venerdì 15 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?I documenti (II)

Credulità generale

CAPITOLO II

I DOCUMENTI

A prima vista, si potrebbe supporre che la raccolta delle informazioni, convincenti o meno, sarà eccessivamente abbondante, perché, proprio all'inizio dell'era cristiana, gli scrittori ebrei, greci, latini, le cui opere ci sono pervenute, in tutto o in parte, sono eccezionalmente numerosi. Molti di loro hanno potuto essere documentati di prima mano, sia a causa della loro situazione ufficiale che in ragione della loro prossimità agli avvenimenti, nel tempo e nello spazio. Questo primo secolo, in effetti, è una delle epoche più prolifiche della letteratura e una delle più brillanti della civiltà. L'unità del governo faceva sì che tutto ciò che interessava il mondo conosciuto veniva a risuonare a Roma, ad Atene, ad Alessandria. L'Impero romano, per la sua elevata amministrazione, era rapidamente al corrente di tutto ciò che stava accadendo nei paesi sottomessi al suo dominio e non v'è alcun periodo dell'antichità o del Medioevo sul quale possediamo così tanto di dati precisi. La turbolenta Palestina, soprattutto, era sorvegliata molto da vicino: le insurrezioni incessanti degli ebrei restati nel loro paese, così come i tumulti perpetui di coloro che si erano stabiliti a Roma, ad Alessandria ed in tutte le grandi città dell'Impero, non lasciavano al potere centrale alcuna possibilità di dimenticarli, né permettevano di allentare un controllo severo. Il movimento suscitato dal Messia non ha potuto passare inosservato.
D'altra parte, gli autori sacri, i soli che ci hanno raccontato la leggenda di Cristo, ci presenteranno senza dubbio un quadro dettagliato dei suoi fatti e delle sue gesta e situeranno chiaramente il loro eroe nei suoi rapporti con il suo entourage, in modo da permetterci di formare un'immagine chiara.
Non è per nulla così: se noi sfogliamo le cronache contemporanee della generazione apostolica, constateremo, con stupore, una penuria di informazioni che, su questo soggetto, si avvicinano a niente. Evidentemente, non dobbiamo affatto sorprenderci di non riscontrare alcuna iscrizione in pietra, alcuna medaglia commemorativa: questi monumenti erano riservati, di solito, quasi esclusivamente ai condottieri di popoli. Dei personaggi le cui opere non potevano essere messe in dubbio e che hanno fatto una figura diversa da quella di Gesù agli occhi degli uomini della loro età non avevano nemmeno avuto questo onore. Socrate, Epicuro, Virgilio e mille altri ci sono noti solo dalle menzioni molteplici e dettagliate che hanno fatto gli storici della loro epoca. Non ci si può dunque attendere, ragionevolmente, di trovare delle tracce della vita del Salvatore se non nelle produzioni letterarie del tempo: storie, cronache, biografie, opere di filosofia, ecc. di quei giorni remoti. Ma, sfortunatamente, se i monumenti mancano completamente, i documenti scritti sono quasi altrettanto rari e non ci informano di più.
La fonte principale, o per meglio dire unica, da cui scaturisce tutto ciò che ci raccontano di Gesù, proviene dal piccolo volume intitolato “Nuovo Testamento”, o piuttosto, dalla parte meno compresa di questo libro, quella che si designa sotto il nome di “vangeli”, infatti il resto dell'opera è composto solo da poco più che discussioni su dei punti di dottrina e di disciplina religiosa. Al di fuori dei vangeli [1] propriamente detti, non v'è nulla, poiché i due o tre passi trovati con grande difficoltà sfogliando minuziosamente gli autori profani, polvere infima di minerale disseminato in immensi filoni pressappoco sterili, hanno un senso molto oscuro o dubbio, oppure sono interpolati in maniera maldestra. Supponendo anche, con eccessiva buona volontà, che le frasi contestate abbiano un significato chiaro e siano autentiche, non sarebbe comunque meno difficile spiegare perché si riscontra così tanto poco in questi scrittori e perché non è mai fatta allusione, nel resto dei loro scritti, ad un personaggio che, secondo la leggenda, ha giocato un ruolo così impressionante nella Storia, nella Storia ebraica, almeno.
