martedì 30 ottobre 2018

La Nascita del Vangelo — Lo Spirito del Quarto Vangelo

Testimonianza Relativa

CAPITOLO SEI 

LO SPIRITO DEL QUARTO VANGELO

 1. Giovanni contro i Sinottici

A questo punto, il nostro sondaggio potrebbe essere concluso e le nostre conclusioni riunite potrebbero essere presentate, ma per il problema assillante del quarto evangelista. Sembra che appaia ancora un velo di mistero sulle sue espressioni. Certamente, l'inchiesta generale sul suo vangelo è troppo grande per essere affrontata in questo contesto, ma su certe oscurità potrebbe essere possibile gettare un po' di luce. Uno studio inedito che ho fatto sembra dimostrare che un profondo simbolismo numerico regna in quasi ogni capitolo. I numeri non sono mai usati incautamente, ma come 3, 5, 6, 7, 38, 153 sono rivestiti nella mente dell'evangelista di un significato esoterico. La probabilità di questo simbolismo pervasivo equivale a una certezza pratica.
Inoltre, il nostro studio troverà oltre ogni ragionevole dubbio che i Miracoli o “Segni” di questo vangelo sono tutti simboli, che non c'è alcuna realtà biografica da trovare o da cercare in alcuno. Così, la Resurrezione di Lazzaro, con ogni probabilità il principale atto miracoloso nei vangeli, è evidentemente una visualizzazione dell'affermazione nella Parabola di Lazzaro (Senza Aiuto) e del Ricco, Luca 16:31: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. In questa fiaba eloquente il Ricco (Plusios) è chiaramente l'ebreo, “ricco” del favore, della conoscenza, degli oracoli di Dio, e il Senza Aiuto Lazzaro è il misero pagano, che si nutre di briciole di proselitismo ebraico. Eppure il pagano è davvero convertito in tal modo, diventa il Prescelto di Dio, ed è portato in alto nel seno di Abramo, mentre l'ebreo orgoglioso xenofobo viene respinto nelle fiamme dell'Ade. Lì alza gli occhi e vede il Senza Aiuto in paradiso, a cui supplica invano di poter rinfrescare la sua lingua ardente, oppure almeno alla “casa di mio padre” (Palestina), per poter avvertire i suoi cinque fratelli (Samaritani da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvaim, “Così quelle genti temevano il Signore”, 2 Cronache 17:24-41) — ma anzi, “Abramo disse: Hanno Mosè e i profeti”, ecc.
Non è strano che questa pericope appaia del tutto dislocata nel terzo vangelo, senza alcuna connessione [1] in un modo o nell'altro. Luca (o il suo editore?) sembrerebbe averla trovata diffusa in giro sulle ali della fantasia gentile, [2] e aver pensato che fosse troppo bella da perdere, la controparte della sua parabola molto più tenera del Figliol Prodigo e del Figlio Maggiore Rimasto a Casa (il gentile e l'ebreo). Tuttavia sembra che abbia rifiutato di imputare tali sentimenti anti-ebraici al Gesù e di conseguenza l'ha lasciata nel suo vangelo senza alcuna relazione, sospesa nell'aria.
Ma essa non sfuggì all'occhio di Giovanni — come potremmo chiamare il quarto evangelista. Egli riconobbe grandi possibilità nel verso finale e procedette a svilupparla — trasformando la predizione in Storia! Il Senza Aiuto diventa il fratello delle sorelle Marta e Maria (giudeocristianesimo e cristianesimo gentile), muore ed è risuscitato dai morti — per convincere gli ebrei, ed ecco! essi non sono convinti, ma procedono direttamente ai piani assassini contro il Resuscitatore! “Di conseguenza i farisei decisero di ucciderlo” (Giovanni 11:46-53). Qui, quindi, il consiglio farisaico e la determinazione contro Gesù si fanno risalire direttamente e inequivocabilmente a questo miracolo di Lazzaro — laddove un personaggio simile è sconosciuto ad ogni sinottico, è assente dalla “tradizione” evangelica! Ma sicuramente gli autori dei sinottici devono aver saputo del prodigio di Lazzaro se fosse accaduto, devono aver omesso qualche cenno dell'unica meraviglia decisiva. Dobbiamo concludere, allora, con ogni sicurezza che la storia del Senza Aiuto è una pura creazione della fantasia giovannea ispirata dalla Parabola preservata in Luca.
Cosa ora avrebbe potuto essere più istruttivo? L'episodio è il più minuziosamente dettagliato che si possa trovare in qualsiasi vangelo, richiedendo 57 versi, quattro pagine di testo greco, più di quanto non sia dato in Marco, in Luca o in Giovanni per l'intera storia della Crocifissione! Eppure siamo tanto sicuri quanto possiamo esserlo che sia un'invenzione deliberata dall'inizio alla fine, che non serva a nessun altro obiettivo se non a materializzare e oggettivare vividamente una certa idea dell'autore, per lanciarla sullo schermo! Bene, allora, se questo è il caso rispetto a questa narrazione, cosa possiamo supporre, cosa dobbiamo supporre nel caso delle altre? Che diritto abbiamo di assumere una base storica per un singolo episodio, quando il più enfatico e il più vivido di tutti si rivela di fatto senza alcuna parvenza di fondamento?
Questo non è quasi tutto, comunque. La parabola lucana di Lazzaro sembra profondamente tingersi di ostilità verso l'ebreo, ma implica la sua preminenza religiosa precedente e il suo unico favore con Dio. Così anche il quarto vangelo, di origine posteriore, che riecheggia, come vedremo, il risentimento dei credenti del secondo secolo contro gli ebrei non cristianizzati, eppure nel suo unico e solo uso della parola “Salvezza” (4:22), dichiara: “Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei”. Poi nel verso 23, “Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca questi adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità”. Forse non c'è un'enunciazione più chiara in questo vangelo. È la proclamazione di una religione e di una teologia puramente spirituali, insieme all'apparente riconoscimento che ci sono “questi” adoratori sparsi qua e là, che Dio ora “cerca” (nella Propaganda cristiana). Il centro locale di questa vera adorazione è scomparso (l'ora sta arrivando quando né in questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre 4:21), la vera adorazione è in tutto il mondo — tuttavia nondimeno, “La salvezza viene dagli ebrei”!
Questa sembra essere un'affermazione, tanto chiaramente quanto si sarebbe potuto fare nelle condizioni storiche, dell'eterna Guida religiosa di Israele — precisamente la dottrina che abbiamo trovato innestata ovunque nei più profondi organi vitali della Propaganda Primitiva. E tutto questo da una fonte dichiaratamente sfavorevole agli ebrei. Settanta volte Giovanni impiega il termine “giudei” (o “giudeo”), e quasi sempre in una connessione compromettente, sebbene si ammette naturalmente che c'erano alcuni ebrei che credevano. In tutti i sinottici il nome è usato solo per 16 volte; cioè, Giovanni lo usa circa 15 volte così spesso per pagina quanto i sinottici! Allo stesso modo usa Fariseo circa 20 volte, mai in termini favorevoli, ma Sadduceo una sola volta, caricando così tutta la responsabilità sugli ebrei nel loro insieme e sulla parte religiosa più rappresentativa. Ora tutto questo rientra esattamente nella visione qui esposta, che era concessa e si insegnava anche la guida religiosa di Israele una volta per tutte, ma in questo Vangelo niente di più. Era Israele che Dio aveva usato come braccio teso della sua Salvezza (Isaia 53:1) e rivelato a tutto il mondo pagano come suo Sacrificio espiatorio per i peccati di tutta l'umanità — tutta quest'unica funzione, questa supremazia, era ammessa, eppure non trasferiva con sé alcun amore per gli ebrei, e nessun indizio che Dio amasse il suo stesso popolo ebreo!
Attraverso questo inconfondibile spirito giovanneo si spiega l'estrema angoscia dell'evangelista nel tenere nascosta l'allegoria del suo vangelo, e nel presentare il Gesù come un Uomo, come un Individuo — che all'inizio potrebbe sembrare strano in vista della profonda vernice gnostica e mistica che colora tutto il vangelo. In effetti, egli avrebbe oscurato e confuso ciò che non avrebbe negato apertamente. Ha lavorato su tutta la storia evangelica in ogni dettaglio per conformarla a sè stesso, per esprimere le proprie idee — come aveva perfettamente diritto e titolo di fare, visto che il vangelo non era biografia ma una Dottrina Religiosa in primo luogo. Era chiaramente consapevole di fingere i suoi fatti dall'inizio alla fine del suo vangelo. Chi avrebbe potuto scrivere la storia di Lazzaro senza sapere che fosse di sua invenzione? E mentre faceva tutto ciò, enfatizzava ad ogni occasione il personale aspetto individuale del Gesù, e così avrebbe coperto il carattere nazionale-razziale che costituisce la sua natura.
Così, come già visto, ammette che “La salvezza viene dagli ebrei”; egli proclama naturalmente anche la profonda fede fondativa di Israele nell'Unico Dio, ma come la esprime? In una figura estremamente audace che nessuno comprese o poteva comprendere senza sapere il fatto centrale che il Figlio dell'Uomo era l'Israele Ideale Personificato. “Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita”. La carne e il sangue del Figlio dell'Uomo era la sua natura dottrinale o concettuale come Israele Ideale Universale, il Sacrificio Espiatorio per il Peccato (Idolatria). Mangiare la sua carne e bere il suo sangue equivaleva ad accettare e ad assimilare la grande verità salvifica del Monoteismo, che Israele aveva rappresentato così a lungo e così vigorosamente.
Tutti i propagandisti cristiani personificarono questo Concetto sovra-incombente, ma Giovanni avrebbe superato tutti gli altri nel dargli un'espressione intensamente umana e fisica, oltrepassando e mascherando al massimo l'idea nazional-razziale. Che i suoi sforzi non siano riusciti a nascondere il concetto che nascondono, è la prova più evidente sia della presenza effettiva dell'idea basilare, sia della totale assenza di qualsiasi elemento strettamente biografico che poteva essere utilizzato nella sua struttura. Se aveva conosciuto fatti reali di una vita che egli avrebbe dipinto in modo così vivido, sembra inconcepibile che non li avesse impiegati, ma fosse ricorso invece a una fabbricazione così trasparente come quella con cui ricolma capitolo dopo capitolo del suo vangelo — poiché questa è la confessione della critica da ogni prospettiva.

