domenica 29 maggio 2016

Detering sull'“Egiziano” (II) — più mie osservazioni...

 Esiste il contrario di déja vu. Lo chiamano jamais vu. È quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare.
(Chuck Palahniuk)


Questa è la seconda e ultima parte della mia traduzione in italiano della recensione del Dr. Detering del libro “A Shift in Time” di Lena Einhorn. 
 
Sostanzialmente, Detering solleva tre obiezioni alla conclusione del libro. Non terrebbe conto di altri fattori che avrebbero potuto avere un ruolo altrettanto determinante nella nascita del cristianesimo. Questa critica sembra  trascurabile per chi è già a conoscenza di quali sarebbero quei fattori come elementi di background (mi meraviglio che a farla è il dr. Detering, notoriamente famigerato per essere stato ancora ad oggi fin troppo avaro nell'esporre una sintesi completa ed esauriente in inglese della sua ricostruzione delle origini cristiane. Ad ogni caso, se vuoi passare in rassegna completa tutta l'evidenza di background, leggi OHJ di Richard Carrier). 

La seconda obiezione è a dire il vero altrettanto opinabile come la prima, dal momento che è sollevata spesso contro i proponenti di turno di un Gesù sedizioso. In sostanza, Detering si chiede retoricamente dove sarebbe l'evidenza che alcuni ebrei insurrezionisti avessero deciso, dopo la morte del loro leader, di depoliticizzarne il messaggio apocalittico e sedizioso. A questa critica dal sapore, me lo si lasci dire, inconfondibilmente apologetico, è sufficiente obiettare con le giuste parole del prof Bermejo-Rubio:
Obiezione 17: L'ipotesi di un Gesù sedizioso è inconsistente coi posteriori sviluppi ed enfasi cristiani, che procedevano nella direzione del pacifismo.

Questa obiezione sfortunatamente ignora il tipo di processi invertenti e sorprendenti spostamenti che prendono luogo nella storia delle religioni, distanti dagli obiettivi dei fondatori (o presunte figure fondative). Ignora anche significativi sviluppi nel movimento stesso di Gesù. Per esempio, la missione di Gesù era esclusivamente diretta alla (alle pecore perdute della) casa d'Israele, non ai pagani (di cui Gesù non ebbe una lusinghiera opinione [ Si veda Marco 7:26-27; Matteo 5:47; 6:7-8,32; 15:22-26. ]). Questo fatto  —che ha causato un sacco di mal di testa e di imbarazzo per gli studiosi cristiani — non impedì alle persone che riverivano Gesù come loro Signore di trasferire le promesse del Tanak ai Gentili. Se questa innovazione ebbe successo, perché non potevano altre aver avuto luogo? E se Gesù l'Ebreo fu rapidamente pensato come non un Ebreo per nulla, e fu perfino trasformato in una sorta di figura antiebraica, e se un  imperfetto uomo Galileo consapevole dei propri limiti (vedi Marco 10:18) fu trasformato dai suoi seguaci in un essere irreprensibile e divino, perché dovremmo escludere la possibilità che un sedizioso anti-romano fu trasformato in uno stupendo pacifista? [Secondo una variante dell'obiezione, la rivendicazione di Gesù come esaltato Messia presuppone che la sua morte fosse ingiusta, ma  dichiarare tale morte un'ingiustizia sarebbe strano se Gesù fosse stato effettivamente un sedizioso (non ho trovato questa obiezione in un'opera accademica, ma , per quanto posso ricordare, fu avanzata da uno scrittore anonimo su una discussione in un blog). Questo, tuttavia, trascura il fatto che, per i suoi primi seguaci e molti altri ebrei, la crocifissione di Gesù era, per definizione, ingiusta, perché fu effettuata dalle odiate forze romane di occupazione, mentre Gesù, proprio perché era stato un pio Ebreo e aveva resistito alla potenza di Roma, era una specie di eroe; allo stesso modo, dal punto di vista degli scrittori evangelici, Gesù era stato una vittima innocente per mano dei suoi avversari ebrei.] Prendiamo l'esempio di Paolo. Come potrebbe l'apparentemente pro-romano Paolo predicare e onorare un anti-romano Gesù? [Si noti che la posizione politica di Paolo è stata (ed è tuttora) una questione molto dibattuta, con conclusioni contrastanti. Sull'ambivalenza di Paolo verso il discorso e il contesto dell'Impero Romano, vedi ad esempio Lopez 2008; Stanley 2011.] La risposta a questa presunta obiezione sta nel carattere della sua fede, e in alcune considerazioni generali di psicologia religiosa. Per quanto ne sappiamo, Paolo non era un testimone oculare dei fatti di Gesù, né uno dei suoi compagni o parenti. Era un entusiasta che derivò le sue idee su Gesù non solo dalla tradizione, ma anche da visioni estatiche, tramite le quali Paolo concesse a Gesù uno status sovrumano,  ed interpretò la sua morte come un evento salvifico. In questo senso, l'interesse di Paolo alla vita di Gesù deve essere stata piuttosto selettiva. Quando gli esseri umani  tengono seriamente credi religiosi, che sono confortanti e significativi per le loro vite, e specialemnte quando si riferiscono ad un essere considerato divino, un bel pò di dati concreti —del tutto più così quando sono potenzialmente  imbarazzanti — sono omessi oppure diventano irrilevanti.

