“Geova è tra gli Dèi, colui che ebbe la presunzione di dichiararsi il Dio prescelto e di non tollerare accanto a sé altre divinità”
(Martin Heidegger)
Il Dio di Coincidenza
Può qualcuno negare che
Una cosa dopo l'altra
In sequenza e logica
Mai vista prima
Non può essere che la
Interferenza di un Dio
Determinata a provare che
Ognuno che pretende
Di conoscere ora
Una cospirazione è
Demente?
(Kent Murphy)
L'olezzo di una superstizione, credono alcuni, può aleggiare su un luogo per anni, fino a diventare una specie di quintessenza.
Dicono che si infiltri negli strati sociali più bassi e venga lentamente assorbito dal profondo delle loro anime finchè, col passare del tempo, tutti i ceti sociali, dal più infimo al più alto, ne viene impregnato.
Forse, mentre avanzavano ignari nella vita duemila anni fa, sopportando le gioie e i dolori che la vita offriva allora come oggi, la gente percepiva tutto ciò. E forse quel vago sentore dentro di loro, la consapevolezza che l'oggetto del loro nuovo culto, Gesù, non era mai realmente esistito, avrebbe dovuto spingerla a tornare sui propri passi.
Dicono che si infiltri negli strati sociali più bassi e venga lentamente assorbito dal profondo delle loro anime finchè, col passare del tempo, tutti i ceti sociali, dal più infimo al più alto, ne viene impregnato.
Forse, mentre avanzavano ignari nella vita duemila anni fa, sopportando le gioie e i dolori che la vita offriva allora come oggi, la gente percepiva tutto ciò. E forse quel vago sentore dentro di loro, la consapevolezza che l'oggetto del loro nuovo culto, Gesù, non era mai realmente esistito, avrebbe dovuto spingerla a tornare sui propri passi.
Ma la gente proseguì in quel felice abbandono in quella superstizione.
Per comprendere il Più Antico Vangelo, occorre farsi una precisa domanda: contro chi fu scritto?
Se fu scritto contro i giudaizzanti, allora il suo autore fu il paolino “Marco”, uno sconosciuto.
Se fu scritto contro i monoteisti, allora il suo autore fu Marcione, un eresiarca.
Se fu scritto contro gli gnostici, allora il suo autore fu un banale giudaizzante.
Se fu scritto contro i pagani, allora il suo autore fu un monoteista che odiava gli idolatri.
Nel 70 E.C., il dio unico aveva vinto, trasferendo il suo regno dal Tempio di Gerusalemme al di là dei confini della Giudea. Questo dio degli ebrei poteva estendere ora la sua influenza e meritare la sua gloria sul mondo intero.
Il miglior argomento a favore di quest'ultimo caso è stato fatto dal miticista americano William Benjamin Smith.
Di seguito la traduzione del suo libro.
“Il più profondo si può esprimere solamente in simboli”
Goethe
Goethe
LA NASCITA DEL VANGELO
UNO STUDIO DELL'ORIGINE E DEL SIGNIFICATO DELLA PRIMITIVA ALLEGORIA DI GESÙ
di William Benjamin Smith
CAPITOLO UNO
PREFAZIONE DELL'AUTORE
1. ALL'ORIGINE DEL CULTO.
“Un possente labirinto, ma non senza un piano”.
Quando tentiamo di far risalire la primitiva fede cristiana alla sua nascita, almeno fino alla sua prima infanzia, scopriamo che fin dall'inizio era diffuso su tutto l'Impero. In tutto il Mediterraneo i suoi araldi gridavano simultaneamente le buone nuove, da una riva all'altra, in ogni città dove è costruita una sinagoga, ovunque l'ebreo onnipresente potesse riunire il suo gruppo per l'adorazione. Quando Paolo visita Damasco in un giro di persecuzione, trova Anania con altri “discepoli” tutti al corrente del suo passato. A Lydda e a Joppa tali discepoli si trovano già stabiliti prima dell'arrivo di Pietro. Ad Antiochia i pionieri di Cipro e Cirene appaiono bruscamente, come se fossero inviati giù dal cielo per convertire i greci, e là i convertiti sono chiamati cristiani per la prima volta. Quando Paolo viene ad Efeso, trova “alcuni discepoli”, poiché era stato preceduto dal dotto ed eloquente Apollo di Alessandria, un missionario “ammaestrato nella via del Signore”, “pieno di fervore” e abituato a “insegnare esattamente ciò che si riferiva a Gesù”, pur conoscendo solo il “Battesimo di Giovanni”. A Roma, secondo l'epistola, esisteva già una chiesa ben consolidata e famosa in tutto il mondo prima che Paolo lasciasse il Mediterraneo orientale: a Pozzuoli, in Italia, furono “trovati alcuni fratelli” quando approdò là, e appena “partimmo alla volta di Roma ... i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro”. Ovunque, quindi, la via è già predisposta per gli Apostoli, la fede già familiare e più o meno accettata; non spaventano nessuno, ma procedono subito a discutere la questione nella sinagoga e a “esporre con maggiore accuratezza la via di Dio”.
Così la Nuova Fede è presentata (abbastanza a malincuore) in Atti come un fenomeno diffuso in tutto l'impero praticamente in modo simultaneo ovunque nella sua apparizione, esplodendo all'improvviso, come un lampo d'estate, tutto intorno alle coste orientali del Mare Mediterraneo. E anche questo, senza alcuna relazione percettibile con qualche attività o storia accaduta in Giudea, in Galilea, in Palestina o altrove. Leggiamo della “dottrina che si riferiva a Gesù” come la somma delle zelanti richieste degli alessandrini, ma non viene suggerita alcuna carriera biografica. Ovunque, senza eccezione, l'appello sembra essere fatto ad una coscienza religiosa già presente, che è causata in questo o in quel modo nella Sinagoga da una discussione delle Scritture dell'Antico Testamento, da nessuna parte si fa ricorso a presunti fatti di una Vita Palestinese, o all'autorità di un Maestro Incomparabile, o ad una incomparabile Personalità che aveva solo recentemente calcato il palcoscenico della Storia a Gerusalemme o nella Terra Santa. Così, gli ebrei di Berèa si mostrarono “più nobili di quelli di Tessalonica” — non convocando testimoni o interpellando Paolo e Sila — ma “esaminando ogni giorno le scritture per vedere se le cose stavano davvero così”. Era, quindi, una questione dottrinale, da provare esclusivamente con la parola dell'Antico Testamento.
Bene, ora, se così era il caso, e questo sembra al di là di ogni dubbio, l'interrogativo diventa immediatamente urgente: come possiamo rendere comprensibile questo stato di fatto? Come potremmo concepire una situazione storica generale in grado di rendere le circostanze già brevemente accennate non solo comprensibili ma del tutto naturali, se non necessarie, da parte delle persone coinvolte? Una risposta ovvia sarebbe che dobbiamo scoprire qualche coscienza religiosa prevalente alla stessa maniera o quasi in tutta la regione in questione, qualche stato d'animo e sentimento approssimativamente identico in tutti gli ambienti, una situazione mentale ed emotiva di cui il risveglio ampiamente diffuso possa apparire la naturale espressione non forzata. Appare ugualmente chiaro che nessun fatto biografico recente in nessuna regione può profilarsi distintamente nella spiegazione richiesta. Se il movimento si fosse rivelato intorno a qualcosa del genere, noi dovremmo sicuramente aver sentito qualcosa intorno ad esso, qualcuno l'avrebbe sicuramente segnalato vistosamente.
