ribalta e svaniscono ben presto, per cedere tutto il posto a Paolo, le cui azioni e gesta costituiscono il soggetto esclusivo della seconda metà del libro.
Così gli Atti, la sola parte del Nuovo Testamento che abbia qualche leggera apparenza di una cronaca, non ci apportano il minimo chiarimento su Gesù o sui suoi discepoli immediati e ci lasciano in un'ignoranza così completa come le epistole di Paolo: la nostra curiosità è delusa una volta di più, e il fantasma di Cristo ci sfugge ancora.

LE EPISTOLE APOCRIFE:

SAN PAOLO

Le altre dieci epistole attribuite a Paolo dalla tradizione e ammesse nel Canone romano, vale a dire quelle indirizzate agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, agli Ebrei, le due ai Tessalonicesi, le due a Timoteo, quelle a Tito e a Filemone, non ci documentano di più su Gesù. Esse sono, inoltre, tutte considerate, più o meno, come apocrife da un sacco di critici. Per noi, l'impressione che si manifesta nettamente, è che sono un pastiche, una parafrasi delle Lettere Cardinali: delle frasi intere sono state copiate testualmente nelle Epistole autentiche; ma vi si trovano anche un sacco di espressioni, di preoccupazioni e di idee nuove, appartenenti all'età successiva. Noi le lasceremo dunque da parte, proprio come non diremo che poche parole delle Epistole di san Pietro, di san Giovanni e di san Giacomo, che sono ancora più chiaramente di un'epoca posteriore a quella che ci interessa.

SAN PIETRO

Gli esegeti considerano generalmente come sotto falso nome tutto il resto del Nuovo Testamento, vale a dire le Epistole di Pietro, di Giacomo, di Giovanni e di Giuda. Abbiamo già visto precedentemente che se consideriamo come autentiche le quattro Epistole Cardinali, dobbiamo ammettere l'esistenza (ma nient'altro che quella) di questi due Apostoli Pietro e Giovanni, e di Giacomo, fratello del Signore. Così, a causa della loro posizione prominente nella prima comunità nazarena di Gerusalemme, e forse a causa della loro opposizione a Paolo, degli scrittori anonimi hanno preso il loro nome e sono riusciti a far ammettere le loro idee personali sotto la copertura di questi santi, allo stesso modo in cui delle Chiese dissidenti si celavano sotto il nome dell'Apostolo dei gentili.
Queste Lettere non sono affatto molto meno antiche e noi vi daremo un'occhiata rapidissima, chiunque ne siano gli autori, ma, comunque, senza perdere del tempo ad un loro esame minuzioso.
Le informazioni che abbiamo potuto riscontrare finora, né negli scrittori profani, né in san Paolo, né negli Atti, possono essere trovate nelle due Epistole attribuite al Principe degli Apostoli? I fedeli che sono convinti dell'autenticità delle Epistole di Pietro devono essere tentati di crederlo fin dall'inizio, proprio come le persone che sono di avviso contrario possono supporre che, per colorare la sua contraffazione di qualche verosimiglianza, il falsario che ha usurpato il nome del compagno di Gesù, ha dovuto ricordare le leggende della creazione e dell'organizzazione della prima Chiesa nazarena, il racconto dei rapporti di Pietro con gli altri discepoli immediati del Messia e delle allusioni alle sue liti con Paolo. Non è per nulla così: in queste Lettere che trattano a malapena solo delle questioni di dottrina, san Pietro non parla mai di Gesù vivo (il cui nome non viene mai sotto la sua penna), che egli è ritenuto aver seguito durante tutto un indimenticabile anno, di cui, secondo quanto raccontano i vangeli, egli è stato in qualche modo il braccio destro. Questa lunga frequentazione, in delle circostanze così tragiche, avrebbe dovuto lasciargli dei ricordi indelebili, e il doloroso martirio del suo maestro avrebbe oppresso la sua memoria con una spaventosa ossessione; sembra che sarebbe stato impossibile per lui parlare a lungo di qualcos'altro e non soffermarsi  costantemente a questa terribile tragedia. Al contrario, in queste Lettere, e questo solo basterebbe a dimostrarne la falsità, il Crocifisso è sempre rappresentato come una figura ieratica, impietrita, un simbolo, come il Cristo risorto, il Dio a cui si deve credere, ma mai per un solo istante, come un uomo a cui potremmo interessarci, le cui torture eccitano la nostra pietà, o come un essere che possegga qualche parvenza di vita. Il nome stesso di Gesù non vi è affatto pronunciato senza essere associato all'epiteto tendenzioso Cristo che spesso lo sostituisce. Questa indifferenza incredibile di Pietro verso il suo padrone e amico, mi ha causato uno stupore indignato, la prima volta che ho letto il Nuovo Testamento, a un'età quando non si dubita ancora  della verità delle Fiabe. Il capo dei nazareni non dice una parola di più dei suoi colleghi nell'apostolato, né di Paolo, suo concorrente. [9]
D'altronde, come abbiamo appena detto, queste Epistole, fossero state meno prive di informazioni, ci avrebbero lasciato ancora nell'oscurità, dal momento che tutti i critici le considerano come inautentiche.

