venerdì 27 giugno 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — Tracce di Giuntura e di Manipolazione

 (segue da qui)


 3. SUA COMPOSIZIONE.

A. Tracce di Giuntura e di Manipolazione. 

È così ovvia la composizione dell'Epistola a partire da frammenti essenzialmente indipendenti che per gli studiosi critici si può dire che la scelta risieda tra l'ipotesi dell'edizione e quella di una serie infinita di interpolazioni. I frammenti in cui l'insieme può essere principalmente scisso sono: 1:1-3; 1:4-9; 1:10-3:23; 4; 5-6; 7; 8-11:1; 11:2-34; 12-14; 15; 16. All'interno di questi, ancora una volta, ci sono indizi dell'utilizzo di fonti diverse come pure dell'adattamento reciproco delle parti. Tra i punti più degni di nota vi sono i seguenti. 

Il duplice indirizzo — ai Corinzi e a tutti i cristiani — suggerisce una nuova edizione di un'Epistola prima indirizzata semplicemente ai Corinzi. La menzione di Sostene (1:1) fu aggiunta probabilmente allo scopo di affiancare all'autorevole Paolo un secondo testimone della verità, allora spesso ritenuto indispensabile (cfr. 2 Corinzi 13:1, Deuteronomio 19:15). Come in Romani, le diverse formule per il nome di Cristo nell'Epistola indicano fonti diverse. 

L'elogio dei Corinzi in 1:4-9 non concorda con il grave biasimo espresso in seguito. La connessione in 1:10 (παρακαλῶ δὲ ὑμᾶς) è artificiale; e l'espressione cattolicizzante (διὰ τοῦ ὀνόματος τοῦ Κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ) tradisce la mano dell'editore. Il difetto di unità nel frammento successivo diventa manifesto quando  confrontiamo 1:12, dove si parla di un partito speciale di “Cristo”, con 3:22-23, dove si menzionano solo i partiti di Paolo, di Apollo e di Cefa. In 2:6-16 è esaltata una più alta sapienza dello Spirito, mentre nei versetti precedenti la “sapienza” è sminuita e in quelli che seguono Paolo comunica ai Corinzi che non può ancora rivolgersi a loro come a uomini “spirituali”. L'introduzione del passo in questo punto è spiegabile solo supponendo che l'editore avesse riunito qui ciò che aveva riferimento alla sapienza, anche se sarebbe potuto essere in sensi diversi del termine. L'idea che abbiamo a che fare con passi provenienti da fonti originali diverse è confermata dall'osservazione che lo scrittore di 2:6-16 parla in prima persona plurale, mentre nei passi che precedono e seguono è usata la prima persona singolare. 

Nel capitolo 4 si può percepire una differenza di tono tra i versetti 14-17 e 18-21. La sostanza del capitolo ha poco o nulla in comune con la parte precedente dell'Epistola, come del resto la disquisizione nei capitoli 5-6 è a sé stante, e si collega solo in maniera forzata e artificiosa con quanto precede. I segni interni dell'utilizzo di fonti diverse sono qui particolarmente numerosi. Per citare un caso: mentre nei versi 12-13 è Dio a giudicare il mondo (“quelli che non hanno nulla”) — con cui i santi non sono coinvolti — in 6:2 sono i santi a giudicare il mondo. Alla domanda di 6:5 (οὐκ ἔνι ἐν ὑμῖν οὐδεὶς σοφὸς......;) allo scrittore di 1:26 (cfr. 3:1-3) dovrebbe essere data, non la presunta risposta affermativa, ma una risposta decisamente negativa. 

