martedì 26 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsLe Prove della Storicità di Gesù in Paolo.

“Lucus a non Lucendo”

LA TESTIMONIANZA DI PAOLO

Meno prove troviamo della storicità di Gesù negli scrittori profani, più grande diventa l'interesse di coloro che la mantengono per una testimonianza grazie alla quale il Gesù storico è affermato inequivocabilmente. Questa testimonianza inequivocabile l'abbiamo, secondo il punto di vista prevalente, nelle cosiddette epistole dell'apostolo Paolo. Quindi Paolo è il piece de resistance per il teologo riguardo alla sua fede in Gesù. Egli è il “fondamento più sicuro”, la “pietra angolare incrollabile”, la “testimonianza irrefragabile” del fatto che un Gesù visse veramente, e fu crocifisso e sepolto, e resuscitò dai morti. La teologia storica è così convinta in effetti del valore assoluto di questa testimonianza che si immagina di poter mettere a tacere ogni scetticismo circa la storicità di Gesù semplicemente indicando Paolo. Sembra pensare che nessuno possa disporre seriamente della testimonianza di Paolo senza dichiarare che le lettere dell'Apostolo siano false. Leggiamo, ad esempio, nel lavoro di von Soden sulle epistole paoline: “Esse offrono una prova così forte della storicità di Gesù che nessuno, tranne Drews, ha mai osato negare questa storicità senza contestare l'autenticità delle epistole paoline” (pag. 29). A sua volta il teologo ortodosso Beth osserva: “In questo caso Drews deve essere realmente accusato di negligenza davanti al tribunale della sua stessa tesi, dal momento che ha ammesso l'autenticità di alcune delle epistole e non ha trovato motivo di dubitare dell'esistenza storica di Paolo. Per raggiungere il suo fine entro i limiti della sua stessa tesi e distruggere tutte le prove di Gesù, avrebbe dovuto anche contestare l'esistenza di Paolo”.  [1]

Certamente, sarebbe più semplice dire da subito che le epistole di Paolo sono false, e distruggere così il valore della loro testimonianza per l'esistenza di un Gesù storico. Questo farebbe sicuramente piacere ai teologi, perché, come stanno le cose in Germania, l'autenticità di almeno le quattro principali epistole (Romani, Galati e le due ai Corinzi) è da loro così fermamente tenuta che ogni dubbio a riguardo è subito rifiutato da loro come “da non prendere sul serio”. Sarebbe così un mezzo eccellente per screditare l'intera tendenza del mito di Cristo agli occhi del grande pubblico, e per tutti coloro che giurano sulla parola dei professori di teologia. Chi legge oggi la Kritik der Paulinischen Briefe (1852) di Bruno Bauer, in cui è stato fatto il primo tentativo di mostrare la falsità di tutte le epistole attribuite a Paolo? Questo scomodo studioso è stato calunniato per così tanto tempo dai teologi, i quali hanno diffidato i lettori da lui con osservazioni diffamatorie sul suo lavoro, che è stato ritenuto più sicuro continuare a ignorarlo. Quando, inoltre, lo studioso svizzero Steck conclude, in una inchiesta approfondita e istruita, che l'epistola ai Galati è falsa (1888), ciò è semplicemente “una straordinaria perversione della critica”, un “esempio di una critica radicale spinta troppo lontano”, un tentativo che non serve soffermarsi a confutare. D'altra parte, la critica degli scrittori inglesi (Edwin Johnson, Robertson e Whittaker) sembrava essere del tutto priva di pericoli, poiché pochi teologi hanno una padronanza della lingua inglese. È vero che in Olanda una scuola teologica ha cercato per trent'anni di mostrare la falsità delle epistole di Paolo; ma perché ciò dovrebbe disturbare la gente in Germania? L'olandese è una lingua che non si ha occasione di apprendere nelle università. Si può quindi dare per scontato che le opere degli olandesi non saranno studiate molto seriamente in Germania. Non hanno gli olandesi, in effetti, ringraziato i teologi storici tedeschi per i distinti servizi che hanno reso all'intero mondo civile, ad un “Congresso del libero cristianesimo e del progresso religioso”? Sentiamo spesso quel genere di cose. Gli eruditi olandesi possono, quindi, essere considerati con indulgenza quando se ne vanno per la loro strada nel loro paese e contestano tesi che sono date per scontate in Germania.

È divertente leggere teologi tedeschi che scrivono sui loro colleghi olandesi. Secondo Beth, “lo scrittore di Amsterdam Loman ha mostrato molto bene come si possa fabbricare dal nulla una prova del fatto che Paolo fu semplicemente inventato nel secondo secolo come un predicatore del cristianesimo universalista” (pag. 35). Secondo Jülicher, è un segno di “temperamento acritico” dubitare se Paolo abbia scritto le epistole a cui si lega il suo nome, un temperamento che “non appena percepisce una difficoltà, che può verificarsi in tali documenti proprio altrettanto bene che in un mattone babilonese, grida ‘Falso!’ e non riconosce sfumature di differenza”; e lo consiglia, con lo stesso cattivo gusto e follia, di offrirsi a “lavorare nel sotterraneo Acheronte” (pag. 25). Eppure quei teologi sono o totalmente ignoranti, oppure hanno una conoscenza molto superficiale del lavoro degli olandesi. Ciò è chiaro quando von Soden scrive: “Nessuno ha ancora tentato di darci un resoconto comprensibile dell'origine di queste epistole nel secondo secolo” (pag. 29); e J. Weiss dice: “Le epistole paoline sono, come è noto [!?], negate all'apostolo Paolo dalla scuola olandese e da Kalthoff; ma non vi è alcun'ipotesi plausibile sulla loro origine in nessun altro modo, nessuna cronologia dei vari strati delle epistole e nessuna risposta a molti altri interrogativi suggeriti dalla negazione” (pag. 97). Weiss e von Soden ignorano il lavoro di van Manen, il cui Römerbrief è stato ottimamente tradotto in tedesco da Schläger (Leipsic, 1906), mentre Whittaker ha dato un'accurata sinossi dei suoi altri libri nel suo Origins of Christianity (seconda edizione, 1909)? E se ne sono familiari, come hanno fatto a scrivere frasi del genere, dopo aver visto che Van Manen ha fatto in modo molto preciso esattamente quello che dicono che dovrebbe essere fatto da coloro che negano la paternità di Paolo? La verità è che la teologia storica in Germania ha bisogno di un Paolo autentico come testimonianza indispensabile del suo Gesù storico, e perciò deve ignorare gli olandesi e quei pensatori necessariamente acritici e confusi che si azzardano a contestare la credibilità della loro testimonianza.

La teologia storica trova il Gesù storico nelle epistole paoline, perché è determinato a — di fatto, deve — trovarlo là, altrimenti l'intera sua costruzione storica artificiale dell'origine del cristianesimo rimane sospesa in aria senza alcun sostegno. Accetta senza scrutinio non solo la verità dei resoconti evangelici di Gesù, ma qualunque cosa il testo di Atti dice di Paolo; e poiché considera Paolo l'autore delle epistole, trova facile naturalmente vedere una conferma di queste cose nelle epistole paoline. Riferisce le menzioni di Gesù nelle epistole ad un Gesù storico perché, prima di qualsiasi indagine, dai vangeli è convinto della sua realtà; e quindi non si sogna mai di riferire i passi nelle epistole che trattano di Gesù a qualcun altro rispetto al loro Gesù — cioè, al presunto Gesù storico dei vangeli. Considera “sprovvisto di metodo” ogni uomo che possa interpretare diversamente quei passi, perché il metodo utilizzato da loro, e considerato da loro come l'unico metodo corretto, porta al risultato che essi desiderano. Sono, quindi, in un circolo vizioso nella loro indagine sull'autenticità delle epistole paoline e sulla loro testimonianza del Gesù storico.

In realtà, la loro affermazione che l'esistenza di un Gesù storico è il fondamento stesso delle epistole di Paolo non è il risultato, ma l'assunzione, del loro metodo. Come tale essa ha avuto origine, piuttosto indipendentemente dal loro metodo. In tutte le indagini il metodo è diretto a seconda dell'assunzione che viene fatta e del fine da raggiungere. Ma se a un ricercatore è permesso postulare l'esistenza di un Gesù storico e confermare questa assunzione con i suoi metodi, difficilmente può essere considerato un segno di partigianeria e di pregiudizio opporre l'ipotesi sulla base di fatti, e sostenere che tali metodi difficilmente possono portare ad un risultato soddisfacente. La teologia storica ha finora tentato di interpretare la tradizione nel senso del suo Gesù storico, e ha perso la sua strada in un labirinto di difficoltà, di contraddizioni e di problemi insolubili. Solleviamo il problema se i documenti non possano essere interpretati meglio e più semplicemente nel senso opposto, e se vi sia davvero bisogno o meno di interpretare la tradizione storicamente. Da quale parte si trovi la verità non lo si può determinare dal punto di partenza dell'indagine, ma solo mostrando quale interpretazione migliore quadra con i fatti e quale si possa stabilire più facilmente. In ogni caso il nostro metodo non può essere dichiarato errato perché, partendo da una diversa ipotesi, raggiungiamo conclusioni diverse da quelle del teologo; né ci si può accusare di “confusione” o ricorrere contro di noi nel nome di un'indagine e di una scienza “sana” quando la nostra inchiesta nei documenti del Nuovo Testamento ci porta a negare la storicità di Gesù, nella misura in cui non si provi che la nostra ipotesi sia assurda.