SAN GIOVANNI


Le tre Epistole di Giovanni danno luogo alle stesse osservazioni e noi non ci soffermeremo di più; sono altrettanto silenziose sulla persona di Gesù e degli Apostoli. Il discepolo prediletto, che il vangelo sotto il suo nome ci rappresenta mentre aveva assistito all'agonia del suo adorato maestro, che avrebbe dovuto conservare di questa scena terribile un ricordo d'orrorre e di dolore incancellabile, non vi fa affatto neppure allusione. Non parla affatto più del suo collega Pietro che degli altri compagni di Gesù; Maria, che il Crocifisso le ha lasciato, non viene nemmeno nominata in queste Epistole. Non più di Pietro o di Giacomo, impiega il nome di Gesù senza la qualifica di Cristo. La contraffazione è realmente troppo maldestra.
Un verso molto curioso (2° Giovanni 7), ci indica che già all'epoca del presunto Giovanni, vi erano dei cristiani che non credevano affatto alla realtà umana del Messia: “Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne”.
La critica è unanime nel considerare queste Lettere come pseudo-epigrafiche, al pari di quelle di Pietro, basandosi, d'altronde, su altre considerazioni che non sono affatto meno convincenti. L'Apocalisse che la tradizione ecclesiastica attribuisce egualmente al figlio di Zebedeo, non è affatto più autentica ed è a sua volta priva di informazioni sul Redentore

SAN GIACOMO

Sia che questo Giacomo sia l'apostolo figlio di Alfeo, o Giacomo di Zebedeo, oppure proprio “il fratello del Signore”, la sua epistola è delle più contestate. Lo stesso san Girolamo, malgrado la sua assenza di spirito critico e la sua fede robusta, la considerava apocrifa, e il pio Lutero la definiva “un'epistola di paglia”. L'esegesi moderna è ancora più sicura di loro stessi nel respingerla. Comunque sia, il cosiddetto Giacomo non si preoccupa minimamente di parlarci di Gesù e dei suoi discepoli.

Come tutto il Nuovo Testamento, tutte queste Epistole presumibilmente scritte da degli ebrei di Palestina, dei contadini galilei ignoranti financo dell'alfabeto della loro stessa lingua (Atti 4:13), sono scritte in greco. Questa singolarità non può che stupire i non credenti che dubitano che lo Spirito Santo abbia arricchito gli apostoli con il dono delle lingue e che si dicono che gli sarebbe stato senza dubbio più facile, e molto più comodo per gli umani, rifare in senso inverso il miracolo di Babele e restituire il loro primitivo unico linguaggio a tutti i popoli.
Nella realtà, la nuova religione si era diffusa inizialmente solo negli ambienti greci: questo spiega perché tutti i libri sacri siano scritti in questo dialetto. Qualunque cosa si possa dire, i pretesi originali aramaici del testo del Nuovo Testamento: i Logia, i Proto-Marco, Proto-Matteo, ecc. ecc., sono delle ipotesi molto fantasiose. [10] Il mondo latino, propriamente detto, al contrario, non fu iniziato seriamente fino a molto tempo dopo, ed è necessario discendere fino alla metà del III° secolo per incontrare le prime opere cristiane scritte da dei latini.

