sabato 29 giugno 2019

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — Pietro e gli Apostoli

(continua da qui)

§ 2. — PIETRO E GLI APOSTOLI

Se, negli Atti, ci sono dei racconti ammissibili in ciò che riguarda le avventure di Paolo, è impossibile, in compenso, trattenere, per quanto di poco, delle favole concernenti Pietro. Ci si può anche sorprendere di vedere, così pochi giorni dopo la morte di Gesù, Anna e Caifa, i sacerdoti, gli Anziani e gli Scribi, vale a dire i membri dello stesso tribunale che arrivarono così facilmente a condannare Cristo a morte, non infliggere alcuna punizione al successore del Messia e agli altri undici apostoli che resuscitavano con tanto zelo e ancor più audacia l'opera rivoluzionaria soffocata di recente nel sangue del Redentore, e accontentarsi di ammonirli senza punirli (4:21), dopo averli fatti comparire davanti a loro. Li fanno anche arrestare una seconda volta (5:18), poi una terza (5:26), per recidiva e, sempre li rilasciano con la stessa mansuetudine. Questa indulgenza inspiegabile è tanto più straordinaria dal momento che, mentre il figlio di Maria è stato ucciso, anche se non ha mai osato prendere il titolo sedizioso di Cristo, e neppure permesso che glielo si attribuisse, [1] Pietro e gli altri apostoli, al contrario, gli danno regolarmente e pubblicamente questa qualifica rivoluzionaria e blasfema agli occhi del Sinedrio (Atti 2:36, 38 — 3:18, 20) e financo in tribunale (Atti 4:10). L'autorità romana stessa, così inquietante per tutto ciò che riguarda la sua supremazia, non si preoccupa più di questa propaganda di una gravità capitale dal suo punto di vista tanto quanto da quello degli ebrei. Il popolo, che gli Evangelisti ci hanno rappresentato mentre urla delle grida di morte contro Gesù e mentre forza la mano a Pilato per strappargli una condanna, prende questa volta, ogni volta, al contrario, la parte dei successori del Galileo ucciso il giorno prima ( 4:21 - 5:26), cosa che, del resto, non gli impedisce affatto, qualche giorno più tardi (6:12 e 7:57) di lapidare Stefano che non ha fatto di più. Abbiamo in queste dissonanze, una nuova prova che il processo del Messia è un'invenzione miserabile.

E, mentre lasciano gli Apostoli ben tranquilli, questi strani giudici che arrivano a condannare Stefano alla lapidazione per questi stessi atti di proselitismo sacrilego, eseguono in tempo e con le loro stesse mani la loro crudele sentenza (7:56-57); poi Paolo, che sembra essere stato il loro strumento fino al giorno della sua conversione, fa gettare in prigione una folla di fedeli e “disperdere tutti gli altri, salvo gli Apostoli(8:1-2). Queste continue precauzioni nei confronti dei Dodici, [2] capi di uno scisma così pericoloso per l'ortodossia israelita, sono del tutto incomprensibili quando le si paragonano alla furia impiegata senza pietà contro gli eretici di minor peso. Su ordine del Sommo Sacerdote, Paolo si reca perfino a Damasco, con l'intenzione di far arrestare e condurre a Gerusalemme i nazareni che vi aveva scoperto. È una fortuna per l'agente di Caifa, [3] che l'apparizione sulla via di Damasco gli abbia fatto cambiare idea, perché è probabile che sarebbe stato accolto molto male nel tentativo di compiere la sua missione in una città che non riconosceva per nulla l'autorità del sommo sacerdote israelita, ma era soggetta al re Areta IV, morto nel 40 (2 Corinzi 11:32), del tutto devoto ai Romani e nemico dichiarato degli ebrei. Evidentemente questo principe avrebbe trovato molto grave il fatto che il sovrano pontefice del regno di Erode osasse interferire così nella polizia interna del suo Stato, e il perturbatore ebreo lo avrebbe imparato a sue spese. Qualche anno più tardi, in effetti, Paolo, che era venuto a disturbare la tranquillità di Damasco, fuggì con grande difficoltà alla severità del monarca arabo (Atti 11:25 — 2 Corinzi 11:33). (Fu solo nel 105 che il minuscolo principato fu riunito alla provincia di Siria).

