sabato 31 ottobre 2020

LA PASSIONE DI GESÙ: FATTO DI STORIA O OGGETTO DI CREDENZAIl racconto della Passione nel Vangelo.



Il racconto della Passione nel Vangelo.

In che modo Marco riuscirà, presso un tale pubblico, ad illustrare la Passione di Gesù ? Quest'ultima è il centro della religione cristiana; costituisce il centro del Vangelo. Ma quanto giusta appare qui l'espressione di Loisy sulla «povertà originaria» della tradizione evangelica. [84]. Cosa forniscono a Marco gli scritti paolini, ossia i versi 7-8 del capitolo 2 della 1° Epistola ai Corinzi, e anche i passi corrispondenti dell'Ascensione di Isaia? [85] Si può dire, alla lettera, una sola espressione: Gesù Cristo è stato crocifisso. [86]

Ma se a metà del I° secolo, nelle vicine regioni della Giudea, che possiede ancora un'attiva esistenza nazionale, la crocifissione del Figlio di Dio significa l'impiccagione del cadavere dopo la messa a morte, che suscita uno «scandalo» tra gli Israeliti o tra gli ebrei cristiani rispettosi delle prescrizioni della Bibbia e della maledizione del Deuteronomio, quali immagini la parola greca stauros o la parola latina crux possono risvegliare nei lettori o negli ascoltatori di Marco ? [87]

Questa è gente che non ha mai conosciuto le leggi penali religiose della Giudea, — se si tratta di pagani convertiti, — oppure che le ha dimenticate, - se si tratta di antichi Israeliti. La crocifissione per questi uomini, minacciati dalle possibili inchieste della giustizia e della polizia di Roma, è il supplizio romano della morte sulla croce. Per rispondere ai loro pensieri e alle loro aspettative, è necessario che Gesù Cristo, oggetto del culto cristiano, sia ucciso in quella maniera. E la suggestione è tanto più forte dal momento che, come lo ha proclamato l'Epistola ai Filippesi 2:6-8, Gesù Cristo, obbediente a Dio, ha preso la figura non solo di un uomo, ma di uno schiavo, il cui castigo supremo, anche per lui, era la morte sulla croce: [88] concezione del resto, lo si può rimarcare, molto diversa dalla presentazione evangelica, che fa del profeta ebreo Gesù un artigiano, ma un uomo libero.

Così, al fine di rendere l'illustrazione verosimile per un ambiente romano, la morte sulla croce si imponeva, e forse per Marco stesso, ebreo romanizzato, l'immagine era naturale. 

E lo stesso si impone, in una tale atmosfera, la necessità di rendere verosimili le circostanze dell'illustrazione. Non siamo più nei circoli ebraici delle regioni orientali dell'Impero romano, dominati dalla tradizione della Bibbia e dal mito ellenistico, ma in un popolo positivo, intriso di paganesimo e di formazione giuridica, per il quale la credenza religiosa deve materializzarsi.

In queste condizioni, la morte sulla croce di Dio fatto uomo deve corrispondere ad un fatto reale, ordinato da un magistrato romano, e siccome, alla fine del I° secolo, la separazione diventa irrimediabile tra i cristiani e gli ebrei ortodossi, il processo è associato ad un complotto degli ebrei contro Gesù Cristo.

Per il prologo del dramma, l'opera paolina che ispira Marco gli procurerà la sostanza. I versi 14:22-24, che riportano l'ultima cena presa da Gesù con i suoi discepoli ed esprimono la «consacrazione del pane, del calice e dell'alleanza..., riproducono, messo a parte l'ordine di ripetere, tutto l'essenziale della 1° Epistola ai Corinzi 11:23-25, e vi è ogni probabilità che la loro fonte sia Paolo stesso». [89]

Però una parola dell'Epistola è stata senza dubbio l'origine di tutto un nuovo sviluppo; il verso 23 dice: «Nella notte in cui fu consegnato...». Il testo si ispira ad Isaia 53:6-12, e la parola consegnato non comporta, in alcuna maniera, nel libro biblico, l'idea di tradimento; [90] ma di per sé, è una tale idea che suggerisce. Da qui la costruzione da parte di Marco di un complotto della gente del Tempio contro Gesù, favorito dal tradimento di uno degli apostoli, fatti che l'evangelista riporta in tratti sommari, senza spiegazione, in una presentazione che associa la vivida raffigurazione e l'inverosimiglianza e che costituisce la maniera così originale di Marco. [91]

Si ritrova una simile associazione nel racconto del processo. Questo episodio è essenziale, perché situa nel tempo la Passione di Gesù. Costui ha dovuto essere condannato da un magistrato romano: quale? Ricordiamo qui che, in nessuno dei documenti cristiani del I° secolo, anteriori al Vangelo di Marco o contemporanei, abbiamo trovato l'indicazione di un tale processo di Gesù. Ma tra i procuratori della Giudea, il più conosciuto e il cui nome si offriva immediatamente al ricordo era Ponzio Pilato, governatore al tempo dell'imperatore Tiberio. È Pilato che il Vangelo di Marco metterà in scena.