APOCRIFI

Non ci restano che dei frammenti della maggior parte dei  vangeli cosiddetti apocrifi, vale a dire una cinquantina di opuscoli di cui, dice sant'Agostino, l'origine è oscura e il contenuto favoloso. Questa definizione del celebre Padre della Chiesa potrebbe d'altronde applicarsi con atrettanta giustizia ai vangeli ammessi nel Canone della Chiesa e a tutto il Nuovo Testamento, eccezion fatta per le Epistole Cardinali.
Si fa aggiungere a questi vangeli apocrifi, le Epistole di Agbar, re di Edessa, a Gesù e la risposta del Salvatore ad Agbar; di Maria ad Ignazio; di san Pietro a san Giacomo; la corrispondenza tra Seneca e san Paolo; gli Atti di Tecla, ecc., ecc. La Chiesa, attualmente, rifiuta questi scritti, tanto quanto la critica,  benchè i primi Padri si siano mostrati meno difficili. Non ci soffermeremo affatto e non vi troveremo affatto, del resto, le informazioni che stiamo cercando. Seppur sconfessandole, il cattolicesimo ha comunque mantenuto molte tracce delle storie apocrife nelle sue Feste (l'Assunzione, per esempio) nelle sue cerimonie e nelle sue leggende, nella sua liturgia e nei suoi dogmi (Discesa di Gesù agli inferi).
La lettera di Lentulo al Senato, [11] sul Cristo, è altrettanto ridicola; Lentulo è, inoltre, un personaggio totalmente sconosciuto alla Storia.

