sabato 28 aprile 2018

Della mia recensione del libro «La creazione di Gesù e del Nuovo Testamento» di Giuseppe Verdi

Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?


(Kent Murphy)
Tale visione del mondo avevano i Misteri alla Mithra; questo senso della vita fu portato dalla tradizione pagana e mediterranea e da essa, di contro all'oscura tragedia del Golgota, scaturirono gli imperi come gloriose realtà stringenti insieme immanenza e trascendenza, luce divina e luce di vittoria. E così Celso, portando gli Giudei dinnanzi a coloro che, identificata Roma alla “Prostituta di Babilonia”, minavano le basi della sua grandezza con una propaganda segreta ed illecita di diserzione, di astensione, di sovvertivismo, mostrava l'assurdo di riconoscere il loro Messia in Gesù: il Messia del primo profetismo era il mito glorioso del “Signore degli eserciti” atteso affinché alla testa di popolo eletto, portasse l'Impero mistico della giustizia e dello spirito fra le genti di questo mondo.
Ma questo ideale di forza e di luce del popolo ebraico era decaduto col decadere di questo popolo stesso; dileguando le speranze politiche, esso indietreggiò in astratte forme finché la bruta contingenza delle cose reagì su di esso e lo plasmò perentoriamente trasformando nel tipo opposto dell'“espiatore” e del “salvatore” secondo i valori di umiltà, di amore e di sacrificio, fino a poterlo ravvisare nella figura di un demagogo seminiziato e rivoluzionario, finito sulla croce.

(Julius Evola, Imperialismo Pagano)

Non a caso, ancora oggi Marcione viene definito dall'Enciclopedia Cattolica “forse il nemico più pericoloso che il Cristianesimo abbia mai avuto”.

(G. Verdi, La creazione di Gesù e del Nuovo Testamento, Uno Editori, 2018, pag. 156)


Immaginatevi un Paese dove non viene mai rivelata la verità sulle origini della sua religione, ma dove al contrario ogni tentativo in tale senso viene apertamente dissuaso dagli stessi teologi sotto mentite spoglie di accademici, alacri venditori di apologetica di bassissimo consumo. Immaginatevi un Paese dove la politica stessa è responsabile di questa censura, in virtù del suo stretto sfacciato connubio, quasi indistinguibile e a tutte le latitudini, con quella folle pagliacciata sulla terra chiamata “Città del Vaticano”. Immaginatevi un Paese dove l'irrazionale fede religiosa riesce a sopravvivere nonostante tutto ciò che reca seco la globalizzazione, l'americanizzazione e tutte le possibili forme di sovversione del vecchio ordine che siano concepibili al giorno d'oggi (e che ancora — si spera — attendono di dispiegarsi pienamente nel più lungo raggio possibile).

E ora immaginatevi che finalmente, in un Paese del genere, venga pubblicato un libro col primo immediato effetto di negare tutto quanto detto sopra. Un libro, cioè, dove viene espressa, per la prima volta e senza alcuna compromissione di sorta, la verità più probabile sulle origini della religione cristiana.

Ebbene, il Paese di cui sto parlando è l'Italia. E l'autore del libro reo di aver infranto quella vergognosa e oramai imbarazzante omertà è Giuseppe Verdi.



Perché dico questo? Perché, nell'ottima opera divulgativa del Verdi, troviamo presentata finalmente una valida descrizione delle origini cristiane libera abbastanza da pregiudizi da arrivare al punto di mettere onestamente in discussione la stessa esistenza storica di Gesù senza abusare della creduloneria dei lettori (al contrario magari di certe altre opere dal taglio più sensazionalistico) ma anzitutto offrendo pagina dopo pagina fondate ragioni e prove appropriate per ogni punto esaminato e/o avanzato.

Nelle prime pagine l'autore sembra da subito aver stipulato sottobanco un implicito patto col suo lettore: si assumi pure “sotto sotto” un Gesù storico, ma vediamo con calma e lucidità dove ci porta l'esame critico dei testi. Ebbene, a poco a poco, il lettore viene accompagnato quasi per mano a scoprire che del Gesù storico non c'è nessuna traccia,  non solo ad uno zoom di media dimensione eseguito sulla letteratura relativa (come potrebbe essere la rapida realizzazione che i tanto apologeticamente decantati Flavio Giuseppe, Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane possono confermare al più solo l'esistenza dei cristiani ma non del loro “cosiddetto Cristo”); ma anche ad uno zoom della medesima dalla più vasta dimensione possibile consentita oggigiorno ad un qualunque giudice serio e non prevenuto del caso in questione.