«Egli è presentato da Marco come un personaggio debolissimo e quasi insignificante. Per compiacere i membri del Sinedrio, che, contrariamente ad ogni probabilità, avevano appena tenuto una seduta di notte, nel bel mezzo della festa di Pasqua, si reca presto di buon mattino al suo tribunale e procede all'interrogatorio di Gesù. Vi si reca così presto e procede con una tale rapidità che, già alla terza ora del giorno, l'accusato sarà condotto fuori della città e messo in croce. Eppure riconosce la sua innocenza e vorrebbe liberarlo. Solo che non osa resistere al popolo che domanda la sua morte. Egli spinge la compiacenza nei riguardi della folla al punto da liberare un accusato dal diritto comune, di nome Barabba, arrestato a causa di sedizione. In compenso, egli condanna il Cristo al supplizio più crudele e più infamante. Lo fa perfino flagellare preliminarmente e deridere dai suoi soldati». [92

Dopo aver così riassunto la maniera con cui Marco ha raffigurato Pilato, Alfaric osserva: «Una tale condotta, estremamente improbabile da parte di un governatore romano, contrasta stranamente con la maniera forte di Pilato, nettamente attestata da testimonianze sicurissime. Giuseppe e Filone sono d'accordo nel dirci che egli si lasciava pochissimo imporre dagli ebrei. Il secondo cita persino un testo di Erode Agrippa I, che parla con livore del suo carattere indomito. [93] Marco ci tiene a scusare il rappresentante dell'autorità romana. Solo che lo fa disconoscendo stranamente il suo carattere e il suo modo di agire». [94]

Ma le critiche che abbiamo avuto l'occasione di menzionare nel corso di questo studio sono unanimi nel formulare un giudizio analogo sul ritratto che il Vangelo ha tracciato di Ponzio Pilato. «Quello che sappiamo della sua amministrazione», valuta Goguel, «rende improbabile l'atteggiamento che gli prestano i racconti della passione. [95] La condotta di Pilato al processo, come lo riporta il «racconto marciano», valuta Guignebert, è «una rappresentazione estranea alla storia». [96] I Vangeli hanno «fatto di Pilato un giudice di commedia», conclude Loisy. [97]

È lecito dedurre da queste constatazioni che Marco non sapeva nulla di Ponzio Pilato al di fuori del suo nome — il che è la cosa più probabile — oppure, se ne sapeva qualcosa, che lo ha sistematicamente trascurato. [98] Ma la scelta di questo nome, sconosciuto fino ad allora nei documenti cristiani, e di conseguenza la determinazione dell'epoca del dramma riguardante Gesù, dovevano avere, così come lo vedremo, la massima importanza nei confronti degli ebrei, da cui si separavano ora i cristiani.

Per la morte di Gesù sulla croce, si ha visto più sopra che Marco si è principalmente ispirato al capitolo 53 di Isaia e al Salmo 22. [99] Ma la parola suprema che fa rivolgere da Gesù a Dio deve trattenere l'attenzione. «All'ora nona», dice il verso 34 del capitolo 15 del Vangelo, «Gesù gridò a gran voce: «Eloï, Eloï, lema sabachtani», ovvero, tradotto: [100] «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?»

L'esclamazione di Gesù è la riproduzione esatta dell'inizio del Salmo 22, ma in aramaico, lingua usata dal popolo ebraico al principio dell'era cristiana. Ma si trova in altri manoscritti un'esclamazione in ebraico: «Heli, Heli, lama zaphthani», [101] con la traduzione: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai maledetto?»