Il silenzio degli annalisti non è affatto meno grande, né meno sorprendente, a riguardo dei discepoli del Salvatore: l'esistenza di ciascuno di loro non è certa e nessuno, compreso Paolo, è nominato dai cronisti dell'epoca di Gesù, non più che da quelli dei due o tre secoli successivi. Nello stesso Nuovo Testamento, la maggior parte degli Apostoli e dei nazareni che hanno seguito il Redentore non sono affatto citati al di fuori dei vangeli in cui, tra l'altro, appaiono solo in qualità di inutili comparse di cui non resta a malapena che il nome, ed è con difficoltà se si riscontra uno solo che sia menzionato in tutte le parti del Libro sacro; tra gli scrittori più vicini al primo secolo, non si raccolgono che delle corti e incerte leggende contradditorie a proposito dei successori immediati del Crocifisso. Sembra proprio, alla prima impressione, che si vada incontro, in definitiva, a dei miti e a dei racconti popolari inaccurati che, più tardi, si sono resi più o meno precisi e che, a forza di essere ripetuti senza riflessione dalle masse ingenue, si sono cristallizzati nella mente e hanno finito per imporsi a tutto il mondo, al punto di non sollevare più l'ombra di un dubbio, perfino tra gli storici più scettici che li ammettono a priori, senza arretrare di fronte alla loro inverosimiglianza. [2] L'esame attento dei testi sacri non farà che rinforzare questa opinione.
Si è dunque portati a credere che, nella sua formazione, questa leggenda fluttuante dal principio, che non si basa su alcuna realtà esterna e non avviene in alcuna regione specifica, in alcun contesto storico, ha dovuto nutrirsi e accrescersi per l'assimilazione di una grandissima quantità di elementi attinti dai culti orientali che si erano infiltrati ovunque, soprattutto quello di Mitra, così diffuso in tutto l'Impero, per oltre un secolo, particolarmente nelle province orientali, dove si sviluppò dapprima del cristianesimo e che controbilanciò per un momento la religione del Redentore; inoltre, all'antico strato principale delle speranze messianiche che, dopo la cattività di Babilonia (—588), gli ebrei avevano propagato tra gli innumerevoli giudaizzanti del mondo conosciuto, si aggiungevano naturalmente le storie più o meno alterate dei tentativi falliti di agitatori come il Battista, [3] Simone, Teuda, ecc., che finirono tutti miseramente. E questo amalgama non è mai stato così intimo perché non si possa scoprire ancora abbastanza facilmente gli elementi che lo compongono. In questo insieme, si erano mescolate, come un lievito, le fantasticherie mistico-sociali dei miserabili che soffrivano una situazione intollerabile. Se questa spiegazione non è che un'ipotesi, offre, almeno, una probabilità infinitamente maggiore di quella della realtà di Cristo.
Malgrado questo silenzio completo della Storia, cerchiamo tuttavia in ciò che resta degli scritti dei primi due secoli dell'era cristiana, tutto ciò che possiamo trovare relativamente a Gesù. Ma non dobbiamo affatto farci illusioni: per quanto pazienti siano le ricerche, non ci daranno quasi nulla e non ripagheranno affatto la nostra pena.

NOTE

[1] Ancora, non c'è nulla di cui tener conto tranne il vangelo di Marco, perché gli altri tre, come ha dimostrato l'esegesi, non ne sono altro che le copie più o meno ritoccate.