E questo può significare solo una cosa, ovvero esaminare con scrupolo e massimo disincanto possibile la più antica testimonianza cristiana: le lettere di Paolo.

Nelle parole di Verdi:
Stranamente, però, nelle sue lettere non c'è — fatta eccezione per un paio di probabili interpolazioni già evidenziate — nessun chiaro riferimento a un Gesù identificabile con un uomo vissuto di recente: il solo elemento di stampo evangelico che si possa trovare negli scritti paolini è dato (come abbiamo visto in precedenza) dalle parole pronunciate da Gesù nell'ultima cena, ma Paolo afferma chiaramente che si tratta di una scena che gli è stata rivelata.
In sintesi, si può affermare che Paolo ha fede in un Figlio di Dio e nel suo sacrificio, ma non lo identifica con alcun essere umano in carne e ossa; la fede di Paolo, quindi, non è rivolta verso il Gesù storico, ma verso ciò che Gesù rappresenta e verso ciò che fece; il Gesù di Paolo non è un essere umano, ma un'entità: o vi si crede oppure no.

(pag. 97)


Dove l'autore sembra non abbia voluto prendere una posizione è in merito alla continuità o meno tra il Gesù predicato da Paolo e quello predicato dagli apostoli che lo precedettero, a parte gli ovvi conflitti in materia di Torah e dintorni tra il primo e i secondi. Vale a dire: a scanso di equivoci sulla Torah, il Gesù di Paolo era lo stesso Gesù dei Pilastri oppure era radicalmente un “altro” Gesù, al punto della totale e naturale inconciliabilità tra i due? Come lo stesso Richard Carrier pone mirabilmente il medesimo quesito:
Paolo stava trasformando ciò che era stato un culto della personalità e stava cancellando semplicemente il Gesù storico (e la sua stessa personalità) da esso, oppure lui era solo un altro rivelatore ed esegeta tra molti, il primo essendo semplicemente Pietro, la “Roccia” fondazionale sulle cui visioni e interpretazioni delle scritture fu fondata la nuova setta?
(mia traduzione da qui)


Se Verdi avesse risposto di sì
(che il Gesù di Paolo coincide col Gesù dei Pilastri) o l'avesse fatto trapelare in qualche modo dal suo libro, allora, come forse sembra trasmettere tra le righe quando scrive:
Giunti alla conclusione di questa disamina delle lettere di Paolo e degli altri documenti cristiani del I e del II secolo, una conclusione appare ineluttabile: i primi autori cristiani paiono vedere in Gesù una figura che “risiede” nell'Antico Testamento: è da lì che egli aveva parlato, è da lì che proveniva parte degli insegnamenti che gli venivano attribuiti. Quanto alla sua vita, essi non ne sanno nulla, al punto che per parlare della sua passione devono attingere dalle profezie bibliche, come se le tradizioni relative alla crocifissione fossero andate perdute o, peggio ancora, non fossero mai esistite. In definitiva, nei documenti cristiani più antichi Gesù non emerge affatto come un uomo reale, che solo pochi anni prima aveva raccolto folle oceaniche; al contrario, egli appare come una presenza che, per quanto viva e attiva, operava attraverso lo Spirito e parlava attraverso la Bibbia ebraica.
(pag. 103, mia sottolineatura)


...il Verdi rimane sostanzialmente agnostico sull'esistenza storica di Gesù
, non sapendo pronunciarsi se egli non esistette oppure se egli esistette ma fu totalmente eclissato dall'immagine cosmico-teologica del “Cristo Gesù” di Paolo.