Ancora di più, tuttavia, perfino in quest'epoca dinamica, che quasi abolirebbe la distanza, la distinzione tra qua e là prevale ancora — decisamente. Un evento locale, anche se non sia di grande significato, sembra una cosa dove è accaduto e del tutto un'altra a 1000 miglia di distanza. La coscienza popolare si tinge in maniera diversissima, anche a distanza di poche leghe. Se, quindi, qualche recente evento biografico in questo o in quel territorio avesse formato il fulcro di questa infinita e spesso appassionata propaganda e discussione ebraica, dovremmo certamente cercare di vederlo fiammeggiare luminosamente nella regione più vicina ma impallidire sensibilmente mentre si diffondeva in giro. Sicuramente deve essere al centro e all'origine che l'agitazione è più vivace. Inoltre potremmo aspettarci di trovare i fatti dibattuti al fronte del combattimento: i campioni avrebbero affermato e riaffermato e avrebbero invocato i loro testimoni e le loro prove di conferma; gli avversari avrebbero negato in tutto o in parte, avrebbero accusato i testimoni e sfidato i campioni a produrre una testimonianza imparziale e decisiva. Tale sembra la naturale condotta abituale in questi dibattiti, ed è difficile immaginarne altri altrettanto probabili.
Ciononostante troviamo tutto questo invertito, capovolto nella Propaganda cristiana. Non è un'agitazione unifocale ma multifocale; non esplode in Palestina e da là si diffonde per gradi su tutto l'impero; al contrario, è praticamente di colpo qua, là e ovunque. Né si preoccupa di qualche caratteristica biografica: nessuna prova locale viene offerta, nessun testimone viene convocato o sfidato, nessuna allusione viene fatta a fatti di conferma, nessuna contraddizione viene avanzata dagli avversari. Fin dall'inizio si presenta unicamente come una questione di idee, di interpretazione dell'Antico Testamento, di discussione dottrinale: le forze opposte sono passi citati dai Salmi, dai Profeti, dalla Legge e dalla Storia nell'Antico Testamento; quelli e quelli soltanto sono schierati, impiegati, manovrati durante questa battaglia di concezioni lunga un anno, lunga un secolo.
Questo è il fatto eccezionale che tutto abbraccia — così inefficacemente malcelato nei primi capitoli di Atti — che ci pone di fronte all'origine del cristianesimo ed esige imperiosamente una spiegazione. Come già dichiarato, quella spiegazione si può trovare solo in qualche condizione generale della coscienza religiosa prevalente tutt'attorno il Mare Mediterraneo. Quella coscienza presenta due forme o fasi molto diverse: l'ebraico-monoteista e la gentile-politeista. Sui dettagli di quest'ultima non era necessario indugiare; sono stati fatti oggetto di ricerca esaustiva e sono argomenti di conoscenza comune o almeno accessibile. È risaputo che la mente pagana, in particolare quella orientale, era stata a lungo immersa nel pessimismo, che anelava inesprimibilmente al sollievo, alla liberazione dal dolore del mondo, che era gravemente insoddisfatta della mitologia corrente nei cui termini era abituata, volente o nolente, a concepire, che cercava conforto e persino redenzione in misteri e in culti, il cui scopo comune era quello di portare l'adoratore in qualche maniera in stretta relazione, se non al tocco immediato, con Dio, di fondere e di mescolare il divino con l'umano, e così di passare in una maniera gli attributi dell'uno nell'altro. Tutto ciò deve essere rammentato costantemente, come spiegazione in qualche misura del successo della Propaganda dalla natura del materiale su cui doveva lavorare — ma in alcun modo come un chiarimento della natura della Propaganda stessa.
Il principio attivo in questa meravigliosa evangelizzazione deve piuttosto essere ricercato nell'altra fase, la fase monoteista della coscienza generale. Il gentile era davvero scontento della sua Legione di Demoni e desideroso di essere conquistato all'adorazione di un Unico Dio, perfino se quello avrebbe potuto essere lo Stato Romano, come incarnato nella dinastia dei Cesari, e in qualsiasi momento nell'Imperatore stesso; ma questo manichino era ovviamente insoddisfacente o addirittura assurdo, e l'unico insegnamento adatto a soddisfare ogni bisogno spirituale era un'importazione, il rigido monoteismo (insieme alla rigida moralità) di Israele, in quel momento sparso come sabbia — diversi milioni in effetti —, sull'intero Impero di Roma. Il Proselitismo dei Gentili era stato a lungo [1] portato avanti con zelo dagli ebrei, e ogni sinagoga era un centro della sua irradiazione; ma era carico troppo pesantemente, se non di pretese nazionali, almeno di peculiarità razziali — non avrebbe potuto sperare di convertire il mondo. La Legge con i suoi infiniti dettagli di riti e requisizioni ostacolava inevitabilmente la via, e la circoncisione sembrava chiudere l'entrata con una sbarra di ferro. Il Culto di Israele apparentemente sembrava soddisfare quasi tutte le esigenze della situazione religiosa, ma era necessaria una profonda Trasformazione per adattarlo ai tempi, al temperamento delle Nazioni.
Ora è nell'interazione reciproca di quelle due fasi della Coscienza Generale, risultando precisamente in questa Trasfigurazione, che cerchiamo la genesi e il progresso dell'Antica Propaganda. Concepito in maniera così naturale, il problema in esame potrebbe sembrare abbastanza semplice, persino facile da cogliere e gestire dal pensiero medio. Ahimè, comunque, è coinvolto a ogni svolta in un mucchio di difficoltà che riducono quasi alla disperazione. Le dottrine e i pregiudizi di quasi 1800 anni giacciono sotto un fitto sottobosco tutt'attorno, e anche se quei pregiudizi fossero tutti spazzati via, ci sarebbe rimasto il terreno da cui erano spuntati, un fertile terreno seminato con ogni seme e forma di fantasia, spesso squisitamente bello ma non di rado fuorviante.
Potrebbe rivelarsi un compito faticoso passare attraverso tutti quelli strati caotici fino alla Roccia spirituale sottostante, ma non c'è modo di girarvi attorno, il lavoro deve essere fatto. Soprattutto, è necessario abituare noi stessi alla maniera di coscienza israeliana, alla reazione tribale in cui l'Individuo quasi svanisce e lascia la Razza sola regnante e suprema. È dovere dello scrittore presentare tali argomenti al lettore in un'adeguata pienezza e chiarezza, fedelmente e senza inganno; e a tale tentata presentazione è dedicato questo libro. Forse alcuni lettori potrebbero impallidire a nomi come Salmi di Salomone, Enoc, Assunzione di Mosè; così sia; tuttavia potrebbero provare soddisfazione nel sapere che tale materiale non è stato trascurato, ma è stato usato nella costruzione e ora risiede a disposizione, ogni volta che possano sentirsi disposti a consultarlo.