[2] È così, per esempio, che vediamo un eminente critico, come Renan, accettare come delle certezze, nella sua Vita di Gesù, tutte le favole degli evangelisti sul Cristo e conservare la convinzione che il Salvatore abbia realmente pronunciato tutte le parole che gli sono attribuite. Nessuna improbabilità l'arresta: reca senza batter ciglio, nell'ambiente galileo dell'anno 30, le idee mistico-sociali delle miserabili popolazioni del mondo ellenico-romano, come quelle che ci fanno conoscere Marco, Matteo, Luca o Giovanni, più vecchie di un secolo. Tuttavia, nient'altro che l'indifferenza profonda di questi scrittori alle passioni che animavano con la loro febbre l'ardente Galilea e la precipitavano in rivolte senza fine, dimostra sovranamente che essi appartenevano a un altro paese e ad un'altra generazione, allo stesso modo in cui la loro ignoranza assoluta del contesto (si veda capitolo VI e capitolo VII) dove si suppone essersi svolta la carriera di Cristo, dimostra che nulla di ciò che raccontano proviene dalla Palestina. Basta confrontare gli evangelisti con Paolo, mezzo ebreo, contemporaneo del Messia, più degno di fede, per cento ragioni, dei redattori della Nuova Bibbia, per comprendere che all'epoca di questo Apostolo, la leggenda cristiana non era ancora stata inventata, e che ai primi giorni del cristianesimo, non si possedeva alcun ricordo che si potesse associare ad un personaggio dal nome di Gesù; non si può dunque sperare di ricavare dal Libro della Buona Novella alcun dato certo sul Salvatore. Questo è ciò che svilupperemo in seguito.
Quando un uomo del valore di Renan, così istruito su ciò che concerne le origini del cristianesimo, arriva a scrivere un romanzo come la Vita di Gesù, opera che, per quanto ammirevole possa essere, è tuttavia solo un romanzo, quanto è sorprendente che coloro che sono meno in grado di documentarsi, vadano a considerare i vangeli come il testo di ogni verità!

[3] Nella lettura dei vangeli e degli Atti degli Apostoli, si sente fortemente che il ruolo del Battista soprattutto, ha dovuto essere particolarmente importante tra i primi seguaci del nascente cristianesimo; è, di tutti i propagandisti della nuova religione, l'unico che abbia una certezza storica, poiché l'esistenza stessa di Paolo solleva alcuni dubbi; è l'unico attore del Nuovo Testamento di cui parla lo storico Giuseppe, l'unico dei quali racconta le avventure tragiche. Il ricordo della sua predicazione, quello della cerimonia del battesimo e della confessione che impose ai suoi discepoli e a cui i cristiani si sono ispirati, sono come un ossessione per gli evangelisti e per l'Autore degli Atti; rinvengono senza posa. Malgrado tutta la loro buona volontà, non arrivano affatto a nascondere completamente la sua opera, né a sopprimere la sua influenza; riescono persino difficilmente a relegarla in secondo piano: la loro sola risorsa è di arruolarlo nei loro ranghi, di cooptarlo, di farne un precursore di Cristo, pur ammettendo, con un imbarazzo malcelato, che costui, all'inizio, non fu che un discepolo di Giovanni, che lo battezzò allo stesso titolo degli altri suoi seguaci. Nei vangeli e negli Atti, il nome del Battista è ripetuto quasi altrettanto spesso di quello di san Pietro e di san Paolo, cento volte più di quelli della maggior parte degli Apostoli, di gran lunga di più perfino di quello di Cristo. Gesù arriva al punto di dire: “In verità io vi dico, che fra i nati di donna non è sorto nessuno maggiore di Giovanni” (Matteo 11:11). — “Ma che andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e uno più di un profeta... perché io vi dico che fra i nati di donna, non vi è alcun profeta più grande di Giovanni Battista” (Luca 7:26, 28). Così, gli evangelisti si presero gran pena di collocare il loro eroe sotto la raccomandazione di questo grande nome: “Ma colui che viene dopo di me è più potente di me” (Matteo 3:11).
“Credo anche che, nella realtà storica, Giovanni abbia fatto, in Giudea, una figura maggiore di Gesù e che egli sia il principale personaggio della rivoluzione religiosa di cui Gesù ha avuto l'onore” (Havet,  le Christianisme et ses Origines, IV, pag. 5).