Se invece Verdi avesse risposto di no, se avesse fatto capire a chiare lettere che tra il Gesù dei Pilastri e il Gesù di Paolo esisteva una perfetta e lineare continuità, salvo — ripeto — quel drammatico e inevitabile scontro sulla questione della Torah (scontro a fronte del quale il loro Gesù non poteva che spaccarsi in due perfino se fosse stato lo stesso unico Gesù comune ad entrambi nella loro origine), ebbene, c'è poco dubbio che l'esito della sua analisi sarebbe stato ancor più fieramente miticista e distruttivo nei confronti dell'ipotesi storicista di quanto lo sarebbe stato nell'ipotesi opposta. Perché sarebbe equivalso né più né meno alla conclusione che il Gesù dei Pilastri è ontologicamente lo stesso Gesù di Paolo, lo stesso essere, che, nelle parole di Verdi:
...non è un essere umano, ma un'entità: o vi si crede oppure no.
(pag. 97)


Se i Pilastri pure credevano a questo Gesù, e non solo Paolo dopo di loro, allora non c'è davvero nulla da fare per salvare la storicità dell'uomo Gesù: perché un Gesù del genere è chiaramente mitologico.

I Pilastri sarebbero stati sorprendentemente silenti sul Gesù storico, esattamente come lo è, a conti fatti, Paolo nelle sue lettere autentiche. Di fronte alla concreta possibilità, mai smentita dall'evidenza neppure una volta, che i Pilastri avessero taciuto sul Gesù storico alla stessa maniera di un Paolo, allora questo equivarrebbe a consegnare tout court il “Gesù storico” al dominio del mito puro e semplice.

Noi non disponiamo di un ipotetico “Vangelo dei Pilastri”, fatto sfortunatissimo che da solo rende probabilistica l'intera nostra speculazione sull'argomento, però un sacco di indizi ci fanno propendere nella direzione che tale ipotetico vangelo dei Pilastri fosse estremamente silente sul Gesù storico alla stessa maniera di quanto lo fu il vangelo predicato da Paolo l'apostolo (come riflesso nelle epistole considerate autentiche).

Vediamo di elencare questi indizi.

Il primo indizio lo riporta Verdi e si spiega da solo:
Accantoniamo dunque Paolo e diamo un'occhiata a un altro scritto neotestamentario, la Prima Lettera di Pietro, per imbatterci in un passo che, a prima vista, pare proprio descrivere la passione:
Egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia.
[1 Pietro 2:22-24]

La lettura pare evocare echi del processo, con Gesù silenzioso e oltraggiato. Quanta vaghezza e quanta brevità, però! Se il silenzio di cui si parla è quello di Gesù davanti al Sinedrio o a Pilato, o magari mentre viene maltrattato e flagellato, perché si tace ogni dettaglio al riguardo? Dov'è la via crucis? Dove sono le parole pronunciate da Gesù sulla croce? Dov'è il famoso “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”? Sarebbero stati elementi di grande efficacia!
La risposta è tanto semplice quanto sorprendente: l'autore di questo brano non ha attinto né dai vangeli né dalla propria pretesa testimonianza oculare (visto che dovrebbe trattarsi di Pietro!). Il passo in questione, infatti, assomiglia maledettamente ad alcune parti del cantico del “Servo Sofferente” del capitolo 53 di Isaia, tanto da consentirci di affermare che siamo in presenza di una semplice parafrasi del profeta, come appare evidente nella seguente comparazione:
Prima Lettera di Pietro, 2, 21 segg.
Isaia 53
...poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme:
egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia.

Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.
...si è addossato i nostri dolori...
...sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
... era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.

...il giusto mio servo giustificherà molti...
...egli si addosserà la loro iniquità.

Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
... si è addossato i nostri dolori...
Egli è stato trafitto per i nostri delitti...
il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti.
...per le sue piaghe noi siamo stati guariti
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge...


Oggi, gli studiosi sono pressoché concordi nel ritenere che il testo di Isaia non abbia nulla a che vedere con Gesù e ritengono che il “servo di Dio” vada identificato con Israele, che tanto in Isaia viene sovente definito in questo modo. Ciononostante, Isaia 53 (inclusi alcuni versetti del precedente capitolo 52) rimane la profezia preferita dai cristiani, che continuano a vedere Gesù nell'uomo dei dolori. Tuttavia, quel che più conta in questa sede è il fatto che la Prima Lettera di Pietro è attribuita dalla tradizione al principe degli apostoli e, se non lo è (come non lo è!) è stata scritta in epoca successiva, quando i vangeli — secondo la tradizione — circolavano da tempo: perché, dunque, non attingere da essi per maggiori dettagli? Se, poi, davvero l'autore fosse Pietro, perché non ha descritto la passione di Gesù sulla base dei propri ricordi, anziché aggrapparsi al passo di Isaia? Forse pensava che una (presunta) profezia dell'evento fosse più affidabile della sua testimonianza?