Come Couchoud ha fatto osservare, è questo testo che deve essere primitivo, poiché l'appellativo ebraico «Heli, Heli» spiega molto meglio dell'appellativo aramaico: «Eloï, Eloï», il verso successivo (15:35): «E alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia» (il profeta della Bibbia). È comprensibile, ha spiegato Alfaric, che «un copista, sapendo l'aramaico, si sia detto, secondo altri passi di Marco, che Gesù si esprimeva piuttosto in quella lingua». [102]

Ma la seconda versione presenta un'altra differenza con la prima: al posto dell'aramaico «sabachthani», «mi hai abbandonato», essa contiene la parola «zaphthani» (peraltro siriaca, e non ebraica), che vuol dire: «mi hai maledetto». Questo è un secondo argomento per ammettere che «è questo testo a dover essere primitivo».

In effetti, spiega Alfaric, «si spiega benissimo che questo testo sia stato modificato da un copista, che, avendo riconosciuto nelle prime tre parole l'inizio del Salmo 22, avrà creduto che la quarta fosse stata alterata e l'avrebbe riportata secondo il Salmo. Al contrario, non si capirebbe perché qualcuno, di sua spontanea volontà, avrebbe modificato una frase di un Salmo messo in bocca al Cristo». [103]

Tuttavia, se abbiamo così insistito sul valore filologico di quella seconda versione, è a ragione del suo contenuto: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai maledetto?» Si ritrova nel testo di Marco l'influenza delle Epistole paoline; abbiamo spiegato più sopra lo «scandalo della croce», colpito dalla maledizione del Deuteronomio, che comportava a metà del I° secolo la dottrina di Paolo, non solo per gli ebrei, ma anche per i cristiani giudaizzanti. [104] Tuttavia alla fine del I° secolo, in ambiente romano, questo ricordo della sospensione del cadavere del condannato a un palo di legno non è più compreso, nemmeno dagli ebrei; la versione data da alcuni manoscritti di Marco è rapidamente sommersa da quelle che riproducono letteralmente il Salmo 22: eliminazione scritturale che simboleggia la sostituzione di una nuova rappresentazione della morte del Figlio di Dio alla concezione primitiva.

NOTE

[84] Si veda più sopra, pag. 95.

[85] Il cui contenuto sembra essere stato abbastanza diffuso, perfino al di fuori dell'opera che ci è stata conservata.

[86] Si veda più sopra il capitolo 3.

[87] Si veda più sopra, pag. 52-56 e 84.

[88] Si veda più sopra, pag. 63, in particolare nota 46 e 47.

[89] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 547 (si veda più sopra, pag. 97, nota 134). Si sa che Guignebert manteneva l'attribuzione a Paolo dei versi dell'Epistola in questione. — Sui rapporti tra Marco e l'Epistola, si veda ALFARIC, L'évangile selon Marc, op. cit., pag. 75-76, e Pour comprendre la vie de Jésus. Examen critique de l'évangile selon Marc, pag. 159-161, dove egli spiega le modifiche dei dettagli apportati da Marco all'Epistola. 

[90] Si veda più oltre Appendice 2, pag. 272-273.

[91] Sulle improbabilità, in Marco, dell'annuncio del tradimento all'ultimo pasto e del tradimento stesso, si veda GUIGNEBERT, Jésus, pag. 528-530 e 549-558.

[92] ALFARIC, L'évangile selon Marc, op. cit., pag. 86.

[93] Si veda più sopra, pag. 35.

[94] ALFARIC, op. cit.,, pag. 86-87.

[95] GOGUEL, Jésus, pag. 434.

[96] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 571,

[97] LOISY, La naissance du christianisme, pag. 105, nota 1.

[98] Si veda GUIGNEBERT, Jésus, pag. 521, a proposito della data della morte di Gesù, che «il racconto» dei Vangeli «sinottici suggerisce» di collocare nei «dintorni del 30»: quella data «stessa non è garantita che dal nome di Pilato, che potrebbe non essere altrimenti assicurato. Poiché, in definitiva, questo nome avrebbe potuto imporsi a Marco..., perché era quello di un personaggio conosciuto...» Guignebert mostra (pag. 521-522) che, secondo i diversi autori cristiani, si doveva, quanto alla data della morte di Gesù, arretrarla al 21 oppure avanzarla al 58, al tempo di Nerone, oppure collocarla sotto il regno di Claudio (tra il 41 e il 54).

[99] Si veda più sopra, pag. 22-24.

[100] In greco, nel testo del Vangelo.

[101] Quest'ultima parola era siriaca: si veda di seguito.

[102] ALFARIC, L'évangile selon Marc, traduzione del Vangelo, pag. 198, nota 3.

[103] ALFARIC, ibid.

[104] ALFARIC, ibid., si veda più sopra, pag. 148-152.

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