LE SIBILLE

Nei pennacchi della volta immaginaria che il genio di Michelangelo ha dipinto sul soffitto della Cappella Sistina, in Vaticano, il turista non è affatto poco sorpreso di avvistare le Sibille pagane mescolate coi santi Profeti della Bibbia. La Sibilla Persica, la Sibilla Eritrea, la Sibilla Delfica, la Sibilla Cumana, la Sibilla Libica si alternano con i profeti Geremia, Ezechiele, Gioele, Zaccaria, Isaia, Daniele, Giona, e vengono trattati come dei personaggi egualmente importanti. Un cattolico informato, probabilmente, non deve guardare senza alcuna difficoltà, queste semi-divinità della Mitologia greca e latina ammesse ufficialmente dal papato infallibile, intronizzate trionfalmente nella stessa cappella dove officia il rappresentante di Dio sulla terra, e in compagnia dei venerabili precursori del Messia. Questi omaggi religiosi resi dalla cristianità a degli idoli pagani, col consenso di tutti i successori di san Pietro, devono sembrare scioccanti a un credente istruito.
Un curioso passo degli Annali di Tacito mostra quale valore i romani, anche nelle più alte sfere ufficiali, attribuissero a questi oracoli delle Sibille, con quali minuziose precauzioni amministrative si assicurassero della loro autenticità, con quale passione le cercassero fin negli archivi delle città più lontane di tutto l'Impero, senza preoccuparsi delle spese. Lo stesso imperatore Tiberio si interessò alla ricerca (o fece sembrare di interessarsi), e intervenne personalmente  nelle discussioni sollevate al Senato, su questo soggetto. Ecco questo passo notevole:
“Seguì la relazione, in senato, del tribuno della plebe Quintiliano intorno a un libro della Sibilla, di cui Caninio Gallo, uno dei quindecemviri, aveva chiesto l'accorpamento con gli altri della stessa profetessa e un intervento del senato in tal senso. Si procedette con un voto per separazione. Ma pervenne un messaggio di Cesare, contenente una critica misurata al tribuno, che ignorava, per la giovane età, una antica tradizione, ma anche un duro rimprovero a Gallo, perché questi, benché da tempo esperto della materia relativa al cerimoniale, aveva messo il problema in discussione in senato in un'assemblea semideserta, quando l'autenticità del testo era ancora incerta, prima che si fosse espresso il collegio dei quindecemviri, senza aver fatto leggere e giudicare, secondo la prassi, il libro ai maestri del rito. Tiberio ricordava anche che Augusto, in seguito alla diffusione di molti testi contraffatti, attribuiti a quel nome autorevole, aveva stabilito la consegna di tali testi, entro un termine fisso, al pretore urbano e il divieto per un privato di possederli. Provvedimento analogo era stato preso dagli antichi, dopo l'incendio del Campidoglio nella guerra sociale, quando si rintracciarono le profezie della Sibilla a Samo, a Ilio, a Eritre, anche in Africa e in Sicilia e nelle colonie italiche - sia che fossero in uno o più libri - e venne affidato ai sacerdoti il compito di stabilire, nei limiti delle possibilità umane, i testi autentici. Di conseguenza anche allora quel libro venne sottoposto all'esame dei quindecemviri” (Annali 6:12). — (Anno 32).
I romani erano persuasi che il loro re Tarquinio Prisco avesse ricevuto i libri sibillini dalle mani della Sibilla di Cuma. Un collegio di cinque membri (i Quindecemviri) reclutati tra i più alti personaggi, presiedeva alla custodia e all'interpretazione degli oracoli sacri (Lattanzio 1:6 — Tacito, Annali 6:12). I greci non aggiunsero minor fede a queste demi-divinità e alle loro predizioni.
Così, davanti a questa fiducia illimitata che il mondo pagano accordava gli oracoli delle Sibille, gli ebrei e i cristiani furono presto tentati di prenderli come conferma dei loro profeti e dei loro apostoli meno popolari e di fabbricare dei versi ispirati che appoggiassero le loro affermazioni ardite. A poco a poco le modifiche, le falsificazioni, le interpolazioni, le aggiunte di ogni genere che introdussero senza riserve nelle predizioni originali, presero un tale sviluppo che finirono per far scomparire tutti gli oracoli pagani, cosicché scomparve il testo primitivo in un palinsesto sotto le nuove scritture che lo ricoprirono, dimodoché l'immensa raccolta di oracoli sibillini che ci ha raggiunto è, tutt'intera, ebraica o cristiana. La certezza della vera religione ci è garantita dalle false divinità del paganesimo!
La Chiesa, nondimeno, non ha affatto rifiutato la testimonianza delle Sibille, benchè ne sembrasse a volte, un po' imbarazzata. Si canta tutt'oggi, in effetti, nel Dies irae, questi due versi:
Solvet sæclum in favilla,
Teste David cum Sibylla.
“Gli oracoli sibillini (Gde Encyclop. 14, pag. 733) sono un pamphlet di una virulenza estrema, minacce di una rabbia impotente che si esala in maledizioni profetiche, predicendo la rovina dell'Impero e di tutta la società, il trionfo finale del Messia... Si può rimanere sbalorditi dalla spiccata credulità dei Padri della Chiesa per gli oracoli sibillini”.
Comunque sia, se i libri sibillini sono dei documenti preziosi sullo stato d'animo degli ebrei e dei cristiani all'inizio della nostra era, non ci apportano alcun chiarimento sulla personalità di Gesù.