Tale, quindi, è lo scopo di questo volume, rendere la Genesi del Movimento cristiano completamente comprensibile come un processo storico, naturale e ragionevole, sebbene unico. Unico, perché mai, in nessun altro momento degli annali dell'uomo, tali condizioni determinanti si sono combinate come in questa epoca della Nascita cristiana. Come tale merita certamente e richiede lo studio più attento e coscienzioso, perseguito con ogni riverenza razionale, ugualmente distante dalla beffa dello scettico e della cieca adorazione del prete. Un tale scrutinio può bastare a plasmare una risposta completamente generica e tuttavia completamente soddisfacente alla domanda del prof. Loofs: “Chi era Gesù Cristo?” — una domanda che questo erudito, allo stesso tempo così capace e così onesto, ha proclamato impossibile da rispondere, salvo in termini di Fede, per la quale nessuna ragione storica o logica può essere data. Eppure, strano a dirsi, la risposta trovata è in armonia con il Primo Postulato dello storico di Halle: “Gesù di Nazaret ha avuto un'esistenza visibile tra gli Uomini” — non proprio come un vagabondo senza dimora sulle rive della “profonda Galilea”, ma come Israele la Razza, chiamato “Figlio dell'Uomo” e “Figlio di Dio”, crocifisso sulla Croce della Storia ma trasfigurato e glorificato nella Religione dell'Uomo.
Così la Nuova Fede è presentata (abbastanza a malincuore) in Atti come un fenomeno diffuso in tutto l'impero praticamente in modo simultaneo ovunque nella sua apparizione, esplodendo all'improvviso, come un lampo d'estate, tutto intorno alle coste orientali del Mare Mediterraneo. E anche questo, senza alcuna relazione percettibile con qualche attività o storia accaduta in Giudea, in Galilea, in Palestina o altrove. Leggiamo della “dottrina che si riferiva a Gesù” come la somma delle zelanti richieste degli alessandrini, ma non viene suggerita alcuna carriera biografica. Ovunque, senza eccezione, l'appello sembra essere fatto ad una coscienza religiosa già presente, che è causata in questo o in quel modo nella Sinagoga da una discussione delle Scritture dell'Antico Testamento, da nessuna parte si fa ricorso a presunti fatti di una Vita Palestinese, o all'autorità di un Maestro Incomparabile, o ad una incomparabile Personalità che aveva solo recentemente calcato il palcoscenico della Storia a Gerusalemme o nella Terra Santa. Così, gli ebrei di Berèa si mostrarono “più nobili di quelli di Tessalonica” — non convocando testimoni o interpellando Paolo e Sila — ma “esaminando ogni giorno le scritture per vedere se le cose stavano davvero così”. Era, quindi, una questione dottrinale, da provare esclusivamente con la parola dell'Antico Testamento.
Bene, ora, se così era il caso, e questo sembra al di là di ogni dubbio, l'interrogativo diventa immediatamente urgente: come possiamo rendere comprensibile questo stato di fatto? Come potremmo concepire una situazione storica generale in grado di rendere le circostanze già brevemente accennate non solo comprensibili ma del tutto naturali, se non necessarie, da parte delle persone coinvolte? Una risposta ovvia sarebbe che dobbiamo scoprire qualche coscienza religiosa prevalente alla stessa maniera o quasi in tutta la regione in questione, qualche stato d'animo e sentimento approssimativamente identico in tutti gli ambienti, una situazione mentale ed emotiva di cui il risveglio ampiamente diffuso possa apparire la naturale espressione non forzata. Appare ugualmente chiaro che nessun fatto biografico recente in nessuna regione può profilarsi distintamente nella spiegazione richiesta. Se il movimento si fosse rivelato intorno a qualcosa del genere, noi dovremmo sicuramente aver sentito qualcosa intorno ad esso, qualcuno l'avrebbe sicuramente segnalato vistosamente.
Ancora di più, tuttavia, perfino in quest'epoca dinamica, che quasi abolirebbe la distanza, la distinzione tra qua e là prevale ancora — decisamente. Un evento locale, anche se non sia di grande significato, sembra una cosa dove è accaduto e del tutto un'altra a 1000 miglia di distanza. La coscienza popolare si tinge in maniera diversissima, anche a distanza di poche leghe. Se, quindi, qualche recente evento biografico in questo o in quel territorio avesse formato il fulcro di questa infinita e spesso appassionata propaganda e discussione ebraica, dovremmo certamente cercare di vederlo fiammeggiare luminosamente nella regione più vicina ma impallidire sensibilmente mentre si diffondeva in giro. Sicuramente deve essere al centro e all'origine che l'agitazione è più vivace. Inoltre potremmo aspettarci di trovare i fatti dibattuti al fronte del combattimento: i campioni avrebbero affermato e riaffermato e avrebbero invocato i loro testimoni e le loro prove di conferma; gli avversari avrebbero negato in tutto o in parte, avrebbero accusato i testimoni e sfidato i campioni a produrre una testimonianza imparziale e decisiva. Tale sembra la naturale condotta abituale in questi dibattiti, ed è difficile immaginarne altri altrettanto probabili.
Ciononostante troviamo tutto questo invertito, capovolto nella Propaganda cristiana. Non è un'agitazione unifocale ma multifocale; non esplode in Palestina e da là si diffonde per gradi su tutto l'impero; al contrario, è praticamente di colpo qua, là e ovunque. Né si preoccupa di qualche caratteristica biografica: nessuna prova locale viene offerta, nessun testimone viene convocato o sfidato, nessuna allusione viene fatta a fatti di conferma, nessuna contraddizione viene avanzata dagli avversari. Fin dall'inizio si presenta unicamente come una questione di idee, di interpretazione dell'Antico Testamento, di discussione dottrinale: le forze opposte sono passi citati dai Salmi, dai Profeti, dalla Legge e dalla Storia nell'Antico Testamento; quelli e quelli soltanto sono schierati, impiegati, manovrati durante questa battaglia di concezioni lunga un anno, lunga un secolo.