Infatti, a dispetto di tutte le loro reticenze, gli autori del Libro Sacro che ostacolano la preponderanza indiscutibile di Giovanni il Battista, ce lo rappresentano tuttavia come un personaggio di valore, perfettamente conosciuto nel loro ambiente; è impossibile non vedervi più chiaramente che non potevano fare a meno di riconoscere che Gesù era all'inizio, ai loro occhi, solo un neofita del nuovo Elia (Matteo 11:14). Secondo Marco (1:9), Gesù, attratto dalla fama di Giovanni, viene a trovarlo nel deserto dove si è stabilito e a ricevere da lui il battesimo “di conversione”, cerimonia che era preceduta (Marco 1:5 — Matteo 3:6) da una confessione generale dei peccati, di cui non ci viene affatto detto che il Redentore fu dispensato. La favola della colomba che “discende dai cieli aperti” non cambia per nulla il fatto preciso. Luca, un po'  imbarazzato da questo comportamento del Salvatore, comportamento che è, da parte sua, una confessione di subordinazione in quanto profeta, e di inferiorità, in quanto capo di setta religiosa, lo passa sotto silenzio, riconoscendo tuttavia che Gesù (3:21) fu battezzato da Giovanni, “con tutto il popolo”. Il quarto evangelista, ancora più scioccato da questa circostanza, preferisce non parlarne affatto e, senza negarla, la rimuove completamente; non dice nulla dei rapporti del Galileo con il Battista e, anche se si lascia sfuggire, forse inavvertitamente, che Gesù venne a trovare il Battista (1:29), sottrae dal suo racconto il battesimo del Salvatore.
Più lontano dai tempi di Erode, l'ultimo vangelo è fatalmente quello che diminuisce di più il ruolo del selvaggio asceta del Mar Morto, la cui influenza comincia senza dubbio a declinare un po'; tuttavia lo chiama ancora “l'Inviato di Dio” (1:6). Anche se, al pari di Marco, dà come preludio al suo vangelo la predicazione di Giovanni nel deserto, si appoggia tuttavia più di lui sulla loro tesi comune secondo cui l'azione del Precursore è subordinata a quella dell'Unto e non ha altra ragione se non quella, ben modesta, di annunciare la venuta del Redentore. È necessario, infatti, che la missione di Cristo abbia, perfino per gli spiriti creduloni di quel tempo, delle garanzie più precise, di prove più recenti delle “profezie un po' troppo tirate per i capelli” (Pascal, Pensées, ediz. Havet, tomo II, pag. 1) dell'Antico Testamento, tanto più perché i seguaci illetterati del neo-giudaismo dovevano conoscere la Bibbia solo in maniera molto superficiale. L'autorità di un personaggio così celebre e così rispettato come il Battista, dalla parola indiscussa e incontestata, aveva certamente, nei circoli giudaizzanti, tutta un'altra forza ed era evidentemente il modo migliore per convincerli che il figlio di Giuseppe fosse proprio il Messia atteso: è quindi Giovanni che renderà testimonianza che Gesù è il Figlio di Dio (Giovanni 1:6-36). Eppure, in un altro capitolo (5:31, 32), il Signore confessa che le sue affermazioni personali sono insufficienti se non hanno, a proprio sostegno, la testimonianza del figlio di Zaccaria che ha, senza dubbio, infinitamente maggior peso della sua. Eppure (5:36, 37), il quarto evangelista sembra rendersi conto che ha voluto provare troppo, che ha oltrepassato il limite, che invece di far emergere di più la figura di Cristo nell'illuminazione intensa della luce proiettata da Giovanni, è in grave pericolo di eclissarla, e che, nel complesso, ha goffamente relegato il suo eroe in secondo piano. Rettifica quindi ciò che ha appena scritto e, un po' più oltre, fa dire a Gesù, il che è di gran lunga più logico: “Ma la testimonianza che io ho è maggiore di quella di Giovanni; poiché le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle opere che io faccio testimoniano di me... E il Padre, che mi ha mandato, ha egli stesso testimoniato di me”.
Queste citazioni provano l'importanza che avevano ancora conservato, verso l'anno 130, vale a dire più di un secolo dopo la sua morte, il personaggio del Battista e il ricordo del suo apostolato. Si realizza anche, dall'insistenza che mette l'ultimo vangelo (1:20) nel far respingere il titolo di Cristo dal  Precursore, che costui dovette nondimeno passare per l'Unto presso i suoi numerosi seguaci, e Luca (3:15) ce lo conferma dicendo: “Tutti si chiedevano in cuor loro se Giovanni fosse lui il Cristo”.
