sabato 16 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?Gli autori profani (III)

I documenti

CAPITOLO III

GLI AUTORI PROFANI

Basti ricordare, tra gli scrittori del primo e del secondo secolo, i principali di coloro presso i quali è possibile aspettarsi la possibilità di trovare alcuni passi relativi alla storia di Gesù e dei suoi discepoli:
In Giudea:
Flavio Giuseppe (37-100);
Filone di Alessandria ( —30 +54);
Giusto di Tiberiade, che scrisse in Grecia, tra il 60 e l'80;
In Grecia:
Plutarco (46-120);
A Roma:
Tacito (54-119);
Svetonio (1° e 2° secolo);
Seneca (2-65);
Plinio il Giovane (61-113);
Giovenale (55-140); — Persio (34-62); — Marziale (40-103).
Tutti questi autori sono perfettamente al corrente degli avvenimenti del loro tempo e conoscono benissimo i fatti più significativi degli annali dell'Impero. Quelli tra loro che non sono affatto degli storici hanno dovuto, almeno, fare allusione alle azioni più eclatanti che si sono verificate in Giudea e che hanno avuto il loro impatto in Grecia e a Roma: ebbene! in tutto ciò che ci resta di tutti questi scrittori, non vi è assolutamente nulla che possa farci ammettere l'esistenza di Cristo, di cui nessuno ne pronuncia il nome (ad eccezione di Tacito e forse di Svetonio, e vedremo tra poco ciò che dobbiamo pensare della menzione unica e molto confusa che ne fanno).