(Fernando Bermejo-Rubio, È stata confutata l'ipotesi di un Gesù sedizioso? Una risposta sistematica, pag. 45, mia libera traduzione)


L'ultima critica sollevata da Detering, a differenza delle prime due (davvero trascurabili, per non dire ridicole), in effetti risulta decisamente più efficace.
Detering impugna proprio l'esempio di Menahem, citato da Einhorn ma non a proposito di Gesù. Leggiamo cosa dice di lui Flavio Giuseppe:
 Fu allora che un certo Menahem, figlio di Giuda detto il galileo, un dottore assai pericoloso che già ai tempi di Quirinio aveva rimproverato ai giudei di riconoscere la signoria dei romani quando già avevano Dio come Signore, messosi alla testa di alcuni fidi raggiunse Masada,  dove aprì a forza l'arsenale del re Erode e, avendo armato oltre ai paesani altri briganti, fece di questi la sua guardia del corpo; quindi ritornò a Gerusalemme e, assunto il comando della ribellione, prese a dirigere l'assedio.  Non disponevano però di macchine, e scalzare il muro all'aperto non era possibile perché venivano colpiti dall'alto; allora scavarono da lontano una galleria fin sotto una delle torri che rimase poggiata su un'armatura di legno, poi diedero fuoco a questa e fuggirono.  
Bruciatisi i puntelli, la torre all'improvviso rovinò, ma all'interno apparve un altro muro che intanto era stato innalzato; infatti gli assediati, avendo indovinato lo stratagemma, o forse anche sentendo che la torre si muoveva per i lavori di scavo, si erano muniti di un secondo baluardo.  
Questa vista improvvisa provocò negli attaccanti un grande abbattimento, anche perché credevano di avere ormai la vittoria in pugno; contemporaneamente quelli di dentro mandarono a chiedere a Menahem e ai capi della rivolta di poter uscire sotto determinate condizioni, ed essendo stata accordata tale concessione ai soli soldati regi e ai paesani, costoro uscirono.  
I romani, rimasti soli, furono presi dallo scoraggiamento; infatti non potevano aver ragione di una moltitudine così numerosa, e poi consideravano vergognoso lo scendere a patti, oltre a non fidarsi di eventuali concessioni. 
Allora essi abbandonarono il loro campo, che non era più difendibile, e si rifugiarono nelle torri regie, che si chiamavano Ippico, Fasael e Mariamme.  
Gli uomini di Menahem fecero irruzione nei luoghi che i romani stavano evacuando, presero e uccisero quanti non fecero in tempo a fuggire e, impadronitisi dei materiali, incendiarono l'accampamento. Ciò avvenne il sei del mese di Gorpieo. 
Il giorno dopo fu scoperto il sommo sacerdote Anania che si nascondeva presso il canale della reggia, e insieme col fratello Ezechia fu ucciso dai briganti; intanto i rivoluzionari stringevano d'assedio le torri badando che nessun soldato prendesse la fuga.  
La distruzione delle opere fortificate e la morte del sommo sacerdote Anania avevano esaltato Menahem fino alla ferocia, ed egli, ritenendo di non aver rivali come capo, si comportava da tiranno insopportabile.  
Ma contro di lui si levarono i partigiani di Eleazar, ripetendosi l'un l'altro che non era il caso di ribellarsi ai romani spinti dal desiderio di libertà per poi sacrificarla a un boia paesano, e sopportare un padrone che, se anche non avesse fatto nulla di male, era pur sempre inferiore a loro; e ammesso pure che ci dovesse essere uno a capo del governo, questo compito spettava a chiunque altro più che a lui; così si misero d'accordo e lo assalirono nel tempio; vi si era infatti recato a pregare in gran pompa, ornato della veste regia e avendo i suoi più fanatici seguaci come guardia del corpo.  
Come gli uomini di Eleazar si furono scagliati su di lui, anche il resto del popolo tutto infuriato afferrò delle pietre e si diede a colpire il dottore, ritenendo che, levatolo di mezzo, sarebbe interamente cessata la rivolta;   gli uomini di Menahem fecero per un po' resistenza, ma quando videro che tutta la folla era contro di loro, fuggirono dove ognuno poté, e allora seguì una strage di quelli che venivano presi e una caccia a quelli che si nascondevano.  
Pochi trovarono scampo rifugiandosi nascostamente a Masada, e fra questi Eleazar figlio di Giairo, legato a Menahem da vincoli di parentela, che in seguito fu il capo della resistenza di Masada.  
Quanto a Menahem, che era scappato nel quartiere detto Ofel e vi si era vigliaccamente nascosto, fu preso, tirato fuori e dopo molti supplizi ucciso, e così pure i suoi luogotenenti e Absalom, il principale ministro della sua tirannide. 
Il popolo, come ho detto, collaborò a quest'azione sperando in una risoluzione della crisi, mentre quelli avevano tolto di mezzo Menahem non per mettere fine alla guerra, ma per poterla condurre con maggior libertà di movimenti.