Negli Atti, constatiamo così che l'influenza di Giovanni si prolungò ancora molti anni dopo il suo supplizio e che i suoi discepoli fecero a lungo concorrenza ai cristiani, con i quali finirono per confondersi, la differenza dei loro dogmi essendo senza dubbio delle più deboli e le massime attribuite a Gesù essendo probabilmente solo la ripetizione degli insegnamenti del Battista: “Or un Giudeo, di nome Apollo, nativo di Alessandria, uomo eloquente e ferrato nelle Scritture, arrivò ad Efeso. Costui era ammaestrato nella via del Signore e, fervente di spirito, parlava e insegnava diligentemente le cose del Signore, ma conosceva soltanto il battesimo di Giovanni (Atti 18:24-25). Un po'  più oltre (19:3): “E disse loro: Con quale battesimo dunque siete stati battezzati? Essi risposero: Col battesimo di Giovanni”.
Se accettiamo il racconto un po' imbarazzato degli Atti, ne risulta che allorché Paolo risiedeva ad Efeso (57 o 58), incontrò nella persona di Apollo, un rivale che continuò l'opera della vittima di Erodiade e che, di conseguenza, non doveva affatto aver sentito parlare di Gesù, oppure considerò il suo ruolo come del tutto secondario. Ciascuno dei due predicatori, del resto, seppure propagassero le stesse credenze giudaiche, considerava senza dubbio come nullo il battesimo amministrato dal suo concorrente (19:5). Nondimeno, i due riformatori sembrano essere rimasti in ottimi rapporti (1 Corinzi 16:12), a dispetto del carattere poco socievole dell'Apostolo dei gentili e delle sue violente rivendicazioni ad un dominio esclusivo, forse perché Paolo, che non sembrava affatto attribuire un grande valore alla cerimonia del battesimo cristiano (1 Corinzi 1:14 — Romani 6:3), non doveva affatto offendersi troppo nel vederlo conferito al nome di Giovanni.
Ma è soprattutto in Luca che affiorano la grandezza dei ricordi lasciati dal Battista e il bisogno provato dai nazareni di illuminare con lo splendore della sua aureola il gruppo ancora così oscuro.
Il primo capitolo del terzo vangelo mostra con l'ultima prova tutta l'influenza che aveva tenuto il Precursore, nel mezzo del cristianesimo nascente: degli ottanta versi che contiene, a malapena una dozzina sono dedicati a Maria e a suo figlio; negli altri, è solo una questione della concezione miracolosa di Giovanni e della sua nascita, e questi eventi sono ancora più meravigliosi che nella leggenda stessa del Redentore, che Luca non riesce affatto a mettere altrettanto vigorosamente in rilievo. Infatti, se degli spiriti scettici e maliziosi possono avere la temerarietà di non considerare affatto come un prodigio il parto di una ragazza-madre, non possono negare che il fenomeno del concepimento in una donna anziana che è sempre stata sterile ( 1:7) e di cui il marito è egli stesso un vecchio, esula al di fuori del contesto degli accidenti naturali e prova “che nulla è impossibile con Dio” (1:37). La sovrapposizione delle due leggende giovannea e cristiana, indiscutibilmente ricercata da Luca, nell'intenzione manifesta di issare l'oscuro bambino di Betlemme sullo stesso piedistallo dell'illustro Decapitato, continua durante tutto questo capitolo: è lo stesso angelo Gabriele (1:19, 26) che annuncia a Zaccaria (1:13) e a Maria (1:31) la nascita futura dei due inviati dell'Altissimo e si dovrebbe sottolineare che il ruolo del padre del Battista è molto meno sacrificato di quello del padre del Salvatore, al quale l'arcangelo non si degna affatto di fare la minima comunicazione. Mentre Zaccaria, che non lascia affatto la scena, ci è presentato come un uomo pio, giusto irreprensibile, discendente di una eminente famiglia sacerdotale (1:5,6) e sua moglie Elisabetta condivide questi elogi e questa illustrazione, Luca ci dice seccamente che il messaggero celeste fu inviato a una vergine di nome Maria, moglie di un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide, e dimentica immediatamente dietro le quinte questo attore inutile (1:27); cerca tuttavia di attribuire qualche lucentezza a questa Maria sconosciuta definendola parente della nobile Elisabetta; ma l'evangelista, che si è preso la briga di enumerare i motivi della grazia divina di cui Zaccaria e sua moglie sono stati colmati, non ne scopre affatto uno che possa farci indovinare perché Maria “è stata scelta tra tutte le donne”, per un favore altrimenti eccezionale, e perché il compiacente Giuseppe, “di cui la sposa ha fatto la gloria”, siano stati l'oggetto di un tale onore.