FLAVIO GIUSEPPE

Verso l'epoca in cui, se si deve credere alle leggende dei vangeli, il Messia era messo in croce, nasceva un israelita che, più tardi, sarebbe diventato il famoso storico Giuseppe. Fatto prigioniero dai romani, all'assedio di Iotapata, durante la grande rivolta ebraica che Tito represse, seppe ingraziarsi il vincitore e conservare il favore dei suoi successori. Ha scritto il rapporto dell'assedio di Gerusalemme, che terminò l'esistenza della sua patria (70): de Bello judaïco. Si possiede anche di lui uno storia degli ebrei e degli Erodi, così come alcune altre opere.
In tutti questi libri, molti dei quali si riferiscono all'epoca di Gesù o ad anni immediatamente successivi alla sua morte, si dovrebbero incontrare frequentemente dei passi concernenti il presunto fondatore della religione cristiana, se ha giocato un minimo ruolo nel  suo paese; almeno, di numerose allusioni all'emozione che suscitò in Galilea; eppure non dice affatto una sola parola del Crocifisso in tutta l'opera di Giuseppe, al di fuori di un passo di cui si è riconosciuto, abbastanza presto, la grossolana falsificazione.
Ecco questo passo di cui è facile dimostrare l'interpolazione maldestra che, peraltro, non è affatto contestata da alcun critico:
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denuncia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati cristiani” (Giuseppe, Antichità giudaiche, libro 18, cap. 3).
Renan e la maggior parte degli altri critici considerano interpolate solo le parti che abbiamo sottolineato. È impossibile, in effetti, ammetterle, a meno di non essere totalmente accecati da pregiudizi, perché salta agli occhi che se Giuseppe avesse potuto scriverle, si sarebbe fatto cristiano, o meglio che lo sarebbe stato già, mentre tutto ciò che sappiamo dello storico ebreo ci prova che, tutta la sua vita, restò un perfetto israelita, molto legato al culto dei suoi padri. La frode era troppo grossolana per ingannare qualcuno.
“I cristiani, per una di quelle frodi che vengono chiamate pie, falsificarono grossolanamente un passo di Giuseppe. Attribuiscono a questo ebreo, così ostinato nella sua religione, quattro righe ridicolmente interpolate, e all'inizio di questo passo aggiungono: Egli era il Cristo. Come! Se Giuseppe avesse sentito parlare di tanti accadimenti che stupiscono la natura, ne avrebbe riferito solo per quattro misere righe nella storia del suo paese? Come! Quell'ebreo testardo avrebbe detto: Gesù era il Cristo. Eh! Se l'avessi creduto il Cristo, allora saresti stato cristiano. Che assurdità far parlare da cristiano Giuseppe! Come è possibile che esistano ancora teologi tanto imbecilli o insolenti da tentare di giustificare questa impostura dei primi cristiani, riconosciuti come fabbricatori di imposture cento volte più forti?” (Voltaire, Dict. philosophique, art. Cristianesimo).
Sembra altrettanto difficile difendere l'autenticità del resto del paragrafo: Giuseppe avrebbe descritto Gesù come un uomo saggio, seguito da ebrei e persino da greci, “che accolgono con piacere la verità”, poi, dopo questo elogio insolito, si sarebbe accontentato di aggiungere freddamente che i capi della sua religione lo denunciarono a Pilato, senza dirci di cosa lo accusavano, e troverebbe del tutto naturale che il procuratore romano fece crocifiggere il Messia senza motivo. Vi è evidentemente solo un cristiano accecato dalla fede e con un'intelligenza molto sottosviluppata che abbia potuto comporre questo pezzo grottesco. Giuseppe, se avesse realmente scritto queste righe, avrebbe dato delle ragioni per l'arresto e la condanna di Gesù; avrebbe tentato di discolpare i capi venerati della sua nazione; avrebbe cercato delle circostanze attenuanti. Avrebbe una parola di biasimo per gli accusatori e di pietà per la vittima. Era, per la sua eloquenza ricercata, un argomento troppo bello da sviluppare perché lo abbia lasciato sfuggire; non avrebbe affatto affermato che il Cristo aveva realizzato mille azioni meravigliose, senza citarne una sola; infine, non si sarebbe affatto limitato a una menzione di dieci righe soltanto, sul soggetto di un personaggio così importante secondo lui. È in una maniera di gran lunga meno insensata che lo scrittore ebreo ci racconta le disgrazie del Battista.
Di più, si dovrebbe osservare che il passo che si riferisce alla vittima di Pilato, che abbiamo appena trascritto, risulta come annegato nel mezzo di un capitolo col quale non possiede alcun legame. Il paragrafo che precede è la storia di una sedizione che, a Gerusalemme, mise in pericolo la guarnigione romana e che ebbe per epilogo il massacro di migliaia di ebrei ribelli; il paragrafo che segue racconta che i sacerdoti di Iside che abitavano a Roma furono a loro volta messi in croce per aver fatto servire il tempio di Anubi alle dissolutezze di un cavaliere romano che aveva abusato di una nobildonna. Giuseppe definisce questo crimine “un altro avvenimento deplorevole”, parole che lo legano molto bene al massacro degli ebrei precedentemente riportato, mentre sarebbe ridicolo riferirle alla nascita di Cristo. Il filo della narrazione viene così reciso in una maniera inaccettabile dall'interpolazione del paragrafo relativo a Gesù.
Inoltre, san Giustino (100-165), Tertulliano (160-240), Origene (185-254), san Cipriano (210-258), apologeti cristiani, non menzionano mai questo preteso passo di Giuseppe, nelle loro ardenti e interminabili polemiche contro gli ebrei, il che dimostra che esso non si trovava affatto, al loro tempo, nelle opere dello storico della Giudea: questi difensori esaltati della divinità di Gesù non avrebbero affatto mancato di mettere in bella mostra la confessione di un illustre israelita, il quale godette presso di loro di una considerazione tutta particolare.
Secondo gli Atti degli Apostoli (11:26), fu ad Antiochia che i seguaci di Cristo cominciarono ad essere designati con il nome di cristiani. Se si segue il racconto degli Atti, questo evento deve essere collocato (Atti 11:25-26) nell'anno che seguì l'arrivo di Paolo in questa città e attorno al tempo del martirio di Giacomo il Maggiore, forse intorno all'anno 44. Sembra strano allora che Giuseppe, scrivendo meno di trent'anni dopo, si meravigli che la setta dei cristiani, nata quando era appena adolescente, continui a sussistere quando non ha ancora raggiunto l'età matura: questa breve durata non ha nulla che possa sorprendere un contemporaneo di san Paolo. Noi siamo dunque evidentemente in presenza di un falsario molto posteriore rispetto all'autore delle Antichità giudaiche, e che aveva alle sue spalle un cristianesimo già antico, la cui longevità è degna di essere notata.
Un altro passo di Giuseppe, meno contestato tuttavia del precedente, non è certo più autentico ai nostri occhi. Parlando della condanna di Giacomo (libro 20, capitolo 9), egli lo chiama [1] il “fratello di Gesù, detto il Cristo”, che è in contraddizione con il paragrafo citato più sopra, dove Giuseppe è supposto affermare che Gesù è veramente il Messia.
La frode è tuttavia qui molto meno maldestra; ma non è affatto meno inammissibile che Giuseppe, sia che abbia riconosciuto Gesù come Cristo, sia che gli abbia negato questo titolo, non abbia mai detto una sola parola su di lui altrove. L'annalista ebreo che si sofferma con così tanto compiacimento sui dettagli più minuziosi e i meno interessanti del regno degli Erodi, non avrebbe potuto passare sotto silenzio un personaggio che, per più di un anno, [2] avrebbe agitato a questo punto le masse popolari del suo paese e preoccupato a sufficienza le autorità ebraiche e romane da essere stato condannato a morte. Non avrebbe affatto trascurato di raccontare il dramma della Passione, così toccante quando ci si astrae dalle improbabilità e dalle assurdità che contiene; non si sarebbe affatto soffermato sulla storia di Giovanni il Battista, per omettere quella di un agitatore ancora più pericoloso. Non è affatto meno improbabile che egli menzioni una comparsa così oscura come Giacomo, senza sembrare aver mai sentito parlare di Pietro e specialmente di Paolo i quali, secondo la leggenda, hanno causato di gran lunga più agitazione e turbamenti a Gerusalemme.
L'autenticità di questo passo non ci sembra dunque affatto più sostenibile di quella del precedente, sebbene la frode sia meno grossolana e sia più antica, poiché Origene fa menzione di questo frammento.
Lo storico ebreo non fa più alcuna allusione a Giovanni, né agli altri Apostoli che, secondo gli Atti, furono, a più riprese, l'oggetto di misure di polizia da parte delle autorità ebraiche, né a Paolo che (Atti 7:1-4) riempì Gerusalemme di terrore; né al martirio di Stefano (Atti 7:57) e questo silenzio rende ancora più sospette le poche righe che riguardano Giacomo.