Un fatto ben degno di attenzione, è la nullità del ruolo che gli scrittori sacri, senza eccezione, conferiscono agli Apostoli, i cosiddetti primi propagatori del cristianesimo; le stesse liste del collegio dei Dodici date da Marco, Matteo, Luca e gli Atti, non concordano affatto tra loro: Matteo e Lebbeo sono nominati solo nel primo Vangelo; Taddeo figura solo nel secondo; Giuda di Giacomo, solo nel terzo. Il quarto vangelo ignora la maggior parte di questi nomi e perfino quello di Giovanni, a cui la tradizione cristiana attribuisce la composizione. Paolo non conosce nessuno dei quindici personaggi dei vangeli ai quali è concessa la qualità di apostolo, al di fuori di Pietro e di Giovanni; ancora, nel testo delle sue Lettere, nulla ci assicura che egli voglia parlare dei pretesi compagni di Gesù e che il Cefa delle Epistole sia il Simone dei Vangeli. Quanto a Giovanni, lo menziona solo una volta (Galati 11:9), come uno delle “colonne” della Chiesa di Gerusalemme. Ma questi due nomi erano troppo comuni in Palestina perché si sia in diritto, senz'altra indicazione, di identificare due individui che li portavano. In compenso, Giacomo, “il fratello del Signore”, attore irrilevante nei vangeli e che, secondo Giovanni (7:5) non credeva che Gesù fosse il Cristo, è messo dall'autore delle Epistole, sullo stesso rango di Pietro e perfino al di sopra (Galati 2:9, 12), mentre gli Atti non lo conoscono nemmeno. D'altra parte, Paolo non esita a prendere, di sua propria autorità il titolo di apostolo (rappresentante di Cristo), al quale egli non ha alcun diritto, secondo la leggenda evangelica; egli sembra addirittura contestarlo agli altri: “Paolo, che si pretende apostolo non da parte di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo” (Galati 1:1), il che sembra dire abbastanza chiaramente che Pietro, Giacomo e Giovanni, suoi concorrenti, non sono apostoli che per la sola scelta dei loro seguaci, senza che Gesù vi sia per niente. [4] L'Autore degli Atti, tranne che in un unico verso (14:13), si mantiene nella tradizione dei Sinottici; Giovanni, al contrario, non accorda questo onore a nessuno; evita accuratamente di servirsi di questo termine e chiama semplicemente “discepoli” (in greco Mathêtês) i Dodici scelti dal Signore (6:71). Impiega indifferentemente questa stessa qualifica per designare i partigiani del Battista e quelli del Redentore, quale che sia la loro importanza: il nome di Apostolo dunque non ha ancora acquisito, al suo tempo (fine del secondo secolo),  in tutti gli ambienti cristiani il significato preciso che ha preso più tardi e che i Sinottici riservano gelosamente ai primi dodici seguaci del Crocifisso di Nazaret.

Gli Atti, che raccontano con tanto dettaglio gli inizi della Chiesa cristiana, non menzionano mai il nome di un apostolo tra quelli dei primi esportatori della predicazione della Buona Novella, nemmeno per attribuire loro uno dei miracoli di cui il Libro è così prodigo. Al di fuori di Pietro, tutti i personaggi che porteranno la buona parola alle nazioni sono ignorati dagli Evangelisti. Nessuno di coloro che dovrebbero aver frequentato il Salvatore, aver ascoltato i suoi insegnamenti, aver ricevuto dalla sua bocca l'ordine di evangelizzare la terra, si preoccupa di propagare la dottrina del Maestro e, tranne che in alcuni scritti apocrifi, non vi sarà mai più menzione di loro. Sono delle persone che non hanno visto, né sentito Cristo, che diffusero il cristianesimo nel mondo, invece che coloro a cui questo ruolo era stato affidato apparentemente dal Risorto. La fine di tutti gli apostoli è così sconosciuta come la loro azione: delle tradizioni ridicole li fanno portare il Vangelo e subiscono il martirio nei paesi barbari, al di fuori del mondo romano, [5] dove ogni controllo è impossibile e dove non esistette mai nessuna chiesa, mentre, presso di loro, nell'Impero dei Cesari, il compito era così facile e così fruttuoso. È in regioni quasi favolose, dove non si comprende né il latino, né il greco,  né l'aramaico, che questi ignoranti che parlano solo il loro dialetto galileo, predicheranno nell'idioma locale. Gli Atti, è vero, trasformano elegantemente questa difficoltà con l'invenzione del miracolo del dono delle lingue (2:3-15).

Sembra quindi chiaro che i Dodici apostoli non hanno più realtà del loro maestro e che sono stati inventati per corrispondere alle Dodici Tribù di Israele (Matteo 19:28): non hanno altra ragion d'essere nella leggenda del Messia. Questa cifra è talmente fatidica che, sebbene Gesù, mediante la sua prescienza divina, sappia molto bene che Giuda lo tradirà (Matteo 26:21-25), egli non lo esenta affatto dalla sua promessa. Dopo la morte del traditore, i suoi colleghi non possono lasciare incompleto il numero convenzionale, lo ricostituiscono immediatamente (Atti 1:26) ed eleggono un nuovo apostolo, un certo Mattia che gli evangelisti non hanno affatto conosciuto e di cui non vi è mai più menzione al di fuori di questa circostanza, in modo da mantenere ad ogni costo il numero sacramentale. Dopo Mattia, mai alcun'altra elezione ha luogo per rimpiazzare gli antichi apostoli morti. [6]

NOTE

[1] Nel Vangelo di Marco (14:61, 62), seguito in ciò da Matteo, Gesù che, fino ad allora (Marco 3:12 — 8:30), ha impedito severamente che lo si chiamasse Cristo, rivendica questo titolo in un'occasione molto mal scelta: e quando il sommo sacerdote che cerca una scusa per perderlo, gli domanda: sei tu il Cristo? È piuttosto improbabile che il Salvatore faccia così gratuitamente e così maldestramente il gioco dei suoi nemici e che prenda proprio un momento così inopportuno per assumere la terribile responsabilità che ha respinto fino ad allora con tanta cautela e in circostanze molto meno critiche.