L'esame dei capitoli successivi porta costantemente allo stesso riconoscimento del fatto che le varie discussioni sono connesse solo da un legame esterno e che internamente mostrano segni di rielaborazione. Così è per la duplice discussione sulla vita coniugale e non coniugale (7:1-16, 25-40). E nella dissertazione sul mangiare carne offerta agli idoli, si confronti ad esempio 10:14-22 (specialmente 10:21, οὐ δύνασθε ποτήριον κυρίου πίνειν καὶ ποτήριον δαιμονίων, οὐ δύνασθε τραπέζης κυρίου μετέχειν καὶ τραπέζης δαιμονίων) con l'orientamento generale dell'argomento precedente. In primo luogo, tutti i cristiani paolini sanno che consumare cibi offerti a divinità pagane non ha alcun significato reale ed è di per sé senza colpa; ma i “deboli”, che pensano altrimenti, non devono offendersi (8:1-13). Nel passo appena citato quelle divinità sono diventate veri “demoni”: partecipare a ciò che è stato loro offerto è pura idolatria. Poi, nel passo successivo (10:23-11:1), è ribadita l'antica posizione secondo cui tutto è lecito, ma non tutto è opportuno, e di conseguenza sono date istruzioni pratiche. 

La continuità di queste disquisizioni, ancora una volta, è interrotta da argomenti messi arbitrariamente in relazione con il resto. Si noti, ad esempio, 7:17-24, 9 (con l'interpolazione minore dei versetti 24-27), 10:1-13. Eppure, come si è detto, si possono trovare punti di contatto che dimostrano la composizione rispetto alla semplice sovrapposizione di frammenti. I versetti 9:19-23 sono in sostegno dell'argomentazione principale che comincia con 8:1-13, piuttosto che con ciò che è stato detto poco prima nella rivendicazione interpolata della funzione di Paolo come Apostolo. 

Il modo in cui le espressioni riprese da uno scrittore sono corrette da un altro può essere visto nel confrontare 11:7-8, dove è asserita la superiorità dell'uomo sulla donna, con 11:11-12, dove i due sessi sono equiparati dal punto di vista religioso. Il passo sull'eucarestia, nello stesso capitolo, è del tutto irrilevante per il contesto e non è neppure di per sé un'unità. Nei versetti 23-25 la partecipazione al pane e al vino è detta essere una commemorazione della morte del Signore; in 27-29 è detta essere una partecipazione al suo corpo e al suo sangue (cfr. 10:16). Il versetto 26, a dispetto di γάρ, è a sé stante; allo stesso modo il versetto successivo, nonostante ὥστε. Non prima dei versetti 33-34 lo scrittore ritorna alla discussione, con la quale cominciò al verso 17, delle contese tra coloro che si riuniscono ai pasti comuni. Il tutto dà l'impressione di essere una raccolta di osservazioni tratte da varie fonti, volte a far passare in secondo piano i pasti comuni a causa delle loro irregolarità e a far risaltare invece la celebrazione della comunione. [1] Il processo di composizione è incidentalmente messo in luce dalla strana giustificazione offerta al versetto 19 per la convinzione dell'autore, dichiarata nel versetto precedente, che le accuse di contese sconvenienti durante i pasti non sono prive di fondamento: δεῖ γὰρ καὶ αἱρέσεις εἶναι, ἵνα οἱ δόκιμοι φανεροὶ γένωνται ἐν ὑμῖν.  Le “divisioni” (definite σχίσματα) di cui si parla in un documento egli le confonde, per associazione verbale, con le divisioni partitiche o gli “scismi” (cfr. 1:10); poi egli introduce da qualche altra parte l'espressione, qui fuori posto, di sette o di “eresie”

Nella serie successiva di capitoli (12-14) si presenta un nuovo argomento: ossia quello dei “doni spirituali”. Qui l'istruzione — che non ha nulla a che fare con il contesto — che le donne non devono parlare nelle chiese (14:38b-86) è in contrasto con quanto presupposto nella discussione precedente (11:2-15) riguardo al loro copricapo quando pregano o profetizzano (si veda soprattutto il versetto 5). Questa è una prova, però, non di interpolazione, ma della presenza dello stesso “autore-editore” con il suo consueto “dare e avere”. Ciò mostra l'utilizzo diligente fatto di documenti preesistenti. Il bel passo sull'amore (capitolo 13), sebbene stia separato dal resto, non è, come si è detto, una semplice interpolazione frettolosa; né è stato ripreso inalterato da una fonte; esso reca segni di giuntura artificiale all'interno come all'esterno. Invano cerchiamo un nesso logico tra i versetti 11-13 e 1-10; c'è solo un'eco verbale (καταργηθήσεται, 10; κατήργηκα, 11). Così il capitolo, al pari del libro, appare come un'unità imperfetta se contrapposto alla composizione liberamente elaborata di un singolo autore. 