FILONE

Il più famoso dei filosofi neoplatonici è Filone, che compose un gran numero di opere, molte delle quali sono pervenute fino a noi.
Nato ad Alessandria, all'incirca nell'anno 30 prima della nostra era, morì nel 54 dopo Cristo, in un'età molto avanzata. Contemporaneo del Salvatore, ha avuto, dice Renan, “l'inestimabile vantaggio di mostrarci i pensieri che fermentarono al tempo di Gesù, nelle anime occupate dalle grandi questioni religiose”.
Membro di una famiglia sacerdotale, rabbino lui stesso, ricolmo di onori e di ricchezze, condusse una vita semplice ed esemplare, appassionandosi solo di filosofia, tranne quando il suo paese aveva bisogno di lui. Ardentemente interessato da tutto ciò che riguardava la sua patria, sapeva nei minimi dettagli tutto ciò che poteva toccare la religione ebraica.
Le sue dottrine, così simili a quelle di san Giovanni e a quelle dei Padri della Chiesa, fanno di lui come uno dei precursori del cristianesimo, di cui l'intera filosofia sembra catturata nei suoi libri: “Filone l'Ebreo è il primo dei Padri della Chiesa” (Havet, le Christianisme et ses Origines, III, pag. 388).
Mai, tuttavia, egli nomina Gesù, di cui non intese certamente parlare, nemmeno durante il suo soggiorno a Gerusalemme. Eppure, è al corrente degli avvenimenti meno importanti del suo tempo, e descrive minuziosamente le marginali sette ebraiche dei suoi tempi. Il silenzio di Filone in ciò che concerne Cristo è ancora più eloquente, in quanto nella sua qualità di membro influente del Sinedrio, proprio al giorno in cui si colloca la condanna di Gesù da questo tribunale, gli sarebbe stato impossibile ignorare l'agitazione che avrebbe causato il Messia.

GIUSTO DI TIBERIADE

Giusto di Tiberiade, contemporaneo e nemico del suo compatriota Giuseppe, scrisse una storia degli ebrei, da Mosè fino all'anno 50 della nostra era. Non fa mai alcuna allusione a Gesù, la qual cosa, per coloro che ammettono di primo acchito l'esistenza di Cristo, non è affatto meno imbarazzante dell'ignoranza di Giuseppe e di Filone su questo stesso soggetto.

PLUTARCO

Plutarco nacque a Cheronea, in Beozia, verso l'anno 47 e visse per vent'anni a Roma sotto i regni di Vespasiano, di Tito e di Domiziano. Nell'opera abbondante che ci ha lasciato, non si trova alcuna traccia di Gesù, eppure lo scrittore greco ha attraversato un'epoca e un ambiente in cui c'era frequentemente questione degli ebrei, delle loro insurrezioni perpetue, dei disordini senza fine che agitavano il loro sfortunato paese, della guerra terribile in cui venne a sprofondare la loro nazionalità, delle rivolte quasi quotidiane che suscitavano nella capitale dell'Impero e in tutte le grandi città. La sua eccessiva credulità, che gli faceva accettare senza esitazione le storie più meravigliose, più stravaganti, lo avrebbe disposto a riferire, senza  esame, tutte quelle che dovevano aver corso attorno a lui. Non è così, e anche questo silenzio ha il suo valore.