Questo è il fatto eccezionale che tutto abbraccia — così inefficacemente malcelato nei primi capitoli di Atti — che ci pone di fronte all'origine del cristianesimo ed esige imperiosamente una spiegazione. Come già dichiarato, quella spiegazione si può trovare solo in qualche condizione generale della coscienza religiosa prevalente tutt'attorno il Mare Mediterraneo. Quella coscienza presenta due forme o fasi molto diverse: l'ebraico-monoteista e la gentile-politeista. Sui dettagli di quest'ultima non era necessario indugiare; sono stati fatti oggetto di ricerca esaustiva e sono argomenti di conoscenza comune o almeno accessibile. È risaputo che la mente pagana, in particolare quella orientale, era stata a lungo immersa nel pessimismo, che anelava inesprimibilmente al sollievo, alla liberazione dal dolore del mondo, che era gravemente insoddisfatta della mitologia corrente nei cui termini era abituata, volente o nolente, a concepire, che cercava conforto e persino redenzione in misteri e in culti, il cui scopo comune era quello di portare l'adoratore in qualche maniera in stretta relazione, se non al tocco immediato, con Dio, di fondere e di mescolare il divino con l'umano, e così di passare in una maniera gli attributi dell'uno nell'altro. Tutto ciò deve essere rammentato costantemente, come spiegazione in qualche misura del successo della Propaganda dalla natura del materiale su cui doveva lavorare — ma in alcun modo come un chiarimento della natura della Propaganda stessa.
Il principio attivo in questa meravigliosa evangelizzazione deve piuttosto essere ricercato nell'altra fase, la fase monoteista della coscienza generale. Il gentile era davvero scontento della sua Legione di Demoni e desideroso di essere conquistato all'adorazione di un Unico Dio, perfino se quello avrebbe potuto essere lo Stato Romano, come incarnato nella dinastia dei Cesari, e in qualsiasi momento nell'Imperatore stesso; ma questo manichino era ovviamente insoddisfacente o addirittura assurdo, e l'unico insegnamento adatto a soddisfare ogni bisogno spirituale era un'importazione, il rigido monoteismo (insieme alla rigida moralità) di Israele, in quel momento sparso come sabbia — diversi milioni in effetti —, sull'intero Impero di Roma. Il Proselitismo dei Gentili era stato a lungo [1] portato avanti con zelo dagli ebrei, e ogni sinagoga era un centro della sua irradiazione; ma era carico troppo pesantemente, se non di pretese nazionali, almeno di peculiarità razziali — non avrebbe potuto sperare di convertire il mondo. La Legge con i suoi infiniti dettagli di riti e requisizioni ostacolava inevitabilmente la via, e la circoncisione sembrava chiudere l'entrata con una sbarra di ferro. Il Culto di Israele apparentemente sembrava soddisfare quasi tutte le esigenze della situazione religiosa, ma era necessaria una profonda Trasformazione per adattarlo ai tempi, al temperamento delle Nazioni.
Ora è nell'interazione reciproca di quelle due fasi della Coscienza Generale, risultando precisamente in questa Trasfigurazione, che cerchiamo la genesi e il progresso dell'Antica Propaganda. Concepito in maniera così naturale, il problema in esame potrebbe sembrare abbastanza semplice, persino facile da cogliere e gestire dal pensiero medio. Ahimè, comunque, è coinvolto a ogni svolta in un mucchio di difficoltà che riducono quasi alla disperazione. Le dottrine e i pregiudizi di quasi 1800 anni giacciono sotto un fitto sottobosco tutt'attorno, e anche se quei pregiudizi fossero tutti spazzati via, ci sarebbe rimasto il terreno da cui erano spuntati, un fertile terreno seminato con ogni seme e forma di fantasia, spesso squisitamente bello ma non di rado fuorviante.
Potrebbe rivelarsi un compito faticoso passare attraverso tutti quelli strati caotici fino alla Roccia spirituale sottostante, ma non c'è modo di girarvi attorno, il lavoro deve essere fatto. Soprattutto, è necessario abituare noi stessi alla maniera di coscienza israeliana, alla reazione tribale in cui l'Individuo quasi svanisce e lascia la Razza sola regnante e suprema. È dovere dello scrittore presentare tali argomenti al lettore in un'adeguata pienezza e chiarezza, fedelmente e senza inganno; e a tale tentata presentazione è dedicato questo libro. Forse alcuni lettori potrebbero impallidire a nomi come Salmi di Salomone, Enoc, Assunzione di Mosè; così sia; tuttavia potrebbero provare soddisfazione nel sapere che tale materiale non è stato trascurato, ma è stato usato nella costruzione e ora risiede a disposizione, ogni volta che possano sentirsi disposti a consultarlo.
Tale, quindi, è lo scopo di questo volume, rendere la Genesi del Movimento cristiano completamente comprensibile come un processo storico, naturale e ragionevole, sebbene unico. Unico, perché mai, in nessun altro momento degli annali dell'uomo, tali condizioni determinanti si sono combinate come in questa epoca della Nascita cristiana. Come tale merita certamente e richiede lo studio più attento e coscienzioso, perseguito con ogni riverenza razionale, ugualmente distante dalla beffa dello scettico e della cieca adorazione del prete. Un tale scrutinio può bastare a plasmare una risposta completamente generica e tuttavia completamente soddisfacente alla domanda del prof. Loofs: “Chi era Gesù Cristo?” — una domanda che questo erudito, allo stesso tempo così capace e così onesto, ha proclamato impossibile da rispondere, salvo in termini di Fede, per la quale nessuna ragione storica o logica può essere data. Eppure, strano a dirsi, la risposta trovata è in armonia con il Primo Postulato dello storico di Halle: “Gesù di Nazaret ha avuto un'esistenza visibile tra gli Uomini” — non proprio come un vagabondo senza dimora sulle rive della “profonda Galilea”, ma come Israele la Razza, chiamato “Figlio dell'Uomo” e “Figlio di Dio”, crocifisso sulla Croce della Storia ma trasfigurato e glorificato nella Religione dell'Uomo.
2. COSCIENZA NAZIONALE EBRAICA
Soprattutto, se il lettore traccerà la sua strada con successo attraverso le argomentazioni a venire, deve per il momento mettere da parte il modo di pensare occidentale che è suo proprio, e deve indossare l'abito di un ebreo ellenizzato di diciannove secoli fa; deve abituarsi ad un clima in cui l'Individuo quasi svanisce e lascia la Razza sola regnante e suprema. Questa Coscienza Nazionale ebraica appare quasi come un fatto unico negli annali umani. Persistente nella storia precedente e successiva, nel corso di diversi millenni, la sua espressione nel primo secolo E.C. salì all'intensità della crisi, come ciò che il matematico potrebbe chiamare un “punto singolare” nella curva o nella superficie della Storia. È incredibile da pensare e difficile da concepire un intero popolo posseduto da questa (non malvagia) ossessione dell'unità popolare non solo in questa e in quella occasione, ma per tutto il tratto di circa trenta secoli di esperienza razziale! Tuttavia in qualche qualità e grado era sempre presente, plasmando e colorando la vita individuale, come mai ricordato da nessun'altra parte in tutti gli annali dell'uomo.
Le visioni apocalittiche degli ebrei nacquero da questa possessione, come attestano ampiamente gli esempi che verranno citati in seguito, e lo stesso si può dire della successiva letteratura talmudica e cabalistica, una foresta densa e oscura, attraverso la quale solo piedi attentamente addestrati possono vagare in sicurezza. La nostra preoccupazione logica, tuttavia, è solo con le scritture precedenti che raggiungono difficilmente almeno il primo secolo della nostra era; il cupo racconto delle epoche seguenti è significativo solo nell'attestare la presenza costante e l'influenza dominante della Coscienza in questione.
