giovedì 31 maggio 2018

Gli Inizi del Cristianesimo Gnostico : Le Odi di Salomone: La Loro Dottrina (III) — Il Termine “Il Signore”

(segue da qui)


CAPITOLO III

LE ODI DI SALOMONE: LA LORO DOTTRINA

2. IL TERMINE “IL SIGNORE”

Commentatori che giungono allo studio di quelle Odi con la determinazione di trovarvi il Gesù dei vangeli, rispetto a cui non esiste nessun modo più certo di fallire di comprenderle, prendono il termine “il Signore” dovunque c'è la minima possibilità di dubbio — e a volte quando non c'è nessuna — come un riferimento ad un Cristo umano. Il termine occorre davvero di frequente, ma in un'Ode soltanto — l'Ode 31 — sembra necessario prenderlo per un riferimento alla Parola; e c'è una spiegazione possibile dell'eccezione apparente. Considerando l'intima dipendenza delle Odi dai libri sapienziali e dai salmi, in cui naturalmente “il Signore” significa sempre Dio, il profondo principio critico equivale a comprendere il termine come un'allusione a Dio dovunque non ci sia nessuna prova chiara del contrario. Dal momento che le Odi sono la produzione di una sfera di pensiero religioso che contribuì allo sviluppo della dottrina cristiana, in loro troviamo necessariamente idee e frasi che sono riprodotte nella successiva letteratura cristiana; ma frequentemente quando questo è il caso l'espressione di quelle idee ricorre con qualche cambiamento o sviluppo indicativi di un progresso nel pensiero. E una trasformazione simile è osservabile quando risaliamo alla letteratura in cui le idee religiose delle Odi avevano la loro nascita. Considera, per esempio, la frase “Ma io so che il mio Redentore vive” (Giobbe 19:25). Questa frase naturalmente fu scritta a proposito di Dio e lo scrittore non aveva nessuna nozione della dottrina cristiana di redenzione tramite Cristo. Anche nelle Odi Dio è Redentore, Salvatore, e il “Vivente”, ed è necessario diffidare dell'assunzione che il termine “il Salvatore” abbia qualche relazione con Gesù. [5] Qui, comunque, è occorso un progresso nel pensiero. La Parola è il mezzo mediante cui Dio ha offerto salvezza agli uomini; infatti mediante unione con la Parola essi diventano uniti a Dio e così si assicurano una vita eterna. È naturale e facile ma piuttosto acritico per le persone, quando incontrano nelle Odi certi termini stereotipati e costrutti cristiani, attribuire una sviluppata cristologia che è loro del tutto aliena. Un esempio calzante si trova nell'Ode 3, dove è scritto: “Io davvero non saprei amare il Signore, se lui non mi amasse”. L'insicurezza dell'assunzione che “il Signore” in questa dichiarazione significa Cristo è constatata tramite un confronto con l'Ode 16:3: “Il Signore è il mio amore”. È abbastanza chiaro dai versi che seguono che “il Signore” qui è l'Altissimo:

E perciò io devo a lui cantare. ... Aprirò la mia bocca; il suo Spirito annunzierà per mezzo mio la gloria del Signore e la sua bellezza, l’opera delle sue mani e il lavoro delle sue dita, la pienezza del suo affetto e la forza della sua parola. [7]


Come una materia di fatto, la continuazione dell'Ode 3, da cui è stato citato “Io davvero non saprei amare il Signore, ecc.”, rende chiara la materia. infatti immediatamente di seguito a quelle parole leggiamo, “Io ardo per l’Amato”. “L'Amato” è chiaramente “il Signore”, che era stato menzionato appena prima. Poi l'Odista continua: “E l’anima mia lo ama; dov’è la sua quiete, là son anch’io”. Potremo vedere che “la quiete” è la quiete di Dio in confronto al salmo 95:11. E ogni dubbio possibile è bandito dal verso successivo dell'Ode, “E non sarò estraneo — vale a dire, nella “sua quiete —, perché presso il Signore Altissimo e affettuoso, non c’è gelosia”. Poi vi segue immediatamente: “Mi son congiunto con lui”. Il “lui” può solo essere il Signore Altissimo. Infine leggiamo nel verso 9: “Chi del Vivente si compiace, vivo sarà”. Così abbiamo in tutta la chiarezza desiderabile la dottrina di salvezza dello scrittore. La salvezza, o redenzione, è l'ottenimento della certezza di vita eterna tramite un'unione con il Vivente, che è il Signore Altissimo. Ma, come sottolineato in precedenza, l'unione è assicurata tramite la mediazione della Parola — anche definita lo Spirito del Signore — che penetra nell'anima dell'adoratore, recandogli accidentalmente la conoscenza del Dio altrimenti inconoscibile. La Parola è chiamata “il Cristo”, ma certamente non è considerata come “una persona”. Egli è definito anche “il Salvatore” nell'Ode 41:

La sua Parola è con noi per tutto il cammino. Il Salvatore, che dà la vita e le anime nostre non rifiuta.