TACITO

Se guardiamo a Tacito, il più grande degli storici di questo periodo e, senza dubbio, anche il più informato, siamo stupiti di riscontrare solo una volta, e molto incidentalmente, il nome di Cristo. Eppure, ai suoi tempi, se ci affidiamo agli Atti degli Apostoli, la setta nazarena aveva già fatto dei progressi apprezzabili, sufficienti per attirare, a più riprese, l'attenzione del governo. Ecco il celebre passo nel quale l'autore degli Annali cita i cristiani, per non  più mai parlarne altrove.
“...non perdeva credito l’infamante accusa per cui si credeva che l’incendio di Roma (anno 64) fosse stato comandato da Nerone. Perciò, per tagliar  corto alle pubbliche voci, Nerone inventò i colpevoli, e sottopose a raffinatissime pene una classe di uomini che il popolo chiamava Cristiani e che erano  invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa perniciosa superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo di origine di quel flagello, ma anche in Roma, dove tutto ciò che è vergognoso ed abominevole viene a confluire e trova la sua consacrazione. Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione (qui fatebuntur) di tale  credenza, poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché si ritenevano accesi d’odio contro il genere umano. Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelli ferine, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi a mo’ di torce che servivano ad illuminare le tenebre, quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo... Perciò, per quanto quei supplizi fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di uno solo” (Annali, 15:44).
Non sappiamo affatto su quali informazioni Tacito, che difficilmente ha potuto essere testimone delle atrocità che racconta, poiché aveva solo otto o dieci anni al massimo al momento dell'incendio di Roma, basa il racconto di queste spaventose esecuzioni; è, del resto, l'unico autore che abbia mai parlato di queste crudeltà inimmaginabili (e questa eccezione può far sospettare un'interpolazione). Su quali documenti si appoggia per avanzare l'affermazione della frase sottolineata? Da nessun'altra parte, nei suoi scritti, egli fa allusione a Cristo e ai cristiani, dopo averli stigmatizzati in maniera così ingiuriosa. La leggenda della Passione, più o meno deformata, era arrivata alle sue orecchie dalle dichiarazioni strappate dagli schiavi o da altri disgraziati (qui fatebuntur) sottoposti alla tortura e interrogati dai giudici, e questi giudici avevano più ripetuto queste confessioni? Questo è possibile, perché non è affatto probabile che Tacito, pur ammettendo lui stesso che gli archivi dell'Impero gli siano stati largamente aperti sotto Vespasiano, abbia potuto trovarvi la traccia di un evento così insignificante come il supplizio di un povero bifolco di Galilea, ucciso a Gerusalemme, più di quarant'anni prima. Ponzio Pilato in persona, se fosse vissuto ancora, non avrebbe dovuto conservarne il minimo ricordo. [3]
Inoltre, i cristiani soli designavano Gesù sotto il nome di Cristo: non sarebbe che da una fonte cristiana che il nostro autore avrebbe potuto raccogliere questa testimonianza che perde così ogni valore di verifica: per un romano, infatti, Ponzio Pilato avrebbe ben potuto crocifiggere un perturbatore dal nome di Gesù, ma non l'Unto del Signore, tantomeno il Cristo, il Figlio di Davide o il Re dei Giudei. Se ancora, l'annalista latino si fosse servito della parola ebraica meshiha (messia), si potrebbe supporre che, non conoscendo affatto la lingua ebraica, abbia preso la qualificazione per un nome proprio, ma egli non poteva fare questa confusione in greco. È come se dicessimo in francese: “Ponzio Pilato fece mettere in croce il Consacrato”.
Se questo passo non è affatto, a sua volta, un'interpolazione, è ancor più logico ammettere che lo storico romano esprima qui l'eco di semplici rumori che avevano corso nella sua cerchia, oppure di dicerie popolari senza fondamento, riflessi flebili delle favole messe in circolazione dai primi cristiani. In ogni caso, siccome lo spirito critico quasi non esisteva a quest'epoca e in Tacito meno di qualsiasi altro, possiamo facilmente credere che il nostro annalista non abbia nemmeno avuto, un solo istante, il pensiero di risalire all'origine dei rumori che gli furono riportati: la precisione e l'imparzialità che esigiamo al giorno d'oggi dalla Storia gli sarebbero apparse profondamente ridicole. La sua veracità è fortemente sospetta e noi sappiamo che tutte le sue affermazioni sono soggette a cautela, anche quando sembra non avere alcun interesse ad alterare la verità: i suoi odi meschini contro gli imperatori della famiglia di Augusto, la sua credulità puerile verso le leggende più stravaganti, ci invitano ancor più a sfidarci grandemente. Qualora, per caso, lo si possa verificare, ci si rende conto che egli si prende molta libertà, anche con i testi ufficiali. (Si confronti il discorso di Claudio, come ci è stato in parte conservato su una tavola di bronzo scoperta a Lione, e lo stesso discorso — Annali 11:24 — come lui ce lo dà). Talento a parte, “questo diffamatore di genio” è un po' il padre Loriquet del primo secolo. Solo la brutalità innegabile di “questa bestia feroce che si chiama il popolo romano” (Diderot) impedisce di rigettare da subito il racconto delle atrocità di Nerone contro i cristiani, atrocità di cui, tra gli scrittori contemporanei, Tacito è l'unico a farne menzione. [4]
Del resto, anche oggi, Tacito potrebbe scrivere la stessa frase senza quasi cambiarne una parola e senza maggiore precisione, applicandola ai gesuiti, tali come se li rappresenta l'immaginazione popolare e — non più che allora —, essa non potrebbe servire a garantire l'esistenza di Gesù:
“...una classe di uomini che il popolo chiamava Gesuiti e che erano  invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa esecrabile superstizione proruppe di nuovo dovunque tutto ciò che è vergognoso ed abominevole viene a confluire e trova dei seguaci, ecc, ecc.”.