NOTE


[1] È prodigioso, oltre che suggestivo, constatare come la Chiesa stessa sembri provare della diffidenza verso i libri sacri e quanto tema che i fedeli li leggeranno. Nella bolla Domini Gregis (1564), il papa Pio V proibì la lettura delle versioni della Bibbia in lingua volgare, a meno di un'autorizzazione speciale accordata dal vescovo. Questa proibizione fa tutt'oggi legge nella Chiesa cattolica, che, mettendo Dio all'indice, confessa con questo, quanto l'Antico e il Nuovo Testamento siano lontani dall'appoggiare le sue pretese e i suoi dogmi, e suscitano dei dubbi, perfino tra i cristiani ferventi. Ad ogni epoca, infatti, tra tutti i popoli e in tutte le confessioni cristiane, ogni opposizione religiosa si è trincerata dietro il testo dei vangeli, e i riformatori hanno sempre, e con ragione, accusato la Chiesa ufficiale di non tenere affatto conto dei comandamenti di Cristo e di distorcerli. È giusto riconoscere che quando hanno trionfato, questi stessi riformatori non hanno affatto  rispettato di più la lettera dei Testi sacri, e ciò per la precisa ragione che i precetti sono quasi costantemente inapplicabili; ma questo è ciò che nessuna setta cristiana vorrà concedere.
Quanto alla facoltà permessa di studiare il Nuovo Testamento nel testo greco e l'Antico nel testo ebraico, si comprende che non può imbarazzare la Chiesa, poiché questa lettura non è alla portata che di un piccolo numero di studiosi che la folla ignora.
Nei frammenti di traduzione o piuttosto negli estratti scelti dai vangeli letti dal sacerdote alle Messe, i passi sono stati accuratamente selezionati nell'opera di Matteo, di Luca e di Giovanni (quasi nulla è preso in Marco) ed espurgati, ad usum Delphini, di tutto ciò che potrebbe offendere i fedeli. È così, ad esempio, che il ruolo essenziale del Battista, già così mitigato nel Libro della Buona Novella, è passato completamente sotto silenzio; che si sopprime la maggior parte delle guarigioni dei posseduti e dei miracoli puerili o scandalosi, come quello di Gerasa; le maledizioni contro i ricchi e la raccomandazione di dare ogni proprio bene ai poveri; i precetti che, per un motivo o per l'altro, scioccano troppo la nostra mentalità attuale oppure contraddicono troppo apertamente le consuetudini della Chiesa; infine, tutti i racconti oppure tutte le massime di cui, nel corso di questo libro (si veda la 3° Parte) avremo l'opportunità di mostrare l'inferiorità morale, confrontandole con l'etica della nostra epoca o solamente con le grandi idee di Paolo.
Sarebbe altrettanto curioso constatare l'armonizzazione e le discontinuità dei frammenti delle epistole letti dalla Chiesa. Questi pezzi, a dispetto del loro titolo, sono anche attinti dagli Atti, dall'Apocalisse e dall'Antico Testamento; le epistole apocrife sono soprattutto destinate all'uso. Se il ruolo di Pietro vi è ricordato abbastanza spesso, in compenso, il nome di Paolo non vi è nemmeno pronunciato e un fedele (come lo sono tanti) che conoscerebbe della sua religione solo il suo messale, potrebbe ignorare l'esistenza del fondatore del cristianesimo.

[2] Ecco, secondo M. Sabatier (Gde Encyclop. Art. Paolo), le date probabili dei fatti più notevoli della carriera di Paolo:
10. — Nascita di Paolo, a Tarso, in Cilicia.
35. — Conversione di san Paolo.
38. — Primo viaggio a Gerusalemme.
38-49. — Missione in Siria e in Cilicia, a Tarso e ad Antiochia.
50-51. — Missioni a Cipro e in Galazia.
52. — Conferenza di Gerusalemme.
52. — Seconda missione ad Antiochia e a Corinto.
53-54. — Epistola (apocrifa) ai Tessalonicesi.
54. — Ritorno ad Antiochia.
54 .— Disputa con san Pietro (Conflitto di Antiochia).
55-57. — Missione a Efeso ed in Asia.
56. — Epistola ai Galati.
57. — (Pasqua). — 1° Epistola ai Corinzi.
57. — (Autunno). —  2° Epistola ai Corinzi.
57-58. — Soggiorno a Corinto. — Epistola ai Romani.
58. — (Pentecoste). — Imprigionamento di Paolo.
58. — Prigionia di Paolo.
58-60. — Prigionia di Cesarea. Epistole agli Efesini, ai Colossesi, a Filemone (apocrife).
60. — (Autunno). — Partenza per Roma.
61. — (Primavera). — Arrivo a Roma.
63. — Epistola ai Filippesi (apocrifa). — Fine del racconto degli Atti.