2. Solo il Significato Significa

Ancora una volta, possiamo capire ora un altro fatto che ha reso perplesso almeno il presente scrittore per parecchi anni. Nulla sembra più evidente dell'estrema insistenza del Gesù giovanneo nell'esposizione di una dottrina apparentemente ritenuta di importanza trascendente, di un'importanza di vita o di morte. Pagina dopo pagina è data a questa esposizione. Più e più volte ci viene assicurato che questa dottrina è totalizzante e oltre lei non c'è nessun'altra. Il lettore continua da un capitolo all'altro, desideroso di ascoltare il messaggio vitale: ma non lo sente, almeno non con parole che si comprendano apertamente. Nell'ultimo verso è lasciato ad agognare come nel primo. Chiunque può verificare questo da sé mediante un'attenta lettura non pregiudicata in una sola seduta. Così, per una  lettura del genere, comincia col primo capitolo:
Il capitolo 1 si apre simile ad un oracolo riguardante il Logos, con parole audaci e imponenti, ma non insegna niente di sorta — infatti chi o che cosa era il Logos? Nessuna risposta. Non insegna una profonda lezione spirituale vedere un uomo all'ombra di un fico (1:48).
Nel capitolo 2, il miracolo di Cana! In un simbolo (della Spiritualizzazione dell'Ebraismo da parte del Gesù, l'acqua di semplici riti e cerimonie trasformata nel vino dello Spirito) può avere un significato, ma detta letteralmente è come un insegnamento un semplice nulla. Che abbia paralleli pagani è noto da tempo ed è anche privo di significato didattico. La purificazione del Tempio è un altro simbolo di questo genere, effettivamente concepito, della Spiritualizzazione (dell'Ebraismo) provocata dal cristianesimo. Altri hanno delucidato in modo abbondantemente chiaro che il Tempio reale non era così profanato [3] e non richiedeva una purificazione del genere. Ma anche se fosse strettamente storico, l'episodio sarebbe stato didatticamente insignificante. Le parole misteriose, “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, non potrebbero essere state pronunciate, ma furono necessariamente scritte dopo l'evento.
Veniamo ora (Giovanni 3) alla famosa conversazione con Nicodemo  — un tessuto di equivoci. La risposta nel verso 3 non ha pertinenza di sorta, ma si limita a descrivere il dogma familiare del proselitismo ebraico, che un gentile deve essere battezzato e rinascere come un bambino innocente prima di poter entrare pienamente in Israele, “il regno di Dio”. L'incomprensione di Nicodemo è abbastanza incredibile. Ma a parte questo, cosa insegna la discussione? Niente. Si limita ad affermare la necessità di una nascita spirituale, ma non dice altro. Il verso 10 è incomprensibile a meno che “quelle cose” siano solo dottrine ebraiche familiari rivestite di parole misteriose. I versi seguenti (11-21) sono semplicemente asserzioni su asserzioni di proposizioni mistiche che non potevano essere né negate né accettate, e non potevano fornire all'ascoltatore alcuna informazione o istruzione di sorta. Ciò che è detto del Figlio di Dio potrebbe figurare in modo eloquente sulle labbra di un predicatore del vangelo del secondo secolo, ma sulle labbra di Gesù all'inizio del suo ministero non ha alcuna percettibile idoneità. Quasi lo stesso si può dire del prossimo episodio e discorso (22-36). Le parole del Battista potrebbero esprimere correttamente le riflessioni di un mistico di una generazione successiva; come pronunciate dal Battista sembrano poco credibili, e in ogni caso erano mere asserzioni senza alcun tentativo fondativo. Fanno appello solo a una fede già formata.
Allo stesso modo (Giovanni 4) l'episodio dettagliato della donna samaritana. Rappresenta il Gesù come se parla con un velo spesso davanti al suo volto, suggerendo oscuramente verità meravigliose che non sono mai espresse. Forse l'affermazione più chiara è (verso 18), “Tu hai avuto cinque mariti” (le cinque nazioni assire che si insediarono in Samaria e “quelle genti temevano il Signore”, 2 Re 17:24-41). I famosi detti circa il vero culto spirituale sono consegnati con solennità reverenziale, ma non ci insegnano nulla di nuovo. [4] “Dio è spirito” era stato insegnato da secoli; “Signore degli Spiriti” è la frase preferita di Enoc. I versi seguenti contengono vari enunciati criptici, come “i campi ... già biondeggiano per la mietitura” (ben detto delle condizioni di attesa del mondo pagano, della sua prontezza nel ricevere il messaggio della salvezza monoteista) — tutte cose che possono essere intese come riflessioni di anni successivi, ma hanno pochissima adeguatezza sulle labbra di Gesù all'inizio del suo ministero e certamente non ci rivelano alcuna importante verità spirituale.
Il verso 44 disorienta: “Ma Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria” (Galilea?) — come una ragione per andare in Galilea! Questo viene inserito tra due resoconti della fede, uno da parte dei samaritani (39-43), l'altro da parte dei Galilei (45). Nessun accenno di incredulità da parte di alcuno! E quale era la “sua patria”? Ancora una volta, nessun suggerimento! Ciò diventa significativo su una supposizione: che abbiamo qui un'allusione oscura all'accettazione gentile del cristianesimo e al suo rifiuto da parte degli ebrei della Palestina (in particolare della Giudea). L'implicazione sembrerebbe essere che la Giudea, e non la Galilea, fosse “la sua patria” — direttamente contro i sinottici, e comprensibile solo riconoscendo il Gesù come una personificazione di Israele dimorante in Giudea. Si noti che i Galilei credettero (lo ricevettero) “poiché avevano visto tutte le cose che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa” (45). Questo ripete semplicemente 2:23, ma è stranamente silenzioso su quali fossero le “cose” che fece. I sinottici non raccontano nulla di questa “Pasqua”, apparentemente un'invenzione di Giovanni.
Il “secondo segno”, la guarigione del figlio del nobile a Cafarnao (Giovanni 4:46) insegna solo la completa efficacia della fede (monoteista) e in particolare non mostra il minimo sentimento umano da parte di Gesù. Il quinto capitolo riguarda unicamente il terzo segno, la guarigione presso la piscina di Betesda e le sue conseguenze, in particolare i discorsi di Gesù (19-47). Che lo storpio (per 38 anni) simboleggiasse l'umanità impotente per 38 secoli (l'età ebraica del mondo) sembra trasparente. Si noti il duro risentimento nell'espressione “i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo” (18), rispetto al riconoscimento di Mosè, che “di me egli ha scritto” (46). Ma dove e cosa scrisse Mosè di un falegname di Nazaret? Di cosa scrisse? Qual era il suo unico interesse? Il Popolo d'Israele. “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Esodo 4:22). Ecco allora di nuovo l'antico paradosso: l'Agente di Dio della Salvezza del Mondo, Suo Figlio, è il Popolo Ideale Israele. Questo l'evangelista lo riconosce, anche se lo confonde al massimo. Ma il Popolo reale (temporale, transitorio), gli ebrei, sono proprio quelli che respingono la Propaganda — e sembra che a causa di questo egli li condanni. Non abbiamo bisogno di soffermarci sul lungo discorso — una serie di affermazioni mistiche al di là della minima discussione o comprensione, a causa della totale assenza di qualsiasi pretesa di spiegazione o di dimostrazione.
Vi segue (Giovanni 6:1-15) il quarto segno, il miracolo dei pani e dei pesci. Il lettore imparziale non può dubitare che qui ancora una volta ci sia un puro simbolismo, sui cui dettagli non è necessario soffermarsi. L'irrealtà dell'intera situazione risplende in verso dopo verso (come 3, 4, 5, 10, 13, 15). È molto probabile che l'evangelista abbia nascosto il significato mistico in tutti quelli strani elementi, ma è anche possibile che ne abbia inserito alcuni solo per amor di particolarità, per rendere il resoconto più plausibile e pittoresco. 
Osservazioni simili si applicano al quinto prodigio, la camminata sul mare (16-21), che sembra tuttavia difficilmente più meraviglioso della partenza di tutti i 5000 e dei discepoli, attraverso il mare, lasciando il Gesù assolutamente solo sulla Montagna! Sicuramente l'evangelista deve intendere qualcosa con un evento così prodigioso, ma non dobbiamo discutere di cosa, e neppure circa l'episodio della passeggiata sulle onde, che ogni occhio aperto deve percepire subito come unicamente simbolico. Il discorso seguente, con i suoi eventi preparatori (22-40), tutti assolutamente incredibili, afferma semplicemente la necessità della Fede in Lui, senza alcun tipo di motivazione di sorta. Tutto è occulto al massimo grado e del tutto incomprensibile se pronunciato a proposito di qualche Individuo. Si potrebbe capire a proposito dell'Israele Ideale come Figlio di Dio (Osea 11:1 e i salmi), Ma difficilmente altrimenti. Mangiare manna e morire nel deserto (come fecero i “padri”) può essere inteso come un contrasto tra l'Israele reale (gli ebrei) e l'Israele Ideale, lo Spirito Eterno che illumina il Mondo. Ma su questo non abbiamo bisogno di insistere. Chiaramente, non viene insegnato nulla che la moltitudine possa imparare.
Le due parti successive (41, 52) danno al caleidoscopio un'altra prospettiva. Non è strano che sia ora ammesso dall'evangelista che la dottrina sia contro il senso comune (60, 66). Potremmo davvero assimilarla alle riflessioni di un mistico, un secolo dopo, che avrebbe oscurato il Paradosso stupefacente dell'Israele reale e dell'Israele ideale, ma come l'autentico insegnamento di qualche Individuo storico a una folla di ascoltatori sparsa nei campi, sembra del tutto impossibile.
 Il settimo capitolo avrebbe quasi approfondito l'oscurità di mezzanotte. I suoi “fratelli (l'Israele reale) non credevano in lui”, ma lo esortano ad andare alla festa dei Tabernacoli, in Giudea. Ma lui rifiuta positivamente, dichiarando: “io non vado a questa festa” (8). Eppure “vi andò anche lui; non apertamente però: di nascosto” (10). Una contraddizione evidente, che ha scioccato i sentimenti dei primi lettori. Di conseguenza troviamo in alcuni manoscritti la parola oupo (non ancora) inserita nel verso 8 dopo ouk (non); ma questo è inutile e ridurrebbe il tutto alla banalità. Ci si meraviglia però, a prima vista, del fatto che l'evangelista imputerebbe deliberatamente una menzogna a Gesù — è incomprensibile, in realtà, se per “il Gesù” intendesse veramente un Uomo, un individuo. Non è così, comunque, se per “il Gesù” indicasse non tanto un personaggio storico quanto un processo storico, il Genio di Israele che opera nel corso dei secoli, rivestito ora in questo momento in quella veste carnale, e solo negli ultimi giorni riconoscibile chiaramente come la Figliolanza Eterna ed Universale dell'Uomo verso Dio. Le regole della moralità individuale potrebbero non applicarsi ad un “personaggio soprannaturale” del genere.