Quali erano questi abomini che facevano detestare i cristiani? Quali erano queste esecrabili superstizioni? Di cosa erano colpevoli questi disgraziati, e perché avevano meritato la punizione estrema? Per quali crimini Gesù era stato consegnato al procuratore? Questo è ciò di cui Tacito ha dimenticato di istruirci, e probabilmente, non aveva alcuna accusa precisa da formulare. Affermare che professavano una esecrabile superstizione e che erano animati da odio contro il genere umano, significa parlare per non dire nulla, almeno per la nostra mentalità moderna; Roma stessa non ha mai punito la misantropia e la superstizione quando non erano affatto accompagnati da atti criminali. Senza dubbio, le maledizioni contro il lavoro, la ricchezza, la famiglia, di cui il vangelo è pieno e di cui il rumore avrebbe potuto pervenire fino a lui, dovettero far trasalire d'orrore il bravo funzionario dei Flavi: immaginate un prefetto del nostro secondo Impero, che ascolta le teorie socialiste o libertarie. Senza dubbio anche i capi della setta rivaleggiavano con parole violente contro i ricchi e i sazi di cui Tacito faceva parte; non si trattenevano affatto dal lanciare, con ancor più furore, le minacce furibonde di cui i privilegiati di questo mondo sono l'oggetto nel testo sacro che, sicuramente, non è che un'eco ben flebile del grido adirato di maledizione con cui una popolazione immersa in una miseria e una servitù atroci, doveva perseguire coloro che invidiava per la loro fortuna tanto quanto li odiava per le loro crudeltà.
Forse anche il rumore dei dissensi dei diversi gruppi cristiani era pervenuto fino all'orecchio dello scrittore latino: sappiamo che, fin dal primo giorno vi erano un sacco di scismi (1 Corinzi 1:12) e che i rinnegati non erano affatto rari (Atti 26:11). Se giudichiamo da ciò che ci resta della relazione degli scandali di dispute furibonde delle sette cristiane del secondo, terzo e quarto secolo, quelle del primo non dovevano affatto imbarazzarsi molto per accusarsi reciprocamente dei costumi più abominevoli e delle azioni più scellerate, e non si accontentavano certamente di discutere sui dogmi. San Giustino, in effetti, Tertulliano, sant'Epifanio, ecc. imputano ai dissidenti gli atti più infami e tali da non osare ripeterli dopo di loro (si veda Voltaire, Dict, Philosop., Art. Baiser). Sappiamo così, da san Paolo, che la società dei nazareni comprendeva un sacco di bei farabutti. Tuttavia, possiamo solo azzardare delle congetture sulla maniera in cui il nostro annalista si sia informato, ma è un vero peccato che non abbia ritenuto opportuno istruirci a proposito di questo soggetto.
Sia quel che sia, un altro fatto attira la nostra attenzione: malgrado la sua rara concisione, Tacito non ci ha affatto abituato a tanta oscurità, ed è di solito molto meno succinto; per esempio, utilizza un intero paragrafo (Annali 13:25) per raccontare le dissolutezza di Nerone nelle strade e nei luoghi malfamati di Roma: dedica non meno di due interi paragrafi nel dettagliare le accuse di perfidia portate contro i liberti (Annali 13:26-27); quando riporta una condanna, non omette mai di segnalare le cause o i pretesti. Sembra tanto più stupefacente che egli glissi così leggermente sui crimini che attribuisce ai cristiani, e che non si prenda la pena di specificarli, affatto più dei motivi per l'esecuzione di Christus.
D'altra parte, è altrettanto sorprendente come l'autore degli Annali che, qui, si mostra tanto commosso dalle  torture inverosimili [5] inflitte ai settari del nazareno, torture la cui descrizione sembra essere stata copiata nella Leggenda Aurea, non si preoccupasse mai delle vittime delle atroci macellerie del Circo. Là, non c'è affatto un autore unico che afferma questi abomini in un solo passo di dubbia autenticità, ma c'è una folla di scrittori contemporanei, ci sono venti monumenti quasi intatti, ci sono delle medaglie commemorative che ne attestano l'autenticità. Sono stati sacrificati migliaia, non solamente dei “colpevoli che hanno meritato la punizione estrema”, ma anche dei prigionieri di guerra ai quali non si sarebbe potuto rivolgere altro rimprovero se non quello di aver difeso eroicamente l'indipendenza del loro paese. Questo spettacolo che ha avuto tutti i giorni sotto gli occhi, e nei quali si faceva un “intrattenimento” per la popolazione, “delle torture più raffinate”, specialmente inventate contro degli innocenti, senza che “i cuori si aprissero alla compassione”, non strappa mai un grido di orrore all'impassibile romano; non ha mai una parola di pietà per i quattrocento schiavi di ogni sesso e di ogni età, suppliziati al seguito dell'assassinio del loro padrone, il prefetto di Roma (61), benché non fossero nemmeno sospettati di complicità in questo omicidio. Questa sensibilità così straordinaria, di cui si cercherebbe invano un altro esempio in lui, si rivela proprio a riguardo “di uomini detestati per i loro abomini”, mentre il fatto che resta costantemente di una freddezza  rivoltante davanti al massacro dei popoli più inoffensivi, che persino le proscrizioni di Silla incontrano la sua approvazione (Annali 3:27), che lo si si vede manifestare una gioia selvaggia (Germania 33) allo spettacolo di sessantamila Germani che si massacrano tra loro in una guerra civile, solleva dei nuovi dubbi a proposito dell'autenticità del passo dove si parla dei cristiani. Se questo paragrafo non è affatto interpolato, cosa di cui vi sono buone ragioni per supporlo, prova quantomeno che, per partito preso, Tacito rimprovera a Nerone dei crimini che egli assolve a Silla, Vespasiano o Tito, oppure che mette gli schiavi e i prigionieri di guerra molto al di sotto dei settari di Gesù, il che è tutto dire. Tutte queste contraddizioni confondono la nostra logica. 