La frase finale può essere interpretata a partire da un Ode (7) citata in precedenza. Significa probabilmente che la Parola non disdegna di penetrare nelle anime degli uomini. Si poteva dire che essa umilia sé stessa. Ma se ci sono delle interpolazioni in quelle Odi la frase immediatamente seguente — “L’uomo, che fu umiliato e per la sua giustizia fu elevato” — è certamente una. La frase stride con il suo contesto come una nota stonata in una musica. Mai da nessun'altra parte la Parola è chiamata “un uomo”, e una simile designazione è totalmente in conflitto con la dottrina dello scrittore. E neppure noi da qualsiasi altra parte troviamo la “giustizia”, o qualsiasi altra simile qualità umana, attribuita alla Parola. Essa non è “giusta” ma è la causa della giustizia negli uomini. Essa si potrebbe ritenere una personificazione della qualità astratta della giustizia; ma è davvero significativo che il termine non è mai usato in associazione ad essa; piuttosto è essa, in qualità di entità divina, la personificazione di “grazia” e “verità”, e la portatrice di “luce” e “vita”. La frase citata suggerisce la mentalità di un cristiano del secondo secolo o del tardo primo secolo. Grammaticalmente è completamente avulsa dal suo contesto. L'identificazione pratica della Parola con Dio si trova nell'Ode 29:
“Ho creduto difatti nel Cristo del Signore e mi è apparso che lui [ossia, il Cristo] è il Signore [=Dio]”. 
È chiaro da questa identificazione che la Parola dev'essere stata concepita come Spirito; abbiamo visto di fatto che “la Parola” e “lo Spirito del Signore” sono termini sinonimi; e non è discernibile alcuna dottrina di “incarnazione” diversa dalla dottrina dell'incarnazione della Parola negli eletti di Dio, la congregazione dei santi.
Nell'Ode 14 leggiamo: “La tua mitezza rimanga, o Signore, con me”. La mitezza è una qualità attribuita così di frequente a Gesù nella letteratura cristiana che un cristiano nel leggere questa frase è naturalmente incline ad assumere che qui ad ogni caso abbiamo una preghiera rivolta a Cristo e che lo scrittore potrebbe aver pensato al Gesù dei vangeli. Ma i versi che seguono mostrano che l'assunzione sarebbe stata errata:

Insegnami i canti della tua verità perché, col tuo aiuto, produca frutti. Aprimi la cetra del tuo santo Spirito, sì che in ogni melodia ti lodi, Signore.


Evidentemente il Signore che è indirizzato è Dio. Applicare il termine “mitezza” a Dio sarebbe abbastanza naturale per uno scrittore così ben familiare coi salmi come lo era l'Odista, poiché nel salmo 18:35 leggiamo, “la tua mitezza mi ha reso grande”, rivolta a Dio. Lo scrittore — come concluse Harnack — non era certamente a conoscenza di alcun vangelo e non c'è proprio nessuna prova che il suo Cristo fosse stato derivato in minima misura da una conoscenza del Gesù cristiano. Di conseguenza ogni tentativo di interpretare le Odi alla luce di qualità o epiteti associati convenzionalmente a Gesù possono solo condurci fuori strada. [7] Noi siamo ora nella posizione di esaminare in maggior dettaglio l'importante Ode 7.
2. La mia gioia è il Signore e la mia corsa, verso di lui. 3. Bella è questa mia strada, perché ho un aiuto rispetto al Signore: 4. egli mi svelò sé stesso, senza riserbo, con semplicità. La sua soavità ha reso esigua la sua grandezza. 5. Egli divenne come me, perché lo potessi ricevere; 6. simile a me fu creduto, perché lo potessi rivestire. 7. Ed io non tremai, quando lo vidi, perché lui è la mia clemenza. 8. Egli divenne come la mia natura, perché imparassi a conoscerlo, e come il mio sembiante, perché da lui non mi ritraessi. 9. Padre della Gnosi è la Parola della Gnosi. 10. Colui che la sapienza ha creato delle sue opere è più saggio; la conoscenza invero egli ha stabilito come suo sentiero. 11. Chi mi creò prima che esistessi sapeva ciò che avrei fatto quando fossi esistito. Perciò fu clemente con me nella sua grande clemenza e mi concesse di poterlo supplicare e di ricevere del suo sacrificio. 13. Egli è immortale, la perfezione dei mondi e loro padre. 14. Egli ha dato sé stesso per farsi vedere da chi è suo, perché riconoscessero il loro fattore.