1. LE PROVE DELLA STORICITÀ DI GESÙ IN PAOLO.  

Il punto di partenza e il postulato della dottrina di salvezza paolina è l'atteggiamento dell'uomo verso la legge. La legge fu data originariamente agli uomini da Dio per il loro bene. Per insegnare loro ciò che è peccaminoso. Per stimolare la loro coscienza del male e mostrare loro come migliorare. Dovrebbe essere per loro, come la pone Paolo, un maestro e un pedagogo di giustizia. In realtà si è rivelata una maledizione per loro e, invece di salvarli, li ha sprofondati nella schiavitù ancor più del male e del peccato. Dio quindi ha avuto pietà degli uomini, e ha mandato loro Cristo, suo “figlio”, per togliere da loro il giogo della legge. Originariamente un essere soprannaturale, nascosto in Dio e cooperante nella creazione del mondo, Cristo, alla volontà di suo padre, scambiò la gloria del cielo per la povertà e le difficoltà della terra, per venire sulla terra nella forma di uno schiavo, un uomo tra gli uomini, per la redenzione dei mortali. Si donò liberamente, per la salvezza degli uomini, alla morte sulla croce. Ciò che nessun sacrificio era ancora stato in grado di realizzare (una prova dell'impotenza della legge), la completa liberazione dal peccato e dalla morte, che era venuta nel mondo con il peccato — fu raggiunta dalla morte sacrificale di colui nel quale era concentrato l'intero essere dell'umanità. Nella sua morte patì la morte di tutti. Con la sua resurrezione  trionfò sulla morte. Con il rifiuto e la messa a parte della sua natura umana nella morte l'uomo-Dio riprese la sua divinità essenziale. Sbarazzandosi del velo di carne e tornando a suo padre in forma trasfigurata, come un puro spirito ed essendosi riunito a lui, diede agli uomini un esempio di come avrebbero raggiunto la loro vera natura col sacrificio della loro personalità carnale. Più di questo, infatti, ottenne in tal modo per loro la redenzione dai vincoli della carne, li sollevò al di sopra dei limiti della terra, e assicurò loro la vita eterna in e con il padre. L'uomo deve solo mettersi in relazione personale con lui, unirsi intimamente con lui, accettare e assimilare il credo nella sua morte redentrice (crocifiggersi con Cristo), e mostrare questo con un amore dei suoi simili, ed egli parteciperà all'esaltazione di Cristo, e conseguirà così la redenzione. La legge perciò cessa di prescrivere la sua condotta. Grazie alla sua unione con Cristo egli è morto per la legge e liberato dal suo dominio. I demoni, sotto la cui maledizione era finora rimasto, non hanno ora più potere su di lui. La vita di cui ha una parte limitata qui sulla terra sarà goduta in condizioni migliori in cielo. Cristo è perciò il “mediatore” tra Dio e l'uomo, distruggendo la barriera tra loro. È il “salvatore” che guarisce le malattie della vita terrena, corporale o spirituale, il “liberatore” dall'oscurità dell'esistenza terrena e della morte, il “Dio-uomo”, il vero fondamento e il vero fine di ogni azione religiosa.

Qualunque uomo che rifletta imparzialmente su questa tesi troverà difficile credere che qui si sta trattando di un processo storico esterno, di un individuo storico. L'idea si avvicina, forse, a quella degli gnostici, e in particolare a quella del filosofo religioso alessandrino Filone, un contemporaneo più anziano di Paolo, e al suo principio del Logos, che in seguito troviamo fuso con il credo cristiano nel vangelo di Giovanni. Cristo sembra essere in Paolo un altro nome per l'idea di umanità, un'espressione completa dell'unità ideale di tutti gli uomini, presentata come un essere personale. Proprio nella stessa maniera in cui Filone concepisce la pienezza delle idee divine personificata nella forma del Logos, il “mediatore”, il “figlio di Dio” e la “luce del mondo”, e fonde il Logos con l'uomo ideale, l'idea dell'uomo. E proprio come Cristo si fa carne e assume forma umana, così il Logos di Filone discende dalla sua sfera celeste ed entra nel mondo dei sensi, per dare forza al bene, e salvare gli uomini dal peccato, e condurli alla loro vera dimora, il regno del cielo, e al loro padre celeste.

Questa idea della redenzione degli uomini da parte del “figlio” del Dio altissimo è antichissima ed era diffusa nei primi tempi. Nella religione babilonese il redentore Marduk è inviato sulla terra da suo padre Ea per salvare gli uomini dai loro mali spirituali e dalla perversione morale. I greci adoravano simili “figli” di Dio e benefattori degli uomini in Eracle, Dioniso, e Giasone o Iasios (il nome greco per Gesù), che parimenti aveva la missione celeste di riscattare gli uomini, ed erano riportati nel cerchio dei beati dopo una morte prematura e impressionante. L'idea fiorì principalmente, tuttavia, nelle religioni del medioriente e del Nord Africa, tra i frigi, i siriani e gli egiziani, che adoravano nei loro (rispettivamente) Attis, Adone e Osiride un dio che soffrì, morì e resuscitò per l'umanità, ed esprimevano la loro fede in culti misteriosi che sono noti come “misteri”. Tra le sette mandee o gnostiche, che coltivavano una forma peculiare di culto, ai margini dalla religione ufficiale, all'inizio circa dell'era presente, e a cui, in senso generale, sembra essere appartenuta la setta ebraica degli esseni, il credo in un salvatore e mediatore divino era il vero nucleo della loro teoria religiosa. Inoltre, l'apocalittica ebraica del tempo, che si aspettava una rapida fine del mondo, propendeva verso questa visione, e combinò la forma del Dio mediatore con la sua idea del Messia, l'atteso salvatore di Israele dalla sua oppressione politica e sociale. Nel profeta Daniele il redentore è descritto dal nome gnostico di “il figlio dell'uomo”. Inoltre, quest'idea di un salvatore sofferente e morente era inequivocabilmente legata al corso della natura. Sorse dall'avvistamento del destino del sole o della luna, mentre si alzavano e affondavano nei loro percorsi, mentre svanivano, scomparivano e risorgevano, in concomitanza con l'esperienza della morte e della resurrezione della natura ogni anno. Era  espressa da un credo in un figlio e salvatore divino, che si sacrifica per i suoi simili, incorre nella morte, discende negli inferi, lotta contro i demoni dell'inferno, e dopo un certo tempo risorge dal sepolcro e reca una nuova vita al mondo. Perfino i profeti israeliti sono influenzati da quest'idea. Nel cinquantatreesimo capitolo di Isaia incontriamo l'espressione del cosiddetto “servo sofferente di Dio”, il quale è deriso, disprezzato e sacrificato in espiazione dei peccati del suo popolo, ma risorge nella gloria, ed è portato agli splendori del cielo. È vero che in questo il profeta contemplò immediatamente  la fortuna del suo popolo, che concepì come la vittima espiatoria generale per il resto dell'umanità. Ma, come osserva giustamente Gunkel, la figura di un salvatore sofferente e morente è distinta sullo sfondo in questo passo. Gressmann ha persino rintracciato il cinquantatreesimo capitolo di Isaia ad un “cantico rituale” derivato dai misteri, che veniva cantato dagli iniziati nel giorno della morte di Dio, e ha indicato chiaramente la natura misterica dell'intero brano. [2]

(a) Semplici Dimostrazioni. — Il “mito di Cristo” considera il cinquantatreesimo capitolo di Isaia la vera cellula germinale del cristianesimo. Su di esso si basa il credo cristiano secondo cui il Messia, che gli ebrei si aspettavano, è già apparso in forma umana e in servile umiltà, e si sacrificò per i peccati del suo popolo, in modo che potesse essere così soddisfatta la condizione senza la quale l'agognato “regno di Dio” non poteva essere stabilito: la fedeltà completa alla legge e l'assenza di peccato degli israeliti. [3] Nel fatto della sua precedente apparizione terrena videro una garanzia della rapida venuta del Messia in tutta la sua maestà celeste, e la combinazione della figura del “servo di Dio” con quella del “giusto” della Sapienza [4] confermò la convinzione che fosse vicino il giudizio del mondo, in cui il giusto sarebbe stato elevato al cielo e l'empio sprofondato alla dannazione eterna. Paolo ampliò e approfondì quest'idea introducendola in una cornice più generale di idee e ricavandone le conseguenze metafisiche. Diede maggiore chiarezza all'idea pagana di un dio-salvatore sofferente, morente e risorto, che doveva essere stata familiare all'apostolo dalla sua casa di Cilicia, e gli diede vita infondendovi lo spirito delle antiche religioni misteriche. [5] Ne consegue che il presunto fatto storico di un Gesù crocifisso non è assolutamente necessario per spiegare l'origine della dottrina di redenzione paolina, e sorge il quesito se le lettere che ci sono pervenute sotto il nome di Paolo contengano qualche riferimento di sorta ad un Gesù storico. La risposta negativa, che il “mito di Cristo” dà a questo quesito, ha causato grande scompiglio tra i teologi.

Cosa, gridano ad una sola voce, Paolo non sapeva nulla di un Gesù storico! Il suo Gesù Cristo era semplicemente un “essere immaginario”, la semplice “idea” di un Dio-uomo che si sacrificò! Non c'è personaggio storico, nessun evento reale, dietro il fatto della morte sulla croce e della resurrezione di Gesù Cristo che è la parte centrale del sistema paolino! Cristo non è descritto da Paolo come un vero uomo? “Non implica”, chiede von Soden, “la sua teoria di redenzione attraverso Cristo la sua piena umanità? Dio mandò suo figlio nella forma di carne peccatrice a causa del peccato, e condannò il peccato nella carne”. [6] L'apostolo parla del “sangue” di Cristo, mediante il quale gli uomini sono giustificati. [7] “In un linguaggio vivido rappresenta ai Corinzi l'ingresso di Gesù nell'esistenza umana per stimolarli a contribuire generosamente alle collette dei primi cristiani (2 Corinzi 8:9): “Voi conoscete infatti la grazia del nostro Signore Gesú Cristo il quale, essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”; e ancora più vividamente lo rappresenta ai Filippesi come il modello di umiltà (2:5): “Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini”. Come può dire Drews di fronte a questi passi (a cui Weiss aggiunge le allusioni alla giustizia [Romani 5:18, 19], all'amore [Galati 2:20] e all'obbedienza [Filippesi 2:8] di Gesù): ‘L'intera vita terrena di Gesù è completamente immateriale per Paolo’?” (pag. 32) .

