venerdì 26 aprile 2024

Gli scritti di San Paolo — EPISTOLE PASTORALI (VERSIONE PRIMITIVA)

 (segue da qui)

IV

VERSIONE PRIMITIVA 

Oggi le epistole pastorali sono sfigurate dall'apporto della polemica anti-montanista e della polemica anti-marcionita. Si tratta ora di restituire loro la loro fisionomia primitiva, di conoscere lo scopo che esse perseguivano prima di subire gli oltraggi dell'interpolazione. Perciò scartiamo da esse le aggiunte; poi vediamo quanto non dicono e quanto dicono.

Innanzitutto quanto non dicono. Esse non dicono che il Cristo ritornerà per restaurare il regno di Israele. Esse non parlano di questo regno terreno, di cui Paolo parla nelle epistole ai Galati e ai Romani, di cui parla l'Apocalisse, di cui Giustino parlerà e anche Ireneo. Esse fanno, è vero, una allusione velata a questo regno; ma è unicamente per trattarlo da «favola». Perché le «favole giudaiche», da cui Tito (1:14) deve distogliere i cristiani, possono indicare solo le credenze accumulate attorno al regno d'Israele restaurato dal Cristo. E le «favole», i «racconti di vecchie comari» che Timoteo a sua volta deve respingere (1 Timoteo 1:4; 4:7; 2 Timoteo 4:4), hanno lo stesso senso. Del resto Tito 1:10 ci avverte che le false dottrine partono soprattutto dal mondo «della circoncisione». Delle favole, delle favole giudaiche, dei racconti di vecchie comari: ecco come le epistole pastorali definiscono la credenza che è stata quella di Paolo, dell'Apocalisse, che sarà quella di Giustino e di Ireneo! Ma esse le scoccano frecce avvelenate subdolamente e senza averne l'aria, poiché, come ho detto, non la nominano. Stesso silenzio in quanto concerne la resurrezione dei corpi. Il polemista anti-marcionita di cui ho parlato più sopra denuncia due uomini la cui eresia consiste nel dire che la resurrezione è già arrivata. Ma, al di fuori di questo testo interpolato, le epistole pastorali non parlano della resurrezione dei corpi. Non si dica che l'occasione sia mancata loro. Non è mancata loro poiché, in vari punti, vi riscontriamo la menzione della vita futura, della vita eterna. Le epistole pastorali sono state più volte sul punto di parlare della resurrezione dei corpi. Il loro silenzio è quindi voluto, calcolato. 

Aggiungiamo che questo silenzio si estende all'incarnazione del Cristo. Anche qui il polemista anti-marcionita è intervenuto in nome della credenza cattolica menzionando «l'uomo» Gesù (pag. 92). Ma, a parte quel pezzo interpolato, le epistole pastorali non fanno alcuna allusione all'incarnazione del Cristo. Non impiegano nemmeno una volta i termini «corpo» e «sangue» ai quali gli altri scritti del Nuovo Testamento, a cominciare dall'Epistola ai Romani, attribuiscono una così grande importanza. Eppure esse hanno trattato dell'opera compiuta dal Cristo, della missione che egli è venuto a compiere sulla terra. Ma hanno trovato modo di descrivere quell'opera, di descrivere quella missione senza dire una parola sul sangue del Cristo. Anche questo silenzio è calcolato.

Sappiamo quanto non dicono le epistole pastorali. Vediamo ora quanto dicono. Innanzitutto esse identificano il Cristo con Dio. Infatti è proprio come il Dio Supremo che il Cristo ci è presentato nei testi seguenti di cui si è tentato invano di falsificare il senso: Tito 2:13:

Attendendo la felice speranza e l'apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore il Cristo Gesù.

1 Timoteo 2:3, 6:

Ciò è buono e gradito a Dio, nostro Salvatore... che si è dato come riscatto per tutti.

Dunque le epistole pastorali dicono che il Cristo è il Dio supremo, mentre per Giustino, per Ireneo, per Tertulliano, il Cristo è il ministro di Dio e l'esecutore delle sue volontà.

Poco importa che, in altri punti, esse distinguono Dio dal Cristo. Per fare quella distinzione bastava seguire la corrente, conformarsi alla tradizione, parlare come tutti, regolarsi sulle apparenze secondo le quali il Cristo differiva da Dio. Per identificare il Cristo con Dio occorreva risalire la corrente, urtare frontalmente la tradizione, rifiutare le formule comuni così come le apparenze. Solo i testi che identificano il Cristo con Dio sono il frutto dello sforzo personale, della riflessione e della convinzione. Solo essi contano, proprio come in un libro di astronomia che talvolta parla dell'alba e del tramonto, e talvolta parla della rotazione della terra, quest'ultimo gruppo di testi è l'unico a contare.

Le epistole pastorali dicono in più che il Cristo Dio è nostro salvatore, il salvatore di tutti gli uomini; aggiungono che, per salvarci, il Cristo si è dato in riscatto e che ha operato il nostro riscatto. Quella dottrina si esprime proprio in entrambi i testi che abbiamo appena letto. Non ci è detto, è vero, a chi il riscatto sia stato pagato; ma siamo informati che la nostra salvezza è stata l'oggetto di un riscatto e che il Cristo stesso è stato quel riscatto. Aggiungiamo che, secondo 2 Timoteo 1:10, il Cristo ha distrutto la morte.