Nell'Antico Testamento è chiaro al di là di ogni cavillo che il centro dell'interesse non sia il mondo in generale, non le leggi della natura o i principi di azione universale, nemmeno le conquiste di individui degni di nota, ma piuttosto l'Origine, la Carriera e il Destino del popolo Eletto di Dio. Dei Patriarchi impariamo poco più dei loro nomi finché non arriviamo ad Abramo concepito come il progenitore specifico della Razza, ed egli è importante solo come un tale “esaltato Padre” del Popolo e come colui che fissa il paradigma con cui i suoi posteri potrebbero essere giudicati per tutto il tempo a venire. Qualcosa di simile si può dire degli altri punti luminosi in questo arazzo protratto a lungo, come l'omonimo Israele (Giacobbe) e il fondatore della dinastia Davide: non brillano in e per sé stessi, ma piuttosto “a titolo di esempio”, sia per l'imitazione che per l'avvertimento, in quanto rappresentanti della vita nazionale unicamente significativa.
Né vale solo per le parti narrative della Scrittura; è manifestamente vero anche per le parti legali. La Torà fu data ad Israele come Popolo, come unità, non fu data al mondo in generale — sebbene naturalmente poteva essere mantenuta solo dall'osservanza dei suoi precetti da parte dell'individuo. Ma quanto profondamente anche quest'ultima fosse sentita come una funzione nazionale, è sorprendentemente dimostrato dal fatto che c'erano un Unico Tempio e Uno soltanto e che tutti i sacrifici dovevano essere offerti là. La possibilità di tale servizio tramontò con la rovina finale di Gerusalemme, nel 135 E.C., ma la sua restaurazione è rimasta da allora la cara speranza di Giacobbe da millennio in millennio ed è stato un problema scottante anche nelle discussioni odierne sul Sionismo.
Non meno dominante, come tutti sanno, è l'Idea di Israele nei profeti; la gloria desiderata e sperata di Sion illumina ogni loro pagina ed è la nota chiave di ogni loro grido. La maggior parte di loro non sapevano nulla di un Messia personale, mentre qualora impiegano la nozione la impiegano rarissimamente e solo come personificazione o simbolo della Nazione trionfante del futuro. Come re conquistatore, l'Unto, la Radice di Jesse, il Figlio di Davide è semplicemente l'Agente, il Sostituto, l'Incarnazione del Popolo stesso. Anche nel Cantico dei Cantici, si riteneva che se la mescolanza meritava posto nel Canone, la passione che celebrava non avrebbe potuto essere altro che la devozione reciproca ed esclusiva di Israele e del suo Dio — i libri di Proverbi, Giobbe e Qoelet (Predicatore) rappresentano apparenti - e in certa misura solo apparenti — eccezioni, che sarebbe fuori luogo discutere qui; si osservi soltanto che qualunque fosse l'originale dell'Uomo di Uz, il devoto lettore ebreo non avrebbe potuto mancare di rilevare la sua somiglianza nel carattere e nel destino con il Popolo Israeliano, non scosso dalle calamità dalla sua unica fedeltà a Dio.
Resta il Libro dei Salmi, in cui il commentario cristiano per molte generazioni ha trovato in modo preminente la Religione dell'Individuo, il grido dell'anima personale al suo Dio, incurante di considerazioni razziali, che si adatta alle labbra di un Padre Pellegrino oppure di un servo della gleba russo come a quelle di Davide oppure di un esule dalle acque di Babilonia. Si è assunto per scontato che l'“io”, in uno qualsiasi dei 100 Salmi che lo impiega, si riferisce quasi se non esclusivamente al suo autore, che riversa la sua lamentela personale al suo Dio personale, con mai raramente un pensiero a qualcosa di diverso da sé. Di tanto in tanto, a lunghi intervalli, si supponeva che qualche forma messianica attraversasse la prospettiva del salmista, che avrebbe annotato in termini più o meno incomprensibili, ma nel complesso si trattava di una preghiera di sollievo dai suoi insopportabili malanni fisici e dalle persecuzioni e afflizioni persistenti dei suoi aggressivi innumerevoli vicini — era questo che saliva al trono di Dio dalla penna del poeta lamentoso. Avrebbe potuto, infatti, inserire un poscritto occasionale che raccomanda Israele anche alla divina misericordia — proprio come un ministro di oggi potrebbe ricordare nella supplica il Presidente e il Consiglio, o forse perfino il Governatore del suo Stato.
Questa inadeguata concezione dei Salmi ha prevalso tra i cristiani quasi incontrastata fino a tempi recentissimi ed è ancora amata teneramente in molti ambienti rispettabili. Recentemente, nel 1912, Emil Balla dell'Università di Kiel ha pubblicato un lavoro abile e interessante su L'“Io” dei Salmi (Das Ich der Psalmen), in cui viene fatta solo una concessione parsimoniosa alla dottrina dell'“Io Collettivo”, vale a dire, come per il salmo 129, gli altri 99 Salmi simili sono tutti spiegati come riferimenti all'individuo, come in gran parte alla maniera delle preghiere assire-babilonesi o dei ringraziamenti per la guarigione dai reumatismi o da altre malattie!
L'interpretazione “Collettiva” era abbastanza familiare agli ebrei, essendo stata riconosciuta dai Settanta nella sovrascrizione alla loro traduzione greca del salmo 56, come anche nei Targum e nei Midrash. Era riconosciuta anche a livello internazionale dai Padri e nel Medioevo. Più tardi sembrò sfuggire quasi completamente alla coscienza cristiana (sebbene mantenuta da De Wette e da Olshausen), fino a quando fu ricordata nel 1888 da Smend nella sua memoria epocale nella Zeitschrift fur alttesteamentliche Wissenschaft (Journal of Old Testament Science). “Sull'‘Io’ dei Salmi”. Da allora è stato accettato da autorità come Reuss e Cheyne, alla fine da Engert, Matthes, Stade, Ehrlich, e in gran parte da una miriade di altri, che ancora avrebbero consentito la presenza di più o meno individualismo in alcuni dei salmi. I critici in numero sempre minore si tengono ancora in disparte e insistono nel considerare l'“Io” come strettamente personale — tra cui studiosi come Baudissin, Bertholet, Budde, Duhm, Gunkel, Koenig e Sellin.