Sfortunatamente, io devo aderire alla mia opinione a dispetto dell'istruzione datami dai teologi. Cosa dimostrano i passi citati? “Che Paolo sta pensando all'umanità del suo Cristo, non nel senso di un'umanità ideale, ma di una reale esistenza umana” (Soden, pag. 31). Certamente. Ma dove e quando ho messo in dubbio questo? È precisamente il punto essenziale della mia tesi che, nell'antica visione cristiana e paolina, la vera venuta del Messia è preceduta dalla sua apparizione in forma umana. Secondo Isaia, non è dovuto all'impotenza di Dio, ma ai peccati del popolo, il fatto che la realizzazione della promessa di un Messia è ritardata (Isaia 58; 70:1). Nel capitolo cinquantatreesimo il profeta aveva parlato del “servo di Dio” che si assume i peccati degli uomini, e così li “giustifica”. Se questa figura del servo di Dio e del giusto è associata a quella del Messia, ed è ispirata l'idea che il servo di Dio deve essere compreso, non nel senso del popolo di Israele in generale, ma come un singolo individuo che si offre per gli uomini, nello stesso modo in cui nel paganesimo in origine un individuo doveva sacrificarsi annualmente per tutti, sarebbe naturale che l'individuo che si fosse così sacrificato non avrebbe avuto semplicemente tratti umani, ma avrebbe dovuto essere un uomo reale altrimenti non avrebbe potuto espiare i peccati degli uomini. Nessuno, se non un uomo, poteva, secondo il sentimento generale dell'antichità, assumersi la colpa di altri uomini. Solo come uomo era concepito “il giusto” nella Sapienza di Salomone, ed egli si definisce “servo di Dio” (2:13) e rappresenta Dio come suo “padre” (16:18). In effetti, persino il servo sofferente di Dio in Isaia era descritto così inequivocabilmente come uomo che l'elevazione più risoluta della sua figura al mondo soprannaturale e metafisico, come la troviamo in Paolo, non poteva cancellare i suoi tratti umani. Il problema è, se quei tratti siano quelli di un uomo reale, vale a dire storico: se l'essere celeste che doveva apparire come un uomo secondo Paolo sia venuto sulla terra in un preciso momento della Storia.

I tratti sopra descritti della figura di Cristo sono tali da implicare necessariamente una personalità storica?

Un uomo dev'essere assolutamente avvolto nel pregiudizio teologico per non riconoscere che quei tratti sono mutuati completamente dalla figura del servo di Dio in Isaia: il suo amore, la sua giustizia, la sua umiltà, [8] la sua obbedienza, la sua povertà e persino la sua posizione sotto la legge (Galati 4:4), che segue immediatamente, nel caso di un ebreo, dalla sua obbedienza, e fu per Paolo la condizione necessaria per liberare dalla legge il resto degli uomini che vi erano soggetti (Galati 5). Questo, anzi, è stato segnalato ai teologi “storici” dal loro collega Wrede. “Solo in un'unica circostanza”, dice, “la personalità umana di Gesù sarebbe stata un modello: se la dottrina di Cristo avesse rappresentato un'idealizzazione e un'apoteosi di Gesù in una forma tale che la realtà storica sarebbe stata visibile attraverso di essa. Questo non è certamente il caso [!]. Sono l'umiltà, l'obbedienza e l'amore che abbondano nel figlio di Dio, quando egli scambia il cielo per le miserie della terra, un riflesso dell'uomo compassionevole e umile Gesù? Paolo ha trasferito i diversi tratti della natura di Gesù alla forma celeste? Questo è stato affermato, ma non è vero. Cristo è detto ubbidiente perché non si oppose alla volontà divina di mandarlo a salvare il mondo, anche se gli costò la sua esistenza divina e lo portò alla croce; è detto umile, perché si abbassò all'umiltà della terra: e l'amore deve essere stato il suo movente, dal momento che la sua incarnazione e la sua morte furono il più grande servizio per l'umanità. Questo servizio è ispirato naturalmente dal desiderio di servire — dall'amore. Tutte quelle qualifiche etiche, quindi, non sono derivate da un'espressione della natura morale di Gesù, ma si originano nella stessa tesi di redenzione dell'apostolo”. [9]

Ma Paolo rappresenta Cristo come “del seme di Davide” e nato “da donna” (Romani 1:3). Non è un semplice riferimento ad un individuo storico? Sfortunatamente, la discendenza da Davide è semplicemente uno dei tratti tradizionali del Messia e, di conseguenza, della sua apparizione umana; e, se il Cristo paolino doveva davvero essere un uomo, da chi avrebbe potuto nascere se non da “una donna”? Se Paolo sembra porre l'accento su questa circostanza banale e necessaria, potrebbe essere stato indotto a farlo dalle tendenze gnostiche, che miravano a dissociare la figura del salvatore da tutte le limitazioni terrene, e a trasformarla in una concezione puramente metafisica; e perciò non si limitò a fare uso di un'espressione ebraica familiare — “nato da donna” — che si presenta più di una volta nella Bibbia. [10] Possiamo aggiungere che almeno i teologi liberali, in larga misura, sono convinti che il Gesù “storico” non discese da Davide, e che le genealogie dei vangeli, che pretendono di dimostrare questa discendenza, sono fabbricazioni successive fatte con l'intenzione di stabilire la natura messianica del salvatore cristiano. Così Paolo si sarebbe allontanato dalla verità se avesse cercato di rappresentare Cristo alle comunità come un discendente di Davide!

Non ho bisogno di soffermarmi a dimostrare che i molti passi che menzionano la morte e la crocifissione di Gesù non provano, come afferma Weinel, la storicità di Cristo. Quando von Soden richiama enfaticamente l'attenzione alla vividezza con cui Paolo vide i dettagli della vita di Gesù, indicando la prima epistola ai Corinzi (14:4), in cui espressamente [!] dice che Gesù fu sepolto dopo la morte (pag. 32), dobbiamo dire che la procedura dei nostri avversari diventa piuttosto divertente. Weinel mi accusa di dire che i teologi hanno basato la storicità di Gesù sul racconto delle apparizioni del Cristo risorto (1 Corinzi 15:5) e nascondendo il fatto che erano i versi precedenti, che parlano della morte e della sepoltura di Gesù, ad essere in discussione (pag. 108). Devo ammettere che avevo avuto un'opinione troppo alta sul metodo teologico di ragionamento. I teologi basano davvero la storicità di Gesù sulla sua morte e sepoltura — nonostante Isaia 53:9, dove c'è un'allusione al sepolcro del servo di Dio. Anzi, lo basano persino sul fatto (egualmente storico!) della resurrezione, che, secondo Beth, è uno di quello “aspetti” [sic] di Gesù “che presuppongono la sua umanità” (pag. 36). Quale idea devono avere i teologi del livello mentale dei loro lettori quando si aspettano di fare un'impressione su qualcuno con citazioni simili a quelle di Paolo!

Tutto ciò che viene dimostrato da questi argomenti addotti dai teologi è, come ho detto prima, il fatto che essi hanno assunto l'esistenza del Gesù storico e la verità della narrazione evangelica prima di cominciare la loro ricerca; per questo essi, fin da subito, nella maniera più acritica, riferiscono ogni passo in cui Paolo accenna all'umanità di Cristo ad un individuo storico, e interpretano nel senso delle narrazioni evangeliche tutto ciò che viene detto di quest'uomo. Weiss afferma che il “lettore imparziale” deve riconoscere “il fatto storico dell'incarnazione e della crocifissione” come il fondamento del credo di Paolo. La parola “storico” è, tuttavia, un'aggiunta per la quale non è stata ancora trovata alcuna giustificazione nel testo; per non parlare del fatto che fino ad ora nessuno, ad eccezione di un teologo, ha considerato l'incarnazione di un dio un “fatto storico”. In realtà, lo stesso Paolo, secondo Weiss, non era in grado di concepire “puramente una reale e intera incarnazione del Cristo celeste”, e giustamente indica Filippesi 2:7, dove l'apostolo non dice: “Egli diventò uomo ed era un uomo in tutto il suo comportamento”, ma “egli fu fatto nella somiglianza di un uomo, e fu trovato in apparenza come un uomo” — un'espressione che ha in realtà un colore decisamente docetico, e suggerisce la concezione gnostica del Salvatore. [11] Inoltre, il credo di Paolo ritrae non solo l'uomo Gesù, ma anche l'uomo Adamo. Questi due “uomini” si completano a vicenda, secondo Paolo: proprio come tutti gli uomini peccarono in Adamo, il primo uomo, così essi saranno salvati dal secondo uomo, Cristo. Chiunque ritenga Paolo portatore dell'idea che l'uomo Gesù sia stato un fatto storico dovrebbe anche assumere coerentemente l'idea che Adamo sia stato una realtà storica, come osservato giustamente da Dupuis. [12] Quando gli ortodossi esitano ad ammettere la storicità di Adamo, perché è fin troppo in disaccordo con le visioni moderne, si privano del secondo sostegno su cui basare la loro fede nel Cristo storico e nella sua opera di redenzione. Per Paolo l'uno è tanto una realtà quanto l'altro. Questo dovrebbe essere sufficiente ad aprire la mente dei nostri teologi alla natura di questa “realtà” e al suo rapporto con la Storia.