(Guerra Giudaica II:433-449)

Lo stesso Detering, nel suo articolo in tedesco del 2012 al quale rimanda nella sua recensione della tesi di Einhorn, aveva parlato più diffusamente di questo Menahem, cogliendo l'occasione per fare efficacemente il suo punto già allora, nei seguenti termini:

L'entrata messianica di Menaem a Gerusalemme, l'ostilità della classe sacerdotale, la disposizione del popolo che nel giro di pochi giorni passò da “Osanna” a “Crocifiggilo”, la fuga dei discepoli, la tortura finale e la morte dopo lunga agonia — è difficile per tutti non pensare al racconto cristiano della Passione. È da aggiungere che anche il messia Menaem, stando ad un'antica fonte rabbinica, dovrebbe essere nato a Betlemme e pure il suo fato è espressamente collegato alla distruzione del tempio. “Il suo nome è Menaem, il nome di suo padre è Ezechia.” La madre del bimbo Messia parla di un sinistro presagio: “infatti nel giorno della sua nascita, il tempio è stato distrutto.” Voi sarete ricambiati. Infatti noi siamo sicuri che proprio come egli segnò la sua distruzione, così egli lo costruirà una seconda volta”.  Più tardi, la madre dice che suo figlio le fu rapito: “venti e tempeste sopraggiunsero e lo strapparono dalle mie mani”.