Si potrebbe ben concedere che alcuni Salmi e parti di Salmi fossero stati originariamente scritti come espressioni di sola esperienza personale, di speranze e paure, desideri e sofferenze, devozioni e aspirazioni, di gratitudine ed esultanza. Ma sembra probabile che molti o la maggior parte di quelli furono così modificati e generalizzati da riflettere la coscienza nazionale, prima dell'ammissione alla sacra compagnia delle Sacre Scritture. [2] Quindi può darsi che così tanti siano attribuiti a Davide, che come fondatore della Dinastia reale era ritenuto ergersi e parlare non per sé, ma per tutto il Popolo di Dio. Lascia che il lettore studi quei salmi e noti come il salmista sia oppresso in maniera sovrapersonale e afflitto oltre ogni misura, come le nazioni lo circondino e lo deridano e lo lacerino; come i suoi “nemici” sciamino nella sua dizione (apparendo oltre 100 volte), con i suoi “avversari”, e i suoi “odiatori” e “chi egli odia” (quasi 50 volte); come gli “empi”, i “malvagi”, i “pagani” lo assedino ad ogni svolta; come le onde della calamità lo sommergano, e come sia sostenuto unicamente dalle promesse di Dio verso Israele, con il loro frequente compimento nella storia di Israele. Forte nella parola di YHVH, che non può fallire, il poeta sopporta ogni oltraggio e sfida perfino la morte: “Una bella eredità mi è toccata … Io ho sempre posto il Signore davanti agli occhi miei; poiché egli è alla mia destra, io non sarò affatto smosso. Perciò il mio cuore si rallegra, l'anima mia esulta; anche la mia carne dimorerà al sicuro; poiché tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo prediletto (o santo, o pio) subisca la decomposizione”, Salmo 16:6-10. Chi era il Santo, il Diletto di YHVH? C'è solo una risposta: Israele e Israele soltanto. Da nessuna parte YHVH è concepito come amante dell'Individuo, ma ovunque il Popolo — l'entità nazionale è il Suo tesoro, il Suo amore. Abramo è chiamato “Suo amico”, [3] ma solo come colui che incarna in sé la Razza Eletta.
Ma non è un passo né due né una dozzina a poter rappresentare correttamente il caso per la Coscienza Razziale nei salmi. Si deve leggere tutto o un buon numero di essi per percepire l'atmosfera che pervade e circonda tutti loro, un'atmosfera di sentimento comunitario, di esperienza nazionale, di orgoglio razziale e aspirazione quasi peculiare al Popolo d'Israele e in generale molto lontana da qualsiasi ambizione, speranza o paura personale che avrebbero potuto probabilmente influenzare la mente di ogni “dolce Cantore d'Israele”.
È sembrato che si debba dare al lettore almeno qualche vago assaggio del vero stato del caso, specialmente in una materia in cui l'errore abbonda ed è radicato così saldamente, ma ogni stretto argomento sarebbe fuori luogo e inoltre superfluo, dal momento che la presenza dell'“Io collettivo”, almeno in un grande numero dei Salmi viene ora generalmente concesso, sebbene ci siano molte diversità di giudizio sui dettagli.
Per gli obiettivi del nostro argomento generale, così tanto è ancora più che sufficiente, senza uno studio così minuzioso dei Salmi che potrebbe ritardare il movimento del pensiero e forse stancare il lettore. Sia osservato solamente di passaggio, che il guadagno in dignità, in elevazione, in grandezza morale, in bellezza spirituale, in significato religioso è incalcolabile, quando, invece di egocentriche lamentele e perplessità personali sulle vessazioni e sulle delusioni della vita individuale, riconosciamo in quei salmi lo sdegno, l'agonia, lo sgomento — ma mai la disperazione — del Bardo, dell'Anima Nazionale, dinanzi alle afflizioni spaventose, perenni, incessanti, incomprensibili del Popolo di Israele, il Tesoro di YHVH, il Suo Eletto, il Suo Amico, il Suo Figlio Unigenito, Prediletto. A questo riguardo, e in questo solo, si ergono in alto in solitudine sublime come espressioni di meraviglia, di dolore e di dolore, ma ancor più di Fede, di Speranza e di Amore — da soli nella letteratura dell'umanità.
Le visioni apocalittiche degli ebrei nacquero da questa possessione, come attestano ampiamente gli esempi che verranno citati in seguito, e lo stesso si può dire della successiva letteratura talmudica e cabalistica, una foresta densa e oscura, attraverso la quale solo piedi attentamente addestrati possono vagare in sicurezza. La nostra preoccupazione logica, tuttavia, è solo con le scritture precedenti che raggiungono difficilmente almeno il primo secolo della nostra era; il cupo racconto delle epoche seguenti è significativo solo nell'attestare la presenza costante e l'influenza dominante della Coscienza in questione.
Nell'Antico Testamento è chiaro al di là di ogni cavillo che il centro dell'interesse non sia il mondo in generale, non le leggi della natura o i principi di azione universale, nemmeno le conquiste di individui degni di nota, ma piuttosto l'Origine, la Carriera e il Destino del popolo Eletto di Dio. Dei Patriarchi impariamo poco più dei loro nomi finché non arriviamo ad Abramo concepito come il progenitore specifico della Razza, ed egli è importante solo come un tale “esaltato Padre” del Popolo e come colui che fissa il paradigma con cui i suoi posteri potrebbero essere giudicati per tutto il tempo a venire. Qualcosa di simile si può dire degli altri punti luminosi in questo arazzo protratto a lungo, come l'omonimo Israele (Giacobbe) e il fondatore della dinastia Davide: non brillano in e per sé stessi, ma piuttosto “a titolo di esempio”, sia per l'imitazione che per l'avvertimento, in quanto rappresentanti della vita nazionale unicamente significativa.
Né vale solo per le parti narrative della Scrittura; è manifestamente vero anche per le parti legali. La Torà fu data ad Israele come Popolo, come unità, non fu data al mondo in generale — sebbene naturalmente poteva essere mantenuta solo dall'osservanza dei suoi precetti da parte dell'individuo. Ma quanto profondamente anche quest'ultima fosse sentita come una funzione nazionale, è sorprendentemente dimostrato dal fatto che c'erano un Unico Tempio e Uno soltanto e che tutti i sacrifici dovevano essere offerti là. La possibilità di tale servizio tramontò con la rovina finale di Gerusalemme, nel 135 E.C., ma la sua restaurazione è rimasta da allora la cara speranza di Giacobbe da millennio in millennio ed è stato un problema scottante anche nelle discussioni odierne sul Sionismo.
Non meno dominante, come tutti sanno, è l'Idea di Israele nei profeti; la gloria desiderata e sperata di Sion illumina ogni loro pagina ed è la nota chiave di ogni loro grido. La maggior parte di loro non sapevano nulla di un Messia personale, mentre qualora impiegano la nozione la impiegano rarissimamente e solo come personificazione o simbolo della Nazione trionfante del futuro. Come re conquistatore, l'Unto, la Radice di Jesse, il Figlio di Davide è semplicemente l'Agente, il Sostituto, l'Incarnazione del Popolo stesso. Anche nel Cantico dei Cantici, si riteneva che se la mescolanza meritava posto nel Canone, la passione che celebrava non avrebbe potuto essere altro che la devozione reciproca ed esclusiva di Israele e del suo Dio — i libri di Proverbi, Giobbe e Qoelet (Predicatore) rappresentano apparenti - e in certa misura solo apparenti — eccezioni, che sarebbe fuori luogo discutere qui; si osservi soltanto che qualunque fosse l'originale dell'Uomo di Uz, il devoto lettore ebreo non avrebbe potuto mancare di rilevare la sua somiglianza nel carattere e nel destino con il Popolo Israeliano, non scosso dalle calamità dalla sua unica fedeltà a Dio.