Il linguaggio dell'Ode è altamente poetico e metaforico. A dispetto dei termini “semplicità” e “soavità”, “il Signore” è Dio per tutto il tempo, “chi mi creò prima che esistessi”. Confronta, per esempio, i versi 4 e 10: “Egli mi svelò sé stesso, senza riserbo ...  la conoscenza invero egli ha stabilito come suo sentiero”. Il soggetto della seconda di quelle frasi è “il Padre della Gnosi”, “colui che la sapienza ha creato”, da cui dobbiamo concludere che è il Padre colui che “mi svelò sé stesso”. La stessa conclusione è raggiunta da un confronto dei versi 7 e 14. Nell'ultimo verso è ovviamente il Padre che “si è dato per farsi vedere”; di conseguenza il soggetto del verso 7 dev'essere a sua volta il Padre. Le versioni inglesi delle Odi recitano “lui” al posto di “sé stesso” nel verso 14; ma ciò non ha alcun senso ed è grammaticalmente insostenibile. Non c'è nessuna persona menzionata in precedenza a cui “lui” possa riferire; e il Creatore non poteva indurre le persone a riconoscere il loro fattore” mostrando loro qualcun altro. Wellhausen tradusse correttamente la frase, “Er lässt sich schauen von den Seinen”. E quando confrontiamo “Egli ha dato sé stesso per farsi vedere”  con “egli mi svelò sé stesso” nel verso 4 ricaviamo una conferma dell'opinione che anche in quel verso “Egli” è Dio. Siamo anche indotti a comprendere che “vedere” è scritto poeticamente al posto di conoscere, proprio come in Sapienza 6:12, della Sapienza è scritto che “facilmente è contemplata da chi l'ama”. Lo scrittore non aveva mai “visto” la Sapienza letteralmente; e neppure l'Odista suppose che qualcuno avesse mai visto Dio o la Parola.
La metaforica “contemplazione” di Dio e la presenza di Dio nella congregazione si presentano in alcuni dei salmi. Per esempio, il salmo 17:15 : “Quanto a me, per la mia giustizia, contemplerò il tuo volto”. 16:8: “Io ho sempre posto il Signore davanti agli occhi miei; poiché egli è alla mia destra”. 73:23 : “Ma pure io sono sempre con te”. 82:1 : “Dio sta nell'assemblea divina”. Potremo anche paragonarvi Sapienza 1:2 : [Il Signore] si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui”. Nella Sapienza di Salomone la conoscenza di Dio è impartita dalla Sapienza, “essa infatti tutto conosce e tutto comprende”. Nelle Odi la manifestazione avviene tramite la Parola; e dal momento che la Parola non è vista letteralmente sarebbe piuttosto irrilevante dire in un senso letterale che “egli divenne come me”, la qual cosa implicherebbe un'apparizione oggettiva. Dobbiamo interpretare la frase a partire da espressioni trovate altrove. E dato che la dottrina dell'Odista, come è stato mostrato, è che Dio diventa conosciuto tramite l'ingresso della Parola come una porzione dello Spirito divino nell'uomo interiore, la dichiarazione “egli divenne come me” deve significare che egli si assimilò a me penetrando in me.
In quest'Ode è implicato che ricevere la Parola equivale ad acquisire conoscenza di Dio; e, quasi a non lasciare alcun dubbio in merito al suo significato, lo scrittore aggiunge: “Padre della Gnosi è la Parola della Gnosi”. La frase nel verso 12 — “mi concesse di poterlo supplicare e di ricevere del suo sacrificio” — è oscura. Il testo in un buon numero di punti è corrotto e in alcuni la lettura originale non è di certo recuperabile. L'idea che Cristo morì come un “sacrificio” è piuttosto aliena al pensiero dell'Odista; e se non lo fosse, “ricevere del” suo sacrificio sarebbe un'espressione particolare. Ma lo scrittore qui si sta riferendo, non in particolare alla Parola, ma al “Padre della Gnosi”, “Colui che la sapienza ha creato”, “la perfezione dei mondi e loro Padre”, e il ricevere del suo sacrificio è qualcosa che era concesso allo scrittore “di poter supplicare”. Le parole che seguono sembrano essere intese come una spiegazione: “egli è immortale ... egli ha dato sé stesso per farsi vedere”; ed era dall'incorruttibilità del Padre e dalla Parola emessa che lo scrittore si era rivestito di eternità. Il “suo sacrificio” significa probabilmente un sacrificio a lui, da cui colui che lo offre riceverà beneficio. [8] Si può comprendere come l'immaginazione vivente di uomini per i quali il pensiero puramente astratto non era loro congeniale avrebbe trasformato la ricezione della sapienza e della parola di Dio da parte della mente degli uomini nell'idea che essi fossero stati permeati dallo Spirito divino. Come è stato sottolineato in precedenza, un'idea analoga si trova nella letteratura egiziana gnostico-ermetica. E anche là il Logos e il Nous non sono essenzialmente separabili da Dio oppure separabili l'uno dall'altro.
La parola “semplicità” nel verso 4 dell'Ode 7 probabilmente non significa semplicità di una natura mentale o morale. La parola greca corrispondente è haplotēs, che, sebbene può significare semplicità nel senso comune, è anche il contrario di complessità, a significare unicità oppure l'assenza delle parti. C'è supporto a questa interpretazione della parola nell'Orazione ai Greci di Taziano, 5, dove il pensiero è simile a quello dell'Ode e potrebbe essere stato derivato da esso, o direttamente oppure indirettamente. Tiziano scrisse:
Con lui [Dio] vi erano tutte le cose, ma con lui per la potenza del Logos. Egli e il Logos, il quale era in lui, sussisteva. Il Logos poi brillò fuori per volontà della haplotēs di lui. Questo Logos non passato nell'aere, egli è l'opera primogenita di Dio.