Le parti successive non gettano alcun raggio di luce su questa “oscurità visibile”. L'insegnamento continua tanto oscuro quanto possono renderlo le parole. Ci sembra qualcosa di simile a  sottile ironia nella risposta al fatto che “i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo”: “Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo”. Ma è verità letterale e forse intesa come tale. Sicuramente nessun uomo fisicamente reale, a prescindere dalle circostanze, parlò mai in questo modo. Di un grande Maestro che avrebbe portato luce nel mondo è abbastanza incredibile. Inoltre, i persistenti tentativi dei farisei nel mettere le mani su di lui, sempre seguiti da un fallimento per nessuna ragione comprensibile, se presi alla lettera, sarebbero semplicemente ridicoli. Tuttavia, affiorano poche scintille di suggerimento. È la Missione ai Gentili che incide nel pensiero dell'autore. Da qui la domanda (verso 35), “Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e ammaestrerà i Greci?”. Qui il significato nascosto comincia ad emergere — ovviamente, ancora sotto uno spesso travestimento. Un'altra allusione di questo tipo nel verso 49; i farisei chiedono alle guardie che sono tornate a mani vuote: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta”. Come potevano perfino i farisei denunciare una folla venuta da lontano a Gerusalemme, in obbedienza alla legge, alla Festa dei Tabernacoli? Non è questa moltitudine maledetta che sta ignorando la Legge se non un criptico nome per indicare il Mondo Gentile, che tuttavia Dio così tanto amò da dare per loro il suo Figlio unigenito (il Suo Israele, il Suo Eletto)?
Un'altra parte di questo oscuro capitolo ci invita a soffermarci e a prendere in considerazione — la scena del grande ultimo giorno della festa (37-44). “Il Gesù” si alza e grida ad alta voce: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo interno”. [5] Altrimenti, con un'altra punteggiatura, “e beva chi crede in me; come dice la Scrittura, ecc.”. Il riferimento al “suo interno” sarebbe quindi a “Gesù” stesso, come la fonte di acqua viva. Non possiamo discutere la punteggiatura qui; lascia che il lettore scelga. Certo, l'“acqua viva” simboleggia lo Spirito, ma uno avrebbe bisogno di essere più ortodosso di Swift e proprio altrettanto osceno nel gustare l'allegoria, che i traduttori successivi avvolgono nella frase “dal suo seno” al posto della traduzione letterale presentata. La Scrittura citata non si trova da nessuna parte proprio in queste parole. In Isaia 44:3 il “Giacobbe mio servo, o Iesurun che io ho scelto” è consolato con la promessa: “poiché io farò scorrere acqua sul suolo assetato, … Spanderò il mio spirito sulla tua discendenza”, che avrebbe almeno fissato il riferimento a Israele.
Di nuovo in 55:1, “O voi tutti assetati venite all'acqua”. Duhm ci assicura che il significato è lo stesso di 44:3, la restaurazione dell'effettivo favore di YHVH, “la sicura misericordia di Davide” — si noti — “Davide, ossia, la sua casa e il suo regno”, dice Duhm, cioè, lo Stato d'Israele. Un po' meno vago è 58:11, “E tu (Israele) sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono”. Qui, finalmente, Israele è diventato una sorgente o corrente che fluisce. Così in Ezechiele 47:1-12 troviamo la visione delle acque sempre più profonde della vita che sgorgano da sotto il Tempio, “perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà”, un emblema di Israele (o della Religione di Israele) come il Guaritore del mondo. Alquanto allo stesso modo Zaccaria 14:8: “In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme”, per metà ad oriente e per metà ad occidente su tutta la terra. Anche nel Cantico dei Cantici (inteso a proposito di YHVH e Israele), “Tu (Israele) sei una fontana di giardino, una sorgente d'acqua viva, un ruscello che scende giù dal Libano”, 4:15.
Questa metafora passò agli Apocalitticisti. Così 4 Esdra 5:25 (parlando del favore di Dio a Israele), “di tutti gli abissi del mare riempisti per Te un solo rivo”, e ancora nella visione di Baruc della Foresta, della Vite, della Fontana e del Cedro (capitolo 36), dove Israele è considerato doppiamente come un Vite e una Fonte: “e da sotto ad essa usciva una fonte, in quiete. E quella fonte giunse fino alla foresta e divenne grandi onde, e quelle onde inondarono la foresta e in un attimo sradicarono la moltitudine di quella foresta” (3, 4). Così, anche nelle Aggiunte al Libro di Ester, nel sogno di Mardachai, 11:10: “E loro (Israele) gridarono a Dio, e dalle loro lacrime di dolore si levò come se fosse scaturito da una piccola fonte una grande corrente di molta acqua”. La fonte è già stata interpretata, alla fine del verso 10:6: “Ester è la corrente, lei, che il re ha fatto sua moglie e sua regina”, ma Ester sembra rappresentare il Popolo Ebraico. È chiaro, quindi, che la Fonte e le Acque vive sono solo nomi per il Popolo Eletto. L'evangelista ha questo in mente ma è un po' perplesso su come introdurlo in modo appropriato nella sua immagine personale; eppure deve forzare l'idea in qualche modo, anche se solo con l'uso di immagini maldestre, che comunque ritraggono Israele.
La Festa era quella dei Tabernacoli, per commemorare la vita nomade di Israele nel deserto prima dell'insediamento in Canaan. L'ottavo giorno è il 22° di Tisri (13 ottobre), un giorno di “solenne assemblea” (Numeri 29:35). In ciascuno dei sette giorni precedenti il sacerdote aveva portato acqua in una ciotola d'oro, trattenendo un litro, da Siloe, e lo aveva versato in libagione al sacrificio del mattino mentre la moltitudine cantava Isaia 12:3: “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza”. All'8° giorno questo rito sembra essere stato omesso; quindi i commentatori come Lange ci dicono che la gente sentì il bisogno o l'assenza di acqua! e che Gesù afferrò il momento propizio per proclamarsi come la vera Sorgente! Che il mistico meditabondo, un secolo dopo, si immergesse nelle allusioni dell'Antico Testamento a Israele come la sorgente di acque vive, dovesse cogliere questa occasione nel suo racconto per esporre la propria concezione del Gesù-Israele idealizzato come quella Sorgente, sembra abbastanza probabile; ma immaginare che il Falegname Nazareno facesse così e gridasse alla folla in tali immagini (come un metodo di insegnamento) sembra troppo grottesco per essere preso in considerazione. Questi passi sono importanti soprattutto per mostrare quanto sia sciocco prendere alla lettera le parole dell'evangelista.
Il famoso episodio della donna colta in adulterio (Giovanni 8:2-11) rivendica la nostra attenzione. Senza dubbio interpolato, è ancora nello spirito giovanneo e ben trovato. È un tentativo coraggioso, ma non del tutto riuscito, di superamento del tipo dell'Antico Testamento, di raffigurare un Salvatore al di là del Suggerimento Scritturale. La donna è chiaramente il mondo gentile idolatra (adultero); l'abbandono furtivo dei suoi accusatori, per il rimorso della coscienza, denoterebbe le frequenti deviazioni di Israele dal monoteismo. Non è strano che l'Israele Ideale dovesse rimproverare l'Israele Reale; i profeti non rimproverarono perfino i re, molto più la gente? L'invenzione non dominava completamente la mente della chiesa; in alcuni manoscritti trovò posto alla fine del quarto vangelo, in altri in Luca, tra i capitoli 21 e 22, e nella maggior parte non vi trovò posto. Anche se non è giovannea nella sua dizione, potremmo ancora considerarla un ramoscello sull'albero della “genuina tradizione evangelica”, una piccola stravaganza nella sua crescita, motivo per cui la maggior parte degli antichi scribi l'avrebbero omessa. Un esempio estremamente istruttivo.
Nella conversazione che segue (Giovanni 8:12-89) il tono è esattamente lo stesso che in così tanto di questo vangelo, infausta denuncia e suprema autoaffermazione, senza mai il minimo barlume di prove di alcun tipo. Nel verso 30 leggiamo “Molti credettero in lui”. Non si rallegra? — infatti questo credo era l'unico oggetto del suo insegnamento, il requisito per la salvezza e la vita eterna. Ma lungi dal rallegrarsi, egli conduce immediatamente quei credenti nelle paludi dell'incredulità, mediante il fuoco fatuo di affermazioni equivoche, come “la verità vi farà liberi” (32) e le ambiguità su Abramo (37), che passano presto alla immotivata denuncia di quelli stessi credenti come figli del diavolo (44)! Quale può essere la spiegazione? Sicuramente può essere solo l'atteggiamento antisemita della Chiesa del secondo secolo! Mentre lo scrittore condanna l'Israele reale, riconosce ancora la posizione e la missione uniche dell'Israele Ideale come Figlio di Dio, “la luce del mondo” (12), dei gentili, come in Isaia.
Questo capitolo si conclude con la frase: “Prima che Abramo fosse nato, io sono. Allora essi presero delle pietre, per lanciarle addosso a lui; ma Gesù si nascose (in senso stretto `fu nascosto´) e uscì dal tempio, passando in mezzo a loro, e così se ne andò”. Sicuramente fu incredibile per chiunque scrivere qualcosa di simile come Storia reale: una grande folla nel Tempio, che afferra pietre (che giacevano attorno sparse nel Tempio!), per lapidarlo, ma egli si nasconde e se ne va illeso (come aggiungono molte autorità antiche, “e andando in mezzo a loro andò per la sua strada, e così passò”)!  Cosa avrebbe potuto essere più incredibile? E l'evangelista non sapeva che lo fosse? Perché allora lo scrisse? L'unica risposta razionale sembra essere che si preoccupava solo di idee e non si preoccupava dei fatti, che egli modellava come stucco per esprimere i suoi pensieri. Quale era, allora, la sua idea in questo contesto? È difficile da dire, ma forse ciò che aleggiava nella sua mente mistica potrebbe essere la nozione del Sé inconscio “nascosto” di Israele che abbandona  l'antico Popolo e l'antico Culto e passa indenne nel più Ampio Mondo Gentile che “Dio così tanto amò” da sacrificare il suo stesso Figlio (il Popolo d'Israele) per riscattarlo.
Il nono capitolo apporta un certo sollievo nella storia del sesto segno, il miracolo della guarigione del nato cieco. Questo possiamo afferrarlo abbastanza facilmente, in quanto un simbolo trasparente dell'illuminazione gentile del vangelo predicato a tutti, come risplende nelle parole ripetute: “Io sono la luce del Mondo” (come era Israele solo, Isaia 42:6, 49:6 , 60:3, ecc.). Ai dettagli siamo meno interessati, come alla parola Siloe (“inviato”), ma si deve notare che ogni peccaminosità del cieco è respinta: la cecità era solo una parte del Piano Cosmico di Dio per esibire la Sua propria opera nel grande dramma della Salvezza. Una concezione estremamente straordinaria — che non deve però distoglierci dal nostro cammino.