SVETONIO

Svetonio, che, al pari di Tacito, fu contemporaneo degli evangelisti, non è affatto più prolifico del suo collega. Ecco l'unica frase incontrata nella Vita dei Dodici Cesari che si possa, con un po' di buona volontà, applicare a Gesù:
“Claudio espulse dalla Città i Giudei che erano continua causa di disordine  per istigazione di un certo Cresto” (Vita di Claudio, 25).
Non più di Tacito, Svetonio non sembra aver sentito parlare degli avvenimenti che, secondo gli evangelisti, sarebbero accaduti in Galilea e in Giudea, pochi anni prima.
Supponiamo, cosa che è perfettamente lecito, (anche se non dimostrato) che Chrestus sia messo qui per Christus. Questa frase ci insegna solo una cosa: che Svetonio confuse gli ebrei e i cristiani, il che, peraltro, non ha nulla di straordinario, la differenza tra le due religioni essendo allora molto impercettibile, perfino per degli uomini meglio informati quale poteva essere il segretario dell'imperatore Adriano. In ogni caso, egli considera questo Chrestus come un ebreo ancora vivo ai tempi di Claudio e residente a Roma. Siccome l'espulsione degli ebrei menzionata dal libellista latino ebbe luogo nel 49, e il supplizio di Gesù, secondo quanto si può trarre dai vangeli, risale all'incirca al 30, questo Chrestus, se lo si intende per il Redentore, era morto da una ventina d'anni. Inoltre, nessuna leggenda fa venire Gesù a Roma. È dunque impossibile dedurre la minima conclusione da questo passo di Svetonio, se non che ha ottenuto le sue informazioni da rumori privi di consistenza, al pari probabilmente di Tacito.
Ancora ai nostri oggi, con così poca esattezza, si potrebbe scrivere una frase simile, senza quasi modificarla:
“Il Governo della Repubblica espulse le congregazioni cristiane che, su istigazione di un certo Cristo, provocavano dei disturbi continui”.
Svetonio accusa senza esitazione Nerone dell'Incendio di Roma e assicura (Nerone, 38) che il tiranno non ha nemmeno provato a nascondere il suo senso di colpa. È ancor più stupefacente che non dica nulla delle atrocità così terribili come i tormenti inflitti ai cristiani dopo questo incidente. Lo storico dei Cesari, che non lo era affatto senza aver letto gli Annali, senza contare il fatto che attribuisce al figlio di Agrippina i crimini più spaventosi e i vizi più inauditi, che supera persino Tacito nel suo odio contro quell'imperatore, non avrebbe dovuto affatto omettere uno dei crimini più abominevoli di questo mostro. Ciò solleva dei nuovi dubbi sull'autenticità del passo dell'annalista dove sono citati i settari del Crocifisso.
Non si riscontra che una sola volta il nome dei cristiani in tutta l'opera di Svetonio, e la descrizione che ne dà è molto torbida.
“Egli (Nerone) inviò al supplizio i Cristiani, genere di uomini dediti a superstizioni e a sortilegi” (Nerone, 16).
È impossibile citare i discepoli di Cristo in una maniera più imprecisa. La frase potrebbe altrettanto bene applicarsi a dei maghi o a degli indovini che, così come i cristiani, pullulavano a Roma e pretendevano di “avere autorità sugli spiriti impuri” (Matteo 10:1). Se assumiamo che si tratta qui delle esecuzioni raccontate da Tacito (che è improbabile), è ancora più difficile ammettere che Svetonio si sia accontentato di scrivere a questo proposito una sola riga, così priva di chiarezza, che abbia ignorato questa barbarie senza nome e che non abbia affatto riportato, nemmeno menzionato i supplizi orribili di cui i giardini di Nerone furono il teatro e che dovettero produrre l'immensa impressione di cui l'autore degli Annali ha riprodotto l'eco. È tutto altrettanto strano che, nella vita di Domiziano, lo storico dei Dodici Cesari ometta di segnalare la presunta persecuzione del 95 contro i cristiani.