Luca, evidentemente imbarazzato da questa difficoltà, la evita facendo prendere tempo al Signore e, alla domanda così terribilmente precisa che gli pone il sommo sacerdote, l'evangelista rappresenta il Redentore che risponde in modo enigmatico: “Anche se ve lo dico, non crederete” (22:67). Giovanni sopprime domanda e risposta in questo interrogatorio, non si sa esattamente perché dal momento che, nel suo testo, Gesù assume coraggiosamente la qualità del Messia, sin dall'inizio della sua missione (4:25, 26); ma Giovanni si diparte sempre più dalla tradizione rispetto ai suoi predecessori.

Risulta chiaramente da queste contraddizioni e da queste incoerenze del mito evangelico che, nessuno, al tempo dei Sinottici, osava ancora pretendere che Gesù si era dato come Cristo e che è solo dal tempo degli Atti e del quarto Vangelo, vale a dire un secolo dopo, che si comincia a fargli affermare questa qualità.

Paolo, è vero, chiama costantemente Gesù, Cristo (che è la traduzione della parola ebraica Messia); ma noi sappiamo che il “Cristo secondo la carne” non esiste affatto per lui e che egli ignora o vuole ignorare tutta la leggenda dei Vangeli.

[2] I Dodici sono menzionati solo una volta in Paolo: “apparve a Cefa, poi ai Dodici (1 Corinzi 15:5), il che dimostrerebbe, o che Paolo non considerò affatto Pietro come facente parte dei dodici della leggenda evangelica, oppure che Pietro non è affatto lo stesso personaggio di Cefa. Altri testi, meno sicuri, recitano: “poi agli Undici” oppure “poi a tutti gli apostoli”. Il senso esatto richiederebbe: “poi agli altri Dieci apostoli”, dal momento che Giuda Iscariota è morto e non è stato ancora sostituito, — “così che ci si potrebbe chiedere se queste parole non siano un'aggiunta fatta in seguito, da qualcuno che, avendo letto i Vangeli, non comprese affatto che l'apparizione ai Dodici fu dimenticata da Paolo” (Havet, Le Christianisme et ses Origines, tomo IV, pagina 29).

[3] “La missione affidata a Paolo è semplicemente inconcepibile” (Loisy,  Les Livres du Nouveau Testament, pag. 485).

[4] Tutte le Epistole Cardinali, senza eccezione, cominciano con queste parole: “Paolo, apostolo per la volontà di Dio”.

Il tribuno di Tarso spesso insiste sui diritti che si arroga in base a questo titolo, di cui sembra molto geloso (Romani 1:5, 1 Corinzi 9:1, 2, 5, 15:9, 2 Corinzi 12:12). Eppure, lo dà anche ad Andronico e a Giulia (una donna!), personaggi ignorati dagli Atti e dai Vangeli (Romani 16:7), “che si sono segnalati fra gli Apostoli”, mentre cita con un certo disprezzo, Pietro, Giacomo e Giovanni, tra coloro chesembravano i più ragguardevoli” (Galati 2:6, 9).

[5] In queste stesse leggende, gli Apostoli che devono portare la Buona Novella si astengono accuratamente di mostrarsi nelle province romane: non si vede nessuno venire in Spagna (salvo Giacomo, nella tradizione spagnola), nessuno in Gallia, nessuno in Italia (salvo Pietro, secondo una favola tanto tendenziosa quanto campata in aria), nessuno in Inghilterra, in Germania, in Illiria; in Mesia, in Dalmazia, in Pannonia, in Rezia, in Sicilia, in Corsica, in Sardegna, a Creta, in Macedonia, a Cipro. È in paesi sconosciuti, sui quali non abbiamo alcun documento né alcun mezzo di controllo, come la vaga Scizia, l'Etiopia selvaggia, la Babilonia così lontana, la Partia, interdetta ai Romani, e dove nessuna verifica poteva essere tentata, se gli apocrifi oppure i Padri dirigevano le orme degli apostoli.

La tradizione continua ad essere così indecisa che i pittori del Rinascimento che cercano di riprodurre i lineamenti degli apostoli, non sanno come immaginarli: ne “L'Ultima Cena” (Museo del Prado) di Juarrès di Valencia, pittore spagnolo (1523-1579) l'artista è talmente imbarazzato che non trova niente di meglio, per trarsi d'impaccio, che scrivere rozzamente il nome di ciascun apostolo sopra la sua testa e, senza questa precauzione, si potrebbe facilmente confondere il Cristo stesso con due dei suoi discepoli, tanto rassomiglia loro.

[6] Secondo la tradizione cattolica, i papi rappresentano proprio la successione ininterrotta dei successori di Pietro, ma i protestanti e la Chiesa greca la contestano. Gli altri apostoli non hanno lasciato una posterità eletta.

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