Gli episodi e le conversazioni seguenti (Giovanni 9:13-41) hanno lo scopo di vivificare il quadro e di confermare l'iniquità degli ebrei, a cui l'ostilità diventa via via più chiara man mano che il vangelo svela la sua supplica. Il più notevole è il verso 39: “Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Questo sembra davvero chiaro come mezzogiorno: si riferisce e può riferirsi solo all'anomalia paradossale della Storia come si vede nella dottrina cristiana, allo scambio di posti tra l'ebreo e il gentile, alla reincarnazione dell'Anima di Israele non più nei figli di Sem ma in quelli di Jafet! Questo è davvero ciò che ossessiona il cuore dell'Apostolo nei capitoli 9-11 di Romani, dove sarebbe felicemente maledetto da Cristo per amore dei suoi fratelli (9:3), dove alla fine grida ad alta voce (11:26-36), “allora tutto Israele sarà salvato” dal momento che Dio “ha per tutti misericordia” e solleverà in alto il grido esultante, “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!” Ma l'evangelista assume un atteggiamento più severo: “il vostro peccato rimane” (9:41).
Il decimo capitolo si apre con la metafora mista e la dottrina recondita della Porta, delle Pecore e del Pastore. È difficile pensarlo come un'unità; come la stessa entità possa essere allo stesso tempo sia Porta che Pastore è sconcertante.  Non c'è da stupirsi che “essi non capirono” (6). “Io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (7-9). Di nuovo “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore” (11, 17). Segue la storia del mercenario che fugge alla vista del lupo. Tutto questo è una recondita misura passata, ma ci viene rammentato fortemente Enoc e il suo lungo resoconto del Gregge (Israele) e dei Settanta Pastori infedeli, e del trionfo finale del “Signore delle Pecore” (89:59). Sicuramente questo deve essere stato nella mente dello scrittore, e deve aver percepito che Enoc stava parlando del Popolo Eletto Israele, perché dice: “ho altre pecore che non sono di quest'ovile ...  diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (16). [6] Il prof. Charles ammette l'influenza di Enoc in almeno altri cinque passi di questo vangelo (2:16, 5:22, 27, 12:36, 14:2), quindi non è strano che sia presente anche qui. Come non c'è nient'altro in Enoc più oscuro dei Settanta Pastori, così in questo vangelo non c'è nulla di più confuso di questa pericope della Porta e del Pastore. Risiede al di fuori della nostro scopo considerare se sia intercalato.
Segue l'episodio nel “Portico di Salomone”. Gli ebrei si radunano intorno al “Gesù” e dicono: “Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente” (24). Sicuramente una richiesta più rilevante e naturale. “Gesù rispose loro: Ve l'ho detto e non credete” (25). Ma quando e dove? La parola Cristo è stata effettivamente usata già 14 volte, ma mai dal “Gesù”. Quindi seguono le osservazioni di condanna, “ma voi non credete, perché non siete mie pecore” che “nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (26-30). Non è facile immaginare un discorso più provocatorio o meno soddisfacente, a meno che non siano i versi 32-38, dopo che “i Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo” (31); dopodiché “cercavano allora di prenderlo di nuovo, ma egli sfuggì dalle loro mani” (39). Nella mente dell'autore questa fuga ripetuta dalle loro mani, dove la fuga sembrerebbe impossibile, deve essere stata immaginata come un miracolo, anche se non rappresentata tra i segni ufficiali, sette di numero.
Alla fine veniamo (Giovanni 11) all'evento culminante di questo singolare ministero, la Resurrezione di Lazzaro. Già vi abbiamo accennato, e sulla base dell'evidenza dimostrando che si tratta di una pura invenzione dall'inizio alla fine — la sua parentela, la sua malattia, la sua morte e la sua resurrezione — per adempiere la predizione che trovava nella parabola lucana di Lazzaro (16:31): “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. Dobbiamo notare, di passaggio, che l'evangelista non esita a porre un seconda menzogna sulle labbra di Gesù: “Questa malattia non è per la morte” (11:4), mentre in seguito dice “apertamente, Lazzaro è morto” (11:14). Naturalmente, si potrebbe dire, “ma il Gesù intendeva farlo rivivere fin dall'inizio”. Senza dubbio, ma questo non può modificare l'errore sul suo non morire. La migliore spiegazione va cercata seguendo le linee già stabilite nel trattare una simile variazione dalla verità nel verso 7:8. Certamente l'autore non intendeva attribuire alcuna obliquità morale al “Gesù”, ma piuttosto esaltarlo nelle regioni della super-personalità e della super-moralità. Notiamo anche la netta identificazione di Maria di Betania con la donna “che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli”, come nel capitolo successivo 12:3.
Ma Luca (7:36-50) precede questa unzione di molti mesi e lo attribuisce a “una peccatrice”, in nessun modo alla sorella di Marta. Marco 14:3 e Matteo 26:6 localizzano entrambi l'episodio a Betania nella casa di Simone il lebbroso, e attribuiscono l'unzione a “una donna”, che difficilmente poteva essere la sorella di Marta, nella cui casa apparentemente Giovanni colloca l'unzione, non nella casa di Simone il lebbroso (12:2) — sembra difficile pensare a Marta mentre “serve” nella casa di un lebbroso sconosciuto.
Qui, dunque, non si tratta di una falsificazione dei fatti, ma di una gestione perfettamente libera di idee familiari per soddisfare il capriccio dell'autore — a cui non c'è obiezione né morale né logica. È notevole il fatto che l'evangelista sembra aver cercato in tutti i modi di rendere questa storia patetica e vivida, con quale successo si può lasciare il lettore a giudicare. Almeno una cosa è certa, che non ci viene insegnato nulla di ciò che è comprensibile circa qualsiasi personaggio storico, sia esso naturale o “soprannaturale”.
Degli episodi nel capitolo 12, abbiamo bisogno di aggiungere poco; sono stati trattati altrove e non si basano direttamente sulla nostra presente indagine — nella testimonianza del Gesù giovanneo concernente sè stesso nella misura in cui si appella alla comprensione comune. L'episodio della visita dei Greci e della loro richiesta è notevole come illustrazione dell'insignificanza abituale dei discorsi giovannei del Gesù, che parla quasi sempre come se si rivolgesse a sé stesso. Nessuno che abbia ascoltato le sue parole che seguono (23-36) avrebbe potuto rilevare la minima pertinenza alla circostanza. L'evangelista sta ancora sognando lungo le linee isaianiche dell'Unico Grande Mistero, la Metempsicosi dell'Israele Ideale dall'ebreo al gentile; egli immagina la visita dei Greci per fornire uno scenario alle sue riflessioni personali sulla meraviglia, e mette quelle riflessioni sulle labbra del “Gesù”. L'occorrenza di parole chiave è notevole. “Figlio dell'Uomo” è in testa alla lista, l'Israele Ideale; “il chicco di grano, ecc.”, ci ricorda la nozione di Enoc sulla semina di Israele (“E la congregazione dei santi e degli eletti sarà disseminata”) (62:8). Questa semina è qui considerata come una sepoltura (naturalmente, l'idea che il grano debba morire per germogliare e dare frutti è il contrario della verità, ma non possiamo richiedere dall'evangelista di essere un biologo). Questa sepoltura si riferisce all'umiliazione nazionale di Israele, da essere seguita dalla sua glorificazione spirituale in un mondo pagano convertito; “”, naturalmente, ricorda Daniele ed Enoc; “ora è il giudizio di questo mondo” riecheggia la concezione di Isaia di Israele come “la luce dei Gentili”, così come lo ricorda “la luce tra voi” (veri israeliti, 36). Che Isaia sta dominando il pensiero dello scrittore appare nel fatto che il profeta è citato espressamente due volte e nominato tre volte nei versi 38-41: “vide la sua gloria e parlò di lui”.
 La non-storicità dell'insieme affiora nelle parole: “Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro”, seguite immediatamente (poichè i versi intermedi sono le riflessioni dell'evangelista) da “Gesù allora gridò a gran voce: Chi crede in me, ecc.” (36, 44). Questo nascondere (o meglio nascondersi) è difficile da capire di un Uomo Gesù, ma si spiega quando si riferisce al grande Paradosso, al Mistero della Salvezza, al nascondimento del Figlio dell'Uomo. Inoltre, ci si chiede a chi gridò? dal momento che si era appena nascosto. Il “grido” richiama ancora una volta il Credo e proclama Gesù come “una luce venuta nel mondo” (“Israele, luce dei gentili”, Isaia), ma non c'è nessuna pertinenza didattica, nessuna dimostrazione, nessun progresso nel pensiero.
Il capitolo 13 si apre con il lavaggio dei piedi del discepolo (3-12), un atto simbolico spiegato nei versi seguenti 13-20, il tutto a formare uno dei passi più comprensibili nel vangelo. Ma l'ovvia lezione di servizio e di umiltà è stranamente annebbiata con oscuri riferimenti all'avvicinarsi di colui che lo consegnerà (non del Tradimento). Su quelli non possiamo soffermarci, ma almeno certe espressioni richiedono una menzione. La scena (21-30) è stata immortalata dal pennello del principale dei geni moderni, e la caratteristica speciale è il discepolo che Gesù amò, sdraiato sul petto di Gesù (23). Anche se si accetta questo simbolismo profondo come mero dato di fatto, sorgeranno dubbi, Chi era questo discepolo? Perché il Gesù lo amò? Non amava tutti (con una possibile eccezione)? Tutti i tentativi di identificare questo discepolo (sconosciuto ai sinottici) come individuo si sono rivelati abbastanza futili. Al presente scrittore sembra simboleggiare o il mondo (gentile), oppure più probabilmente quella particolare fase della fede cristiana rappresentata dall'evangelista stesso, che favoriva i pagani e si opponeva agli ebrei. La parola Mondo (Kosmos) è usata con parsimonia nei sinottici: 9 volte in Matteo tre volte ciascuno in Marco e in Luca, con poca particolarità per suscitare attenzione. In Giovanni è usata 75 volte, e in 47 di queste il senso è “metaforico”, come in “Dio infatti ha tanto amato il mondo” (3:16). Di nuovo, in 92 versi della Prima Lettera di Giovanni (più giovannea del vangelo stesso) è usata 22 volte, 16 volte in “senso metaforico”. Tutto questo può essere casuale? Sicuramente no. L'insegnamento giovanneo deve avere un particolare interesse per “il mondo”. Un esame più attento dei testi — per i quali non c'è spazio qui — dimostrerebbe che l'evangelista ha quasi sempre in mente il paganesimo, sia nel suo stato convertito che nel suo stato non convertito. Questo duplice aspetto potrebbe in qualche modo confondere il lettore moderno, ma non fu affatto disdicevole per l'evangelista, che si rallegra non meno di Hegel in simili antitesi.