L'“evidenza” che abbiamo finora esaminato da Paolo a favore dell'esistenza di un Gesù storico può essere meglio descritta come “semplice”. Possiamo credere che non è avanzata davvero seriamente dai suoi sostenitori, ed è intesa piuttosto all'edificazione del pubblico generale. Probabilmente non attribuiranno parecchio peso al fatto che Paolo ricorda ai Galati (3:1) come “davanti ai cui occhi Cristo è stato ritratto crocifisso fra loro”. Il fatto che qui non abbiamo nient'altro che una raffigurazione espressiva del Cristo morente e della necessità per lui di morire per gli uomini, allo scopo di commuovere gli ascoltatori, così come lo si trova fare comunemente in un sermone moderno al fine di volgere le anime a Cristo, o al più, secondo Robertson, una rappresentazione scenica o illustrata del Dio crocifisso secondo la maniera degli antichi misteri, e non una dichiarazione storica, non è sicuramente necessario dimostrarlo. “Se espongo qualcosa davanti agli occhi di chiunque”, dice Kurt Delbrück, “non si può parlare di un essere soprannaturale e ideale” (pag. 15). In questo caso Delbrück deve considerare i dipinti del Giudizio Universale e dell'Inferno di Michelangelo e Rubens riproduzioni di realtà concrete, oppure prendere il fantasma del padre di Amleto per una personalità reale. Ma la conclusione più notevole da questa frase di Galati è derivata da J. Weiss nella sua opera contro Wrede, Paulus und Jesus (1909), quando dice riguardo alla “croce di Cristo”: “Mentre lui [Paolo] pronuncia quelle parole, egli ha nella sua mente non solo l'immagine concreta del crocifisso, ma tutte le circostanze che l'accompagnano, che devono essergli note. La crocifissione è una punizione romana; deve perciò aver saputo che la più alta autorità romana, il procuratore, ne era coinvolto (!). E poiché, d'altra parte, senza dubbio (!) considerava gli ebrei  responsabili della morte (non c'è nessuna dimostrazione!), deve aver avuto qualche idea del corso del processo. In effetti, la figura del crocifisso deve (!) essere stata nella sua mente in più che da semplice schema; deve avere avuto colore, espressione, caratteristiche vivide, altrimenti non la avrebbe potuto “ritrarre al vivo” [nel testo greco, “davanti agli occhi”] ai Galati. L'espressione implica innegabilmente (!) una descrizione vivente, espressiva e illustrata dell'evento, non semplicemente una comunicazione solenne del fatto” (pag. 11). Questo è ciò che io dovrei chiamare “esegesi”. Mi permetterò una domanda: se la rappresentazione del giusto sofferente in Isaia (capitolo 53) non sarebbe bastata a permettere di “ritrarre davanti agli occhi” la morte terribile del servo di Dio?

Forse qualcuno citerà “i dodici” ai quali Paolo fa riferimento (1 Corinzi 15:5) come prova del fatto che Paolo conosceva alcuni fatti particolari circa la vita del Gesù storico. Fin dal lavoro di Holsten, [13] comunque, è stato un segreto di Pulcinella nel mondo teologico il fatto che “i dodici” siano una interpolazione successiva nel testo originale. Il teologo Brandt considera a sua volta “i dodici” come “una parte davvero problematica del testo paolino” e crede che costituisca un'“aggiunta successiva” [14] e Seufert è convinto che sia probabilmente una “glossa (?) molto antica” che fu inserita nel testo per sostenere con l'autorità dell'apostolo Paolo l'idea successiva di dodici apostoli. [15]

(b) Le Apparizioni del Cristo Risorto. — Parlando in senso stretto, l'intero resoconto di Paolo delle apparizioni del Cristo risorto, come lo troviamo in 1 Corinzi 15, non è di una natura tale da permettere qualche prova della storicità di Gesù. La teologia storica professa di attribuire molta importanza a questo resoconto. Vi scorge una conferma della tesi secondo cui nella resurrezione abbiamo semplicemente “visioni” da parte dei discepoli del Salvatore. In effetti lo considera il resoconto più antico in nostro possesso della resurrezione e che ha grande autorità perché, a loro avviso, Paolo si affida direttamente alla testimonianza della “comunità primitiva” per la verità della sua affermazione. Questo, dicono, è ciò che dobbiamo capire quando l'apostolo scrive: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”, ecc. Ma la frase “secondo le Scritture” non si riferisce piuttosto al fatto che qui non si tratta di una reminiscenza storica, bensì di un credo basato su testi — precisamente, Isaia 53, e forse anche Giona 2:1, ed Osea 6:2 ? [16] La storia stessa di Giona sembra essere stata originariamente solo una personificazione storica del mito del Salvatore morto, sepolto e risorto; infatti, Gesù si riferisce al profeta Giona in questo senso (Matteo 12:40).

E anche se l'apostolo fosse stato assicurato dalla “comunità primitiva” della verità di questi testi, che cosa prova riguardo alla storicità della persona avvistata in queste visioni? È stato detto che la sua enumerazione delle apparizioni di Gesù possiede una natura documentaria e “catalogativa”. Ma dove troviamo in questo “catalogo” le donne a cui, secondo Matteo (28:9) e Marco (16:9), apparve per prima il Gesù risorto? E come può Paolo affermare che Gesù apparve a tutti i dodici apostoli, quando ce n'erano solo undici dopo la morte di Giuda, come assume Luca (24:33)? E cosa ha a che farvi Giacomo, dal momento che, secondo i vangeli, Gesù non avrebbe avuto alcun rapporto con suo fratello, ed essi non parlano di alcuna apparizione del genere a lui? Se qualcuno della gente religiosa più esaltata avesse visioni e credesse di percepire la presenza fisica del “servo di Dio”, ciò fornirebbe qualche prova di storicità?

Naturalmente, risponde Weiss, e per una dimostrazione ci rimanda alla visione di Paolo, di cui dice: “L'apparizione deve avergli mostrato aspetti nella figura celeste mediante i quali riconobbe Gesù di Nazaret, o — come io dovrei dire secondo 2 Corinzi 5:16 — riconobbe nuovamente” (pag. 108). Tuttavia, Atti non dice nulla circa un Paolo che percepì una forma definita; parla solo di un lampo di luce che cadde sull'apostolo dall'alto, e di una voce che credette di udire. [17] Questo è sufficiente a rovinare la conclusione che fa Weiss nel suo libro contro Wrede (pag. 9) — secondo cui Paolo deve aver avuto una conoscenza personale di Gesù. Dovremmo avere proprio altrettanto diritto di considerare gli dèi pagani, Serapide o Asclepio, che si credeva apparissero ai loro devoti in uno stato di estasi, come personalità storiche perché i devoti li consideravano come tali. Weiss stesso assume, infatti, che la trasfigurazione di Gesù sia basata su una dichiarazione di Pietro. Si suppone che Gesù sia apparso ai suoi discepoli in compagnia di Mosè ed Elia. Ma come faceva Pietro a sapere che i due fossero Mosè ed Elia? Egli non aveva conoscenza personale di loro.

Von Soden, tuttavia, crede che le visioni menzionate in 1 Corinzi 15 dimostrano che la figura che apparve ai discepoli dovette avere caratteristiche ben definite e riconoscibili, mediante cui poteva essere riconosciuta per quella di Gesù. Ma Paolo non dice che Gesù apparve loro in forma corporea. Se l'apparizione di una luce per lui era sufficiente a indicare Gesù, potrebbe non essere stato lo stesso per gli altri, siccome tutti loro si aspettavano ogni ora la venuta del Salvatore? Von Soden cita “più di 500 fratelli”, che devono tutti averlo visto in un dato momento, e di cui molti vivevano ancora (1 Corinzi 15:6). Sembra che non abbia mai sentito parlare di apparizioni della Vergine Maria, la quale è stata vista simultaneamente da molti fedeli, anche se nessuno di loro ha avuto la minima conoscenza personale di lei. Pensa a sua volta che l'apparizione ai cinquecento possa essere messa in linea con l'evento di Pentecoste nel testo di Atti. Sfortunatamente, quest'evento di Pentecoste non era certo un evento storico; il racconto dell'effusione dello Spirito Santo è ben compreso da Gioele 2:28, dove leggiamo: “Dopo questo, avverrà che io spargerò il mio Spirito su ogni persona: i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri vecchi faranno dei sogni, i vostri giovani avranno delle visioni. Anche sui servi e sulle serve, spargerò in quei giorni il mio Spirito”, ecc. Ma anche se l'evento di Pentecoste avesse avuto realmente luogo, non aiuterebbe l'opinione di Herr von Soden, perché implicherebbe solo che i cinquecento videro un'apparizione di luce, non una figura definita di Gesù. Ciò è più probabile, è vero, del fatto che una forma definita fosse stata vista simultaneamente da cinquecento uomini. Per quella ragione potremmo considerare più antico il resoconto di Atti, se non la fonte, della narrazione di Paolo. Ciò significherebbe che l'episodio dei cinquecento non è dato nella sua forma originale in Paolo, e quindi dovremmo avere una ragione in più per considerare un'interpolazione l'intero riferimento alle apparizioni del Gesù risorto nel quindicesimo capitolo di 1 Corinzi. Lo sforzo di collocare la visione di Cristo da parte di Paolo allo stesso livello di quella degli altri apostoli suggerisce che l'intera faccenda è un racconto fittizio inserito nell'interesse dell'apostolo delle genti, o, piuttosto, di una predicazione comune dell'apostolo degli ebrei e di Paolo. [18]

Ad ogni modo, la prova che Paolo deve il suo resoconto dell'apparizione del Cristo risorto alla comunità primitiva non aiuta affatto, siccome non vi è maggiore garanzia della realtà storica della figura avvistata in una visione da parte di più persone invece che da un individuo. Mostra semplicemente il fallimento dei teologi nel trovare qualche sostegno per il loro credo in un Gesù storico in 1 Corinzi 15.
 
