venerdì 18 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XVII)

 (segue da qui)


6. IL GESÙ GIOVANNEO

Sì dà generalmente ai tre vangeli di Matteo, Marco e Luca il nome comune di «sinottici», perché, malgrado numerose differenze nei dettagli, essi disegnano della vita del Salvatore quadri che, nelle loro grandi linee, sembrano pressappoco concordanti, cosa che permette di fonderli in una «veduta d'insieme». Quanto alla data di origine di questi vangeli, è impossibile affermare nulla di certo. Harnack, Wellhausen, Maurenbrecher e altri attribuiscono la priorità al vangelo di Marco, che sarebbe stato scritto già prima della distruzione di Gerusalemme, tra gli anni 60 e 70, o anche prima il 60 del I° secolo. Ma per vari motivi troppo a lungo da sviluppare qui, quella asserzione è così poco verosimile che, perfino negli ambienti teologici, ha trovato solo pochissima approvazione. Paolo non conosce ancora i Vangeli, ma egli è conosciuto da Marco che, come prova soprattutto l'episodio della professione di fede di Pietro, aveva sotto gli occhi le epistole ai Romani e ai Corinzi, e anche quella ai Galati. [1] Ma siccome è probabile che queste epistole risalgono solo al II° secolo, e che la loro forma attuale difficilmente può risalire prima della metà dello stesso secolo, il vangelo di Marco difficilmente può essere molto più antico, benché certe fonti dei vangeli possono essere esistite prima e alcuni dei loro racconti possono aver circolato nei circoli cristiani, testi che l'autore del nostro Marco attuale avrebbe riunito per comporre il suo scritto. A questo scopo, egli si è servito, lo si è visto, di una sfera armillare a cui si aveva allora abitudine di ispirarsi per raccontare la storia degli dèi. Ma egli ha saputo così bene nascondere le tracce di quel metodo che esso è stato scoperto solo ai nostri giorni; [2] la Chiesa non ha peraltro mancato di fare quel che ha potuto per sottrarre alla storia del suo Salvatore il suo sfondo di mitologia astrale. Il conflitto che scoppiò tra lei e l'ultima frase dello gnosticismo non è in ultima analisi che un conflitto tra il Cristo storico e il Cristo astrale. In quella lotta per la supremazia, è il Cristo storico che ha prevalso, perché era il più popolare dei due personaggi ed offriva alla Chiesa maggiore facilità per ben ancorare il suo dominio nella coscienza delle masse.

La credenza che Dio fosse apparso sulla terra incarnato in Gesù, uomo tra gli uomini, avesse sofferto la morte come loro e avesse manifestato così il suo amore per loro, offriva il fondamento più solido alla fede nel Dio di amore contrapposto al Dio di giustizia. Come l'ebreo poteva, a sostegno del suo Dio di giustizia, fare riferimento all'Antico Testamento e all'alleanza del Sinai, così anche, per il loro Dio di amore, i cristiani potevano da allora contare sul loro Nuovo Testamento e sull'esposizione che dà della vita di Gesù. Quanto più la scrittura dei vangeli era ritenuta vicina all'apparizione di Gesù, tanto più sicura e incontestabile doveva sembrare la buona novella della morte espiatoria del Cristo. Lo spirito storico così come lo si concepisce ai nostri giorni era, lo ripetiamo ancora, completamente mancante ai primi cristiani come ai loro contemporanei. Gli stessi evangelisti possono aver aggiunto fede alla verità del loro racconto perché, così come ho mostrato nel mio Markusevangelium, [3] credevano di poter dedurre la carriera terrena del Cristo come tutto il resto dalle profezie dell'Antico Testamento. È solo alle esigenze di una spiritualità più sviluppata, incapace di soddisfarsi col fondamento puramente storico della nuova religione, all'élite delle grandi città come Antiochia, Alessandria o Efeso, cresciuta nell'intellettualismo della filosofia greca, che il Gesù sinottico non poteva bastare. Questo fondamento non sembrava abbastanza filosofico a quella élite; la figura e l'ambiente del Gesù sinottico non le sembravano rispondere all'ideale sottile che riteneva degno dei suoi dèi. Così nacque, forse a Efeso, sotto l'influenza della filosofia religiosa di un Filone di Alessandria, il Quarto Vangelo che, per le menti più raffinate, voleva fondare su una base più intellettuale, più speculativa e più filosofica l'idea dell'amore di Dio manifestato nel Cristo. 

Il vangelo di Giovanni è il risultato di una fusione della teoria del Logos alessandrino con la concezione storicista dei sinottici, al solo fine di dare all'amore di Dio il più alto grado di certezza. Ma la «storia» vi è modificata e disposta a tal punto che delle due esposizioni una sola può pretendere alla verità, o quella dei sinottici oppure quella di Giovanni. Il Gesù di quest'ultimo è diversissimo da quello di Matteo, Marco e Luca. Pensa diversamente, agisce diversamente, parla diversamente e si muove in un tutt'altro ambiente. Cosa si deve pensarne quando si legge in Giovanni che Gesù e i suoi discepoli praticano loro stessi — il che è molto significativo — il rito del battesimo, [4] mentre se ne astengono nei sinottici? Questi ultimi si sforzano di mascherare la natura divina di Gesù dietro la sua natura umana e di attribuirgli un atteggiamento il più naturale possibile, senza tuttavia cancellare completamente l'elemento divino. Giovanni al contrario fa risaltare la sua natura divina e la sua maestà, e mostra in lui un superuomo che in qualche modo si è in qualche modo solo per caso smarrito nella torba umana. E mentre costoro gli prestano il linguaggio aforistico della sapienza ebraica, Giovanni gli fa pronunciare lunghi discorsi, strani e pieni di oscurità che, alla maniera dei misteri, vogliono essere abissi di profondità, accessibili al solo iniziato versato nella filosofia alessandrina. 

