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Un maestro di virtù come Epitteto fu, a suo modo, dello stesso avviso: anche lui espresse la propria disapprovazione per l’uomo che, con leggerezza, osa presentarsi come maestro di sapienza. “Che cosa fai, uomo” — così egli ha detto secondo Dissertationes 3:21, 13.16 — “se non portare i misteri sulla pubblica piazza col tuo atteggiarti a sapiente? Li proclami e li metti in luce fuori tempo e fuori luogo”. “Tutti, per così dire, quelli che si occuparono di cose divine”, osserva Clemente Alessandrino (Stromata 5:4), “barbari o Greci, tennero sempre nascosta la spiegazione dei principi della realtà e tramandarono la verità mediante rappresentazioni e simboli, allegorie e metafore, ed altri procedimenti simili. Per questo anche gli Egiziani non comunicavano i misteri in loro possesso ai primi venuti, né concedevano agli empi la visione delle realtà divine, ma soltanto a coloro che sarebbero giunti al governo, e, tra i sacerdoti, a quelli che per educazione, dottrina e stirpe erano considerati i più degni di fiducia. — Sia lode al nostro Signore, fratelli, che ha posto in noi sapienza e intelligenza dei suoi misteri; infatti il profeta dice: “Chi comprenderà la parabola del Signore, se non colui che è saggio e sapiente e ama il suo Signore?” Solo pochi possono afferrare tali cose, poiché non per invidia — egli afferma — il Signore ha comandato in un certo vangelo: Il mio segreto resta con me e con i figli della mia casa!” (Strom. 5:10; cfr. Barnaba 6:10 e Marco 4:12). “Ricordiamoci”, dice ancora Pietro nelle Omelie Clementine (19:20), senza alcun segno di consapevolezza che in quel “certo vangelo” vi fosse qualcosa di sospetto, “del nostro signore e maestro, come egli ci ha dato il comandamento: I misteri li conserverai per me e per i figli della mia casa!”

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