(c) Il Resoconto dell'Ultima Cena. Ora arriviamo a 1 Corinzi 11:23. Qui troviamo le parole familiari: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane”, ecc. Questo passo, J. Weiss ci assicura, è “fatale” per l'intera teoria di Drews, “perché non solo vi abbiamo menzionate le parole del Signore, ma un evento perfettamente definito nella vita di Gesù è descritto in tutti i suoi dettagli, che mostrano una piena conoscenza della storia della passione: la notte, il tradimento e la cena prima dell'arresto” (pag. 105). Certamente; a meno che le parole in questione non fossero state scritte da Paolo, ma siano una successiva interpolazione nel testo. Non sono stato il primo a suggerirlo. I teologi Straatman [19] e Bruins [20] hanno respinto il racconto di Paolo dell'Ultima Cena e hanno concluso che non si adatta al contesto. Steck [21] lo descrive modificato per uso liturgico, e Völter [22] considera un'interpolazione l'intero capitolo undicesimo della prima epistola ai Corinzi. Van Manen ha anche messo in dubbio il brano relativo all'Ultima Cena in Paolo, a causa della sua perdita di connessione con il passo precedente, e ha detto che esso dà l'impressione di essere una collezione di detti tratti da varie fonti allo scopo di rimpiazzare i banchetti fraterni della comunità, per via delle cose sconvenienti che vi accadevano, e di sostituirle con la festa dell'Ultima Cena. [23] A questi possiamo aggiungere Schläger, il traduttore del Römerbrief di van Manen, che ha sollevato obiezioni sull'autenticità del passo [24] e Smith ha a sua volta dichiarato di recente che il passo costituisce un'interpolazione. Perciò non è folle parlare di un'interpolazione in 1 Corinzi 11:23.

La teologia storica considera generalmente il passo in Corinzi la versione più antica in nostro possesso delle parole usate nell'istituzione della Cena. Ma una ragione particolarmente sorprendente che ci impedisce di vedere in Paolo la tradizione più antica delle parole dell'Ultima Cena è la loro forma ovviamente liturgica e il significato che l'apostolo assegna alle parole. È davvero singolare che Paolo e Luca rappresentino da soli la Cena del Signore come istituita da Gesù in “memoria” di lui; Marco e Matteo non sanno nulla di questo. Hanno un testo molto più semplice degli altri due. Quindi, Jülicher, contro Weizsàcker e Harnack, dubita giustamente che la Cena sia stata “fondata” da Gesù. [25] “Non istituì o fondò nulla; ciò rimase per il tempo in cui ritornò nel regno di suo padre. Non fece nessuna disposizione per la sua memoria; avendo parlato come fece in Matteo (16:29), non aveva idea di un periodo così lungo del tempo futuro” (pag. 244). Paolo, quindi, secondo Jülicher, indica una fase successiva della tradizione riguardo alla prima Eucaristia di quanto mostrano Marco e Matteo, e la tradizione più antica non fa mostrare a Gesù il minimo segno di voler l'esecuzione futura di quelle azioni materiali dai suoi seguaci (pag. 238). Se è così, le parole dell'istituzione della Cena sono state interpolate in seguito nel testo di Paolo, mentre il loro uso liturgico nel senso paolino divenne stabilito nella Chiesa, al fine di sostenerla con l'autorità dell'apostolo, e le parole “Infatti ho ricevuto dal Signore” servono a dare prova ulteriore della loro natura autentica; o altrimenti la prima epistola ai Corinzi non fu scritta dall'apostolo Paolo, siccome, a dispetto di Jülicher, è difficile credere che Paolo potesse dare ad una fase così antica una versione della Cena del Signore che differisse così tanto da quella della “comunità primitiva”.

O possiamo credere che Paolo avesse un resoconto più affidabile delle parole di Gesù rispetto agli evangelisti, e lo abbia utilizzato in 1 Corinzi 11:23? Se è così, come giunsero Matteo e Marco a cambiare le parole originali dell'istituzione, e come questa alterazione poteva essere conservata nel loro testo e ricevuta dalla Chiesa? Anche nel loro testo le parole dell'istituzione non danno un'impressione di Storia reale. Il loro senso mistico è in flagrante contraddizione con ciò che i teologi chiamano così apprezzabilmente la “semplicità” e la “linearità” delle parole di Gesù. “Come facevano i discepoli a capire che consumavano il corpo di Cristo  in procinto di essere messo a morte e che bevevano il suo sangue, sebbene non il sangue presente nel suo corpo, ma quello in procinto di essere versato presto?” domanda il teologo A Eichhorn nella sua opera Das Abendmahl (1898), e dichiara che tutta la storia dell'istituzione della cena, come ce l'abbiamo nei sinottici e in Paolo, è un'impossibilità storica. “Tutte le difficoltà scompaiono se adottiamo il punto di vista successivo della comunità”. [26] Il misticismo della cena festiva non può essere stato istituito da Gesù, ma è basato sul culto della comunità cristiana, e successivamente venne posto sulle labbra del suo presunto fondatore. [27]

In quel caso 1 Corinzi 11:23, ecc., non ha valore come prova della storicità di Gesù.

Esaminiamo il passo più da vicino. “La stessa notte in cui fu tradito”fu egli tradito? La cosa è storicamente così improbabile, l'intera storia del tradimento è così assurda, storicamente e psicologicamente, che solo pochi lettori sprovveduti della Bibbia possono accettarla con compiacimento. Immagina l'uomo ideale, Gesù, a conoscenza del fatto che uno dei suoi discepoli sta per tradirlo e perde così la sua salvezza eterna, senza fare nulla per trattenere il miserabile, ma piuttosto confermarlo in esso! Immagina un Giuda che chiede denaro al sommo sacerdote per il tradimento di un uomo che cammina quotidianamente per le strade di Gerusalemme e il cui soggiorno di notte potrebbe essere sicuramente scoperto senza alcun tradimento! "“La necessità di Giuda per dover tradire Gesù”, dice Kautsky, “è più o meno come se la polizia di Berlino dovesse pagare una spia perchè indicasse loro l'uomo di nome Bebel” [28] Inoltre, la parola greca paradidonai non significa affatto “tradire”, ma “consegnare”, ed è attinta semplicemente da Isaia 53:12, dove è detto che il servo di Dio “ha consegnato sé stesso alla morte”. L'intera storia del tradimento è un'invenzione tardiva fondata su quel passo del profeta, e Giuda non è una personalità storica, ma, come crede Robertson, un rappresentante del popolo ebraico, odiato dai cristiani, che si credeva avesse causato la morte del Salvatore. Inoltre, la “notte”, in cui si suppone che il tradimento abbia avuto luogo, non ha uno sfondo storico. Serve semplicemente a mettere in contrasto la figura luminosa di Gesù e l'oscura opera del suo traditore. [29] Quindi Paolo non può aver conosciuto alcunchè di un tradimento notturno da parte di Giuda, e un'altra “prova” della storicità di Gesù crolla.

I teologi commentano con umorismo sul fatto che sono respinti come interpolazioni tutti i passi che non si accordano con la tesi di coloro che negano la storicità di Cristo e affermano che questa è una procedura intenzionale. Comunque, è abbastanza certo che loro stessi abbandonerebbero subito i passi, e troverebbero altrettanti argomenti contro la loro autenticità come ora li trovano a loro favore, se questo fosse conveniente al loro sistema generale.

Una cosa è certa: se 1 Corinzi 11:23, ecc., non è un'interpolazione nel testo, non ci sono affatto interpolazioni nel Nuovo Testamento. Possiamo capire quanto sia difficile per i teologi rinunciare al passo a causa del filo sottilissimo che collega inequivocabilmente l'insegnamento di Paolo ai vangeli, ma non possiamo pensare granchè della loro perspicacia quando non trovano alcuna anomalia nel passo. Nei versi precedenti (17-22) del capitolo Paolo non sta trattando della cosiddetta ultima cena, ma del banchetto fraterno, o agape, che i cristiani celebravano in comune. Dal ventitreesimo verso in poi l'apostolo parla improvvisamente della cena, e poi nei versi 23 e 24 ritorna al banchetto fraterno.

(d) I “Fratelli” del Signore. — Dobbiamo ora trattare “i fratelli del Signore” (1 Corinzi 9:5 e Galati 1:19). Qui i teologi credono di giocare la loro carta vincente. Se Gesù avesse avuto fratelli biologici, doveva certamente essere stato un individuo storico, ed è falso che Paolo non sapesse nulla di ogni singolo aspetto umano di Gesù. “Non abbiamo noi”, dice 1 Corinzi 9:5, “il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” Se soltanto si potesse dimostrare che Paolo aveva nella sua mente fratelli biologici di Gesù e non semplicemente “fratelli” nella setta! Weinel contesta questo in base al fatto che è improbabile che dei settari si definiscano “fratelli” del Dio del culto. Non ha mai sentito parlare di fratelli di San Vincenzo, fratelli di Giuseppe, sorelle di Maria, ecc.; vale a dire, confraternite religiose i cui membri si chiamano secondo il nome del santo al cui servizio sono entrati e che corrispondono agli eroi del culto negli antichi misteri? “Ma nel caso di Paolo”, risponde, “possiamo provare che non assegna quel nome ai cristiani; li chiama ‘fratelli’ o ‘fratelli in Cristo’” (pag. 109).