Le epistole pastorali parlano frequentemente della «vita eterna». Quella vita eterna, che è anche la vita «futura», è promessa alla pietà (1 Timoteo 4:8). Il cristiano è, nella speranza, erede della vita eterna (Tito 3:7). Egli crede in Gesù per avere la vita eterna (1 Timoteo 1:16). Quella vita che esisterà in Gesù Cristo (2 Timoteo 1:1), avrà per dimora il cielo (2 Timoteo 4:18). Sarà per il cristiano una «corona di giustizia» (2 Timoteo 4:8), vale a dire la ricompensa di meriti acquisiti. Questi meriti acquisiti che il cristiano si procura quaggiù, formano un «deposito» che ritroverà sicuramente «in quel giorno», perché il suddetto deposito è custodito da Dio che non può ingannare (2 Timoteo 1:12). Resta da sapere cosa voglia dire «in quel giorno». Quella espressione, derivata da Isaia (2:11, 17), si legge in una delle note autentiche di Paolo (2 Timoteo 1:18), che l'impiega per indicare il giorno in cui Gesù ritornerà per restaurare a Gerusalemme il regno d'Israele. È a Paolo che essa è ispirata qui e in 2 Timoteo 4:8, dove la ritroviamo. Ma, in quest'ultimo testo — e, di conseguenza, in 2 Timoteo 1:12 che gli è affine — «quel giorno» è il giorno della «dipartita», vale a dire il giorno in cui l'anima lascia il corpo nel quale era prigioniera. Il cristiano riceve la corona di giustizia immediatamente dopo la sua morte, proprio come il corridore prende la ricompensa quando è arrivato al termine della sua corsa. È del resto sotto il simbolo di una corsa che la vita cristiana ci è presentata in 1 Timoteo 6:12, dove l'autore dice al cristiano: «Afferra la vita eterna»

Le epistole pastorali parlano più volte del diavolo e di Satana. Esse danno alla parola «diavolo» diversi significati (si veda la nota su 1 Timoteo 3:7); ma l'impiegano più volte per indicare un personaggio che tiene gli uomini nella sua trappola (2 Timoteo 2:24). Ed è questo stesso personaggio che descrivono sotto il nome di Satana (1 Timoteo 1:20; 5:15). 

Apriamo ora il libro di Tertulliano Adversus Marcionem. Nella descrizione che ci fa della dottrina di Marcione osserviamo i tratti seguenti: il Cristo è il Dio buono che è venuto lui stesso sulla terra (1:14, 19;2:27). — Questo Dio buono è venuto sulla terra per «liberare» gli uomini, per procurare loro la salvezza. E quella liberazione e questa salvezza sono consistite nel fatto che egli ha strappato gli uomini all'impero del Dio creatore (1:17, 25). — Il Cristo è venuto per salvare tutti gli uomini, mentre il Cristo atteso dagli ebrei deve limitare la sua azione a restaurare il regno d'Israele (2:21; 4:6). — Il Creatore vedendo che Cristo veniva a rovinare il suo impero lo fece crocifiggere (1:25). — Il Cristo ha promesso agli uomini il cielo (3:24). 

A queste informazioni fornite da Tertulliano aggiungiamo quelle che ci danno Ireneo e l'autore delle Quaestiones veteris et novi Testamenti. [1] Ireneo 5:31 parla di certi uomini che pretendono che si andrà al cielo immediatamente dopo la morte. Egli denuncia come un'eresia quella dottrina, alla quale egli rimprovera di disprezzare la materia creata da Dio e di negare la resurrezione. Ma queste due caratteristiche appartengono giustamente alla teologia di Marcione. L'autore delle Quaestiones 3:127 ci informa che Marcione attribuiva la creazione al diavolo. 


La versione primitiva delle lettere pastorali, quella che si incontra innanzitutto quando si sono scartate le quattro note di Paolo, è un'opera di propaganda marcionita. Le lettere di affari scritte dal grande apostolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, sono per essa una bandiera che le serve a coprire col nome di Paolo un corso di teologia e di disciplina marcionite. Essa ci è pervenuta in un'edizione cattolica che vi ha introdotto supplementi di natura dogmatica e disciplinare. Conosciamo già i principali prodotti di questo lavoro di ritocco, quelli per i quali esistono tracce evidenti di interpolazione. Ora che il principio è acquisito, noi siamo autorizzati a considerare come interpolazioni cattoliche tutti i testi incompatibili con la teologia marcionita, anche se le tracce del ritocco non esistono. Le note procederanno a questo lavoro di selezione. 

Corso di teologia marcionita nel quale quattro note di Paolo sono state incorporate e che è stato in seguito neutralizzato dalle glosse cattoliche: ecco la definizione che si può dare delle epistole pastorali. Lo studio dell'epistola ai Filippesi ci aveva condotto agli stessi risultati. Le epistole pastorali sono quindi, dal punto di vista della composizione, intimamente affini all'epistola ai Filippesi il cui programma differisce da loro in parte. 

NOTE

[1] Nelle appendici del volume 3 di sant'Agostino.

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