La stessa prospettiva vale anche per il capitolo 15. Non c'è bisogno di considerare i versetti 3-11 (o 1-11) un'interpolazione, anche se indubbiamente i contenuti non sono in armonia con quanto segue. Il primo brano può essere descritto come un appello alla tradizione a sostegno della resurrezione; il secondo (12-58) argomenta il caso a prescindere da quell'appello. Questa descrizione, però, si riferisce solo all'orientamento generale dell'argomentazione. Nessuno dei due passi è un tutto omogeneo di per sé. Nel primo, ciò che è detto circa l'apparizione a Paolo in particolare difficilmente può essere appartenuto alla tradizione comune. E identifichiamo il processo di espansione nel confronto tra il versetto 5 (εἶτα τοῖς δώδεκα) e 7 (εἶτα τοῖς ἀποστόλοις πᾶσιν). Nel secondo passo, idee escatologiche che ricordano quelle dell'Apocalisse si mescolano alla concezione meno “giudeo-cristiana” implicita nell'argomentazione a favore di una resurrezione “spirituale”. Tra discontinuità minori si può notare l'interpolazione dei versetti 38-84 (con la citazione di Menandro), che interrompono stranamente il corso della dimostrazione. 

Come il capitolo sulla resurrezione non ha nulla a che fare con quanto precede, così anche il capitolo conclusivo è a sé stante. Contro l'opinione che tutto il capitolo 15 sia un'interpolazione (da un'altra Epistola, come è stato ipotizzato), si può osservare, però, che il capitolo 16 ha altrettanto poco a che fare col capitolo 14 (con il quale, secondo questa opinione, esso dovrebbe essere collegato). I vari temi del capitolo 16 sono di per sé abbastanza appropriati per la conclusione di una lettera, ma un esame accurato rivela non poche difficoltà. I versetti 8-9 danno un'impressione diversa delle esperienze dell'Apostolo ad Efeso da ciò che ricaviamo da 15:32. Secondo 4:17, Timoteo è già stato inviato; secondo 16:10, il suo arrivo è atteso dopo la ricezione della lettera. Da 16:12, Apollo sembrerebbe avere la propria sfera di attività nelle immediate vicinanze di Paolo; in 3:4, 6, udiamo di lui come di un lavoratore indipendente che viene dopo Paolo. La maledizione che precede immediatamente l'epilogo (εἴ τις οὐ φιλεῖ τὸν κύριον, ἤτω ἀνάθεμα, 16:22) non è in armonia né con il tono amichevole della conclusione né con i contenuti dell'Epistola in generale.

NOTE

[1] In questi oscuri problemi di rituali e miti cristiani — resi doppiamente oscuri dall'applicazione successiva della logica — è stato fatto un tentativo di penetrare attraverso l'attuale sincretismo dei documenti fino alle idee che possono essere state concepite da singoli intelletti prima che l'intero complesso tessuto fosse imposto d'arbitrio. Gli scrittori neotestamentari rappresentano le prime fasi della riflessione cristiana sulle mitologie adattate e sui culti imitati. Nella teologia patristica e scolastica, gli elementi apparentemente inconciliabili apportati da tutte le parti furono riuniti ufficialmente, prendendo distinzioni logiche; il rito, il mito e la riflessione essendo accettati allo stesso modo come dati soprannaturali anziché come evoluzioni naturali. 

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