Ora, in Romani (8:44) coloro che sono invasi dallo spirito di Dio sono chiamati “figli di Dio”. Cristo, in quanto “figlio di Dio” in un senso particolare, è chiamato “il primogenito tra molti fratelli” (29), e i suoi seguaci sono chiamati “eredi di Dio” e “coeredi con Cristo” (17), da cui deriva che devono essere allo stesso tempo “fratelli di Cristo”. Ciò costituisce, dice Weinel, una figura, non un titolo cristiano. Ma perché i seguaci di Gesù non dovrebbero ricevere un nome allegorico da Paolo, quando la “fratellanza” della setta è solamente allegorica, i suoi capi sono definiti allegoricamente “padri”, e i membri sono definiti soltanto allegoricamente loro figli? In Matteo (28:10) Gesù stesso chiama i suoi seguaci suoi “fratelli”, e in Marco (3:35) dice: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”. Giovanni (20:17) chiama così i discepoli perché hanno come “padre” lo stesso Dio al pari di lui. Infatti, nel secondo secolo, Giustino, nel suo dialogo con l'ebreo Trifone, parla degli apostoli come “fratelli di Gesù” nel senso più alto (pag. 106). Perché, quindi, Paolo non avrebbe dovuto parlare dei seguaci di Gesù come suoi “fratelli”? Perché di solito li chiama “fratelli in Cristo”? Ma proprio come, da un lato, l'apostolo esprime il legame intimo con Cristo mediante la continenza dei fedeli (Galati 3:26-29), e anche tramite l'assorbimento nell'atmosfera di vita del Supremo, così lui parla pure, dall'altro lato, di Cristo che vive nei fedeli e che li introduce ad una relazione più stretta, oppure che li rende fratelli. Se in un punto non si limita ad un modo di espressione, perché dovrebbe farlo in un altro? Quelli che pensano diversamente devono essere stati convinti in anticipo che Gesù è un individuo storico in Paolo, e che i suoi fratelli possono soltanto essere fratelli nella carne. In realtà, i partigiani della storicità di Gesù rifiutano semplicemente l'interpretazione allegorica dell'espressione “fratelli” perché loro assumono in anticipo la storicità.

Secondo Weinel, ne consegue che un gruppo particolare di uomini deve essere nominato qui, perché in 1 Corinzi 9 vi è un problema delle prerogative degli apostoli, e i fratelli del Signore sono associati a loro come uomini apostolici (pag. 109). Ma sposarsi era davvero una “prerogativa” degli apostoli? Gli altri membri della setta, oltre agli apostoli e ai fratelli biologici di Gesù, non potevano prendere moglie? Paolo non potrebbe aver desiderato dire proprio con altrettanta probabilità che in ogni cosa si sentiva nella stessa posizione degli altri membri della comunità, e perciò la sua dignità apostolica non poteva essere contestata una volta che aveva guadagnato il diritto a quel titolo grazie alla sua opera missionaria? No, dice J. Weiss; i “fratelli del Signore” non possono essere cristiani comuni. “Perché furono menzionati tra gli apostoli e Cefa, e perché specialmente gli apostoli non furono chiamati così?” (pag. 106). D'altra parte, perché Cefa è menzionato dopo i “fratelli del Signore”, visto che era uno degli apostoli? E i Corinzi erano così familiari con i fratelli di Gesù che Paolo poteva alludere a loro e alle loro relazioni coniugali? Non vogliamo piuttosto comprendere per i “fratelli del Signore”, se davvero designano un gruppo speciale di uomini distinto dai dodici apostoli, magari i settanta discepoli che Gesù dice (Luca 10) di aver inviato in viaggi missionari? Potremmo indicare il fatto che Giacomo, il “fratello del Signore”, è distinto dai dodici apostoli secondo le costituzioni apostoliche, ed è annoverato da Eusebio [30] tra i settanta — un punto di vista che Egesippo a sua volta sembra tenere in Eusebio. [31] Non c'è risposta a quelle domande. Al meglio il passo rimane oscuro.

Altri studiosi, che non hanno bisogno dei “fratelli di Gesù” a sostegno della loro fede in un Gesù storico, hanno omesso del tutto 1 Corinzi 9:5, e hanno dichiarato che non ha significato oppure che è un'interpolazione. Schläger, per esempio, lo considera falso perché, nella sua ricerca, tutti i passi della prima epistola ai Corinzi, con una sola eccezione (4:4), che parlano di Cristo come “il Signore” sono risultati delle interpolazioni. “I viaggi missionari dei fratelli di Gesù”, egli dice, “non ci sono noti da nessun'altra fonte, e sono di per sé improbabili”. Ciò è indubbiamente corretto. Immagina Simone, Giuda o Giuseppe (Ioses) che escono con l'annuncio che il loro fratello Gesù fosse il Messia tanto atteso, e sarebbe presto tornato sulle nubi del cielo! Steck a sua volta è sorpreso di sentire di viaggi missionari da parte dei fratelli del Signore, “che, come ebrei patriottici, non è facile da immaginare lontano dalla Palestina”, e gli viene in mente Galati 2:12, dove si dice semplicemente che Pietro si recò ad Antiochia, senza ulteriori spiegazioni storiche. [32] E Bruno Bauer esclama: “Che idea che Pietro e i dodici apostoli debbano essere noti ai Corinzi come itineranti! Non fu fino al secondo secolo che divennero noti come tali a tutti. E quanto sia malposto l'interrogativo se non abbiano lo stesso diritto di sposarsi come gli apostoli, e il fatto che Barnaba debba essere portato in stretta intimità alla persona di Paolo e presentato ai Corinzi come collaboratore di Paolo! Come se egli fosse andato a Corinto assieme all'apostolo dei gentili!” (pag. 52).

I partigiani di un Gesù storico collegano naturalmente i suoi “fratelli” a Marco 6:3, dove Giacomo, Ioses, Giuda e Simone sono menzionati come figli di Maria e fratelli di Gesù. Ma Steudel ha giustamente richiamato la nostra attenzione a Marco 15:40, dove la stessa Maria, che è supposta essere la madre di Giacomo e di Ioses, non è rappresentata come la madre di Gesù e, di conseguenza, Giacomo e Ioses non possono essere considerati suoi fratelli. Evidentemente abbiamo a che fare con due racconti indipendenti, e non si può esitare nel dire quale fosse il precedente; e, perciò, il credo che Gesù avesse fratelli nella carne si rivela una creazione secondaria e leggendaria. [33]

Qui abbiamo anche la risposta alla domanda circa la fratellanza di Giacomo (Galati 1:19). Ho provato a dimostrare che anche questa è semplicemente fratellanza nella setta, e che la posizione d'onore che Giacomo avrebbe dovuto avere nella comunità, secondo Atti 15:13 e Galati 1:19 e 2:9 e 12, era dovuta alle sue qualità personali. “Sarebbe toccato a Drews”, dice von Soden, “spiegare l'espressione ‘fratelli del Signore’ nel senso che Giacomo era il miglior cristiano, il più simile al Signore” (pag. 31). Evidentemente l'erudito scrittore dimentica che Origene aveva detto molto tempo prima che Giacomo fu chiamato il fratello del Signore, non tanto a causa della relazione di sangue con Gesù, né perché era cresciuto con lui, quanto perché era fedele e virtuoso. [34] È ben noto quale ruolo importante abbia recitato Giacomo nel secondo secolo nelle comunità giudeo-cristiane, come vediamo soprattutto in Egesippo (nella Storia Ecclesiastica di Eusebio, 2:25), proprio a causa della sua pietà. Era allo stesso tempo il patrono della setta degli ebioniti, che fabbricò una ghirlanda di leggende intorno al suo capo. È così improbabile il fatto che il pio fratello della setta fosse elevato presto alla posizione di “fratello del Signore” in un senso speciale, e che il nome — originariamente solo un titolo onorifico — fosse usato da Paolo in quel senso?

D'altra parte, non è impossibile che “il fratello del Signore” sia un'interpolazione successiva in Galati 1:19, sia perché un particolare gruppo di cristiani desiderava portare il santo venerato il più vicino possibile a Gesù rendendolo un fratello nella carne, oppure, come pensa Schläger (pag. 46), allo scopo di distinguere più chiaramente i vari individui che si chiamavano Giacomo. Come dice Egesippo: “Dal tempo di Cristo fino a noi, egli fu da tutti soprannominato il Giusto, poiché molti di loro si chiamavano Giacomo”. [35] Era del tutto naturale, quando cominciarono a considerare Gesù generalmente come un essere umano, dargli dei tratti umani, e convertire in una relazione biologica la relazione spirituale interiore con lui di vari importanti fratelli; a volte ciò potrebbe essere stato fatto per rivendicare la completa realtà dell'incarnazione di Cristo contro il crescente spiritualismo gnostico. Infine, può essere una semplice coincidenza il fatto che i tre “pilastri” di Gerusalemme concordano nel nome coi tre discepoli privilegiati del Signore che sono presenti con lui alla resurrezione della figlia di Giairo (Marco 5:57; Luca 7:51), lo seguono sul monte della trasfigurazione (Marco 9:2, Luca 9:28) e a cui è permersso essere i testimoni della sua agonia di fronte alla morte incombente nel Getsemani? Non era l'apostolo “pilastro” Giacomo originariamente identico a Giacomo il figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, e solo in seguito convertito nel “fratello di Gesù”?