SENECA

“Quasi tutto Seneca è cristiano” (Havet, le Christian. et ses Orig., II, pag. 263). Quando, in effetti, una rivoluzione si sta preparando, è necessario per la sua riuscita, che le nuove idee che apporta siano già prevalenti tra le folle, che siano nell'aria, come si dice; inoltre, è necessario, che in aggiunta agli ignoranti, agli analfabeti incapaci di dare loro una forma un po' netta e di farle trionfare, le classi superiori ne siano state influenzate almeno fino al punto di disturbare la loro resistenza e di assicurare la loro sconfitta. Alla vigilia della nostra Rivoluzione, i grandi signori impressionati avrebbero applaudito clamorosamente Voltaire, Beaumarchais, Rousseau e tutti i filosofi che lavorarono per spianare la strada che li avrebbe portati al patibolo. Altri, meno superficiali, ma forse altrettanto imprudenti, sostenevano gli economisti che “con meno clamore, forse, dei filosofi” hanno contribuito tanto all'avvento del nuovo regime, hanno preconizzato in anticipo tutte le riforme e hanno insidiato con tanta energia, tutti gli abusi della monarchia e del clero.
Non dobbiamo dunque affatto sorprenderci di incontrare nel primo secolo degli scrittori che, senza aver avuto sentore dei vangeli, o sentito parlare di Cristo, né frequentato dei cristiani, sono ricolmi di idee cristiane: Filone, per esempio, per i dogmi; Seneca, per l'etica; del fatto che le loro opere sono anche molto più ricche del Nuovo Testamento. Le opere di Seneca ci dimostrano che la moralità nuova ha scosso l'egoismo delle classi più elevate; i Pensieri di Marco Aurelio ce la mostrano nella porpora imperiale.
Certe pagine di Seneca sono talmente impregnate di quella che noi definiamo la Morale del Vangelo che — malgrado il suo disprezzo per gli ebrei, che un romano di quest'epoca non poteva distinguere dai cristiani — si è potuto fabbricare una corrispondenza tra Seneca e san Paolo, considerata come autentica da san Girolamo e da sant'Agostino, ma che attualmente, la Chiesa stessa considera come apocrifa.
Contemporaneo di Gesù (2-65), mai lo cita nelle sue opere; mai ne ha sentito parlare.