[3] Non è plausibile che il Sommo Sacerdote di Gerusalemme si sia arrogato il diritto (Atti 9:1, 2) di fare arrestare della gente a Damasco, che non era affatto terra ebraica, ma dipendeva dal regno arabo di Areta IV, soggetto alla sovranità romana. Questo reuccio, molto ostile agli ebrei, faceva loro proprio la guerra in quest'epoca (anno 36).

[4] Com'è possibile che  Paolo avendo dopo la morte di Stefano (Atti 7:59) perseguitato tanto i nazareni di Gerusalemme (Atti 8:3), “infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione”, possa dire in seguito (Galati 1:22) che “le Chiese di Gerusalemme non sapevano ancora chi fosse realmente” ?

[5] Paolo non dice quasi mai Gesù, nel parlare del Salvatore, ma Gesù Cristo, e, più abitualmente  “Cristo” solamente. Quando, molto eccezionalmente (Romani 10:9.—1° Corinzi 5:4-12:3.—Galati 6:18),  usa il nome di Gesù, egli l'accompagna con l'epiteto “Signore” che corrisponde all'ebraico Adonaï, che designa il Dio degli ebrei, per ben sottolineare che considera nel Messia solo la persona soprannaturale e non affatto Gesù “secondo la carne”. Si trova un'eccezione a questa regola solo nella 2° epistola ai Corinzi (4:10, 11, 14), dove la parola Gesù è ripetuta sei volte in quattro o cinque righe consecutive, e questa violazione dell'abitudine di Paolo potrebbe far sospettare un errore dei copisti.
I vangeli, al contrario, impiegano esclusivamente il nome di Gesù e non si servono quasi mai del titolo Cristo per designare il figlio di Maria — Marco, nemmeno una sola volta — se non (e raramente) per indicare più specialmente la sua missione divina. Persino Gesù (Marco 8:30 — Matteo 16:20 — Luca 4:21 — 9:21) proibisce severamente che gli si dia questa qualifica. Gli Atti seguono in ciò un processo intermedio e si permettono la parola Cristo solo nel senso in cui noi scriveremmo “il Messia”, un'espressione che troviamo solo due volte nel vangelo (Giovanni 1:41—4:25). 

[6] La Chiesa, da quando san Girolamo ha fatto questa scoperta, traduce la parola greca adelphos (che significa fratello) con cugino: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda sarebbero stati i figli di una certa Maria di Cleofa, sorella della Vergine, che i sinottici non menzionano affatto e che, nel vangelo secondo san Giovanni (19:25) è nominata una sola volta; non è più menzionata altrove.
Dato che il greco ha una parola speciale per dire cugino, la spiegazione di san Girolamo “non è affatto sostenibile” (Alfred Loisy).
Si noti che per non dare affatto a un fratello del Signore, il nome maledetto di Iscariota, i traduttori del testo greco hanno alterato il nome Judas in Giuda.

[7] Gli Atti (22:25-29.—23:27) ci dicono che Paolo si pretendeva cittadino romano: ciò, naturalmente, non è affatto impossibile, ma è quantomeno fortemente dubbio. Quando non era affatto cittadino romano di nascita e, benchè si vanti del contrario (Atti 10:22), questo era il caso per l'ebreo Paolo, nato a Tarso, in Cilicia (Atti 22:3), questa qualità poteva essere acquisita solo mediante l'emancipazione o per disposizione gratuita dell'Imperatore. Se Paolo aveva ottenuto un così alto favore dal Principe, questa distinzione indicava che era un personaggio di una certa importanza, godendo per la sua ricchezza o per le sue relazioni di una grande influenza; ma nulla ci permette tuttavia di affermare che sia stato ricompensato con un onore che non fu nemmeno concesso allo storico ebreo Giuseppe, favorito da parecchi Cesari. D'altra parte, Paolo, nelle sue epistole, non si fregia da nessuna parte del titolo di cittadino romano: assicura, al contrario, di essere stato più volte colpito a bastonate (2° Corinzi 11:25) supplizio oltraggioso, incompatibile con la dignità che gli si presta. Gli Atti (16:22), raccontano egualmente che fu punito con questa pena infamante nella città di Filippi e che sollevò delle proteste solo dopo l'esecuzione (16:37), cosa che è quantomeno strana. È solo più tardi, a Gerusalemme, che minacciato da questo stesso castigo (22:25), pensa a difendersi in tempo, rivendicando il suo privilegio, e che arresta così questa illegalità.