Non sia detto che sia semplice “arbitrarietà soggettiva” trovare qui un'altra interpolazione in Paolo. Nessun teologo dubita che le epistole paoline siano state fortemente interpolate. Quali passi sono stati inseriti in seguito lo si può decidere solo dalla tesi generale che si raccoglie dal testo. E che la tesi dei teologi sia l'unica corretta, per cui il Gesù delle epistole paoline era un individuo storico, non è ancora stato dimostrato da alcuna cosa che abbiamo trovato nelle epistole. Cosa vi è allora ad impedirci di interpretare nel nostro senso, oppure di escludere, un'espressione così singolare e isolata come “il fratello del Signore” in Galati?

Come è noto, molti scandali furono presto provocati negli ambienti esseno-ebioniti dalla dichiarazione che Maria fosse sposata a Giuseppe e avesse avuto diversi figli, e si diceva che Giacomo non fosse un vero fratello di Gesù. Alcuni lo consideravano un fratellastro — un figlio di Giuseppe da una moglie precedente; altri pensavano che i “fratelli del Signore” fossero fratelli adottivi o cugini di Gesù, oppure tentavano di spiegarli come eguali agli apostoli. Ciò portò ad un'identificazione di Giacomo il Giusto, il “fratello del Signore”, con Giacomo il figlio di Alfeo, come viene chiamato brevemente nei sinottici e negli Atti, [36] come constatiamo in Girolamo, ad esempio; altri lo identificarono con Giacomo il figlio di Zebedeo, il fratello di Giovanni; e quei punti di vista hanno trovato rappresentanti tra teologi recenti. Nei sinottici i “fratelli” hanno apparentemente un significato puramente simbolico. Servono allo scopo di enfatizzare la distinzione tra una relazioni spirituale e una relazione biologica, e di illustrare la verità che l'appartenenza a Gesù non dipende da circostanze esterne e dall'accidente della nascita, ma semplicemente dalla fede. [37] Anche in Giovanni (7:5) i fratelli, che non credono in lui, si oppongono ai dodici e al loro riconoscimento senza esitazione della sua Messianicità (6:69), che richiama anche l'antitesi degli ebrei, i quali, nonostante il loro legame razziale, non avrebbero ascoltato nulla di Gesù e dei suoi intimi seguaci. È solo nei posteriori Atti degli Apostoli (1:14) che i fratelli di Gesù appaiono come suoi seguaci, anche se non viene detta una sola parola a spiegazione della loro improvvisa conversione. Questo non ci dispone a riporre molta fiducia nei riferimenti del Nuovo Testamento ai fratelli di Gesù, e quando Weinel dice riguardo a Giacomo, “È tutto così semplice, comprensibile e chiaro da richiedere una buona dose di arte eludere la testimonianza della connessione di Galati 1 e di 1 Corinzi 9 e della terminologia” (pag. 116), io posso solo rispondere che, nonostante tutti i miei sforzi per capire Giacomo dagli scritti dei teologi, non sono mai stato in grado di realizzare la vera natura dell'uomo. E poiché trovo che altri hanno avuto la stessa esperienza, non sembra che sia dovuto a qualche mio difetto il fatto che il problema di Giacomo mi sembri senza speranza; ogni tentativo di gettare luce sull'oscuro problema fallisce. [38] Basare su un passo isolato come il riferimento ai “fratelli del Signore” in Paolo, un credo nella natura storica di Gesù mi sembra fin troppo “semplice”; io non sono abbastanza modesto da farlo. Posso solo vedere figure mitiche nei “fratelli di Gesù”, per quanto si suppone che siano stati fratelli nella carne, e nei suoi genitori, il falegname Giuseppe e Maria; nel caso di Maria specialmente, perché il nome è comune tra gli dèi-salvatori dei tempi antichi, e le altre presunte azioni della Maria Biblica corrispondono a quelle delle madri (o sorelle) di quelle divinità. [39]

(e) Le “Parole del Signore”. — Veniamo ora a quelle che sono chiamate le “Parole del Signore”, la cui introduzione nelle epistole paoline dovrebbe dimostrare che l'apostolo aveva qualche conoscenza di Gesù. Prima c'è 1 Corinzi 7:10: “Ai coniugi poi ordino, non io, ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito: e se si fosse separata, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito; e che il marito non mandi via la moglie”. L'ultima parte di questo precetto concorda in sostanza (non verbalmente) con Matteo 5:32, e 19:9, e con altri passi paralleli. Ma questo significa che è una citazione di un detto del Gesù storico? Il divieto di separarsi da una moglie è puro rabbinismo. Nel Talmud leggiamo: “Una moglie non deve essere ripudiata se non per  adulterio” (Gittin, 90); “L'altare stesso versa lacrime sull'uomo che manda via sua moglie” (Pessach, 113); “L'uomo che si separa da sua moglie è odioso a Dio” (Gittin, 90 b). Leggiamo pure nel profeta Malachia: “Nessuno agisca slealmente verso la moglie della sua giovinezza. Poiché io odio il ripudio, dice il Signore, Dio d'Israele” (2:15). In che modo, se l'apostolo aveva in mente questo passo nella sua proibizione del divorzio, e per il “Signore” in nome del quale parla, dobbiamo intendere “il Dio di Israele”? Non considera Paolo l'Antico Testamento la parola di rivelazione del “Signore”, il cui riferimento a Cristo fino ad allora era stato nascosto, ma ora è rivelato agli occhi dei fedeli? [40] E quando l'apostolo fa appello in 1 Corinzi 9:14, ad un comando del “Signore” per il diritto degli apostoli a vivere secondo il vangelo, potremmo essere disposti a ricordare Matteo 10:10: “L'operaio è degno del suo salario”; ma dovremmo avere proprio altrettanto diritto di pensare a proposito di Deuteronomio 18:1, dove è scritto: “I sacerdoti levitici, tutta quanta la tribù di Levi, non avranno parte né eredità con Israele; vivranno dei sacrifici consumati dal fuoco per il Signore e della eredità di lui”, e 25:4: “Non metterai la museruola al bue che trebbia il grano”. Talvolta Paolo stesso (1 Corinzi 9:9) si appella a questa parola della legge. Pertanto, per spiegare le “Parole del Signore” di Paolo, non abbiamo bisogno di supporre, come ho fatto in precedenza, che esse sono regole della comunità, che sono rivestite di un significato autorevole attribuendole al patrono del gruppo religioso; è sufficiente appellarsi all'Antico Testamento.

Se, tuttavia, dobbiamo intendere per il “Signore” in Paolo, non il “Dio di Israele”, ma Gesù, non vi è ancora alcuna sicurezza sul fatto che le parole in questione non siano interpolazioni. “I riferimenti alle parole e agli atti della vita del Gesù storico”, dice Schläger, “sono così rari negli scritti paolini che, ogni volta che si verificano, dobbiamo chiederci se non sia il riflesso di un periodo successivo, che era abituato ad affidarsi alla letteratura evangelica, ad aver introdotto l'autorità di Gesù nel testo” (pag. 36). Che cosa ci impedisce di supporre che spesso si sia verificato pure il contrario e che le parole e le frasi delle epistole paoline siano state in seguito poste sulle labbra del Gesù dei vangeli?

Von Soden, inoltre, trova singolare il fatto che le “Parole del Signore” in Paolo non si trovano, oppure non si trovano nella stessa forma, nei vangeli. Ciò è particolarmente vero per 1 Tessalonicesi 4:15 — un'epistola che è generalmente considerata autentica dai teologi storici: “Poiché questo vi diciamo mediante la parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati; perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d'arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima resusciteranno i morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell'aria; e così saremo sempre con il Signore”. Il passo ricorda Marco 13:26, specialmente in vista del successivo avvertimento di stare in guardia, ma differisce da esso in punti importanti. Qui abbiamo un'eccellente illustrazione del modo in cui le “Parole del Signore” vennero all'esistenza. Infatti alcuni dei più eminenti rappresentanti critici della teologia storica (Holtzmann, ad esempio), sono convinti che il tredicesimo capitolo di Marco sia nel complesso un opuscolo apocalittico del tempo della Guerra Giudaica, poco prima dell'anno 70; più probabilmente, come ritiene Graetz e come Lublinski ha recentemente dimostrato, un opuscolo di un cristiano palestinese dell'epoca di Bar-Kochba. [41] Quelle “Parole del Signore” sono semplicemente i detti di individui che sentivano l'ispirazione dello Spirito Santo e credevano che i loro proferimenti durante la condizione estatica provenissero direttamente dal “Signore”; e talvolta, come nel caso di cui stiamo discutendo, quei detti furono introdotti successivamente nel Nuovo Testamento. [42]

Essendo questo lo stato delle cose, è assolutamente inutile affermare che, poiché alcune parole e frasi delle epistole paoline si armonizzano con altre nei vangeli, Paolo sta ripetendo le parole del Gesù storico. Il compianto H. Holtzmann, nel suo tentativo di confutare la mia affermazione nel Mito di Cristo che Paolo sembrava non essere familiare di alcun detto di Gesù, ha messo insieme frettolosamente un certo numero di queste parole dalle epistole dell'apostolo, e senza dubbio altre si troveranno ora che l'attenzione è stata attirata su di loro. Tuttavia, come ho detto, non c'è nessuna confutazione di sorta in questo, per la semplice ragione che la maggior parte di quelle parole sono di una natura tale che non possiamo dire se i vangeli le attinsero dalle epistole paoline, oppure se le epistole le devono ai vangeli. Da un lato, anche secondo i teologi, i vangeli sono trovati ripetutamente in possesso di idee paoline; dall'altro lato, si può facilmente constatare come sarebbe nell'interesse della Chiesa scoprire le idee e le parole di Gesù in Paolo, pur di colmare il singolare abisso tra i due. Inoltre, una gran parte di quelle parole particolari di Gesù, specialmente delle più importanti, non vi hanno nulla di originale per dimostrare che esse furono pronunciate soltanto da Gesù.