Per Giovanni, Gesù è il «Figlio di Dio» nel senso del Logos o Verbo filonico, della Sapienza o Conoscenza di Dio; e siccome Dio stesso non è altro che il Logos, Gesù appare come l'incarnazione immediata della divinità. Egli è la conoscenza di Dio in entrambi i sensi, soggettivo e oggettivo: egli conosce, e ciò che conosce non è altro che sé stesso. Egli è l'identità del soggetto e l'oggetto della conoscenza, ragione pura che si perde essa stessa per oggetto. È in questo senso che porta il nome di Verità, poiché ciò che si chiama verità è proprio quella identità del pensiero e dell'essere, del soggetto e dell'oggetto. Porta anche il nome di Vita, perché ogni vita è nel suo principio conoscenza o pensiero, poiché l'attività di Dio è pensare, e la vita è una manifestazione dell'attività dell'essere divino. Porta il nome di Luce, essendo interamente quella conoscenza che penetra tutto e illumina tutto. Porta il nome di Spirito, il pensiero che viene riassorbito nell'essere. Infine porta il nome di Amore; infatti Platone aveva designato sotto il nome di Eros l'identificazione del soggetto e dell'oggetto della conoscenza, l'atto nel quale la conoscenza e l'essere, rappresentazione e oggetto di conoscenza, si confondono e non possono più essere separati, pur rispondendo sempre a due idee distinte; non si deve quindi pensare a qualche stato della coscienza, ma semplicemente alla fusione delle antinomie fondamentali del pensare e dell'essere. 

 Ora il Cristo è la conoscenza, la Parola di Dio, in quanto ne rivela la natura e noi prendiamo possesso di questa grazia per lui e per il suo atto di redenzione. La conoscenza di Dio in senso oggettivo lo è tuttavia anche in senso soggettivo. La Parola che tratta di Dio, come ci è rivelata dal Cristo, è per sua natura allo stesso tempo la Parola che è Dio. Appropriarsi della parola rivelata dal Cristo e amare il Cristo non è dunque altro che appropriarsi di Dio stesso, per mezzo del Cristo unirsi nell'idea di Dio alla realtà divina, essere accolti nell'amore di Dio, contemplare la verità faccia a faccia, immergersi nella luce pura; in altri termini, essere spiritualizzati, deificati, e partecipare così alla vita divina. L'amore di Dio che, nel senso che abbiamo appena indicato. è in origine una nozione puramente speculativa, poiché identica all'amore della sapienza e della conoscenza, si eleva, non appena si rivolge verso il Cristo, nel mondo dei sentimenti e prende così un grande valore psicologico. E siccome l'amore del Cristo si manifesta soprattutto nei confronti dei suoi fratelli, colui che ama Cristo diventa anche caritatevole, e siccome, d'altra parte, amando il Cristo ama anche Dio, acquista così, per mezzo del suo amore per il Cristo, la felicità eterna. [5

Secondo la concezione antica, l'amore di Dio trova il suo fondamento, la sua base più profonda, prima di tutto nella rivelazione sensibile di Dio nel Cristo, poi nella spiritualizzazione di questo Cristo e nella sua elevazione nel dominio del pensiero puro, libero da ogni esperienza sensibile. Ciò che la gnosi ordinaria non poteva promettere che ad un piccolo numero di eletti, ovvero di elevarsi per intuizione fino a Dio e di contemplarlo faccia a faccia, il vangelo di Giovanni lo mette alla portata di chiunque abbia anche solo un minimo di facoltà speculativa, sostituendo la contemplazione sovrasensibile con la visione sensibile del Cristo, la quale diviene subito una visione spirituale di Dio, questo genitivo essendo preso sia in senso oggettivo che soggettivo. È solo così che la rivelazione cristiana nel vangelo si colloca di pari valore a fianco alla rivelazione ebraica di Dio nell'Antico Testamento. Dio, è l'amore di Dio. Riconoscendolo direttamente come tale per mezzo del Cristo, e amando il Cristo, non possiamo più dubitare del suo amore né della sua misericordia, né temere di essere esclusi dalla felicità in quanto non essendo in grado di soddisfare alla sua giustizia. Quella conoscenza segna l'apice dello sviluppo del cristianesimo primitivo e la conclusione del suo principio. Soltanto così si spiega il fatto che malgrado l'immagine del tutto diversa che fa di Gesù, il vangelo di Giovanni ha potuto trovare posto nel canone delle Sacre Scritture ed essere messo alla pari coi sinottici: era indispensabile per completare le fondamenta della nuova fede. L'indifferenza del suo autore e dei suoi ammiratori nei confronti delle contraddizioni storiche con il Gesù sinottico prova nel modo più perentorio che tutti questi documenti del cristianesimo primitivo non miravano per nulla alla storicità nel senso attuale; quella storicità non era per loro che un rivestimento e un mezzo per rendere sensibili i pensieri religiosi; è dunque insensato voler cercare in questi scritti una realtà storica. [6

NOTE

[1] Si veda Markusevangelium 178 s.

[2] Si veda Markusevangelium e Der Sternhimmel.

[3] P. 31 ss.

[4] 3:22.

[5] Si veda la mia introduzione alla filosofia: Die Erkenntnis der Wirklichkeit als Selbsterkenntnis, pag. 197-200.

[6] Si troverà un'esposizione dettagliata del vangelo di Giovanni nella mia opera: Die Entstehung des Christentums, pag. 333-384.

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