(pag. 93-95)

Il secondo indizio è il libro dell'Apocalisse, così anti-paolino nelle sue istanze, e così giudeo-cristiano nella sua rozzezza (che può solo essere sintomo di primitività) che sembra provenire, se non dalla stessa bocca dei Pilastri, quantomeno dai loro diretti seguaci della generazione successiva, gli stessi che testimoniarono con ira repressa e mai sopita la arrogante riottosità di Paolo e dei primi apostoli gentili che all'eredità dell'Apostolo si richiamavano.

Nelle parole del grande miticista Paul-Louis Couchoud:

VALORE DELL'APOCALISSE

L'Apocalisse contiene il segreto del cristianesimo.
È il più antico libro cristiano. Il documento più prezioso che abbiamo sulla nascita del cristianesimo.
Dovremmo definirlo cristiano?
Sì, senza dubbio, poiché, dalla voce di un profeta, riferisce le parole del personaggio celeste che è il vero Dio dei cristiani, Gesù.
Eppure Gesù non ha la figura che gli danno gli altri libri cristiani. Non è né crocifisso né dotato di una vita terrena. Egli è un agnello sul trono di Jahvé, tra i cherubini e gli esseri celesti e lascia il cielo solo per sterminare gli uomini e inaugurare con i suoi eletti il suo regno millenario in una Gerusalemme celeste. Non ha nulla in comune con il Gesù dei vangeli. Si differenzia a stento dal Figlio dell'Uomo, di cui scrive un'apocalisse tutta ebraica, il Libro di Enoc.
Anche la piccola comunità che ammonisce dal cielo è di tipo arcaico. Semi-ebraica per credenze e osservanze, è fanatica nella sua semi-ortodossia. Deve odiare e anatematizzare le comunità più liberate dall'ebraismo: coloro che rivendicano di essere proseliti di Nicola d'Antiochia.
Il veggente dell'Apocalisse ha dato la prima espressione alla fede cristiana. Espressione rude, feroce, sublime. Niente delle sottigliezze di Paolo, niente del sentimentalismo dei vangeli. Odia le persone come Paolo; non prevede i vangeli. Conosce solo i suoi predecessori, i suoi pari: i grandi profeti della Bibbia e i visionari del Libro di Enoc. Emerge sulla soglia del cristianesimo come un gigante solitario.
Canta il cantico terribile dell'Età futura. Profetizza la fine del mondo. La annuncia come del tutto prossima. Questa è la sua buona novella, il suo vangelo. Sullo sfondo nero di domani, fa risplendere l'immagine, più terrificante che consolante, dei risultati divini.
E' rimandata a domani, da secolo a secolo. La profezia, tuttavia, non fu ritenuta smentita. Di età in età è stata riletta, esaminata, interpretata, spiegata, spiegata di nuovo senza regole né misure. Questo è il libro che ha fatto più delirare l'umanità. Quanti secoli ci sono voluti perché gli uomini si stancassero di domandare l'illusorio segreto della loro fine!
Ora gli domandiamo un altro segreto, appena meno impenetrabile, ma che ci può svelare. Esso non è nel futuro. È immerso in un passato oscuro. Più di ogni altro scritto, il poema barbarico del profeta Giovanni nasconde e può consegnare il grande segreto delle origini del cristianesimo.
Non una riga può essere presa ancora per una relazione storica. Non pretende di raccontare e in realtà racconta solo gli eventi che non hanno ancora avuto luogo. Se fornisce altre informazioni, è per puro caso, senza intenzione e senza la sua conoscenza.
In questo merita giustamente la fiducia di uno storico.

(Paul-Louis Couchoud, L'Apocalypse, Éditions Bossard, 1922, pag. 7-10, mia libera traduzione)
Perché dunque l'Apocalisse è così importante? Perché ci consegna, anche se fu scritto dopo il 70 E.C., lo specchio probabilmente più simile e più fedele di come sarebbe stata lanciata l'anatema, contro il gentilizzante Paolo, da parte dei giudaizzanti Pietro, Giacomo e Giovanni, i famigerati Pilastri, a seguito o forse anche prima del famoso “incidente di Antiochia”. In risposta ovviamente all'anatema lanciato a sua volta da Paolo contro di loro in Galati 1:6-9, il cui disgustoso fanatismo, in barba a qualsiasi morale “cristiana”, il Verdi tende giustamente a sottolineare ai suoi lettori:
Una volta posto l'assioma secondo cui il messaggio da lui predicato era di origine divina, per Paolo fu facile sostenere che esso era l'unico possibile e che, quindi, tutti gli altri “vangeli” erano falsi:
“Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!...
[Galati 1:6-9.]

Paolo, dunque, non esista a scagliare maledizioni su chiunque la pensi diversamente da lui: ecco, in nuce, la misericordia e l'amore cristiano, che non mancherà di prevaricare, sterminare e censurare per due millenni.
Chi sono questi “falsi predicatori” a cui Paolo allude? Il riferimento è chiaramente indirizzato alla cerchia dei più stretti seguaci di Gesù, che evidentemente tentavano di diffondere la verità vera. Appare qui in tutta la sua chiarezza come la tradizione abbia cercato di edulcorare al massimo la battaglia condotta contro Paolo dai seguaci di Gesù, riducendola a una semplice disputa sulla circoncisione, sulle norme alimentari e sulla Legge, mentre si trattava della lotta senza quartiere contro un uomo che, per quanto geniale, era e rimaneva un visionario o, peggio, un mentitore. Non è un caso, infatti, che Paolo debba sovente ricorrere all'affermazione “io non mentisco”: è la prova più lampante di quanto numerose dovettero essere le accuse di falsità piovutegli addosso.
Il testo in cui Paolo si scaglia con maggiore veemenza contro i propri avversari è la Seconda Lettera ai Corinzi, nella quale li definisce ironicamente “superapostoli” e li accosta addirittura a Satana.
Nelle lettere ai Corinzi e ai Filippesi, Paolo si occupa più dettagliatamente di quelle discordie che già dividevano il nascente universo cristiano e, a tale riguardo, fa un chiaro riferimento alla sua fazione e a quella legata agli apostoli. Paolo accusa i propri avversari di predicare un Gesù non rispondente alla verità e, quindi, un altro messaggio, e non esita a sostenere che essi siano spinti soltanto da invidia e odio. Da parte sua, egli non si fa scrupolo di definirli “mutilati”, alludendo con chiaro disprezzo alla circoncisione; inoltre, afferma che tutti i seguaci di Gesù lo accusavano di essere ipocrita e pazzo, pronto a falsare la dottrina di Gesù e, addirittura, a commettere truffe finanziarie, spingendosi al punto di fare di lui l'oggetto di oltraggi e umiliazioni.

(pag. 68-69, ho omesso le note)

(questa descrizione di Paolo tentata dal Verdi —e più di uno, probabilmente lo stesso Verdi!, dubiterà che si tratti solo di una mera coincidenza — ricorda il ritratto di Simon Mago consegnatoci dalla tendenziosa tradizione proto-cattolica)

Ebbene,
sfido chiunque a negare che il Gesù dell'Apocalisse sia totalmente mitologico, e privo del tutto di qualsiasi connotato degno di un “Gesù storico”. Eppure, prima di maledire qualcuno, i cristiani di solito si appellano alle ipsissima verba del loro “Gesù storico”. Perfino al giorno d'oggi, si prenda un brano di Antonio Socci contro il pontefice regnante, e si intuisca l'utilità di avere un dizionario sacro delle “parole di Gesù” a portata di mano:
“Con queste idee il cattoprogressismo vuole essere più misericordioso di Dio e di Gesù stesso che invece nel Vangelo descrive con parole terribili le pene dell'inferno. Ecco il senso della misericordia bergogliana: superare quella di Gesù.”
(“Così Papa Francesco smentisce Scalfari ed evita il processo dei cardinali”, articolo di “Libero” del 1 aprile 2018, mia enfasi)


Il terzo indizio è determinante, e a mio giudizio è sufficiente, assieme ai primi due, a far ritenere che il vangelo dei Pilastri ruotasse attorno ad un Gesù mitologico del tutto simile a quello celestiale di Paolo (perfino se si trattava ovviamente di un Gesù difensore della Torah e non, come per l'Apostolo dei gentili, liberatore dalla stessa). Nelle parole di Richard Carrier:


Paolo avrebbe dovuto evitare di parlare del Gesù storico, e quindi è per questo che non ne parla.
Questo argomento, sebbene tipico, non ha mai avuto alcun senso. Se c'era un problema del genere, Paolo non poteva evitare di parlarne. Perché gli sarebbe stato gettato in faccia costantemente, costringendolo a confutarlo e superarlo costantemente. E questo è solo un inizio delle ragioni per cui sarebbe stato costretto ad agire così. Ne discuto in maniera più approfondita nel capitolo 11 di OHJ. In effetti, l'assenza della minima consapevolezza da parte di Paolo che questo fosse perfino un problema, e il suo mai dover rispondervi, è una prova contro un Gesù storico.
(mia libera traduzione da qui)

E così questa è la non trascurabile differenza che mi divide da Verdi: lui sembra non volersi esprimere su quale Gesù fu predicato dai Pilastri che precedettero Paolo e che probabilmente dettero origine al culto. Rimane sostanzialmente agnostico sulla materia. Io invece, ritengo di aver spiegato a sufficienza le mie ragioni per fare a meno di quell'agnosticismo in favore piuttosto di una più netta presa di posizione scettico-minimalista: i Pilastri probabilmente ostentarono lo stesso silenzio di Paolo nei confronti di un ipotetico Gesù storico, e così la più probabile spiegazione del loro silenzio intorno a un Gesù storico — al pari di quello di Paolo — è che probabilmente un Gesù storico non è mai esistito.

Un altro punto che mi vede in sintonia con Verdi è nella condivisione del suo medesimo timore — senza peraltro che si traduca mai in certezza — che le lettere di Paolo (così preziose nel far pendere la bilancia delle probabilità nettamente a favore del miticismo, se autentiche) non furono scritte da lui. 
Tutto quello che abbiamo enunciato fin qui su Paolo e sul suo operato rimane, evidentemente, da prendere con la dovuta cautela. Appare legittimo, infatti, mettere in dubbio la storicità di un uomo che abbia realmente svolto quel ruolo nella divinizzazione di Gesù e nella diffusione del cristianesimo, visto e considerato che nessuna fonte extrabiblica nomina quest'individuo e che neppure Giuseppe Flavio, pur scrivendo alla fine del I secolo, spende una sola parola per il nascente movimento cristiano e per le gesta di Pietro e Paolo, sicuramente eclatanti se dobbiamo credere al racconto degli Atti degli Apostoli.
Paolo, dunque, è stato un personaggio reale? Oppure dietro il suo nome si nasconde un altro autore (ad esempio Marcione, come qualcuno ipotizza), se non un'intera corrente di pensiero, quella che gettò le basi dell'ortodossia cristiana?
Il dubbio è legittimo, ma si tratta di un'altra storia.

(pag. 83, mia enfasi)

Problema aimè irrisolvibile e che da solo è capace di gettare una sottile vena melanconicamente pessimista sul nostro grado di confidenza nel “vedere ciò che vediamo” a proposito di “antica letteratura cristiana”.


A questo proposito, l'unica timidissima (!) alternativa a mio parere relativamente plausibile, se davvero fu l'eresiarca Marcione l'autore dell'epistola ai Galati (non interpolata), e non uno storico Paolo, è quella esposta dal critico radicale Stuart Waugh, secondo cui l'“altro vangelo”, verso il quale “Paolo”/Marcione scaglierebbe l'anatema nell'“epistola”, sia proprio il vangelo (finto giudeo-cristiano, ma autentico proto-cattolico) di Matteo. In tal caso, io concorderei davvero con Verdi: veramente “si tratta di un'altra storia”

Ma ecco, questo è per quanto riguarda l'uomo chiamato Paolo.

Per quanto riguarda la successiva letteratura cristiana post-paolina, e in particolare i vangeli, come posso non concordare con Verdi quando scrive:
Per mezzo delle profezie, infatti, fu inculcata l'idea che la crocifissione fosse stata prevista dalle scritture e che, quindi, facesse parte del progetto divino; in parole povere, presentare la morte di Gesù come il risultato del volere di Dio e non come il fiasco di una missione terrena rendeva possibile rintuzzare lo scherno di cui sarebbe stato ricoperto il mancato messia.
(pag. 136, mia enfasi)

Qui Verdi è, per chi sa leggere, davvero lungimirante, degno di un encomio profondissimo da parte mia, per l'uso finale del condizionale nell'ultima frase. Coerentemente alla mia ipotesi personale circa chi scrisse il Più Antico Vangelo, io aggiungerei all'ultima frase (in distinto grassetto maiuscolo):


...rendeva possibile rintuzzare lo scherno di cui sarebbe stato ricoperto il mancato messia
PROPRIO DA PARTE DI QUEI CRISTIANI (!) CHE NON RITENEVANO GESÙ IL “CRISTO” E IL “RE DI ISRAELE” (dal momento che, essendo lui per costoro venuto “non nella carne” — si legga 1 Giovanni 2:22 e 1 Giovanni 4:3 —, non sarebbe giammai potuto essere “della stirpe di Davide).

Il lettore capirà a quale possibilità mi riferisco: ovvero alla possibilità del fatto che Gesù fosse stato già evemerizzato nel frattempo, e prima ancora che da “Marco”, proprio da una qualunque delle sette gnostiche cristiane, nell'unica maniera consentita a degli gnostici fieri odiatori del dio degli ebrei, ossia dipingendo Gesù come solo apparentemente il Messia ebraico (agli occhi degli stessi ciechi ebrei!), ma in realtà il Messia di un Dio straniero.

Sto proponendo qualcosa di molto simile, insomma, a quanto il Verdi riporta per le sorti subite da proto-Luca, aka Mcn:
È degno di nota ricordare che, secondo alcuni studiosi, non fu Marcione a scrivere il suo vangelo modificando Luca, ma, al contrario, l'autore di Luca lesse il testo di Marcione (o, quantomeno, l'ipotetica fonte da cui questo fu tratto) e ne trasse il suo vangelo. L'idea fu lanciata per la prima volta nel 1881 da Charles B. Waite, seguito nel 1942 da John Knox (in Marcion and the New Testament); infine, nel 2006, nel suo libro Marcion and Luke-Acts: a defining struggle, lo storico del cristianesimo Joseph B. Tyson ha sostenuto che non solo Luca, ma anche gli Atti sarebbero risposte a Marcione, sovvertendo anch'egli l'opinione tradizionale secondo cui il vangelo di Marcione sia una riscrittura di Luca.
(pag. 156, nota 163) 

Verdi sembra auspicare che venga abbandonata, se non la fede nel Gesù storico (che rimane, con tutte le migliori e peggiori intenzioni, comunque un mero articolo di fede) almeno la fede parimenti sospetta nella datazione tradizionale dei vangeli, cocciutamente intenta a fissare il più antico di essi addirittura a qualche anno prima del 70, in favore invece della datazione del primo vangelo intorno al 110 E.C., caldeggiata dallo stesso Verdi, che nel redigerla tiene conto dell'imbarazzante silenzio sullo stesso Più Antico Vangelo, e non solo sul “Gesù storico”.

Il Verdi mostra a pag. 113 l'immagine di un amuleto del terzo secolo che reca una figura crocifissa.



Non Gesù, ma Orfeo Bacchico. Questo dimostra che la croce era un simbolo mitico. Era anche uno strumento di tortura romano. La crocifissione come prova che Gesù è storico, una “prova” che, secondo i folli apologeti cristiani, sarebbe schiacciante, evapora rapidamente. Piuttosto, la crocifissione, seguita dalla resurrezione dai morti, supporta l'ipotesi secondo cui il vangelo è il mito del dio che muore e risorge.

Com'è possibile che sia stata concepita una biografia sulla Terra – sempre ammesso che si possa chiamarla “biografia” – per questo angelo ebraico morente e risorgente? E com'è possibile che sia stata poi presa alla lettera? Il Verdi spiega: 
Fu così che, in un momento non facile da individuare con precisione, ma che si colloca probabilmente tra la fine del I secolo e l'inizio del II, le comunità cristiane iniziarono a mettere per iscritto svariati resoconti delle gesta di Gesù e, soprattutto, a dare una biografia a quell'uomo altrimenti così avulso dal tempo e dallo spazio e a collocarne l'evanescente figura in un contesto storico credibile.
(pag. 147, mia enfasi)

La dura alternativa che si presentava di fronte al primo evemerizzatore era:


o storicizzare Gesù,

...oppure perderlo davvero, al tramonto drammatico ma inevitabile dell'entusiasmo mistico-allucinatorio originario di Paolo e dei primi cristiani.

L'ignoto evemerizzatore (gli anonimi autori di proto-Marco) optò per la prima soluzione. 

Combinando l'antico mito della morte e resurrezione dell'uomo-dio con le aspettative ebraiche della comparsa di un Messia storico, gli autori del Più Antico Vangelo avevano compiuto un passo senza precedenti, di cui non potevano prevedere le conseguenze. Eppure l'inizio contiene già la fine. Il Messia, secondo le Scritture, sarebbe stato un salvatore storico, non mitico. Era inevitabile che la vita di Gesù/Giosuè avrebbe dovuto essere collocata nella Storia reale, e per di più recente, al punto di contatto tra (quello che sembrava) passato ebraico e (quello che appariva) futuro gentile. È successo che quello che era iniziato come un mito senza tempo dell'ennesimo salvatore che muore e risorge ora rassomigliava a un documento storico di un particolare evento nel tempo. Una volta che accadde, emerse una religione di un nuovo genere – una religione basata sulla Storia “reale”, non su un mito, basata sulla fede cieca in presunti eventi piuttosto che su una conoscenza mistica di allegorie mitologiche, una religione basata su misteri essoterici “oggettivi” anziché su misteri nascosti, un involucro senza sostanza, una forma senza contenuto, una fede senza conoscenza.

In conclusione, penso che quello di Verdi sia un libro davvero ben degno di leggere per chi non mastica l'inglese e non può leggere OHJ di Richard Carrier, oppure per chi, pur conoscendo l'inglese, anche se già a conoscenza di OHJ, gradirebbe tuttavia sentire una piacevole voce italiana nell'atto di proclamare candidamente (e soprattutto, con cognizione di causa) che il “re è nudo”, ossia che:

Per un credente, in effetti, il semplice fatto di porre in dubbio la storicità del Gesù dei vangeli suonerà irriverente. Tuttavia, un pizzico di buon senso e di rigore, uniti all'imprescindibile verifica delle fonti, ci porterà in maniera pressoché ineluttabile a questa conclusione...
(pag. 15)
CONCLUSIONE 

Questa volta sono soddisfatto di vedere pubblicato, dopo l'ultima volta fin troppo remota, un vero libro miticista italiano, e finalmente questo fatto non risveglia in me nessuna delle frustrazioni che mi avevano turbato fino a solo qualche giorno prima, e mi riferisco a quell'indifferenza odiosamente italica alle migliori idee provenienti dall'estero, tra queste non da ultimo la messa in discussione, condotta criticamente sugli stessi cosiddetti “testi sacri”, dell'esistenza storica dell'uomo Gesù. Adesso quello che vedo è soprattutto l'assenza di un buon argomento storicista in difesa del chimerico ed evanescente “Gesù storico”: non esiste più nessuna differenza tra ciò che era il Gesù dei primi cristiani e ciò che erano gli altri dèi pagani che muoiono e risorgono, o la loro comune concezione immacolata, o il loro comune riscatto dal mondo, dalla carne e dalla morte, o l'anima agitata e sconvolta spinta confusamente verso il soprannaturale dei loro adoratori.

Perché il cristianesimo era soltanto una forma tra le altre di religione misterica che il mondo ellenistico manifestava ed esprimeva di continuo, non soltanto in Egitto, in Grecia, a Roma, in Frigia, in Siria, o in Tracia, ma anche nella remota Giudea. E la crocifissione di Gesù, che io avevo sempre considerato l'evento più storico della propaganda cristiana, non è altro che un MITO, al pari della morte di Dioniso, Tammuz, Osiride, Attis, Demetra, Talmoxis, ecc., un involucro senza sostanza, una forma senza contenuto, una fede senza conoscenza.

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