Resta il Libro dei Salmi, in cui il commentario cristiano per molte generazioni ha trovato in modo preminente la Religione dell'Individuo, il grido dell'anima personale al suo Dio, incurante di considerazioni razziali, che si adatta alle labbra di un Padre Pellegrino oppure di un servo della gleba russo come a quelle di Davide oppure di un esule dalle acque di Babilonia. Si è assunto per scontato che l'“io”, in uno qualsiasi dei 100 Salmi che lo impiega, si riferisce quasi se non esclusivamente al suo autore, che riversa la sua lamentela personale al suo Dio personale, con mai raramente un pensiero a qualcosa di diverso da sé. Di tanto in tanto, a lunghi intervalli, si supponeva che qualche forma messianica attraversasse la prospettiva del salmista, che avrebbe annotato in termini più o meno incomprensibili, ma nel complesso si trattava di una preghiera di sollievo dai suoi insopportabili malanni fisici e dalle persecuzioni e afflizioni persistenti dei suoi aggressivi innumerevoli vicini — era questo che saliva al trono di Dio dalla penna del poeta lamentoso. Avrebbe potuto, infatti, inserire un poscritto occasionale che raccomanda Israele anche alla divina misericordia — proprio come un ministro di oggi potrebbe ricordare nella supplica il Presidente e il Consiglio, o forse perfino il Governatore del suo Stato.
Questa inadeguata concezione dei Salmi ha prevalso tra i cristiani quasi incontrastata fino a tempi recentissimi ed è ancora amata teneramente in molti ambienti rispettabili. Recentemente, nel 1912, Emil Balla dell'Università di Kiel ha pubblicato un lavoro abile e interessante su L'“Io” dei Salmi (Das Ich der Psalmen), in cui viene fatta solo una concessione parsimoniosa alla dottrina dell'“Io Collettivo”, vale a dire, come per il salmo 129, gli altri 99 Salmi simili sono tutti spiegati come riferimenti all'individuo, come in gran parte alla maniera delle preghiere assire-babilonesi o dei ringraziamenti per la guarigione dai reumatismi o da altre malattie!
L'interpretazione “Collettiva” era abbastanza familiare agli ebrei, essendo stata riconosciuta dai Settanta nella sovrascrizione alla loro traduzione greca del salmo 56, come anche nei Targum e nei Midrash. Era riconosciuta anche a livello internazionale dai Padri e nel Medioevo. Più tardi sembrò sfuggire quasi completamente alla coscienza cristiana (sebbene mantenuta da De Wette e da Olshausen), fino a quando fu ricordata nel 1888 da Smend nella sua memoria epocale nella Zeitschrift fur alttesteamentliche Wissenschaft (Journal of Old Testament Science). “Sull'‘Io’ dei Salmi”. Da allora è stato accettato da autorità come Reuss e Cheyne, alla fine da Engert, Matthes, Stade, Ehrlich, e in gran parte da una miriade di altri, che ancora avrebbero consentito la presenza di più o meno individualismo in alcuni dei salmi. I critici in numero sempre minore si tengono ancora in disparte e insistono nel considerare l'“Io” come strettamente personale — tra cui studiosi come Baudissin, Bertholet, Budde, Duhm, Gunkel, Koenig e Sellin.
Si potrebbe ben concedere che alcuni Salmi e parti di Salmi fossero stati originariamente scritti come espressioni di sola esperienza personale, di speranze e paure, desideri e sofferenze, devozioni e aspirazioni, di gratitudine ed esultanza. Ma sembra probabile che molti o la maggior parte di quelli furono così modificati e generalizzati da riflettere la coscienza nazionale, prima dell'ammissione alla sacra compagnia delle Sacre Scritture. [2] Quindi può darsi che così tanti siano attribuiti a Davide, che come fondatore della Dinastia reale era ritenuto ergersi e parlare non per sé, ma per tutto il Popolo di Dio. Lascia che il lettore studi quei salmi e noti come il salmista sia oppresso in maniera sovrapersonale e afflitto oltre ogni misura, come le nazioni lo circondino e lo deridano e lo lacerino; come i suoi “nemici” sciamino nella sua dizione (apparendo oltre 100 volte), con i suoi “avversari”, e i suoi “odiatori” e “chi egli odia” (quasi 50 volte); come gli “empi”, i “malvagi”, i “pagani” lo assedino ad ogni svolta; come le onde della calamità lo sommergano, e come sia sostenuto unicamente dalle promesse di Dio verso Israele, con il loro frequente compimento nella storia di Israele. Forte nella parola di YHVH, che non può fallire, il poeta sopporta ogni oltraggio e sfida perfino la morte: “Una bella eredità mi è toccata … Io ho sempre posto il Signore davanti agli occhi miei; poiché egli è alla mia destra, io non sarò affatto smosso. Perciò il mio cuore si rallegra, l'anima mia esulta; anche la mia carne dimorerà al sicuro; poiché tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo prediletto (o santo, o pio) subisca la decomposizione”, Salmo 16:6-10. Chi era il Santo, il Diletto di YHVH? C'è solo una risposta: Israele e Israele soltanto. Da nessuna parte YHVH è concepito come amante dell'Individuo, ma ovunque il Popolo — l'entità nazionale è il Suo tesoro, il Suo amore. Abramo è chiamato “Suo amico”, [3] ma solo come colui che incarna in sé la Razza Eletta.
Ma non è un passo né due né una dozzina a poter rappresentare correttamente il caso per la Coscienza Razziale nei salmi. Si deve leggere tutto o un buon numero di essi per percepire l'atmosfera che pervade e circonda tutti loro, un'atmosfera di sentimento comunitario, di esperienza nazionale, di orgoglio razziale e aspirazione quasi peculiare al Popolo d'Israele e in generale molto lontana da qualsiasi ambizione, speranza o paura personale che avrebbero potuto probabilmente influenzare la mente di ogni “dolce Cantore d'Israele”.
È sembrato che si debba dare al lettore almeno qualche vago assaggio del vero stato del caso, specialmente in una materia in cui l'errore abbonda ed è radicato così saldamente, ma ogni stretto argomento sarebbe fuori luogo e inoltre superfluo, dal momento che la presenza dell'“Io collettivo”, almeno in un grande numero dei Salmi viene ora generalmente concesso, sebbene ci siano molte diversità di giudizio sui dettagli.
Per gli obiettivi del nostro argomento generale, così tanto è ancora più che sufficiente, senza uno studio così minuzioso dei Salmi che potrebbe ritardare il movimento del pensiero e forse stancare il lettore. Sia osservato solamente di passaggio, che il guadagno in dignità, in elevazione, in grandezza morale, in bellezza spirituale, in significato religioso è incalcolabile, quando, invece di egocentriche lamentele e perplessità personali sulle vessazioni e sulle delusioni della vita individuale, riconosciamo in quei salmi lo sdegno, l'agonia, lo sgomento — ma mai la disperazione — del Bardo, dell'Anima Nazionale, dinanzi alle afflizioni spaventose, perenni, incessanti, incomprensibili del Popolo di Israele, il Tesoro di YHVH, il Suo Eletto, il Suo Amico, il Suo Figlio Unigenito, Prediletto. A questo riguardo, e in questo solo, si ergono in alto in solitudine sublime come espressioni di meraviglia, di dolore e di dolore, ma ancor più di Fede, di Speranza e di Amore — da soli nella letteratura dell'umanità.