3. Scene Finali

Dopo la dipartita di Giuda (l'ebreo), Gesù per la prima volta si rivolge ai discepoli come “figlioli” (33). È ancora un semplice episodio? Come ben si sa, l'espressione era regolarmente usata per designare proseliti pagani, “bambini in Cristo”. Se Giuda sta per Giudeo (Iudas per Iudaios), allora il caso diventa chiaro: essendosene andato l'ebreo, i gentili sono chiamati con un nome particolare e appropriato. Notiamo anche che Giuda è stranamente rappresentato mentre regge “la borsa”, i contributi per la Festa o forse per i poveri (29). Questo richiama vividamente gli Atti, dove leggiamo parecchio a proposito dei contributi ai poveri ebrei da parte delle chiese ellenistiche. Sembra difficile dubitare che Giuda “il Traditore” sia sinonimo degli ebrei.
Alla fine, nel verso 34, sembriamo trovare qualcosa di definito e comprensibile: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Questo sembra essere il culmine del quarto vangelo. Nessuno metterà in dubbio l'importanza fondamentale del “comandamento”, ma è nuovo? Sì, in effetti, forse, per il convertito gentile, ma non per Israele, perché leggiamo in Levitico 19:18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. E il gruppo dei prossimi è abbastanza tanto ampio quanto quello dei discepoli. La dichiarazione, allora, di dare un “nuovo comandamento” è valida solo se si comprende che per “Figlioli” si intendono i convertiti gentili.
Il 14° capitolo è segnato da un misticismo ancora più profondo. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” ci ricorda Enoc 39:4, “Io qui osservai un’altra visione: le dimore dei giusti e i luoghi di riposo dei santi” (ovviamente, Israele), e altrove, così: “E vidi il Signore delle pecore fin quando fece venire una casa nuova, più grande ed alta di quella precedente” (90:29), “E vidi che quella casa era grande, vasta ed assai piena” (90:36). Il Consolatore, lo Spirito Santo è promesso, ma non viene proclamata una nuova verità, nulla su cui un'intelligenza sana possa appoggiarsi come base. Solo una graduale rivelazione della verità è promessa per il futuro (14:26).
Il 15° capitolo si apre con una metafora notevole: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo” (1), e ancora: “Io sono la vite, voi i tralci” (5), con molte varianti dell'idea e con molta esortazione. Come sappiamo, la figura di Israele come una Vite pervade l'Antico Testamento. Nel salmo 80:8-16 il tropo è esposto a lungo e in dettaglio: “Portasti fuori dall'Egitto una vite; scacciasti le nazioni per piantarla”, e prosperò. Ma ora ahimè! “Il cinghiale del bosco la devasta, le bestie della campagna ne fanno il loro pascolo” (13). Chiaramente l'evangelista ha semplicemente spiritualizzato la felice immagine. Di nuovo, Geremia 2:21: “Eppure, io ti avevo piantata come una nobile vigna, tutta del miglior ceppo; come mai ti sei trasformata in tralci degenerati di una vigna a me non familiare?” Anche Ezechiele (17:1-10) pronuncia “una parabola alla casa d'Israele” circa una “Vite”“piantata in un buon terreno, presso acque abbondanti, in modo da poter mettere rami ... e diventare una vite magnifica”. Così anche in 19:10-14. Allo stesso modo Osea dichiara che “Israele era una vigna rigogliosa, che dava frutto in abbondanza” (10:1). In maniera simile il “cantico del mio amico per la sua vigna. ... Infatti la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele” di Isaia (5:1-7). [7]
 Questi passi non potevano essere stati assenti dalla mente dell'evangelista mentre scriveva questo capitolo. Nel dichiarare che Gesù è la Vite, lo identifica inconfondibilmente con l'Israele Ideale. Così intesa, la metafora è piena di verità e di bellezza; e quale altro significato può essere assegnato a ciò che piacerà alla ragione? A tal proposito si può aggiungere che nessuno storicista la cui opinione è da citare crede che tali parole siano state effettivamente pronunciate da qualche uomo Gesù; sono chiaramente le riflessioni di un mistico dai toni profondi, ben due generazioni dopo la scena in questione.
La parte successiva (15:9-16:24) è ben descritta in 16:25: “Vi ho detto queste cose in detti oscuri (paroimiais, cenni marginali); l'ora viene che non vi parlerò più in detti oscuri, ma apertamente vi farò conoscere il Padre”. Ma quell'ora non viene in questo vangelo. Ciò che segue è inteso nascosto altrettanto profondamente di ciò che è accaduto prima. Ciò che sembra più chiaro è che un “personaggio soprannaturale” sta parlando; attribuire un linguaggio del genere al Gesù dei “modernisti” sarebbe equivalente a parlare “come una delle donne sciocche”. Tramite uno sforzo dell'immaginazione si può attribuire tutto al Figlio di Dio, al Figlio dell'Uomo, all'Eletto dell'Altissimo, al Giusto Servo di YHVH, all'Israele universalizzato personificato — e questa attribuzione sembra richiesta positivamente in molti casi importanti. Pertanto, per la Legge di Parsimonia, siamo tenuti ad adottarla in tutti i casi.
Tutto questo si deve dire con enfasi particolare a proposito della famosa Preghiera nel capitolo 17. A chi era promessa “l'autorità”  nell'Antico Testamento e perciò fornita assieme alla “vita eterna” (2)? A Israele, Figlio dell'Uomo. A chi era affidata la conoscenza dell'“unico vero Dio” (3)? Ad Israele soltanto. Chi in tutti i secoli precedenti ha “manifestato il tuo nome agli uomini” (6)? Chi se non Israele solo? Chi era l'Amato del Padre prima della fondazione del mondo (24)? Risponda Osea (11:1): “Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori d'Egitto”; anche, “Israele mio primogenito” (Esodo 4:22), da cui Israele come “Primogenito della Creazione” (Assumptio Mosis, 1:13). Chi altro se non Israele poteva dire: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto” (25)? Chi se non il Popolo Eletto? Tali sono “i contrassegni di Gesù” e sono recati solo dall'Israele di Dio.
Il diciottesimo capitolo naturalmente contribuisce poco alla nostra inchiesta. La storia dell'Arresto e del Processo è data con molte minuzie, in parte per vivificare la narrazione, in parte per suggerire vari pensieri e oscurare varie idee, alcune delle quali possiamo indovinare con una certa probabilità. Soprattutto i versi 15-27 sembrano ricolmi di indizi di profonda importanza, che tuttavia non ci interessano ora.
Domande così strane sorgono intorno a Barabba, che non osiamo fare una digressione per discuterne qui. Passiamo al capitolo 19, ma di nuovo non dobbiamo perderci nelle innumerevoli domande che insorgono da ogni parte. L'evangelista, fregandosene di qualsiasi altra cosa potrebbero aver scritto, ha cambiato audacemente il giorno della crocifissione dalla Pasqua stessa, come lo presentano i sinottisti, alla vigilia della Pasqua, il Giorno della Preparazione (Giovanni 19:31) — dal quindicesimo al quattordicesimo giorno del mese di Nisan — presentando così una contraddizione evidente che diciotto secoli hanno cercato invano di eliminare.
È importante per noi notare che il Gesù dice a sua Madre [8] riguardo al suo discepolo amato, “Donna, ecco tuo Figlio” (19:26), e al Discepolo: “Ecco tua Madre!” E da quel momento il discepolo la prese con sè. Questo episodio impressionante è originale del nostro autore. I sinottici non ne parlano, e sembrano davvero escludere la sua possibilità. Loro (Matteo 27:55, Marco 15:40, Luca 23:49) ci dicono che “molte donne ... dalla Galilea” stavano “guardando da lontano. Tra di loro vi erano anche Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo il minore e di Iose”; Luca è piuttosto più generoso, dicendo “Ma tutti i suoi conoscenti (pantes hoi gnōstoi autōi) e le donne che lo avevano accompagnato dalla Galilea stavano a guardare queste cose da lontano. Ma solo Giovanni sa della presenza della Madre e del Discepolo, e neppure potevano aver conservato assieme a lui “da lontano” (apo makrothen). Sembra incredibile che tutti i sinottici avrebbero potuto trascurare o ignorare un episodio del genere, se storico. Anche gli antichi hanno riconosciuto che il nostro evangelista deve star parlando “spiritualmente” e compresero che la “Madre” dev'essere la Chiesa Madre a Gerusalemme. Sembra esserci davvero un'allusione al Popolo d'Israele in questo termine Madre, mentre il Discepolo Amato (come abbiamo visto) sembra rappresentare quella forma di cristianesimo che piacque particolarmente allo stesso evangelista, da lui considerato incarnazione della forza e del nucleo della nuova dottrina. La “Madre” non è immeritatamente raccomandata a questo “Discepolo”; in questa interpretazione isaianica delle Vie di Dio per l'Uomo, Israele (almeno l'Israele credente) doveva trovare una  (triste?) consolazione nel suo tragico destino.
Vediamo come l'evangelista ha provvisto la sua storia di un significato recondito ad ogni svolta. Perfino tentare di esporre tutto alla luce richiederebbe volumi ed esulerebbe dallo scopo di questo studio. I versi seguenti (28-30, 31-37, 38-42) riportano diversi episodi con un solo intento, adempiere alla Scrittura, come è ammesso in 28, 36, 37, e potrebbe anche essere stato confessato in 39, da un riferimento ad Isaia 53:9 — ma notate l'arte eccedente dello scrittore: egli non cita come adempiute le parole “con il ricco nella sua tomba”: queste quattro citazioni consecutive potrebbero rovinare la triade e diventare monotone — ma lo implica con altrettanta molta chiarezza: non solo Giuseppe d'Arimatea era un “uomo ricco” che depose il corpo nella sua nuova tomba (Matteo 27:60), ma anche Nicodemo arriva “portando una mistura di mirra e d'aloe di circa cento libbre” (39). Certamente una buona parte; ci vengono ricordati i sei recipienti di pietra di due o tre misure ciascuno (che si aggirano tra i 120 e i 150 galloni), tutti riempiti di acqua fino all'orlo, che viene poi convertita in vino — una fornitura abbondante per l'epilogo di una festa nuziale (2:6-10). In entrambe le occasioni l'evangelista simboleggia la inesauribile pienezza dello Spirito nei suoi doni agli uomini. Qui alla tomba avrebbe espresso in maniera simile l'adempimento della parola di Isaia, indipendentemente dal fatto che riduce all'assurdità il dato dei sinottici, secondo cui le donne dalla Galilea, dopo che “guardarono la tomba, e come vi era stato deposto il corpo di Gesù ... tornarono indietro e prepararono aromi e profumi” (Luca 23:56, Marco 16:1).
L'atteggiamento dell'autore si mostra chiaramente nei versi 31-37. Quelli episodi (circa le gambe che non vengono fratturate e circa il costato di Gesù che viene trafitto) sono piuttosto sconosciuti ai sinottici, non suggeriti da alcunchè. Certamente sono le ovvie intenzioni di Giovanni, adempiere alle Scritture citate (Esodo 12:46, Numeri 9:12, Salmi 34:20, Zaccaria 12:10). Ma sente che la loro totale omissione da parte dei sinottici deve naturalmente suggerire dubbi al lettore. Che cosa fa allora? Afferma fiduciosamente: “Colui che lo ha visto, ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera; ed egli sa che dice il vero, affinché anche voi crediate” (35). Ora perché una così intensa serietà? I fatti presunti, come fatti, non hanno alcuna importanza di sorta; se esattamente capovolti, se le gambe fossero state rotte e il costato non fosse stato trafitto, ciò non influirebbe minimamente sulla fede di nessuno. Perché allora lo scopo, “affinché anche voi crediate”? Chiaramente si tratta di qualche dogma, qualche dottrina che è in mente, e non un semplice fatto o evento. Ancora, chi è “egli”, questo testimone? Non c'è nessun indizio, e nessuna meraviglia; poiché era solo agli “occhi della mente” che tutto ciò era testimoniato e non c'era altra ragione perchè lo fosse, se non una, che è data nei versi seguenti 36, 37: “Poiché questo è avvenuto affinché si adempisse la Scrittura: Nessun osso di lui sarà spezzato.  E un'altra Scrittura dice: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. Il primo verso fu pronunciato per la prima volta a proposito dell'Agnello Pasquale, e in seguito, nel salmo 34:20, a proposito di Israele afflitto, il Giusto: “YHVH preserva tutte le sue ossa; non se ne spezza neanche uno”; ma per l'evangelista l'Agnello era il Gesù (1:29,86), cioè, l'Israele Ideale, e quindi la Scrittura deve essere adempiuta in lui (nello Spirito se non nella carne). Il secondo verso si trova in una profezia molto oscura di Zaccaria (12:10), dove il testo è corrotto, ma la traduzione migliore è “a me, a colui che, ecc.”.
A dire il vero quei passi non hanno la più remota allusione a qualcosa del racconto evangelico, ma rientrava nella considerazione dell'evangelista della storia passata trovare là un tipo della storia presente, e di conseguenza senza alcuno scrupolo egli escogita l'episodio del costato trafitto, dato che la sua unica ragione è “la Scrittura dice: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. Cosa può essere più chiaro del fatto che il suo intero racconto è inteso a disporre, l'ordine della sua teoria del passato come un'ombra premonitrice del presente? Se interrogato, avrebbe probabilmente spiegato che la Prefigurazione Passata era materiale, l'Adempimento Presente puramente spirituale, che nulla del genere avvenne nel Presente in qualche senso materiale, ma solo in senso spirituale, cioè nel cuore e nella mente degli Illuminati spiritualmente, dei Credenti, dei Salvati — proprio come lo esprimeva l'antica formula, che Cristo fu resuscitato dai morti “per i suoi discepoli” — non per il mondo in generale. Per noi, i bambini della scienza moderna, un simile atteggiamento o stato d'animo potrebbero apparire bizzarro e quasi incomprensibile; ma a meno di non riconoscere la sua attualità in quel giorno ed in quell'età del mondo, la Scrittura neotestamentaria e l'Origine del cristianesimo devono rimanere degli enigmi impossibili.
Il ventesimo capitolo racconta la storia della Resurrezione, o piuttosto della tomba vuota — naturalmente, in ogni particolare in contrasto con i sinottici. Quelle nuove caratteristiche sono tutte le invenzioni dell'autore, e ognuna possiede forse il suo sottile significato mistico, sebbene ciò che potrebbe significare sia troppo difficile da dire. Quattro personaggi appaiono nella narrazione: Maria Maddalena, Simon Pietro, il Discepolo Amato, il dubbioso Tommaso. Ognuno di questi sembra caratterizzare una qualche forma di Fede corrente al tempo oppure distintasi nella prima storia del movimento cristiano — ognuno, naturalmente, come le concepiva lo scrittore. Se sapessimo di più sulle caratteristiche interne della Chiesa primitiva, potremmo forse riconoscere prontamente quei tipi; così com'è, possiamo solo indovinare molto vagamente. Il Discepolo Amato rappresenta quasi certamente la più profonda concezione mistico-filosofica semi-gnostica della Dottrina, come la intese lo stesso evangelista. La sua corsa con Pietro potrebbe rappresentare le fasi attraverso cui le fazioni rivali si evolsero gradualmente verso la concezione generale cattolica del “personaggio soprannaturale”. Simone entra per primo nella tomba, vede i resti della Resurrezione, i segni esteriori, ma non è detto che credesse. Era solo il Discepolo Amato, “che giunse primo al sepolcro”, ma non entrò per primo — che “vide e credette”. “Perché non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva resuscitare dai morti” (9).
Abbastanza appropriato, il racconto si chiude con la benedizione sulla pura Fede e l'avvertimento contro la richiesta di una dimostrazione — “Perché mi hai visto, tu hai creduto?”. Questa convinzione, fondata sul fatto, non deve essere rifiutata, ma non reca alcuna benedizione. “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.  Lo scrittore sembra abbastanza consapevole di non avere prove da offrire per la piccola storia che ha raccontato, non professa di avere alcuna prova. Anzi, gli importa poco o nulla della storia in sé, che è solo l'abito esteriore del significato interiore. L'unica cosa che importi è credere che “Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome”. Naturalmente, questo può essere compreso solo in senso mistico. Dobbiamo ricordare che il nome Gesù era inteso significare Salvatore e Salvatore soltanto, e che il Cristo, il Figlio di Dio, era il Genio di Israele, il Figlio dell'Uomo, l'Eletto di Dio (Luca 9:35, 23:35), e che era la Missione riconosciuta di quel Popolo Eletto portare Salvezza e Vita Eterna nel mondo attraverso la Conoscenza del Vero e Unico Dio.

 4. Una Appendice 

Il capitolo seguente (21) è considerato generalmente un'appendice, ma è nello spirito generale e nello stile del precedente. È altamente simbolico, come appare chiaramente. Gesù si manifesta per la terza volta ai suoi discepoli — sette in numero, Simon Pietro, Tommaso il Gemello, Natanaele di Cana, i figli di Zebedeo e altri due — presso il mare di Tiberiade, in Galilea. Si noti che non si sono fermati a Gerusalemme (Luca 24:49); lo scrittore considera giustamente pura finzione i racconti di Luca 24 e di Atti 1 e 2, abbastanza buoni per lo scopo di Luca, ma inadatti ai suoi. Notate anche che non vi è alcun accenno ai Dodici o agli Apostoli — quest'ultimo un termine non riconosciuto da Giovanni, sebbene impieghi il verbo apostello quasi trenta volte! Hanno apparentemente rinunciato ad ogni pensiero di propaganda, ma non realmente, perché Pietro dice “vado a pescare” — , cioè, di uomini? Gli altri sono d'accordo, ma quella notte non catturano nulla — il che può simboleggiare il collasso della predicazione in Giudea o Palestina. Ma appena “già era mattina” (4), Gesù appare (non riconosciuto) e propone ai “figlioli”“Gettate la rete dal lato destro”, dove viene immediatamente riempita di pesci. Al che l'Amato riconosce che Gesù ha comandato, e all'udirlo Pietro si tuffa nel mare, mentre gli altri trascinano la rete “piena di centocinquantatré grossi pesci” (11).
In 2 Cronache 2:17 leggiamo che il numero di ospiti (stranieri) in Israele sotto Salomone era di centocinquantatremila e seicento. Ricorda che ora l'espressione eleph (migliaia) è anche usata spesso nel senso di tribù o di popolo, e che “ospiti” è anche un termine scelto per designare pagani convertiti (“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”, Efesini 2:19, cioè sono veri membri dell'Israele Universalizzato), e sembrerà chiaro che questa coincidenza del numero 153 non può essere casuale, che lo scrittore intendeva qualcosa con esso, che intendeva in effetti tutto il mondo pagano. Ciò che ha in mente è l'evangelizzazione del mondo, la sua unione nell'unica Chiesa cattolica — “e benché ve ne fossero tanti, la rete non si strappò”. Se questo non è il senso qui, allora sembrerebbe vano cercare il senso del Nuovo Testamento.  Notiamo anche che è Simon Pietro che trasse “a terra la rete” (11), un riconoscimento del primato del nome (o di ciò che il nome rappresenta) al tempo, e della nullità pratica del resto dei Dodici.
Ma la supremazia spirituale di Simon Pietro non può essere concessa dallo scrittore. Coerentemente racconta la strana storia di un dialogo tra “il Gesù” e Simone di Giovanni, con l'esortazione o comando finale “Seguimi” (19). Allora Pietro si volta e vede il Discepolo Amato che segue — lui che era appoggiato al petto di Gesù — e chiese “Che ne sarà di lui, Signore?”. “Il Gesù” risponde, “Se voglio che lui rimanga finché io venga, che te ne importa? Tu seguimi”.
 Se qualcuno prenderà questa storia alla lettera, non litigheremo — ma speriamo che possa “crescere” col “latte innocente della dottrina”. Ma se qualcuno mette in dubbio l'accuratezza letterale di quest'attività post-resurrezionale fisica del Gesù sulle rive del Lago di Tiberiade, costui cercherà inevitabilmente qualche significato in quelle parole, come già negli emblemi dei pesci e della rete. Né riuscirà probabilmente a sfuggire alla convinzione che una sorta di rivalità tra due leader o due tendenze nella chiesa primitiva viene qui ombreggiata in quei versi finali. Sicuramente dove la stessa domanda è posta tre volte ci deve essere qualche dubbio che la richiede. Si noti anche la carica enfatica e ripetuta nell'esortazione a nutrire, a curare gli agnelli, le pecore, e non meno a “seguire Me”. Non meraviglia che “Pietro si rattristò”. Non possiamo specificare con certezza, ma non può esserci alcun ragionevole dubbio sul fatto che lo scrittore stia protestando con dolcezza ma fermamente contro qualche modo di pensiero dominante o forma di fede nella Chiesa primitiva, in qualche maniera associata al nome di Simon Pietro.
Non solleva alcuna misura di ribellione contro questo primato, ne accetta la funzione di nutrire e di pascere il gregge del Signore, ma non può credere che debba durare per sempre; verrà il tempo in cui passerà, invecchiato e indifeso, e perfino glorificherà Dio con questa dipartita. D'altra parte, c'è una concezione molto più profonda, tranquilla e reticente, che si annida quasi nel seno stesso dello stesso Gesù, l'intima verità del Vangelo, della Sapienza e della Parola di Dio. La tendenza della chiesa dominante assiste a questo pensoso cristianesimo contemplativo che segue il Gesù di sua spontanea volontà, senza alcun comando o esortazione, e chiede con una pallida impazienza: “Ma che ne è di questo?” E il Gesù dichiara con prudenza che è questa, propria questa concezione spirituale mistica senza pretese a rimanere da sola per sempre “finché io venga”, senza interferire con l'aspetto pratico “affaristico”, la fede delle masse e dei loro custodi, ma seguendo il suo proprio percorso “la via, la verità, la vita”.
 Così inteso, questa appendice, il 21° capitolo, sembra essere uno dei più sani e più profondi di tutto il Nuovo Testamento; in verità, come parabola è insuperabile, se mai eguagliata da qualche parte, nella letteratura umana. Come materia di fatto letterale di carne e di sangue post-resurrezione, potrebbe ancora servire un po' come latte — che è stato, se non annacquato, almeno più accuratamente scremato. 
I versi conclusivi (24, 25) sembrano mostrare abbastanza chiaramente che lo scrittore è stato sempre a parlare in modo abbastanza mistico, in simboli, e avrebbe messo in guardia il lettore da qualsiasi interpretazione letterale. “Questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose, e che ha scritto queste cose; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Or vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, io non penso che il mondo stesso potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero”. L'iperbole colossale dice chiaramente “Diffida!” È impossibile prendere queste parole così come sono. Si noti anche “noi sappiamo” e “io non penso”. E come potremmo “noi” sapere se la testimonianza fosse vera, a meno che “noi” stessi non avessimo testimoniato? Sicuramente si tratta di una profonda testimonianza interiore, dell'Anima e non dell'occhio, ad essere intesa dall'autore. È al senso interiore divino che egli avrebbe fatto il suo appello, un appello a cui tutti coloro che ne condividono il pensiero daranno ascolto. 

5. Osservato nel Complesso

Tutto questo vangelo appare quindi come una supplica e una confessione: il suo autore non può negare e non nega che un'altra forma di fede cristiana diversa dalla sua abbia prevalso ed è padrona della mente dei Molti. Non passa nessun giudizio scortese o ostile su di esso, mostrando così un liberalismo che merita un alto elogio. Ma non è il tipo di fede che fa appello al suo spirito personale, che è molto più mistico e meno pratico. Naturalmente è il suo tipo per cui egli parla a favore in quanto il vero, immutabile, eterno.
Che la sua opposizione fosse diretta soprattutto contro qualche forma di ortodossia che faceva appello all'autorità apostolica, sembra visibile nel suo assoluto silenzio quanto agli apostoli; solo una volta è usata la parola (13:16), e perfino allora non nel senso tecnico, ma nel senso generale del “messaggero”: né il messaggero è maggiore di colui che lo ha mandato”. Qui, in effetti, sembra esserci un'allusione nascosta, e un'allusione denigrativa.  Allo stesso modo non si fa menzione della scelta e dell'invio dei Dodici; il termine stesso sembra essere evitato: solo in 20:24 (“Tommaso, uno dei Dodici”) e in una breve sezione, 6:67-71, viene usato il termine (“Disse allora Gesù ai Dodici: Forse anche voi volete andarvene?” e ancora “Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo. Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici”). Questi usi non sono affatto lusinghieri.
È stata a lungo l'abitudine identificare questo evangelista con il Discepolo  Amato (Allievo, Mathetes), e quest'ultimo con Giovanni, figlio di Zebedeo, un apostolo. Allora sembra esserci una stretta relazione tra questo Prediletto e l'autore del vangelo: il Discepolo simboleggia l'Idea o teoria religiosa che l'Autore detiene e vorrebbe esporre, ma cercare questo allievo nel figlio di Zebedeo equivale a fraintendere totalmente il vangelo. Molti hanno cercato di spiegare la minuziosità dei dettagli presumendo che il figlio di Zebedeo stia dando reminiscenze personali. Ma questo sembra del tutto impossibile. Suppone che il vangelo sia un'attenta registrazione di fatti biografici, una supposizione per la quale non esiste un minimo di garanzia. “In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio”. Suona come l'apertura di un diario galileo, o qualcosa del genere?
Abbiamo visto che molte parti estese della narrazione sono oltre ogni dubbio pura invenzione (o parabole) dello scrittore e sono ricolme di contenuto dogmatico o di significato simbolico. I discorsi in generale, come abbiamo anche visto, sono soliloqui filosofici, riflessioni mistiche, che l'autore stesso descrive come “detti oscuri”, senza molta o addirittura nessuna pertinenza o idoneità per la circostanza, e che sarebbero stati del tutto incomprensibili per qualsiasi pubblico palestinese, proprio come rimangono incompresi dai teologi di oggi. L'autore utilizza alcune idee ed elementi familiari della tradizione o della propaganda evangelica generale, ma li impiega con perfetta indipendenza, non tentando di conformare la sua narrazione a nessun modello sinottico o persino ai dati sinottici. Come risultato ha prodotto una rappresentazione che è del tutto sua, che non solo sfugge a qualsiasi armonizzazione con ciascuno o qualche sinottico, ma sembra ugualmente impossibile come la raffigurazione di qualche Individuo — se Uomo o Dio o uomo-Dio — che inaugura una Rivoluzione Religiosa in Giudea o in Galilea o altrove. La figura è vaga, oscura e avvolta, misteriosa e miracolosa, in tutto e per tutto soprannaturale e quasi in tutto e per tutto enigmatica.
Tutto questo sembra impossibile da comprendere a proposito di qualche Individuo immaginabile, ma lontano dall'impossibile da comprendere a proposito di un semi-gnostico Essere Allegorico, la Personificazione dell'Ideale Israele Spirituale Universale, considerato non tanto come il Figlio dell'Uomo — come concepito da Daniele e da Enoc, sebbene questa concezione non sia respinta ma solo fermamente subordinata — quanto come il Servo Giusto della profezia isaianica, il braccio di Jahvè disteso per il giudizio, ma anche per la Salvezza del Mondo, la Luce per illuminare i gentili, e per mostrare Amore come il Pilastro centrale del Regno dei Cieli, Amore non solo dell'uomo per l'uomo e per Dio, ma soprattutto, di Dio per l'Uomo, in particolare per il Mondo Gentile.
Quest'ultima idea è di gran lunga il contributo più evidente del nostro evangelista alla Religione e alla sua Filosofia. L'idea dell'amore di Dio per il Suo Stesso Eletto, per Israele Suo Figlio, non era in effetti affatto nuova, ma non quella dello stesso Amore della Deità per i pagani, gli oppressori del Suo Stesso Popolo. Il nostro autore, che sembra essere stato un greco oppure un ebreo completamente ellenizzato, non nega del tutto o abbandona la preminenza religiosa di Israele o il suo destino come Agente di Dio, il Braccio di vasta portata del Suo Potere. No, è profondamente versato nella Scrittura, e riconosce pienamente la posizione e la missione uniche di Giacobbe. La sua spiegazione del Paradosso della Storia infelice di Israele e del suo destino infausto è che l'onnipresente Amore di Dio non era per Israele in particolare, ma per il Mondo, per i gentili! Il Figlio Unigenito è Israele, sacrificato per il mondo. Questa è essenzialmente l'idea che regna in Deutero-Isaia. Confronta anche i Salmi di Salomone (18:4): “La tua correzione su di noi é come si corregge un figlio primogenito unico”.
L'idea della guida religiosa di Israele e persino della sua glorificazione, mentre era ammessa in teoria dal nostro evangelista, non era una sua predilezione, e quindi non si era mai soffermato su di essa, ma piuttosto sulle sofferenze di Israele, del Figlio di Dio. Aveva familiarità con le raffigurazioni di Daniele e di Enoc e le accettò, ma solo con notevoli riserve, o meglio con aggiunte e cambi di accento.

* * * * *

Il lettore potrebbe lamentarsi che i tesori scoperti del pensiero mistico non ripaghino la ricerca, che il gioco non valga la candela. Perché tuffarsi per le perle delle profondità insondabili, quando le gemme riportate in superficie sono solo punte di spillo? L'obiezione sembra plausibile e sarebbe decisiva — se la nostra preoccupazione fosse solo per le singole perle — ma questo è ben lungi dall'essere il caso. Non sono loro, ciascuna per sé, che stiamo cercando, ma la collana che formano, o meglio l'intera tunica ingioiellata su cui sono cosparse. Questa veste di pensiero è una parte essenziale della veste elaborata dell'antica Coscienza cristiana. Se capiremmo l'una, dovremmo anche capire l'altra. Non è di valore la singola gemma minuscola, ma la sua capacità di connessione con tutte le altre. Di per sé significherebbe ben poco che in Giovanni 21:11 il numero 153 simboleggia la totalità del mondo pagano, che la rete allegorizza la Chiesa, e la sua condizione illesa simboleggia l'unità cattolica che stava allora venendo alla luce, che Simon Pietro che trae la rete indica la prevalenza di un certo modo di pensiero e di azione clericale, mentre il Discepolo Diletto adombra una concezione più profonda e più spirituale del cristianesimo. È l'intreccio e l'interconnessione di quei delicati filoni di allusione con l'intero drappeggio dell'Esperienza Protocristiana che conta così tanto per la nostra comprensione del singolo sviluppo più profondo, penetrante e duraturo nella lunga storia della civiltà umana.
Come sembra, allora, al presente scrittore, l'opera di Giovanni è definita correttamente da Clemente di Alessandria un “vangelo spirituale”. È una protesta profonda, solenne, intensamente sincera ma non appassionata contro il trionfo finale e il riconoscimento esclusivo del tipo di cristianesimo popolare ecclesiastico di tipo cattolico letteralista e convenzionale che stava arrivando in prima linea sempre di più in quei primi giorni e alla fine risultò nelle due organizzazioni colossali, la Chiesa cattolica romana e la Chiesa greco-ortodossa.
Contro quelle, egli imposterebbe — non direttamente per opporre, ma piuttosto per integrare — una concezione molto più profonda, mistica, parzialmente gnostica, che egli ritiene debba risiedere proprio al cuore del cristianesimo e costituisce la sua stessa essenza e la sua vita. È la rovina del Mistico che il suo sentimento, il suo senso, la sua intuizione superino di gran lunga la sua logica, la sua espressione, il suo raziocinio. L'evangelista perora la sua causa ardentemente e instancabilmente, ma non avanza mai nel pensiero, si limita a girare in tondo, girando attorno al suo oggetto ancora e ancora, osservandolo più e più volte, ma mai analizzando, mai mettendo i suoi pensieri in relazioni ordinate. I suoi argomenti consistono nell'esclamare, Vedi là! Ecco! Se non vedi, lui non ti si mostra, ma si limita a deplorare la tua ottusità percettiva. Quindi le sue discussioni sono solo una serie caotica di asserzioni, in cui la prima potrebbe essere l'ultima, e l'ultima potrebbe altrettanto bene essere la prima.
 L'evangelista sembra non essere stato del tutto inconsapevole di questa mancanza di coerenza logica nella sua esposizione, e così ha cercato di rimediarvi di scena in scena attraverso l'introduzione di narrazioni o spiegazioni in forma narrativa. Naturalmente, tutto questo deve tradursi in parabole virtuali. “La verità più profonda può essere espressa solo in simboli”. Ed è proprio tale simbolismo che è spesso la caratteristica più chiara e più istruttiva delle sue impressionanti arringhe. Né gli mancano un certo acume e un'abilità letterari. Intreccia nelle sue narrazioni una serie di dettagli che servono a ravvivare l'immagine simbolica e a darle un'aria di originale testimonianza autoptica, anche se al di sotto di quelle apparenti banalità potrebbe aver nascosto molte sottili allusioni allegoriche che potrebbero essere state identificate a quel tempo, ma ora sono coperte troppo in profondità dalla polvere dei secoli.
Con ciò non solleviamo né anticipiamo alcuna questione sull'unità o sull'integrità della composizione e del testo, come ci hanno raggiunto. Sembra che non ci siano buone ragioni per supporre che l'opera sia sfuggita al fato comune della redazione e dell'interpolazione, ma la riedizione sembra essere stata compiuta nello spirito generale dell'originale, con forse qua e là una divergenza sensibile.
 Il lettore potrebbe forse chiedersi se l'evangelista dovesse aver mai raggiunto simili concezioni ariose o nebulose, e ancora di più se dovesse mai aver dato loro un'espressione così studiata ed elaborata. Cosa avrebbe potuto sperare di ottenere scrivendo un simile opuscolo ed esponendo davanti ad una cerchia ristretta una così lunga processione di ombre nella nuvola? Ma insistere su queste domande equivale a fraintendere la mente mistica, che gioisce delle sue stesse elucubrazioni e si delizia di incanalarle in parole e simboli, e talvolta più oscure siano, meglio sarebbe. Era naturale, si potrebbe dire inevitabile, che il proto-cristiano cadesse nel simbolo, nella parabola e nell'allegoria, come era inevitabile che il moderno auto-parlante serale provochi il suo pubblico con un aneddoto divertente, una solita battuta. Considera la lista lunga e prolungata di Pseudepigrapha, praticamente tutti scritti che rappresentano questa deriva e tendenza letteraria. Considera tra i documenti cristiani o quasi cristiani la Pistis-Sophia e una schiera di documenti simili. Considera la cosiddetta Epistola di Barnaba e scritti simili. Considera l'erudita e in molti modi ammirabile epistola agli Ebrei. Sicuramente non può essere necessario ricolmare la pagina dei nomi di più documenti simili di quel giorno. Il lettore dia un'occhiata a tutto il libro di Enoc e ricordi che è solo una raccolta parziale di opere ad essere passate sotto il suo nome. Legga il libro neotestamentario dell'Apocalisse e rifletti sul fatto che è a sua volta un mosaico di composizioni simili, una raccolta di apocalissi simili. Anche il secondo secolo poteva produrre il Pastore di Ermas, estremamente allegorico e altrettanto popolare.
Se possiamo comprenderlo o no, il fatto è indiscutibile che i primi cristiani fossero devoti al misticismo non meno e forse anche più dei loro contemporanei sia nel pensiero che nell'espressione. In Atti 21:10 leggiamo che un profeta Agabo venne a Cesarea e incontrando Paolo prese la cintura di quest'ultimo e vi legò i suoi piedi e le sue braccia e disse: “Questo dice lo Spirito Santo: A Gerusalemme i Giudei legheranno così l'uomo a cui questa cintura appartiene, e lo consegneranno nelle mani dei pagani”. Un occidentale moderno si accontenterebbe di pronunciare la profezia, ma non così l'antico orientale; sentiva di dover attuare il processo del legame per rendere impressionante la profezia, e non potrebbe aver avuto parzialmente ragione? Esattamente così Sedecia fece le sue corna di ferro e disse “Così dice il Signore: Con queste corna colpirai i Siri finché tu li abbia completamente distrutti” (1 Re 22:11, 2 Cronache 18:10). Deve essere costato qualche sforzo per fabbricare corna simili, per quanto rozzamente, e per noi il simbolismo sembra puerile e ridicolo, ma per Acab era vivido e persuasivo. Così anche il consumare un pane e il bere un calice era considerato un emblema sacro e solenne dell'unità fraterna (1 Corinzi 10:16) e ha conservato parzialmente il suo significato fino ad oggi.
Abbastanza. L'anima proto-cristiana era alimentata quotidianamente da “detti oscuri” (Giovanni 16:25), dai segni, dall'allegoria. Questa dominanza del simbolo divenne assoluta nel loro uso della frase Figlio dell'Uomo nella metafora, in cui l'impulso a personificare, a oggettivare, a plasmare idee astratte in forme individuali, raggiunge la sua piena fioritura, la sua più ricca fruizione. Questo concetto, che avevano adottato da fonti enochiche, era profondamente modificato dalla figura isaianica del Servo Giusto Sofferente di YHVH, dell'Israele Idealizzato, dell'Unico Figlio di Dio, della Pienezza di Colui che riempie tutto in tutti.
Queste frasi mistiche sono semplici istantanee di una Realtà sovrasensionale — una concezione trascendente che potrebbe ben ispirare un Paolo, un Barnaba, un Apollo alla retorica più audace, all'evangelizzazione più faticosa, ma era troppo eterea per le masse, e aveva bisogno di essere assimilata a un ordine di apprensione molto più umile, se si doveva fare qualche appello di successo al cuore e alla mente della gente comune. Questo adattamento necessario prese la sola apparenza che fosse possibile in tutte le condizioni storiche e culturali, la forma di un'allegoria biografica in cui il Figlio dell'Uomo era presentato come un uomo che si muoveva tra gli uomini. Sia il contorno che i dettagli della Vita furono forniti (così in Giovanni come nei sinottici) principalmente dall'Antico Testamento, che era essenzialmente la Storia della Vita di Israele. Gli episodi e i detti furono dapprima escogitati in una consapevolezza più o meno chiara del fatto che erano frutto di fantasia. Ma questa Simbolizzazione incontrò il destino comune di tutte le oggettivazioni; il Segno è scambiato per il Significato. Insensibilmente e tuttavia rapidamente le finzioni, le parabole e i simboli, vennero ad essere ricevute sempre più come fatti e il loro significato sottostante venne dimenticato; le forze guida della Chiesa (come sant'Ignazio) arrivarono ad accettare la situazione non semplicemente come una fase transitoria (raffigurata in 1 Corinzi 3:2, Ebrei 5:18), ma come condizione permanente (1 Pietro 2:2 e le epistole ignaziane). Questa potrebbe essere chiamata la tendenza petrina, da tempo evoluta nella Chiesa di Roma, che risultò nell'organizzazione più stabilita e perfetta che l'uomo colto abbia mai visto.
I meriti di questo Oggettivismo — e ne aveva e ne ha molti — furono riconosciuti dal quarto evangelista che li impiegava ancora lui stesso, ma non poteva considerarli una finalità oppure più di una metafora, una somiglianza delle verità più profonda, più intima, più divina della dottrina e della propaganda cristiane. Di conseguenza scrisse il suo vangelo — la testimonianza del Discepolo Prediletto che si trovava nel seno stesso dello stesso Gesù — come un vangelo spirituale di Verità eterna e di Vita eterna — l'Allievo Prediletto che non è altro che lui stesso, o piuttosto la sua concezione del Cristo più profonda, più spirituale, del Figlio dell'Uomo. Sfortunatamente era egli stesso uno degli uomini più mistici, e quindi la sua rappresentazione simbolica della Vita e dell'Insegnamento del Gesù, mentre rivela spesso l'acutezza e la profondità della sua intuizione spirituale, è in generale tristemente carente di chiarezza, di persuasività e di potere di persuasione. Adottando in gran parte la sua forma attuale di discorso, egli cede parzialmente alla tendenza a cui si oppone, e gira il bersaglio della sua stessa polemica, la sua protesta contro le materializzazioni storiche della Fede. Inoltre, abbiamo scoperto che era infelicemente antisemita, e mancò di fare alcuna maniera di giustizia agli ebrei. Egli trascese completamente la concezione danielico-enochica del Figlio dell'Uomo, abiurando ogni indizio di favoritismo ebraico, e superò perfino il Secondo Isaia nell'esaltare l'Amore di Dio per il Mondo. Si sforzò ardentemente di umanizzare la sua immagine del Dio-Salvatore — sebbene con un successo molto indifferente — e di vivificare la sua intera rappresentazione, introducendo minimi dettagli insignificanti. I miracoli che narrò sono parabole completamente trasparenti, e presentano il suo pensiero in modo molto più impressionante dei discorsi che pose sulle labbra del Gesù.
Lo scrittore del quarto vangelo è visto così presentare la sua storia senza il minimo ostacolo di natura biografica, e unicamente per esprimere pittoricamente e artificialmente la propria idea. A lui importa poco o nulla di ciò che qualsiasi altro evangelista possa aver scritto o pensato — come è mostrato significativamente, a titolo di esempio, dal suo cambiamento audace del giorno della Crocifissione. A volte il suo vangelo afferma eventi che le dichiarazioni sinottiche rendono impossibile; altre volte abbiamo visto le affermazioni fatte in questo vangelo ridurre all'assurdità le affermazioni degli autori dei sinottici. Dobbiamo certamente ammirare la sua audacia, il suo candore e la sua autosufficienza. Né egli ha alcuna intenzione di ingannare alcuno: nella sua stessa intenzione né lui né nessun altro evangelista stava ricordando Storia reale; stavano dipingendo una dottrina.

NOTE


[1] “La connessione qui non è ovvia” — che è il modo modesto di Weymouth di dirla inesistente.

[2] Non riesco a reprimere la domanda, quanti vi erano di questi tropi, di cui non abbiamo mai sentito nemmeno una debole eco? Conosciamo solo i relitti e i detriti di una letteratura naufragata in alto mare.

[3] Si veda Gustaf Dalman, 1924, Orte und Wege Jesu, pag. 236-237. Le parole in Geremia 7:11 non hanno nessun riferimento a qualcosa del genere, ma con una leggera svolta nel significato forniscono un buon esempio di una Scrittura che “deve essere adempiuta”.

[4] Le parole del Prof. Goetz di Basilea  —  nel suo libro erudito sull'Ultima Cena (Das Abendmahl, ecc., 1920), con riferimento a quei versi  meritano di essere citate: “A dire il vero, quei passi (Giovanni 4:23 e Romani 12:1) possono essere derivati forse non del tutto ingiustamente dall'influenza greca” (pagina 48). Le parole che abbiamo messo in corsivo (in tedesco, allerdings vielleicht nicht ganz mit Unrecht) mostrano con quale estrema riluttanza il critico onesto lascia che la verità gli sfugga.

[5] Greco koilia, interno del ventre.

[6] Tale è il bizzarro greco, mia poimne, heis poimen. Modernizzatori, come Weymouth, non lo hanno tradotto correttamente come “un gregge sotto un solo pastore”, dove la preposizione inserita “sotto” cambia entrambi significato e sintassi. Apparentemente “gregge” e “Pastore” sono completamente identificati, come richiederebbe l'allegoria.

[7] Confronta anche 4 Esdra 5:23: “Dissi: Signore e padrone, di tutte le selve della terra e di tutti i suoi alberi scegliesti per Te un'unica vigna”.

[8] La chiamiamo Maria, ma leggiamo (verso 25) “sua madre e la sorella di sua madre, Maria”. Due sorelle, entrambe chiamate Maria!! Giovanni da nessuna parte riconosce Maria come madre di Gesù; e infatti lo fa la tradizione sinottica; le “preistorie”, i primi due capitoli di Matteo e di Luca sono dichiaratamente libere invenzioni e le altre menzioni (Matteo 13:55, Marco 6:3, Atti 1:14) sono anche inserimenti successivi.

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