La parola “semplicità” sarebbe utilizzata in maniera appropriata in questo senso nell'Ode, perché nella dottrina dello scrittore è mediante l'unicità della Parola col Padre che Dio stesso diventa conosciuto. Nell'Orazione di Taziano, come nelle Odi, il Logos è originariamente “in Dio”, una parte della sostanza spirituale di Dio, da qui egli scaturisce come un'emanazione spirituale, separabile nel pensiero, ma non essenzialmente, ed è da qui definita metaforicamente “l'opera primogenita di Dio”, portando alla concezione della Parola come il Figlio di Dio. La concezione è molto più antica del cristianesimo. Tot, “la lingua” [=la Parola], viene in esistenza nel dio primigenio, e quando tutte le cose create sono derivate da Horus e Tot (la Sapienza e la Parola), Tot si unisce con Pta. [9] Nelle Odi di Salomone anche la Parola è definita “Figlio di Dio”:
Il Figlio dell’Altissimo è apparso, nella perfezione di suo Padre. La luce rifulse dalla Parola, da tempo presente in lui — vale a dire, il Padre. Il Cristo è uno davvero.


Quando si confronta questo passo con Sapienza 7:26-27, diventa evidente che quei due versi erano nella mente dell'Odista mentre egli stava scrivendo, e che il suo Logos è la Sapienza sotto un altro nome: 
 È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e un'immagine della sua bontà. Sebbene unica, essa può tutto.

 NOTE

[5] Nei Salmi di Salomone anche Dio è chiamato parecchie volte “Salvatore” — ad esempio, 3:7: “La certezza dei giusti proviene dal Signore loro salvatore”.

[6] Qui come altrove la fraseologia è reminiscente della fraseologia dei salmi; ha pochissime affinità di sorta con quella del Nuovo Testamento.

[7] Si vedano i Salmi di Salomone, 5. “E chi é la speranza del misero e del povero, se non tu, Signore? E tu presti ascolto: infatti chi é buono e comprensivo all'infuori di te?”.

[8] Confronta i salmi 1,14,15, 22,23, dove “offerta” — nei versi 14 e 23 — equivale, in ebraico, a sacrificio.

[9] Dall'iscrizione egiziana nel Brit. Mus., considerata risalente all'ottavo secolo A.E.C., tradotta da Reitzenstein, Poim., pag. 62.

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