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Lo scrittore non ha dimenticato che ai confini di questo argomento ci sono molte questioni interessanti e invitanti, come ad esempio i rapporti della Nuova Fede con l'antica mitologia, le astrologie e i misteri, in particolare le innumerevoli fasi della Gnosi, soprattutto la fase docetica, che sembrano guardarci qua e là attraverso così tante espressioni dei Padri e persino delle pagine dello stesso Nuovo Testamento. I sentieri degli astrologi sono piacevoli e sfoggiano molte province fatate, ma sono afflitti da insidie anche per i piedi più cauti; qua e là possono offrire qualche locanda sicura e accogliente, ma sono disseminati di relitti inopportuni e con cartelli che guidano nei fossati e nelle paludi.
Possiamo anche essere sicuri che la mente gentile abbia trasferito nella sua scuola ebraica non poche nozioni mistiche e riti derivati da precedenti associazioni, e potrebbe valere la pena di rintracciarli nei loro luoghi pagani originali; non osiamo dimenticare che nel pensiero di Clemente, il grande alessandrino, il vero gnostico e il vero cristiano erano intercambiabili, e neppure che almeno due epistole importanti (ai Colossesi e agli Efesini) sono tinte profondamente da frasi gnostiche e da pensieri gnostici. Ma nessuna di queste questioni, per quanto interessante, sembra essenziale per la comprensione della Propaganda Primitiva come una invenzione della coscienza ebraica in terreni ellenistici, e qualsiasi trattamento soddisfacente di tali dettagli sarebbe non solo una vasta digressione, ma amplierebbe il volume attuale oltre ogni dimensione giudiziosa.
Ora, quindi, il volume è offerto alla misericordia non convenuta del lettore, non senza speranza che sebbene possa immergerlo possa tuttavia non affondare nella corrente degli anni, ed è in tale rassegnazione al verdetto del futuro che lo scrittore lo lancerebbe silenziosamente nel tempo eterno.
NOTE
[1] Sin dal 139 A.E.C. al più tardi, come documentato in Maccabei.
[2] Nella liturgia ebraica la Preghiera propriamente detta (Tefillah), chiamata anche 'Amidah e più comunemente Shemoneh 'Esreh (dalle sue originarie Diciotto Benedizioni, ora diciannove) — composta sotto la direzione del Nasi Gamaliele, con angoscia amara e intenso desiderio, dopo la caduta di Gerusalemme, dedica sette delle sue petizioni alla speranza messianica e “tutte le preghiere per il benessere individuale, per la prosperità materiale, per la vita, la salute e la ricchezza, sono annegate nella patetica, inestinguibile preghiera nazionale per la restaurazione di Israele esiliato nella terra dei suoi padri”. Altre petizioni abbondano in questo grande libro di preghiere, ma sono tutte “permeate dalla grande, onnicomprensiva speranza, a cui sono veramente subordinate”, che Israele “sia restituito alla sua antica eredità, e che la gloria dell'unico, vero Dio ricolmi la terra”. Greenstone, The Messiah Idea in Jewish History, pag. 285.
[3] Solo in Isaia 48:14 leggiamo di Ciro: “Colui che il Signore ama eseguirà il suo volere contro Babilonia”. Il il testo è corrotto e qualsiasi congettura sarebbe avventata. Ma Ciro è anche chiamato “Suo Unto (Messia, Cristo)”, in quanto ordinato da YHVH a un'opera speciale di Salvezza per Israele. Ancora una volta, in Isaia 38:17 leggiamo: “Ecco, è per la mia pace, ecc. Ma tu, nel tuo amore, mi hai liberato dalla fossa della decomposizione, perché ti sei gettato dietro alle spalle tutti i miei peccati”. Questo però, non è nell'ebraico, ancora meno nel greco dei Settanta. La preghiera è intelligibile solo come il grido del re prima di una guarigione. Il testo ha sofferto profondamente, ma Duhm traduce l'intero verso 17 in questo modo: “Trattieni l'anima mia ... dalla fossa della decomposizione ... E ti sei gettato dietro le spalle ... Tutti i miei peccati” — come richiesto dalla metrica e dal senso, quindi svanisce la presunzione dell'amore di YHVH per l'anima di Ezechia — si potrebbe benissimo notare che nel famoso verso 16:10 citato sopra, la sicurezza contro la morte può essere compresa solo di Israele la Razza, e compresa così formava l'essenza della fede e della speranza della nazione. L'intransigente Balla gli darebbe un riferimento personale inserendo la parola “ora” (jetzt), “tu non abbandonerai ora, ecc.”. Ma questo inserimento è abbastanza ingiustificato e trascura l'intero pensiero dell'intero passo (versi 5-11), che è chiaramente ricolmo dell'idea di permanenza, della permanente sicurezza concessa a Israele dal suo Dio.
[3] Solo in Isaia 48:14 leggiamo di Ciro: “Colui che il Signore ama eseguirà il suo volere contro Babilonia”. Il il testo è corrotto e qualsiasi congettura sarebbe avventata. Ma Ciro è anche chiamato “Suo Unto (Messia, Cristo)”, in quanto ordinato da YHVH a un'opera speciale di Salvezza per Israele. Ancora una volta, in Isaia 38:17 leggiamo: “Ecco, è per la mia pace, ecc. Ma tu, nel tuo amore, mi hai liberato dalla fossa della decomposizione, perché ti sei gettato dietro alle spalle tutti i miei peccati”. Questo però, non è nell'ebraico, ancora meno nel greco dei Settanta. La preghiera è intelligibile solo come il grido del re prima di una guarigione. Il testo ha sofferto profondamente, ma Duhm traduce l'intero verso 17 in questo modo: “Trattieni l'anima mia ... dalla fossa della decomposizione ... E ti sei gettato dietro le spalle ... Tutti i miei peccati” — come richiesto dalla metrica e dal senso, quindi svanisce la presunzione dell'amore di YHVH per l'anima di Ezechia — si potrebbe benissimo notare che nel famoso verso 16:10 citato sopra, la sicurezza contro la morte può essere compresa solo di Israele la Razza, e compresa così formava l'essenza della fede e della speranza della nazione. L'intransigente Balla gli darebbe un riferimento personale inserendo la parola “ora” (jetzt), “tu non abbandonerai ora, ecc.”. Ma questo inserimento è abbastanza ingiustificato e trascura l'intero pensiero dell'intero passo (versi 5-11), che è chiaramente ricolmo dell'idea di permanenza, della permanente sicurezza concessa a Israele dal suo Dio.
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