In Matteo (1:18-25) la storia è ancora più drammatica: Maria non sospetta nemmeno del ruolo brillante che gli si fa giocare e Giuseppe è informato solo in un sogno, cosa che, del resto, gli è sufficiente.
Ma torniamo a Luca; in tutto il suo racconto, l'interesse si concentra  costantemente sul Battista; l'annuncio dell'angelo a Zaccaria (1:13-20) è due volte più elaborato di quello fatto a Maria (1:30-33); il cantico di ringraziamenti del vecchio sacerdote (1:68-79), occupa di gran lunga più spazio del Magnificat della Vergine (1:46-55); ancora, “tutti i più antichi manoscritti greci dei vangeli e quelli della Vulgata anteriore a Girolamo mettono questo pezzo sulle labbra di Elisabetta” (Alfred Loisy,  Les Evangiles Synoptiques, I, pag. 302) ed è anche l'opinione dell'esegeta erudito. In questo caso, si applicherebbe alla venuta di Giovanni e non a quella di Gesù, ed è infatti di gran lunga più verosimile: le parole “ha guardato alla bassezza della sua serva” (1:48) sono molto chiare, pronunciate da Elisabetta, nata in un paese dove la sterilità delle donne era considerata uno stigma (1:25) per loro; sarebbero assurde nella preghiera di Maria che è vergine e per la quale una gravidanza sarebbe, al contrario, un'onta (Matteo 1:19).
Nel seguito, la leggenda di Cristo contiene ancora  altri punti di rassomiglianza con la storia di Giovanni, ma, inconsciamente, l'autore tratta sempre Gesù come un personaggio inferiore: Erode fa imprigionare il Battista che ha condotto contro di lui una violenta campagna di opposizione personale, ma in quanto l'asceta è “uomo giusto e santo, che proteggeva e l'ascoltava” (Marco 6:20) e inoltre “il tiranno temeva il popolo perché lo considerava un profeta” (Matteo 14:5), accade molto tempo prima che osasse farlo morire. Gesù, al contrario, che non è né popolare, né inquietante, viene ucciso poche ore dopo un arresto ingiustificato, e dopo aver servito da oggetto di scherno dalla soldataglia. Se Gesù battezza in concomitanza con Giovanni (Giovanni 3:26), costui non si degna di offendersi. Dopo la decapitazione di Giovanni le persone che ascoltano le parole di Cristo, dicono che egli è il Battista risorto (Luca 9:9, 19) ed è per imitare il Precursore (Luca 11:1) che Gesù insegna il Pater Noster ai suoi discepoli. Allo stesso modo in cui Giovanni è liberato (Marco 1:14) da Erode, Gesù viene consegnato (Marco 15:1) a Caifa.
Se Gesù è messo in croce, supplizio riservato agli schiavi e ai criminali più vili, Giovanni, che è impossibile da trattare in una maniera così ignominiosa, subisce la decapitazione, pena che non ha nulla di infamante, nemmeno di crudele, se la si paragona alle spaventose torture della crocifissione. Se Giuseppe d'Arimatea, uno sconosciuto, si incarica dei funerali del Salvatore, dato che i suoi Apostoli e la sua famiglia si sono prudentemente eclissati, i discepoli del Precursore non cedono a nessuno l'onore di seppellire le spoglie sacre del loro maestro; se Gesù passa per risorto, lo stesso accade con Giovanni (Luca 9:8).
L'imitazione si persegue ostinatamente fin nelle frasi attribuite a Giovanni e che Gesù ripete parola per parola: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira imminente?” (Matteo 3:7 e Matteo 23:33). — “Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Matteo 3:10 e Matteo 4:17). — “Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (Marco 1:8) … “Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo” (Atti 1:5 e 11:16).

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