PLINIO IL GIOVANE 

Ecco ancora un altro scrittore dal tempo degli evangelisti; le sue Lettere sono piene di informazioni preziose sul suo tempo. Eppure è vano che si cerchi in tutta la sua opera, la minima allusione a Gesù oppure ai suoi discepoli. In una sola delle Lettere (libro 10:97), della voluminosa raccolta della sua Corrispondenza, egli nomina i cristiani; eppure questa epistola è da parecchio tempo fortemente discussa e Havet (si veda le Christian. et ses Origin. IV, pag. 421 e successive) si sofferma lungamente sulle ragioni che gliela fanno considerare come fabbricata, al tempo di Tertulliano, da un cristiano più zelante che scrupoloso. Inoltre, Boissier (Revue Archéologique, 1976, pag. 115) nega formalmente l'autenticità di questa Lettera, che non si trova affatto nel più antico manoscritto della Corrispondenza di Plinio il Giovane in nostro possesso (1500), cosicché non si è nemmeno sicuri, dice Havet, che non sia stata composta, così come la risposta di Traiano, da un latinista della fine del 15° secolo, secondo un passo di Tertulliano. In effetti, Giustino, nella sua famosa Apologia, scritta intorno al 150-160, non ne fa affatto menzione, il che sembra inesplicabile, se esisteva al suo tempo.
Inoltre, questa lettera, anche se fosse incontestabile, non ci insegnerebbe nulla sulla realtà dell'esistenza del Redentore:  parla solo di sette cristiane in Bitinia, verso l'anno 111, sotto Traiano, e per nulla affatto di Gesù.
Il silenzio che Plinio il Giovane conserva, per tutto il resto delle sue opere, su un soggetto che, in questa Epistola, sembra tanto preoccuparlo, sarebbe inoltre ben strano, nell'ipotesi dell'autenticità di questo pezzo. 

GIOVENALE — PERSIO — MARZIALE

Giovenale (55-130), Persio (34- 62), Marziale (40-103) non pronunciano mai il nome di Gesù o dei cristiani nelle raffigurazioni satiriche dei costumi del loro tempo che ci hanno lasciato.
Tutto sommato, nelle opere di tutti gli scrittori profani del primo e del secondo secolo, non esiste affatto una parola indiscutibilmente autentica o soltanto chiara sul Redentore; i suoi Apostoli non sono affatto menzionati di più, perfino nei passi certamente interpolati. Gli autori classici dei secoli seguenti sono tutti ugualmente silenti. In breve, l'intero mondo antico, a parte alcuni fanatici cristiani, ha ignorato il nome di Gesù fin verso la fine del secondo secolo.

NOTE

[1] Questo Giacomo detto “il Giusto”, fratello del Signore, di cui parla Paolo nell'epistola ai Galati (1:19-11:9), sarebbe stato lapidato nel 62 circa. Un altro Giacomo, detto il Maggiore, di cui gli Atti (12:2) fanno l'apostolo, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo, sarebbe stato decapitato nel 44, per ordine di Erode. È, allora, del tutto impossibile riconoscere tra tutti i Giacomi della leggenda cristiana.

[2] Tre anni, secondo il vangelo di Giovanni.

[3] Si veda pagina 82 (Nota). 

[4] Si dovrebbero leggere così in Tacito (Hist. 5:2, 3, 4, 5) ciò che diventano sotto la sua penna, i racconti dell'Esodo, per rendersi conto della poca volontà di precisione che aveva lo storico latino. Abbiamo ancora in questo passo del suo libro, la prova lampante che gli importava poco di essere ben informato e di verificare la purezza delle fonti da cui traeva le sue informazioni. Si potrebbe immaginare che attinge tutto quello che racconta dell'epopea degli Israeliti, dalle chiacchiere di un giudaizzante ignorante, che, avendo udito leggere talvolta degli estratti della Bibbia nelle sinagoghe, non vi ha compreso nulla e nel cui cervello il mito sacro si è confuso in un miscuglio informe dove sono emersi alcuni frammenti dell'insegnamento che ha ricevuto. Tuttavia, l'autore delle Storie avrebbe potuto, se avesse voluto minimamente prendersi la briga, copiare la sintesi di questa odissea, se non nei testi originali del Pentateuco o nella versione dei Settanta, opere ignorate dal mondo romano, almeno nei libri di Giuseppe: alla corte dei Flavi, di cui era il favorito, nello stesso tempo del cronista ebreo, ha necessariamente conosciuto costui e avrebbe potuto domandargli la documentazione più abbondante. Supponendo che una rivalità odiosa abbia separato i due cortigiani, nulla impediva a Tacito di esaminare le opere del suo collega, ed è imperdonabile per non averli affatto consultati.
Se non è affatto meglio informato in ciò che concerne ciò che dice di Cristo, e tutto porta a crederlo, quale valore possiamo attribuire all'oscura menzione che ne fa?
È inoltre assai degno di nota che, nei paragrafi dove ha riassunto alla sua maniera la storia degli ebrei, Tacito non dice nemmeno una parola dei cristiani e “della loro esecrabile superstizione”, per ricollegare il suo racconto all'allusione un po' troppo sommaria degli Annali e che non parla più dell'espulsione di questi disgraziati, ordinata da Claudio (49) e che citano Svetonio e gli Atti degli Apostoli (18:2).

[5] Per quanto ne sappiamo, non era affatto consuetudine tra i romani (a parte i giochi del Circo), fare dell'esecuzione dei criminali un intrattenimento, e i giardini di Nerone non erano affatto attrezzati per delle tali rappresentazioni.

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