[8] Un passo del suo libro, al contrario, è eminentemente suggestivo e rafforza singolarmente i nostri dubbi sulla realtà degli eroi dell'epopea cristiana: il procuratore Festo, raccontando ad Erode Agrippa il processo di Paolo, gli dice (Atti 25:19): “Gli accusatori avevano solo con lui alcune questioni relative la loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita”.
Se è già molto sorprendente che il governatore di Gerusalemme, che ha appena studiato il dossier dell'Apostolo, non abbia affatto conoscenza della condanna e del supplizio di Gesù, avvenimento la cui discussione costituisce la sostanza dell'affare che ha giudicato alcuni giorni prima e riempito l'intero dibattito, specialmente da quando l'esecuzione del Redentore ebbe (secondo il Nuovo Testamento) così tanta risonanza nella città santa dove, da venticinque anni, non ha cessato affatto di essere la causa di disturbi continui, sembra ancora più meraviglioso che Erode Agrippa, a cui Festo esprime la sua ignoranza, non lo informi affatto più abbondantemente. Il tetrarca ebreo, in effetti (e sarebbe inconcepibile che fosse altrimenti), “conosce a perfezione tutte le usanze e le questioni riguardanti i giudei” (Atti 26:3) e soprattutto, i due giudizi consecutivi di Gesù davanti al Sinedrio e davanti a Pilato, la crocifissione e la resurrezione di Cristo, drammi di cui egli avrebbe potuto essere testimone nella sua giovinezza, non avrebbero dovuto affatto restare ignorati da lui, “poiché non sono fatti accaduti in segreto” (Atti 26:26).
È difficile dire più chiaramente di quanto lo facciano qui gli Atti, che al di fuori di alcuni illuminati nazareni, nessuno a Gerusalemme, un quarto di secolo dopo la presunta crocifissione, aveva sentito parlare della leggenda della Passione di un certo Gesù, assolutamente sconosciuto.
All'indomani di questo racconto del magistrato romano al tetrarca, Paolo si appella davanti a loro, afferma loro ancora, con testardaggine che il Cristo è risorto, ma, invece di nominare i testimoni di questo fatto che avrebbe bisogno di una verifica seria, o di invitare Festo a esaminare gli archivi del suo tribunale, per ricercarvi le tracce di questo Gesù problematico, non trova niente di meglio come prova, che affermare che “i profeti e Mosè lo avevano predetto” (Atti 26:22, 23). Così, non siamo affatto sorpresi di vedere il procuratore sconcertato da questa bella argomentazione, considerare con indulgenza, Paolo, alla stregua di un folle (Atti 26:24).

[9] È possibile, tuttavia, che il Paolo citato in una maniera così imbarazzata nella 2° Epistola (3:15, 16) sia l'apostolo dei gentili, ma sarebbe avventato affermarlo. 

[10] Secondo Matteo (1:20) e Luca (1:35), Gesù è stato concepito dallo Spirito Santo. La parola spirito essendo femminile in aramaico, respinge l'ipotesi di un proto-Matteo in questo dialetto dove sarebbe stato una assurdità. È anche difficile ammettere che se uno o più vangeli fossero esistiti nel suo tempo, Paolo non avrebbe fatto una sola allusione ai fatti che raccontavano.

[11] Si veda pagina 106, nota 1.

Nessun commento: