mercoledì 31 ottobre 2018

La Nascita del Vangelo — Il Quadro Generale


CAPITOLO SETTE

IL QUADRO GENERALE

1. La Grande Personificazione 

L'esposizione fin qui abbozzata sembra non solo mostrare la certezza pratica della non esistenza come un uomo del Gesù il Cristo, ma anche esibire con onesta chiarezza sia l'Origine che il Contenuto della Propaganda Primitiva, e così si può dire che alla fine crea uno squarcio nella nube persistente che è sospesa da 1800 anni sull'Origine del cristianesimo. Ma ci sono varie altre considerazioni, di valore meno costruttivo, in effetti, ma altamente importanti in quanto tutte e ciascuna puntano con indizi convergenti alla natura impersonale e puramente ideale del Gesù. Alcune di queste considerazioni sono già state esaminate diffusamente nei due libri, Der vorchristliche Jesus ed Ecce Deus, ma alcuni aspetti sembrano ancora meritare un'analisi.
Qualcuno potrebbe chiedere come, e quando, e perché, se non ci fu mai una persona umana Gesù, questo meraviglioso movimento cristiano avrebbe potuto prendere le sue origini. La risposta, espressa in breve, è che era una continuazione, un prolungamento, un'espansione e un'intensificazione del Proselitismo ebraico, che potrebbe essere fatto risalire distintamente fino al 139 A.E.C. [1] La sua nota chiave era la Grande Personificazione, radicata molti secoli prima ancora nella letteratura sacra ebraica. Un breve sguardo all'indietro nei tempi precedenti ci aiuterà.
Questa Personificazione di Israele era esistita da molto tempo nella letteratura ebraica, specialmente sotto il nome dell'“Unto”, del Messia, il Cristo. Molto naturalmente e adeguatamente il titolo dell'Eletto, il Prescelto, era anche usato frequentemente, in particolare da Isaia, e in Deuteronomio. Quasi nessun'altra idea (eccetto, naturalmente, quella di YHVH) domina così l'Antico Testamento come quella di Israele il Prescelto, e la Personificazione risultante era la più naturale e familiare possibile. L'Unzione era solo un segno e un sigillo di questa Elezione, così che Eletto e Messia (la Persona Unta) significano praticamente la stessa cosa. Inoltre, la presunzione dominante è che il termine “Mio Eletto” è uniforme nel suo riferimento a Israele e a Israele soltanto: ora ognuno sa che questa Scelta di Israele tra tutte le nazioni della terra portava con sé la concezione e quindi la vivente speranza inestinguibile della Glorificazione del Popolo Eletto da esprimersi al di là del potere delle parole o da concepirsi al di là persino del potere della mente. Se YHVH, l'Unico Dio Supremo, l'Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra, aveva davvero eletto Israele tra tutte le nazioni come Suo unico Figlio e lo aveva amato e allevato (Osea 11:1) e aveva rivelato la Sua Volontà e la Sua Legge a Israele e a Israele soltanto, allora sembrerebbe impossibile esagerare la differenza o la distanza tra questo Popolo e tutti gli altri popoli della terra, e la rappresentazione allegorica (in Daniele 7) dei regni delle nazioni come bestie mostruose, ma di Israele come Umano, come Uno Simile ad un Figlio d'Uomo, sembrerebbe non solo naturale ma anche necessaria. Questa immensa superiorità portava con sé un destino assolutamente superlativo e incomparabile. Non poteva essere per altra ragione che l'Eterno e l'Onnipotente aveva decretato che il suo Prescelto, il Suo Unto, il Suo Figlio Diletto fosse il Potere supremo sulla terra e governasse il mondo intero come Viceré di Dio Stesso. Tale era la conclusione ovvia, non toccata da alcuna esagerazione.
In effetti, il caso appariva chiaro al di là di ogni controversia, eppure era dolorosamente contraddetto nella Storia reale ad ogni svolta dall'esperienza più persistente — i membri del Popolo Eletto non erano i dominatori della terra, anzi, erano sottoposti a vessazioni e oppressi, erano emarginati, un oggetto di derisione e disprezzo, e la loro Città Santa era calpestata dai mostruosi pagani. L'esperienza quasi uniforme della storia nazionale sottoponeva la Fede di Israele a un test del genere come sembra non sia mai stato applicato altrove negli annali dell'uomo, e che il test sia stato sopportato eroicamente e con successo sembra essere il fatto più notevole del suo genere negli annali umani e indicare una durezza della fibra razziale senza paralleli nella vita dell'umanità.
Come appare al presente scrittore, l'Antico Testamento è in generale la reazione dell'Anima ebraica a questo Paradosso della Storia. Questo è vero soprattutto per i Salmi e per i Profeti. Attraverso tutto ciò, la fede dei profeti (e dei salmisti) nel perdono definitivo, nella restaurazione, nella santificazione e nella glorificazione di Israele sembra difficilmente aver vacillato per un momento. La deportazione a Babilonia fu una tribolazione inconcepibile, ma fu coraggiosamente sopportata e trionfalmente superata. Eppure procurò un segno indelebile su uno spirito particolarmente nobile. Il Secondo Isaia [2] affrontò il problema dell'afflizione di Israele con una risoluta intenzione di padroneggiarlo e comprenderlo. La sua soluzione del problema può essere classificata forse come la più audace e la più sublime fuga dell'immaginazione poetica nella cronaca umana, ben degna della riverenza di tutte le età a venire. Concepì il suo Popolo come un Servo Giusto e Sofferente, ma soprattutto come uno Strumento brandito nelle mani dell'Onnipotente per la Salvezza del Mondo Intero, come una Luce per illuminare l'oscurità del Politeismo che si posava su tutto il globo, come portatore della Torcia della Verità Divina lontano in giro tra i pagani, nei luoghi oscuri e segreti dell'Idolatria, e che diffonde così la conoscenza di YHVH fino a dover riempire tutta la terra come le acque coprono il mare.
Questa espansione universale del Monoteismo ebraico, la conversione di tutto il mondo allo Jahvismo, poteva essere raggiunta in un solo modo, disperdendo gli ebrei tra i pagani, e questa Diaspora implicava il rovesciamento temporaneo e la Morte di Israele come Nazione. Questa confusa calamità fu concepita come un atto di Dio, la Sua resa volontaria e il suo sacrificio espiatorio del suo stesso Popolo, il Suo stesso caro amato Figlio, per cancellare i peccati del mondo, e rendere tutti gli uomini i figli dell'Altissimo, col recare la Conoscenza (la Gnosi) di Dio a tutti. Naturalmente, la Vittima deve essere immaginata come un Sacrificio volontario, come perfettamente sottomessa ai decreti del Cielo e almeno in larga misura un sofferente innocente, come portatore della colpa degli altri ed espiante per i loro peccati.
 Ma la maestosa concezione del Morente Sacrificio Espiatorio non era ancora abbastanza di per sé. Un Padre giusto e amorevole potrebbe davvero cedere il Suo proprio e unico Figlio come un sacrificio volontario per i peccati del mondo, per riportare tutta l'umanità errante all'ovile di Dio, ma questo non avrebbe potuto essere la fine della storia. Il Figlio che Egli Amava non avrebbe potuto arrendersi alla Morte per sempre; anzi, deve essere resuscitato dai morti ed esaltato alla gloria insperata di prima. Così almeno il Profeta sembra aver ragionato, perché dopo aver piaciuto a YHVH di ferirlo e di rendere la sua anima un'offerta per il peccato, tuttavia “prolungherà i suoi giorni”, tuttavia “io gli darò la sua parte fra i grandi, ed egli dividerà il bottino coi potenti” (53:12) — Tale sembra essere la teodicea del Secondo Isaia.
Che il Giusto Servo non sia né più né meno che Israele Idealizzato sembra essere al di là di ogni dubbio; in molti passi precedenti difficilmente il profeta avrebbe potuto essere più esplicito (Isaia 41:8s, 44:1s, 44:21, 45:4, 48:20, 49:3). In effetti lo spirito di tutti i ventisette capitoli (40-66, non un'unità in senso stretto) mostra al di là di ogni disputa l'intenso patriottismo del veggente (o dei veggenti) e la sua fede ardente nel futuro luminoso del suo Popolo.
 Tuttavia la sua brillante concezione di Israele come il portatore della fiaccola di YHVH per il Mondo Pagano portò con sé alcune modifiche necessarie nella teoria generale della relazione di Israele con il resto dell'umanità. Il concetto di Israele doveva essere ampliato in modo da includere in qualche senso tutti i pagani illuminati di recente, così da diventare membri del Popolo Eletto, che avrebbero potuto in futuro essere immensamente più numerosi degli stessi ebrei. Ora questa universalizzazione del Concetto del Popolo di Dio era un'impresa audace e difficile. Sembrava difficilmente nella natura delle cose che dovesse essere concessa una uguaglianza completa e perfetta, e tuttavia come avrebbe potuto essere negata?
La generalizzazione dell'Idea d'Israele era condizionata dallo sviluppo di un altro processo, che si potrebbe definire la Spiritualizzazione della stessa Idea. Se il pagano doveva essere assorbito in Giacobbe e diventare un vero Figlio di Abramo, che cosa significava? Sicuramente come minimo, che tale filiazione non era secondo la carne, che non era una semplice questione di parentela fisica e comunione di sangue, ma un'affiliazione dell'anima molto più profonda; non una consanguineità ma una co-spiritualità. Israele non era più una serie continua di generazioni di uomini in carne e ossa scaturiti da un solo tronco di Abramo, ma una corrente [3] inesausta di vita spirituale, la Gnosi di Dio, che sgorgava dal profondo della Divinità stessa, riversata sulla terra in Palestina, ma che si diffonde su ogni terra e bagna il mondo intero nella bellezza della santità, nella gioia dell'adorazione del solo Jahvè.
Sembra quindi che l'Idealizzazione, l'Universalizzazione e la Spiritualizzazione di Israele siano solo tre lati dell'unico triangolo, e siano tutti parimenti implicati nell'unica grande immaginazione isaianica del Servo Giusto e Sofferente di YHVH. Ma non si deve supporre che ciò implicasse l'abbandono della speranza millenaria della Glorificazione di Israele propriamente detta. Se fosse stato così, la nozione non avrebbe mai potuto mettere piede nella coscienza ebraica, sarebbe morta alla sua nascita, le parole di Isaia non avrebbero mai potuto trovare posto nel canone ebraico. Il profeta stesso è posseduto dalla visione della veniente esaltazione del suo stesso Popolo: vede Gerusalemme sorgere dalle ceneri della vedovanza e decorarsi con le vesti della Sposa di YHVH (49:18). Precisamente come questa dignità si potesse realizzare e in che cosa dovesse consistere, era lasciato al futuro da determinare, ma nel frattempo il singolo veggente poteva immaginare ciò che gli piaceva e dare alle sue fantasie qualsiasi espressione letteraria che poteva dare.
Molto diverso era la procedura del profeta Daniele. È appena sfiorato dalla concezione di Isaia — intuibile solo da pochi — ma mantiene decisamente l'infinita superiorità di Israele, esprimendola in modo molto vivido immaginando i grandi regni pagani, compreso il regno greco di Alessandro e dei suoi successori, come 4 Bestie, ma Israele come uno simile ad un Figlio d'Uomo, cioè un essere umano. Quest'ultimo, che “giunse sulle nubi del cielo”, è portato alla presenza dell'Antico dei Giorni (l'Eterno Dio), e riceve “potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto. … Allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e obbediranno” (7:13, 14, 27).
Qui il caso è perfettamente chiaro: Israele, il Popolo dei Santi dell'Altissimo, è il Figlio dell'Uomo, la più alta e unica vera umanità nel suo senso più nobile, e a lui “fu resa giustizia” (7:22), e governa per sempre tutti gli altri popoli come Viceré di Dio. Non vi è alcun'allusione a condividere ciò con dei gentili riformati.
Apparentemente fu sotto l'ispirazione di Daniele che un'intera letteratura sorse con il nome di Enoc di cui un blocco considerevole, le Similitudini, è occupato da quella che potrebbe essere chiamata la Rivelazione del Figlio dell'Uomo o dell'Eletto di Dio. In un precedente capitolo abbiamo constatato che si tratta di un Essere soprannaturale, tenuto nascosto (politicamente oscurato) per secoli nei profondi consigli di Dio, ma alla fine rivelato, per il giudizio, infatti a lui ogni giudizio, “fu consegnata la somma della giustizia” (Enoc 69:27, 29), poiché “si è assiso sul trono della sua gloria”. Questo Figlio dell'Uomo, così chiamato 15 volte in Enoc, altrimenti chiamato l'Eletto, 17 volte, l'Unto due volte, che agisce come Viceré del Capo dei Giorni (“Antico dei Giorni”) o Signore degli Spiriti, è manifestamente e da ogni segno una Personificazione del Popolo Israele, si potrebbe dire l'Israele Ideale, il Prescelto di Dio.
Certo, potrebbe essere chiamato il Messia (Unto), se con questo termine si intende la stessa Personificazione. Non si può sottolineare troppo fortemente che nelle Similitudini di Enoc, l'Eletto, il Figlio dell'Uomo, designava il Popolo Israele, idealizzato e personalizzato, ma ancora tutto e soltanto Israele, niente più niente di meno, come il solo Agente del “Capo dei Giorni”, del “Signore degli Spiriti”, nel giudizio finale del mondo, sebbene con funzioni e caratteristiche alquanto più miti e più benefiche verso le nazioni di quanto non appaia nell'originale danielico. In effetti, il termine Eletto sembra decisivo. Il Figlio dell'Uomo, quando equiparato a “Mio Eletto”, il Prescelto di Dio, deve essere Israele e Israele soltanto.
Sotto stretto e costante contatto con il mondo del pensiero e del sentimento greco, l'animo ebraico e la visione del mondo nella Diaspora subirono una profonda modifica nella direzione dell'idea di Isaia. Lentamente e gradualmente si arrivò a realizzare che il mondo greco fosse degno di essere salvato e che Israele doveva essere il factotum di Dio nella Salvezza (Jeshu-a) dei gentili. Si vedeva sempre più chiaramente, almeno da alcuni spiriti eletti, che nessun altro onore poteva essere paragonato a quello di essere il Salvatore del mondo, il Capo spirituale di tutta l'Umanità. Il problema di questo sviluppo era il Proselitismo ebraico, che abbiamo osservato risalire quasi alla metà del secondo secolo pre-cristiano, da dove si diffuse in oltre 300 anni. Quanto straordinariamente intenso ed esteso fosse stato non potremo mai saperlo, possiamo solo giudicare dalle allusioni sparse qua e là.
Ora sembra impossibile comprendere l'antico Movimento cristiano senza rammentare costantemente questa Crociata ebraico-ellenistica per il Monoteismo. Fuor di discussione, preparò il terreno in cui il vangelo fu seminato come un seme di senape, da cui germogliò ed emerse e fiorì con una crescita rara e oscura. Come è noto, la stessa mente ebraica era lontana dall'essere un'unità su questo argomento della Conversione dei pagani. Come poteva essere diversamente con Daniele e Isaia nel Libro Sacro? Gli echi lontani della lotta sono ancora ascoltati nel libro degli Atti. Naturalmente era nei circoli palestinesi che prevaleva più fortemente la visione conservatrice di Daniele: il patriota ebreo bramava intensamente la Venuta (Parusia, presenza) del Figlio dell'Uomo, per il giudizio, sulle nubi del cielo, per vederlo assiso sul trono della sua gloria, con tutte le nazioni sottomesse della terra riunite attorno a lui.
Era solo per la liberazione politica del suo popolo che un patriota del genere sperava; provava poco o nessun interesse per un Liberatore personale; era la Redenzione nazionale, e non il Redentore, per cui pregava. D'altra parte, tutta la storia, anche quella di Israele, ha una sola voce nell'insegnare che le conquiste nazionali trascendenti si realizzano solo attraverso leader nazionali trascendenti. Era quasi inevitabile che un tale capo o delegato dovesse  concentrare su di sé l'attenzione non solo degli scrittori apocalittici qua e là, ma molto più della folla in generale, a cui la concezione della Nazione come unità era difficile, ma la concezione di un grande Comandante era facile e facilmente disponibile.
L'immaginazione di alcuni, forse di molti, avrebbe potuto rivestire un tale portavoce di poteri soprannaturali, e alimentare storie meravigliose e persino miracolose su di lui. Ma si può essere certi che solo un potente uomo d'azione, un esecutore di azioni audaci e disperate, avrebbe potuto incantare la generale fantasia popolare e ispirarla ai suoi eccessi di finzione senza precedenti.
Ciascuno consideri i tumulti che erano prevalsi in Palestina da oltre cento anni, l'inquieto spirito di ribellione contro il potere straniero e soprattutto contro il potere romano, che brulicava i monti per generazioni di sicarii (accoltellatori). Rifletta sul crescente fermento che portò Mommsen a datare la guerra catastrofica non (come fatto comunemente) dal 66 E.C., ma dalla morte di Agrippa nel 44 E.C.; rifletta sul coraggio fanatico e sul disprezzo della morte che animava generazione dopo generazione gli ebrei e li induceva a sacrifici che ora sembrano essere stati quasi folli, e poi si chieda: dove altrimenti nella Storia si è mostrato un simile calderone ribollente di sentimento nazionale?
Indubbiamente c'erano molti che conservavano ancora il loro equilibrio e la loro ragione, ma erano forse del tipo di persone inclini ad entusiasmarsi per le visioni di un connazionale resuscitato dai morti, asceso al cielo e intronizzato nella gloria alla destra della Maestà celeste? Assolutamente no. Al presente scrittore l'idea di un Messia sognatore come tale concentrazione di fermento, di un gentile rabbino che si trascina lungo le rive del mare di Galilea, predicando il pentimento nelle strade di Cafarnao, discutendo nelle sinagoghe, “cullando bambini tra le braccia”, scalando le montagne per predicare ai suoi discepoli (!), seguito ovunque fin nel deserto da parte di ascoltatori che affluiscono, l'idea di un simile uomo-di-parole non è mai balenata nella mente della moltitudine in Palestina come un singolo Messia personale inviato per liberare il Popolo Eletto dal servaggio del giogo romano — un'idea del genere sembra incredibilmente fuori posto.
Per riscattare tale idea per un momento dalla totale fatuità, dobbiamo ricoprire un tale rabbino di poteri inconcepibilmente miracolosi, di quelli che occupano tutta la scena nei vangeli, di quelli che i Fondamentalisti (ma nessun altro) gli attribuiscono ancora — e molto più ancora dobbiamo dotarlo di una personalità magica, al tempo stesso affascinante e carismatica, che provoca allo stesso modo amore e terrore, stupore e ammirazione. Questa ovvia necessità era distintamente percepita dagli antichi. Nell'Ep. 65.8 Ad Principiam Girolamo dichiara: “A meno che Gesù non avesse avuto qualcosa di luminoso sul suo viso e sui suoi occhi, mai gli apostoli lo avrebbero seguito all'istante”; e nel commentario a Matteo 9:9 (chiamata di Matteo), parla della “radiosità stessa e la maestà della divinità nascosta che brillava anche nel suo aspetto umano”; e ancora, alla purificazione del tempio (Matteo 2:12), “infatti qualcosa di ardente e stellato balenava dai suoi occhi e la maestà della divinità gli brillava in faccia”.
 Qui il dotto Padre aveva indubbiamente ragione. A meno che non ci fosse la Divinità che sfolgorava dal suo volto ed echeggiava in ogni sua parola, il letterale Gesù dei vangeli è completamente incomprensibile nei suoi rapporti con il popolo della Palestina; nient'altro che un perpetuo miracolo della personalità avrebbe potuto rendere comprensibile un solo giorno del suo ministero galileo o giudeo. Gli sforzi della critica liberale per razionalizzare questa storia in termini non miracolosi diventano ogni giorno sempre più insoddisfacenti nonostante tutti gli splendidi poteri impiegati nel tentativo. Dall'inizio alla fine è la Divinità, semplicemente rivestita di carne, che cammina attraverso i capitoli del Nuovo Testamento. Ritira la Divinità, elimina il miracoloso, e dov'è la personalità superlativa?—la figura intera crolla in macerie. Di nuovo, lascia da parte i miracoli — che in ogni caso non erano umani, ma semplici dimostrazioni di potere soprannaturale, completamente privi di qualsiasi merito morale o di qualsiasi indizio di una personalità umana — e non troviamo un singolo atto distintamente umano del grande Maestro, non una sola esibizione di qualsiasi alto livello di virtù umana, non una sola traccia di fascino o di attrazione, nulla che possa umanamente conquistarci alla devozione — in realtà non troviamo nessun tratto personale di sorta che avrebbe contraddistinto una distinta natura carismatica o affascinante; per di più, non troviamo affatto alcun carattere umano! [4] È vero che un altissimo insegnamento morale-religioso di un certo tipo è talvolta attribuito a questo Maestro; ma potrebbe proprio altrettanto bene essere stato attribuito a qualcun altro; le parole potrebbero essere derivate proprio altrettanto bene da un oracolo o da una statua. Non una volta ha mai esemplificato o illustrato il suo insegnamento nella sua persona o nella sua condotta. Non dà mai ad un altro la sua copertura, non condivide mai il suo ultimo boccone con un altro, non protegge mai un altro a proprio rischio personale, non si addolora mai con un altro, non mostra mai una sola qualità nobile o amabile. Parla con meravigliosa bellezza dell'amore (nel quarto vangelo), ma si tratta solo di un mistico amore divino, non di un affetto umano. Egli lava i piedi dei suoi discepoli (nello stesso quarto vangelo), ma è solo un'azione simbolica, e non sembra che i discepoli avessero bisogno oppure desiderato il lavaggio. In verità, l'intera Vita, perfino nella rappresentazione giovannea, è singolarmente priva di qualità umane; in realtà non è affatto una vita umana, ma la vita di un Dio privo di emozioni che cammina su e giù per la terra, in vesti e sembianze umane. Il lettore potrebbe pensare a due o tre banali eccezioni apparenti, che troverà attentamente considerate in Ecce Deus; esse non attenuano il verdetto generale. Non c'è da stupirsi che Bultmann [5] ammette con rammarico che “il Carattere di Gesù ... è per noi non più conoscibile”.
È, naturalmente, la venerata consuetudine mantenere l'esatto opposto, considerare la Vita evangelica la vita completamente perfetta, il ritratto evangelico  l'unico, il solo Ritratto, di perfetta bellezza e fascino irresistibile. Ma questo è tutto senza alcuna giustificazione di sorta. Abbiamo semplicemente attribuito al ritratto — esso stesso quasi uno spazio bianco senza forma e senza colore — le caratteristiche e le qualità che ci piacciono di più, e poi abbiamo esclamato della nostra idealizzazione: “Com'è infinitamente bello e sublime!” Ci dimentichiamo delle sue parole che si dice siano state indirizzate a suo madre, “Che cosa ho da fare con te, donna?” (letteralmente, “Cosa per me e per te, donna?”), o inammissibilmente mitigate in “Lascia fare a me”. Quando Pietro si ribella per solidarietà contro la crocifissione, “Dio te ne scampi, Signore”, la risposta è immediata da parte di Gesù: “Vai dietro a me, Satana!”. [6] Tale asprezza sembra abbastanza “non cristiana” e immotivata.
Quando gli scribi e i farisei mettono in discussione le sue affermazioni (del tutto non supportate) e lo turbano con interrogazioni naturali, li denuncia dinanzi alla moltitudine (Matteo 23) in un'arringa pressoché ineguagliabile per selvaggia violenza e grossolana ingiustizia: sono “ipocriti”, “guide cieche”, “stolti e ciechi”, “sepolcri imbiancati”, “serpenti”, un “nido di vipere”, inevitabilmente condannati alla “dannazione dell'inferno”. Se c'è qualcosa in ogni vangelo che sembrerebbe rivelare qualche personalità umana nel Gesù, sembrerebbe essere questa feroce tirata nel tempio. Non c'è da stupirsi che l'onesto e perspicace Bultmann [7] pensa di trovare qui nelle sue spietate maledizioni, le vere parole di Gesù — “se da qualche parte (wenn irgendwo). Eppure mai una volta, a meno che da parte di Weidel, è contato o incluso come parte dell'accettato Ritratto evangelico!
A dire il vero, parole simili non furono mai pronunciate nel Tempio dal Gesù o da chiunque altro; esse riecheggiano nella loro allegoria le animosità di un periodo successivo, dopo la rottura tra le due religioni. Ma testualmente abbiamo proprio altrettanta autorità per attribuire loro a Gesù di quanta ne abbiamo per attribuire il Discorso della Montagna o la preghiera finale ai Discepoli prima di attraversare il Cèdron (Giovanni 17). Sembra chiaro che gli scrittori non abbiano avuto in mente nessuna persona storica, ma hanno tranquillamente consultato il loro senso personale dell'eterna convenienza delle cose (che non è sempre il nostro senso!), e hanno posto sulle labbra di Gesù qualunque loro fantasia che avrebbero rivestito di autorità divina, indipendentemente da qualsiasi originale o addirittura da ogni coerenza stessa.
Un'altra considerazione che sembra decisiva, una volta e per sempre, per la natura non storica dei vangeli, è il fatto apertamente indiscutibile, già argomentato, che si trattava in larga misura di allegorie o di simbolismi. Naturalmente, tutti hanno familiarità con il luogo comune che il “Gesù parlava in Parabole”. La loro abbondanza e la loro frequente eccelsa bellezza sono state un tema di infiniti commenti, un oggetto di ammirazione stupita per i commentatori per quasi un paio di secoli. Ma quelle Parabole sono solo una fase di una caratteristica generale, anzi universale dei vangeli, la fase simbolica o allegorica. Tali illustri Padri della Chiesa come Clemente di Alessandria, Origene, Agostino e altri, riconobbero i significati simbolici in questione senza un dubbio o un'esitazione e spesso li esprimevano chiaramente e con forza. Sfortunatamente essi combinavano questo enfatico riconoscimento con fantastiche teorie dell'interpretazione delle Scritture come documenti dal significato multiplo, in possesso a volte anche di quattro significati [8] ben distinti nello stesso passo, ciascuno dei quali era egualmente giustificato! Con tali mezzi essi cercavano di salvare il senso storico ordinario (il tradizionale “latte per bambini”), mentre rendevano ragione a volte all'innegabile simbolismo. Certamente un metodo del genere non può soddisfare la prosaica mente scientifica di oggi, che non crederà mai che un simbolismo richieda di essere trattato con cautela! Se lo fosse, in ogni caso la meraviglia fisica avrebbe eclissato completamente il senso più profondo che si supponeva o si intendeva rivelare. Solo così il teologo conservatore oggi, quando interpreta il miracolo come fatto letterale, dimentica o addirittura nega il significato interiore; credendolo alla lettera, è scioccato e inorridito — con una coerenza giustificabile — dal suggerimento che la storia sia un'allegoria o un simbolo.
Possiamo concludere, quindi, con sicurezza che, poiché i miracoli, anche secondo i Padri della Chiesa più autorevoli, erano indubbiamente simboli di verità spirituale, è del tutto impossibile che dovessero essersi verificati fisicamente. Cosa potrebbe essere più assurdo che immaginare il Gesù mentre girovagava per la regione, che parlava alla gente in Parabole così che non lo potessero capire (“perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano” Marco 4:12, Matteo 13:14, Luca 8:10) e che operava ogni sorta di meraviglie che simboleggiano verità spirituali di cui sicuramente la gente non avrebbe sospettato neanche lontanamente! Ciò sarebbe equivalente a nutrire non con latte per i bambini, ma con acqua e soltanto acqua!
 Sembra impossibile sottolineare questo punto troppo fortemente, perché sembra essere quasi decisivo come può essere ogni considerazione. Il contenuto evangelico è certamente in larga misura puramente simbolico. Così tanto è francamente concesso dalla più alta autorità critica. Dice il Teologischer Jahresbericht nella recensione di Ecce Deus: “Soprattutto, tuttavia, è nella dimostrazione dell'originaria natura esoterica del cristianesimo, e con ciò dell'esigenza di un'interpretazione simbolica molto più approfondita dei vangeli, che risiede il valore permanente del grande lavoro di Smith”. Bene, allora, se i vangeli sono simbolici a tale enorme misura, e se a tale elevata misura non sono i ricordi di fatti fisici storici ma di verità e di dottrine religiose, che ne è dell'Esecutore di quelle meraviglie, dell'Eroe di quelli episodi? L'unica risposta sembra essere che come una forza ed un'entità spirituale Egli rimane incrollabile e persino rafforzato irremovibilmente, ma come un fatto fisico materiale Egli svanisce per sempre. 

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Di passaggio dovremmo richiamare l'attenzione su una frase della citazione precedente: “la dimostrazione dell'originaria natura esoterica del cristianesimo”. Questa “natura esoterica” è data e si manifesta nella rappresentazione dell'insegnamento in parabole come inteso a illuminare i discepoli senza illuminare i non-iniziati, la gente in generale — che certamente non poteva comprendere tale insegnamento senza alcun aiuto. Ci sono molti passi che implicano altrettanto. Così, Egli parlò in parabole, “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (Matteo 13:11), “quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti” (Matteo 10:27), ecc. Tutto ciò è perfettamente comprensibile e in verità del tutto naturale, se la Predicazione primitiva fosse la predicazione di una raffinata dottrina spirituale o di una teoria della provvidenza divina, lungi dall'essere facile da capire e che richiedeva di essere esposta dapprima in forma storico-allegorica, allo scopo di conquistare la mente e il cuore del mondo in generale — in seguito da esibirsi in termini più ragionati e più difficili — “parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta” (1 Corinzi 2:7), “E se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono” (2 Corinzi 4:3), “Non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato” (Marco 4:22). Ma sarebbe pura follia, se quella Predicazione fosse di una serie di fatti biografici ampiamente e generalmente conosciuti, familiari alla gente, i discorsi di Gerusalemme e di ogni villaggio galileo. E quale motivo possibile nell'insegnare così silenziosamente e nascostamente i principi universali di una sublime moralità, a cui le migliori menti di tutta la terra avevano mirato per così tante centinaia di anni? È in presenza di questi fatti e di riflessioni come queste che il Modernismo e tutte le sue pretese sono ridotti al silenzio.
Il requisito di segretezza diventa particolarmente auto-giustificante quando consideriamo due fatti: che la Predicazione primitiva era rivolta direttamente contro il Politeismo, e che era impossibile attaccarlo apertamente senza incontrare pericolo e morte. La Legge romana proteggeva tutte le forme di culto religioso in quanto servivano alla stabilità della società,  cosicché era senza speranza assalire apertamente gli Dèi; soprattutto, lo stesso imperatore romano, rappresentando e incarnando l'Idea dello Stato romano, era considerato l'unico oggetto di culto universale, come simbolo di una sorta di Monoteismo politico. L'intensità del risentimento ebraico e del primo risentimento cristiano nei confronti di questa Idolatria di Stato è ben manifestata nell'Apocalisse (ad esempio vedi Apocalisse 13:1-17), dove la Bestia che sorge dal Mare (il tumulto della Storia), che tutta la terra adora, è il Potere Imperiale romano, incarnato negli imperatori. 

2. Sion contro Antiochia

Per tornare da questa apparente digressione, la figura isaianica del Gesù evangelico, come Maestro e Guaritore, non ha quasi alcun punto di contatto con la concezione danielico-enochica del Figlio conquistatore, giudice e dominatore di tutto, l'Eletto di Dio, il Messia o Cristo vittorioso. La concezione vi era nondimeno espressa un certo numero di volte — in un passo con particolare magnificenza (Mt 25:81-46) — ma non debitamente adattata alla forma di Gesù presentata nei vangeli. In realtà il Danielismo militante è ancora dominante almeno in molti inni. Per fare spazio a questa concezione apocalittica, la Venuta (Parusia) del Figlio dell'Uomo dovette essere divisa in due e tutti gli aspetti danielico-enochici di potere, gloria e giudizio furono posposti alla Seconda Venuta!! Naturalmente, questo era in apparenza del tutto assurdo, abbastanza in disaccordo con tutto il corpo del pensiero precedente sull'argomento, ma era nondimeno necessario — se entrambi Isaia e Daniele si dovevano tenere in onore! Perché era nella contraddizione tra quei due che giaceva nascosto il fato di divisione tra ebraismo e cristianesimo. E qui sicuramente c'era una contraddizione, se qualche contraddizione è possibile. Il cristianesimo fu un faticoso tentativo di armonizzare l'opposizione, con l'accento sulla fase di Isaia. In un primo momento potremmo supporre che gli interpreti di Isaia fossero stati uomini di un tipo di natura molto più elevata rispetto agli interpreti di Enoc: ma sarebbe un'affermazione molto avventata. A dire il vero, il critico imparziale deve ammettere che la visione di Isaia supera di gran lunga l'altra in ogni dimensione, in altezza spirituale, in ampiezza di visione storica, in profondità di avvistamento intellettuale. Eppure resta ancora molto da dire dell'altro lato. Per il normale ebreo, difficilmente avrebbe potuto apparire più di uno splendido sogno. Le realtà riconosciute della storia lo contraddicevano ad ogni svolta. La luce del monoteismo ebraico potrebbe essere chiara e luminosa in effetti, ma la sfera della sua illuminazione sembrava irrimediabilmente piccola. Vi si mostrava solo una piccola prospettiva per una penetrazione profonda dell'oscurità politeistica circostante.
Ancora di più, comunque, per l'onesto abitante di Gerusalemme la teoria di Isaia aveva tutta l'apparenza di una beffa imperdonabile, una spietata parodia sulla  fede millenaria di Israele. Tutte le cose buone della vita, della ricchezza, del potere e della prosperità, con la lunghezza dei giorni e l'immancabile posterità, erano state promesse ripetutamente, enfaticamente e solennemente a Giacobbe da YHVH stesso nelle parole dei suoi stessi profeti ispirati. E quale ora sarebbe stata la gloriosa ricompensa di una fedeltà millenaria, il premio della giustizia, l'avvistamento del favore e dell'amore divini? Perché portare “luce ai gentili”,  condividere con loro la prerogativa della figliolanza divina, rendere l'assassino co-eguale alla sua vittima agli occhi di YHVH. Per il patriota palestinese jahvista, la cui visione era limitata entro i confini della Terra Santa, tutta questa spiritualizzazione potrebbe ben apparire come la più amara dell'ironia cinica. Un tale ebreo deve condividere il suo fato con gli Zeloti, gli Apocalitticisti, o altrimenti con i Quietisti, deve sforzarsi di raddrizzare i torti del giorno, affidandosi alla propria forza sostenuta da Jahvè — oppure deve pazientemente attendere l'incursione del potere divino dall'esterno, una Venuta miracolosa del Figlio di Dio. Più profondamente logico e coerente era sia moralmente che religiosamente, tanto più senza esitazione avrebbe adottato questa visione e linea di condotta, che in tutte le sue sfumature e varietà potremmo chiamare la visione palestinese.
Molto diversa era la difficile situazione dell'ellenista, l'ebreo della Diaspora, che aveva vissuto, come forse i suoi padri, tutti i suoi giorni ad Alessandria o ad Antiochia o a Damasco o a Efeso o anche a Roma, che aveva dimenticato la sua lingua madre e aveva parlato solo greco, che leggeva le sue Scritture sacre solo nella traduzione dei Settanta, che era venuto a conoscere, per quanto imperfettamente, la letteratura, la scienza, l'arte, in una parola, la Cultura dell'Ellade; l'impressione forte di un rapporto costante deve aver rivelato la natura gentile come non del tutto cattiva, paragonabile in molti punti con il meglio che persino Israele poteva vantare.
 Nulla di tutto ciò implica che l'indiscutibile superiorità dell'ebraismo nella religione e nella moralità sessuale fosse stata dimenticata per un solo momento; anzi, era piuttosto sottolineata e rafforzata dalla continua esibizione di quei punti di debolezza gentile. Ma l'ebreo nella Diaspora trovava molti pagani abbastanza aperti alla persuasione, molti profondamente insoddisfatti delle innumerevoli deificazioni degli eroi e dei poteri della natura e delle idee umane, e ansiosi di accogliere una dottrina dell'Unico Dio e Padre di tutti, Creatore e Preservatore, il Consolatore e la Speranza dell'Umanità. Questa era sicuramente una brama profonda dell'antico Impero romano e, ben oltre la portata della filosofia greca o del culto misterico asiatico, il Monoteismo ebraico vi provvedeva in larga misura e con imponente magnificenza di Legge, di Letteratura e di Vita.
È vero, c'era molto nello Jahvismo per sempre inaccettabile per il cuore pagano. Tra quelle cose, in particolare, c'era la persistente illusione che Israele fosse destinato alla signoria della terra, a governare le nazioni con una verga di ferro, per gettarle a pezzi come il recipiente di un vasaio. Certamente i gentili non potevano sopportare pazientemente una tale presunzione così assurda, e l'ebreo imparò molto presto che tale pretesa era adatta solo per un uso privato, che era una dottrina esoterica che avrebbe potuto essere più sicuro lasciare a casa.
Eppure non erano meno desiderosi di diffondere la gloriosa Verità in cui esultavano. Divennero sempre più zelanti, con sempre più successo nel proselitismo. Sarebbe una lunga storia, se potessimo conoscerla e raccontarla tutta. Il Fatto che la propaganda sia stata ampiamente estesa e intensamente zelante nella Diaspora è fuori discussione. Tutto questo, tuttavia, solo di passaggio. Il nostro presente interesse è alla Concezione di Israele su come doveva modellarsi sotto le necessità del proselitismo e della situazione al di fuori della Palestina. Se l'appello del propagandista doveva essere adattato in qualche maniera o misura alla coscienza pagana, deve lasciare del tutto l'elemento nazionale, sia nel suo sguardo al passato che nel suo sguardo al futuro, e deve poggiare la sua causa sulla razionalità e sulla dignità del Monoteismo in contrapposizione all'idolatria irrazionale e abietta; e che tale fosse stato il vero appello fatto con successo è ampiamente attestato sia da quello che sappiamo del Proselitismo ebraico che dalla letteratura della più antica Propaganda cristiana (come in Atti 14:15-17, 17:22-30, ecc.).
Nella visione di Isaia il pensiero edificante ed esaltante era quello della Salvezza, principalmente del Popolo ebraico angosciato, ma anche dell'intero mondo gentile. Le parole salva, salvezza, salvatore abbondano nei famosi 27 capitoli.  Salvezza è usata 20 volte dal Secondo Isaia [9] in varie forme: yeshu-ah, yesha, (dove invece di y e sh possiamo scrivere j ed s e la parola si traduce in greco come Iesous, in inglese come Jesus). Molto naturalmente, la stessa parola viene anche usata frequentemente nei Salmi, 62 volte.
In Isaia (e nei Salmi) questa Salvezza è naturalmente opera di YHVH, ma è spesso descritta obiettivamente e potrebbe facilmente essere considerata come personificata, come un salvatore inviato da Dio. Come è noto, l'abitudine alla personificazione era universale nel pensiero ebraico. Bene, allora, sulla base della consuetudine ebraica e in conformità alle Scritture ebraiche regolative, il nome Gesù fu attribuito di necessità ad un Essere concepito come Jeshu-ah,  Salvezza personificata.
Ma perché mai un tale Essere? Perché non accontentarsi dell'astratto, perché non predicare la semplice verità del Monoteismo e affidarsi alla sua forza intrinseca per influenzare la mente gentile? C'era ogni ragione contro una procedura del genere. La “verità del Monoteismo” era lontanissima dall'essere semplice, e nella sua nuda presentazione non era affatto convincente. Potrebbe essere filosoficamente profonda e tuttavia non convincente per la mente comune, che si sentiva molto più a suo agio con uno stormo di divinità benigne che si aggiravano vicino, pronte a rendere ogni loro assistenza appropriata. [10] Inoltre, l'astratto è sempre difficile da afferrare: noi naturalmente ci rivolgiamo al concreto per soccorso, gridiamo a voce alta per un esempio. Inoltre, il passo chiave di Isaia (52:13-53:12) è il passo più concreto immaginabile. Là il Figlio di Dio, il Figlio dell'Uomo, il Popolo Eletto, il Giusto Servo, è introdotto e descritto minuziosamente come un uomo, condotto come un agnello al macello, perfino ucciso e sepolto con il ricco nella sua morte. Che l'antica Propaganda  cristiana dipendesse da questo passo è indicato distintamente nel resoconto relativo alla Conversione del tesoriere etiope (Atti 8:26-40). Un angelo ordina a Filippo di incontrarlo mentre guida il suo carro e medita invano l'enigma di Isaia; Filippo gli prende il testo, glielo spiega tutto e il funzionario viene immediatamente convertito. A dire il vero, la storia è un'invenzione manifesta ma non importa. Mostra indiscutibilmente come l'autore abbia considerato i famosi versi di Isaia in relazione alla Proclamazione del Vangelo.
Anche questo non è tutto, comunque. C'è una ragione ancora più profonda. Gli Apostoli o Missionari erano ebrei, forse ellenizzati molto fortemente, ma ancora ebrei, e ancora convinti che gli ebrei dovessero “dividere il bottino coi potenti” (Isaia 53:12). Stavano predicando lo Jahvismo, la dottrina dell'unico Dio YHVH, Dio del mondo intero, desideroso della salvezza di tutti gli uomini, e tuttavia un Dio ebraico tribale! Non potevano per nulla mettere da parte questa sfumatura nazionale della loro propaganda, e tuttavia non osavano esporla, se speravano in un'udienza gentile. Ancora una volta, abbiamo visto che non potevano predicare Dio come un'Astrazione, come la Ragione dell'universo. Questa non era in effetti la loro stessa idea, né avrebbe potuto suscitare una presa generale o potente sugli ascoltatori pagani. Questi ultimi erano abituati a presentazioni biografiche degli Dèi, ognuno dei quali aveva la propria dimora locale e il suo nome, insieme alla propria storia individuale. Questo non poteva essere reclamato per l'Unico Dio del Propagandista, e tuttavia non potevano esserci dei compromessi, qualche concessione temporanea alla loro durezza di cuore fino a quando non fossero cresciuti di più nella grazia e meglio istruiti nella sapienza divina? 
Ancora una volta fu l'oracolo di Isaia che offrì una pronta soluzione, che non poteva non affascinare la mente orientale. Là il Popolo Eletto trovò la rappresentazione di un singolo individuo, il Servo giusto, l'Agnello immolato, il sacrificio espiatorio per i peccati del mondo. Perché non presentare questa figura ai pagani in attesa? Perché non raccontare loro la storia di Israele, il beneamato Figlio di Dio, il suo Unto, come Gesù il Salvatore di tutti gli uomini, sotto forma di un'esistenza terrena di dolore, sofferenza, morte e successiva resurrezione e ascensione alla gloria? Cosa avrebbe potuto essere più allettante per l'ebreo? Cosa avrebbe potuto essere più vivido e impressionante per il gentile? L'esempio consacrato del Principale dei Profeti non era solo la rivendicazione completa, ma anche l'urgente raccomandazione di questa politica, che aveva quindi tutto a suo favore e non il minimo ostacolo contro. Di conseguenza, non c'è nulla di sorprendente nel suo impiego; sarebbe stato strano, sconcertante e in necessità di una spiegazione, se non fosse stato adottato. 

3. Carne? O Latte? [11]

I vangeli, come ora in nostro possesso, presentano il risultato finale dell'impiego diffuso, sistematico, gradualmente crescente e a lungo continuato di un'esposizione simbolica per conformare la Verità divina dello Jahvismo al temperamento e ai pregiudizi della mente e del cuore pagani. Nel fare ciò, il ruolo del Missionario non era privo di un minimo di franchezza. Non nascondeva il fatto che il messaggio che doveva consegnare era carico di un pesante fardello di concetti spirituali, che era oltre il suo potere rendere chiari, comprensibili e accettabili all'anima pagana non addestrata a respirare quell'aria di montagna. Il proselita veniva regolarmente chiamato e considerato un nuovo “bambino” nato, l'emersione dalle acque battesimali era il simbolo vivido di questa seconda nascita — da cui l'adozione cristiana universale di questo rito ebraico. La natura stessa del caso sembrava richiedere che i “bambini in Cristo”, nella “comunità” spirituale di Israele, fossero nutriti con “innocente latte dottrinale”, affinché potessero “crescere per la salvezza”, dopo averlo assaporato che “Chrestos è il Signore” (1 Pietro 2:2s). Questa concezione del convertito gentile come un “bambino” ricorre frequentemente nel Nuovo Testamento come in Matteo 11:25, 21:16, Luca 10:21, Romani 2:20, 1 Corinzi 3:1, Ebrei 5:13, 1 Pietro 2:2. A volte si preferisce il termine “piccolo”, come spesso lo preferiamo in uno stato d'animo affettuoso; così, in Matteo 10:42, 18:6,14, Marco 9:42, Luca 17:2. Così anche “Figlioli”, usato circa 10 volte nelle epistole. È ben noto [12] che qaton, “piccolo” (come in Genesi 44:20) è un regolare termine talmudico per “proselita” (Ecce Deus 118). La consuetudine del Nuovo Testamento era completamente naturale.
Gli Apostoli stavano effettivamente usando la loro Personificazione per il tempo presente, ma sulla base delle loro stesse affermazioni li vediamo in attesa non troppo pazientemente per il tempo a venire quando i loro convertiti avrebbero potuto ascoltare e comprendere il mistero non come realisti “come in uno specchio, in maniera confusa”, ma come idealisti, “faccia a faccia”; come in 1 Corinzi 3:1s, “Fratelli, io non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo. Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate capaci di sopportarlo; anzi, non lo siete neppure adesso”. Qui lo scrittore è disposto a pazientare con loro ancora per un po'. La generale natura spirituale della sua dottrina, la sottostante verità spirituale, era già stata oscuramente allusa nel capitolo precedente (2:6-8), il “mistero” della sapienza di Dio, il suo governo del mondo, che se i dominatori di questo mondo avessero conosciuto, “non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (cioè, non avrebbero perseguitato e ucciso il Giusto Servo di Dio, l'Israele Ideale Personificato). L'autore dell'epistola agli Ebrei ha avuto un'esperienza simile, ma ha molto meno pazienza con l'ottusità dei convertiti (Ebrei 5:12-14): “Infatti, voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di tempo, avete di nuovo bisogno che qualcuno vi insegni i primi elementi degli oracoli di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli uomini fatti”. Solamente 1 Pietro 2:2 sembra soddisfatto dei “Bambini in Cristo”, simili ai “bambini in cielo” destinati a rimanere per sempre “bambini”, una visione della materia che ha prevalso da quell'ora fino ad ora. L'ordine del giorno è ora la domanda: Questa visione continuerà a prevalere indefinitamente? La mente “carnale” dominerà la chiesa fino alla fine dei tempi? Dovrà il “velo” non essere mai sollevato dal volto del cristianesimo? la razza umana, nella religione, presenterà sempre un esempio di arrestato progresso? Non oseremo mai proclamare la vera dottrina degli Apostoli, perché la luminosità del suo raggio non debba accecarci, e dobbiamo sempre inchinarci davanti ad un'immagine scolpita della Verità piuttosto che alla Verità stessa? Che cos'era questo se non paganesimo, l'adorazione di un Idolo al posto di Dio? Nonostante gli sforzi più disperati del conservatore e del fondamentalista, la schiavitù dell'ignoranza non si può tenere permanentemente salda sugli occhi dell'uomo civilizzato. È da tempo consumata dal tempo e sta rapidamente cadendo a pezzi.
Sosteniamo, allora, che la storia evangelica era una concessione alla durezza di cuore pagana. La scelta che fece il missionario derivava dalla necessità, prevedendo presto di metterla da parte, e sembra che gli sia costata una profonda insoddisfazione. Ma non si deve supporre per un solo momento che l'intera storia, o anche gran parte di essa, sia venuta in esistenza in qualsiasi momento o in qualsiasi luogo oppure come l'opera di qualsiasi uomo. In alcun modo. Le fasi intermedie potrebbero essere scomparse, ma la loro esistenza in qualche momento e in varie forme è un postulato necessario. È ormai generalmente riconosciuto che dietro Marco e Q vi risiedono dichiarazioni di elementi di gran lunga più semplici della storia evangelica. Potrebbe (o non potrebbe) essere inutile immaginare come questo o quel particolare dettaglio o aspetto fosse stato inizialmente suggerito, o da chi, o in quali circostanze. In innumerevoli casi abbiamo visto indizi certi che l'impulso era un desiderio di adempiere alcune predizioni o detti dell'Antico Testamento. Quei testimoni scritturali conferirono plausibilità e vividezza alla narrazione, e sembra molto probabile che le raccolte di queste Testimonianze (Rendel Harris) venissero fatte prestissimo, forse da molte mani. Con il passare del tempo gli episodi proliferarono in numero e in dettaglio, e gli episodi extra-canonici successivi, non meno dei romanzi moderni chiamati “Vite di Gesù”, mostrano fino a quale esuberanza era possibile raggiungere.
Sebbene i Missionari più antichi si ritrovarono costretti in qualche maniera a fornire “latte per bambini”, per presentare e persino adornare la grande Personificazione di Isaia, tuttavia sembrano essersi accontentati di alcune idee centrali e di essersi astenuti inizialmente da qualsiasi presentazione di una vita. Sembra che l'Apostolo abbia insegnato quasi esclusivamente che il Cristo soffrì e morì, fu crocifisso e poi esaltato alla gloria. I dettagli sono quasi totalmente carenti. La predicazione ricolmava esattamente fino all'orlo la coppa della Profezia di Isaia. Non una goccia traboccò. Era strettamente “secondo le Scritture”. Il vangelo “trasmesso a noi prima di tutto, che ho comunicato”, inizia con “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture(I Corinzi 15:3,4; il capitolo è al massimo un'interpolazione). Il riferimento deve essere a Isaia 53:7-9, che personificava le sofferenze e la morte della Nazione Israele. L'epistola non racconta nulla su nessuna vita, ma solo circa la morte e la resurrezione del Cristo, come predetto nel testo di Isaia. Qualcuno potrebbe citare il racconto dell'Ultima Cena (1 Corinzi 11:28-26); ma di nuovo questo tratta solo una scena conclusiva poco prima della Morte, ed è anche in modo trasparente un'interpolazione, come appare nel verso 23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Quanto grottescamente assurdo supporre che il Gesù asceso abbia raccontato a Paolo dell'Ultima Cena!
La nozione paolina dell'Eucaristia è data abbastanza chiaramente in 1 Corinzi 10:16s: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane. Guardate Israele secondo la carne, ecc.”. Si tratta chiaramente di un rito di comunione, [13] di fratellanza, che simboleggia l'unità della comunità cristiana: “il Corpo di Cristo” proprio come nell'Insegnamento (Didachè, Capitoli 9, 10, 14). Questo “unico Corpo” in cui tutti condividono, “il Corpo di Cristo” non è altro che la Chiesa o la comunità cristiana, il nuovo e vero Israele.
Una testimonianza ancora più rivelatrice è la ripetuta descrizione, in Atti, dei dibattiti di Paolo e di Apollo con gli ebrei nella sinagoga e altrove. Tutti quei dibattiti vertono sull'interpretazione delle Scritture, se o meno insegnino la dottrina di un Messia Sofferente. Questo gli Apostoli affermarono strenuamente e gli ebrei (in un certo senso) negarono proprio altrettanto severamente. Così (Atti 3:18), “Ma ciò che Dio aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, cioè, che il suo Cristo avrebbe sofferto, egli lo ha adempiuto in questa maniera” e (Atti 17:2s), “Come era sua consuetudine Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture”. Allo stesso modo Apollo (18:25, 28). Per quanto possiamo vedere, quelle discussioni veementi con gli ebrei riguardavano unicamente l'interpretazione di presunti riferimenti profetici messianici. Non c'è mai da nessuna parte la minima allusione a nessun trascorso palestinese del Gesù — la cui “personalità straordinaria” non entra nella controversia, nemmeno nella minima misura.
In effetti sembra impossibile che questi ragionamenti prolungati “dalle Scritture” avrebbero dovuto riguardare una Vita circa cui Paolo (e ancor meno Apollo) sembrerebbe non aver conosciuto un singolo elemento e circa cui sembra che non gliene sia importato nulla. E cos'altro potevano sapere i suoi contendenti a Salonicco e a Berea? E cosa avrebbero potuto scoprire esaminando quotidianamente le Scritture, se quelle cose fossero così (17:11)? Niente di niente. Dall'inizio alla fine si trattava solamente di una questione di interpretazione dell'Antico Testamento, per quanto riguarda la natura, il carattere e la carriera profetica del Messia: i Missionari tenevano la visione di Isaia, i loro avversari ebrei alla visione di Daniele. Era una questione della Funzione Cosmica e del Destino di Israele. Non c'è da stupirsi che non potessero essere d'accordo. Questo sembra così naturale da non richiedere alcuna spiegazione; era esattamente quello che ci si poteva aspettare, ma appare per sempre inconciliabile con l'idea che l'Apostolo stesse predicando un individuo storico Gesù, un Maestro e Guaritore galileo.
La storia cominciava con le Sofferenze e la Morte, e questo racconto della Passione era stato sviluppato con la più grande ricchezza di dettagli. Tuttavia anche qui le diverse immaginazioni non sono riuscite a produrre un ritratto coerente e comprensibile. La versione di Matteo si appoggia molto fortemente sul resoconto, nella Sapienza di Salomone (2:13-20), dei rimproveri scagliati contro “il Giusto” (Israele) dai suoi calunniatori: “Proclama di possedere la (vera) conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. ... e si vanta di aver Dio per padre. Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, ... Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà.”. Il lettore non può non ricordare i passi evangelici paralleli di Matteo 26:53, 27:39-44 ecc. Le rassomiglianze sono troppo vicine e fin troppe per essere accidentali. Naturalmente c'erano altre fonti scritturali, alcune usate più in un vangelo, altre più in un altro.
Le storie della vita galilea, del Ministero, furono aggiunte una ad una, fatte, disfatte e rifatte in varie forme da varie mani, ma tutte nello stesso spirito generale, per esprimere la lenta formazione della Coscienza cristiana quando prese forma sotto l'impulso della sua spinta originaria e sotto l'impressione del suo ambiente principalmente pagano. Le preistorie successive della nascita e dell'infanzia di Matteo e di Luca, pure invenzioni del tutto indipendenti, rappresentano gli ultimi tentativi canonici di fingere una vita strettamente umana per la Personalità, che all'inizio era concepita come una Personificazione, senza alcuna traccia di antenati, mentre realizza il suo compito sublime di Sofferenza, di Morte, di Resurrezione in una Vita Più Elevata priva di ogni episodio ordinario dell'esistenza umana, più tardi era concepita mentre appare improvvisamente di colpo sulla scena d'azione, mentre viene “in Galilea a predicare”, ancora più tardi era concepita mentre nasce alla maniera ellenica da una madre vergine sotto il potere oscurante di Dio, e più tardi ancora era concepita mentre rivela perfino nell'infanzia i suoi poteri soprannaturali. [14] Per le stravaganze extra-canoniche non abbiamo alcun interesse, oltre ad osservare come il processo, una volta iniziato, continua via via anche negli scrittori dei nostri giorni.
Abbiamo immaginato solo il nudo scheletro del processo attraverso il quale si è sviluppato il vangelo. Nella vita stessa gli scheletri sono rivestiti di carne e sangue. Così c'erano molte altre influenze collaterali che determinarono innumerevoli fasi più o meno importanti della meravigliosa Propaganda. C'erano molte linee diverse di fede e di dottrina, forse quasi altrettante teorie quanti erano i teorici. Inoltre l'impronta dell'ambiente pagano era profonda e generale. Il vangelo, come lo abbiamo ora, era principalmente una creazione ellenistica, di ebrei ellenizzati, e non solo prese la sua forma in molti punti sotto pressione esterna, ma in realtà assorbì non poco dal suo ambiente. C'era endosmosi così come esosmosi. Non dobbiamo sorprenderci di trovare molte briciole pagane nella “pura dottrina” del vangelo, ma entrare in ogni discussione di questi elementi non è fattibile in questo contesto. [15]
Abbiamo constatato che il prodotto finale, la quasi-biografia simbolica che il mondo conosce come il vangelo era il concentrato letterario di un insegnamento figurato a lungo continuato che si estendeva tutt'attorno il Mediterraneo. Quei testi si illuminano da sè quando e solo quando abbandoniamo l'assunzione infondata di “documenti storici”, ed osserviamo in essi il loro significato manifesto, un dottrinale “Latte per bambini”.

NOTE

[1] Nel quale anno Simone, fratello e successore di Giuda Maccabeo, inviò un'importante ambasciata a Roma.


[2] Ossia, l'autore, all'incirca di Isaia 40-66 compreso, risalente al 400 A.E.C. Uno spirito affine — sebbene in alcun modo uno spirito rivale — si manifesta nel libro di Giona — così profondamente discusso in Jona: Eine Untersuchung zur vergleichenden Religionsgeschichte di Hans Jona (1907).


[3] Tale sembra essere stata enfaticamente la nozione di Filone, come appare in decine di passi.

[4]  Estremamente significativa è la chiara percezione di R. Bultmann (vedi la nota a pagina 58) non  solo della “mancanza dell'aspetto biografico”, ma soprattutto della mancanza di interesse personale, della concezione del carattere, nei vangeli.


[5] Die Erforschung der Synoptischen Evangelien, pag. 33, 1925.


[6] Le parole che seguono, “Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Marco 8:33) sembrano essere quasi un'eco esatta delle parole di Erodoto riguardanti gli spartani che ubbidirono di molto contro le attese agli ordini dell'oracolo di Delfi: “Ritenevano infatti più importante quanto è dovuto agli dèi di quanto è dovuto agli uomini”
(5:63).


[7] Nel suo Geschicte der Synoptischen Tradition, 1921.


[8] “Il senso letterale insegna fatti, il senso allegorico, cosa credere; il senso morale, cosa fare; il senso anagogico, dove tendiamo”, così dice un noto distico. 


[9] È una semplice coincidenza che il nome Isaia (Y'sha'yehu) significa Salvatore-Yah?


[10] Durante tutti quei secoli la mente (o l'anima) cristiana e perfino quella ebraica è stata ben lontana dall'essere soddisfatta dal semplice Monoteismo, ma si è cinta di un esercito protettivo di divinità secondarie, sotto il nome di Santi o di Angeli, con cui le sue relazioni sono state molto più familiari e cordiali di quelle col Re Solitario Jahvè al vertice del cielo. Un'osservazione simile potrebbe applicarsi all'Islam.


[11] La maggior parte dei contenuti in questa parte e nel capitolo 8 sono stati pubblicati nell'articolo di Smith, “Milk or Meat?”, Hibbert Journal, vol. 31, pag. 372-383, 1933.


[12] Lightfoot, Horae Hebraicae, 3.265.

[13] Si veda Ecce Deus, 150-152, Confronta anche i ricchi volumi di Gillis Pson Wetter su Altchristliche Liturgien (1921, 1922).


[14] Quindi sembra che la storia evangelica sia una retro-struzione, è costruita a ritroso, come un sogno. Nel Quarto Vangelo la struttura viene portata ancora più indietro, al “Principio”!


[15] Dice l'illuminato Dean Inge: “È inutile negare che San Paolo considerava il cristianesimo come minimo una religione misterica per un lato”. Confronta anche il lavoro profondamente significativo di Reitzenstein, Das iranishe Erlösungsmysterium, e Gillis Pson Wetter, Altchristliche Liturgien.

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