Questo è vero, in primo luogo, di Romani 2:1: “Nel giudicare gli altri condanni te stesso” (si veda anche 14:4). Il detto dovrebbe suggerire Matteo 7:1: “Non giudicate, affinché non siate giudicati”. Ma la somiglianza è così leggera e il detto così banale che Paolo stesso potrebbe essere stato il suo autore. È scritto nel Talmud (Pirkè Avot, 1, 6): “Giudica ognuno dal lato del bene” e (Sanhedrim, 100): “Come un uomo misura, con lo stesso standard sarà misurato”. È lo stesso con Romani 2:19. Quando l'apostolo esclama all'ebreo orgoglioso della legge, “Ti persuadi di essere guida dei ciechi”, non c'è connessione necessaria con Matteo 15:14, e 23:16 e 24, dove Gesù pronuncia le sue maledizioni sui Farisei, siccome la figura è troppo pertinente e familiare per provare qualcosa. In Romani 9:33, Paolo descrive il suo vangelo di giustificazione per fede come “un sasso d'inciampo e una pietra di scandalo”. Questo rinvia subito i teologi a Matteo 21:42, dove è scritto: “La pietra che i costruttori hanno rifiutata è diventata pietra angolare”. Laddove in questo caso Gesù stesso si appella alle Scritture, non c'è alcuna ragione per cui anche Paolo, quando riprodusse le parole, non dovesse avere in mente Isaia 8:14, e 28:16. In Romani 12:14, troviamo: “Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite”. Questo, naturalmente, deve basarsi sulle parole di Gesù in Matteo 5:44: “Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano”. È scritto, tuttavia, nel Salmo 109:28: “Essi malediranno, ma tu benedirai”; e il Talmud dice: “Meglio è essere offesi che offendere” (Sanhedrim, 48); “Sii sempre fra i perseguitati e non fra i persecutori” (Bava Metzia, 93); e i più antichi manoscritti dei vangeli (Sinaitico e Vaticano) non contengono affatto le parole di Gesù. Allo stesso modo disponiamo di Romani 12:21: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (si veda anche Sapienza 7:30). 

In Romani 13:7, leggiamo: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse”; e questo è corrisposto da Matteo 22:21: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”; ma leggiamo anche nel Talmud (Shekalim 3:2; Pirkè Avot 3:7): “Ognuno è tenuto ad adempiere ai suoi obblighi verso Dio con la stessa scrupolosità con cui adempie ai suoi obblighi verso gli uomini. Dà a Lui di ciò che è Suo”. In Romani 13:8-10, abbiamo il precetto della carità reciproca: “Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare.......e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore” (si veda anche Galati 5:14). Qui la fonte sembra essere Matteo 22:40, dove Gesù dice allo scriba, che gli chiede quale sia il più grande comandamento della legge, che è l'amore di Dio e del prossimo e aggiunge: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti”. Ma si dice anche che Hillel abbia risposto ad un gentile che gli domandava di insegnare l'intera legge mentre si reggeva su una gamba sola: “Non fare al tuo prossimo quel che non ti piacerebbe fosse fatto a te. Questa è tutta la legge” (Shabbat, 31). In Romani 14:13, Paolo avverte il suo lettore di non procurare scandali al suo fratello debole (anche 1 Corinzi  8:7-13). Qui siamo rinviati a Matteo 18:6-9, dove Gesù pronuncia le sue maledizioni su coloro che danno scandalo: “Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare”. Ma, a parte il fatto che questa proibizione dello scandalo è fin troppo naturale e ovvia per Paolo, perchè debba derivarla dalle parole di Gesù, è scritto nel Talmud: “Era meglio che i malvagi fossero nati ciechi in modo che non portassero il male nel mondo” (Tanchuma, 71), e “Chi conduce il suo prossimo nel peccato agisce molto peggio che se avesse portato via la sua vita” (Tanchuma, 74).

In 1 Corinzi 13:2, Paolo parla della fede che “sposta i monti”. Ma che si stesse riferendo a Matteo 21:22: “Se aveste fede e non dubitaste ......se anche diceste a questo monte: Togliti di là e gettati nel mare, sarebbe fatto” sembra molto dubbio visto il fatto che la frase circa lo spostamento dei monti era abbastanza comune tra i rabbini come espressione del potere del discorso di un maestro, e potrebbe essere facilmente impiegata per esprimere il potere della fede (Berachoth, 64; Erubim, 29). Le altre frasi citate a questo proposito non hanno alcuna importanza. Se si obietta che un confronto tra i passi paralleli mostra che la composizione dei detti di Gesù si distingue di più per “originalità” rispetto a quella delle parole di Paolo, tale originalità non prova né che quei detti siano anteriori né che siano stati pronunciati da Gesù. È proprio altrettanto plausibile che le parole dell'apostolo ricevettero la loro maggiore freschezza e forza dal loro successivo inserimento nella particolare cornice dei vangeli come se Paolo stesso le avesse attinte dai vangeli, come ad esempio Steck è disposto a pensare [43] Quindi, le concordanze con i vangeli in Paolo non provano nulla di nulla riguardo alla storicità di Gesù, e non proverebbero nulla se fossero più numerose di quelle che abbiamo citato.


NOTE

[1] Beth, Hat Jesus gelebt?, pag. 35.

[2] Der Ursprung der israelitisch-jüdischen Eschatologie, 1905, pag. 322.

[3] Isaia 58; 60:21.

[4] 2:12; 3:10; 4:7; e 13:5.

[5] Questa natura misterica del paolinismo è stata esposta di recente al di là di ogni dubbio da Reitzenstein nel suo saggio, Die hellenistischen Mysterien-Religionen, 1910.

[6] Romani 8:3.

[7] Romani 3:25.

[8] Ciò è dimostrato anche dalla prima epistola di Clemente, in cui il servo di Dio di Isaia è rappresentato come il “prototipo” di Cristo, e viene detto: “Se il Signore [!] si è umiliato a tal punto, che cosa faremo noi che, per mezzo suo, siamo venuti sotto il giogo della sua grazia?” (16:17). È molto singolare il fatto che Clemente, invece di fare appello al comportamento di Gesù per mostrare la sua umiltà, si affidi al profeta Isaia.

[9] Paulus, Religionsgesch. Volksbücher (1904), pag. 85. Si veda Martin Brückner: Der Apostel Paulus als Zewge wider den Christusbild der Evangelien in Protest. Monatshefte, 1906, 355 ss.

[10] Giobbe 14:1; Matteo 11:11.

[11] J. Weiss, Christus, die Anfänge des Dogmas, Relg. Volksbücher, 1909, pag. 62.

[12] L'origine de tous les cultes, 1794, 9, 13 ss.

[13] Das Evangelium des Paulus, 1880, pag. 224 ss.

[14] Die evangel. Geschichte und der Ursprung des Christentums, 1903, pag. 14, 418, e 421.

[15] Der Ursprung und die Bedeutung des Apostolatus in der christl. Kirche der ersten drei Jahrhunderte, 1887, pag. 46 e 157.

[16] “In due giorni ci ridarà la vita; il terzo giorno ci rimetterà in piedi, e noi vivremo alla sua presenza” un passo relativo al popolo di Israele, ma che potrebbe essere stato preso da Paolo per un riferimento al Messia. Confronta Hausrath, Jesus u. d. neutestamentl. Schriftsteller, 1, pag. 103, 1908.

[17] 9, 5; 16, 14.

[18] Si veda W. B. Smith, Ecce Deus (1911), pag. 155 ss.

[19] Kritische Studien, 1863, pag. 38-63.

[20] Theol. Tijdschr., 16, pag. 397-403.

[21] Galaterbrief, pag. 172.

[22] Theol. Tijdschr., 23, pag. 322.

[23] Whittaker, opera citata, pag. 168.

[24] Theol. Tijdschr., 1889, Heft. I, pag. 41.

[25] Theol. Abhandlungen für C. Weizsäcker, 1892, pag. 232.

[26] Opera citata, pag. 19. Si veda anche A. Schweitzer, Von Reimarus zu Wrede (1906), pag. 152.

[27] Si veda Feigel, Der Einfluss des Weissagungsbeweises und anderer Motive auf die Leidensgeschichte (1910), pag. 50.

[28] Der Ursprung des Christentums (1910), pag. 388.

[29] Si veda Feigel, opera citata, pag. 47 e 114.

[30] Comment. Is. 17:5; Storia Ecclesiastica 1:12; 2:1; 7:19.

[31] Storia Ecclesiastica 2:25.

[32] Galaterbrief, pag. 272.

[33] Steudel, Im Kampf um die Christusmythe, pag. 95 e 114.

[34] Contra Celsum 1:47.

[35] Eusebio, Storia Ecclesiastica, come sopra.

[36] Matteo 10:3; Marco 3:18; Luca 6:15; Atti 1:13.

[37] Matteo 12:46; Marco 3:31: Luca 8:19.

[38] Si veda anche Steudel, Wir Gelchrten vom Fach, pag. 69.

[39] Si veda Il Mito di Cristo e Christianity and Mythology di Robertson.

[40] 2 Corinzi 3:14.

[41] Wernle, Die Quellen des Lebens Jesu, 1905, pag. 58; Das werdende Dogma vom Leben Jesu, 1910, pag. 76 e 101.

[42] Steudel, Wir Gelehrten vom Fach, pag. 37; Im Kampf um die Christusmythe, pag. 56.

[43] Pag. 163-72. Si veda E. Hortlein, “Jesusworte bei Paulus?” nel Prot. Monatshefte, 1909, pag. 265, e Brückner, opera citata.

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