 Già il teologo Adolf Schlatter sottolineò nella sua "History of Israel" del 1901 il parallelismo tra il destino di Gesù e quello di Menahem: “Ciò che stava accadendo in quel tempo”, disse Schlatter, “dovette rammentare ai cristiani il fato di Gesù, il suo ingresso regale a Gerusalemme, che fu seguito dalla sua crocifissione... perchè l'uccisione di Menahem fu una colpa inespiabile da Gerusalemme, separò  i suoi seguaci dalla comunità col loro popolo.  Di converso già Hugo Gressmann nel 1922 ipotizzava che la vicenda di Menahem poteva aver influenzato l'immagine di Gesù nei vangeli. La proposizione che il tempio sarebbe stato distrutto e ricostruito “in sé stesso” poteva “essere penetrata solo dopo la distruzione di Gerusalemme nella tradizione evangelica” e dovrebbe allora essere trasmessa da Menahem su Gesù. A sua volta, l'ingresso di Gesù in Gerusalemme era stato probabilmente derivato dal pattern di eventi di Menahem. La tesi di Gressman rimase a lungo inascoltata. Solamente Rudolf Augstein ha riespresso e sviluppato l'idea nel suo libro "Jesus Son of Man". Considerata l'assenza di affidabile evidnza storica circa l'uomo di Nazaret Augstein ritiene non impossibile che questa è finzione letteraria nella forma di Gesù. “Eventi posteriori alla morte di Gesù” potevano “essere molto più di un modello per la descrizione dei suoi ultimi giorni e settimane che erano probabilmente sconosciuti all'evangelista ed ereditati solo in frammenti sigillati della realtà”.
 Secondo l'opinione di Augstein, Marco avrebbe potuto avere in mente la figura storica di Menaem quando procedette scrivere la sua passione. Tuttavia altre persone, quali ad esempio Gesù figlio di Anania col suo “Guai, guai a Gerusalemme” a partire dall'anno 62 (Guerra 6:304f - si veda Marco 13) o la cifra ridicola di “Carabas” (Filone, In Flaccum, 36f) potrebbero aver soprapposto il loro destino sull'immagine del Gesù di Marco. Gesù è “una sintesi che fluiva da diverse figure e convergeva in una sola.”
...


...si arriva di nuovo ad una sorta di strano deja vu. Chi è un pò familiare con la storia del 1 secolo, a volte riceve l'impressione che l'immagine del Gesù dei vangeli è fusa a momenti con l'immagine di altri profeti messianici. Certamente ciò può essere collegato al fatto che le varie tradizioni messianiche al tempo della stesura dei vangeli spesso crescevano assieme e sembrano che difficilmente dovessero differire dalla distanza di più di un secolo.  Può anche essere spiegato dal fatto che gli evangelisti si presero enormi libertà letterarie e per formare l'immagine del loro Gesù non esitarono ad essere ispirati da altri eroi del I secolo e a trasferire i loro tratti su di lui. Un esempio moderno di come è stata fabbricata in tal modo una personalità “multipla” è l'eroe del romanzo “Doctor Faustus”, Adrian  Leverkühn. Thomas Mann ha trasferito tratti biografici di personalità davvero diverse su di lui. Non soltanto Friedrich Nietzsche, Ludwig Wittgenstein, Paul Tillich, Arnold Schoenberg e così via offrono al ritratto vita e colore dell'originario genio musicale.
Anche il Gesù del Nuovo Testamento, il personaggio letterario dei vangeli deriva da componenti davvero differenti. L'immagine di  Menahem figlio di Giuda sembra essere stata derivata come pure quella di alcuni profeti itineranti del I secolo. Sarebbe estremamente interessante, ma andrebbe al di là dell'ambito della domanda posta all'inizio, approfondire più dettagliatamente quell'aspetto. Il mio amico Robert M. Price ha  affrontato del suo libro davvero raccomandabile, Deconstructing Jesus dell'anno 2000, il compito di “decostruire” l'immagine di Gesù dei vangeli nelle sue varie componenti. Price elenca tra le figure profetiche e messianiche già menzionate anche il messianista condannato a morte a Roma, Simone bar Giora, ha menzionatol'influenza  del predicatore itinerante cinico, passa a parlare di un particolare modello di “comprensione di un eroe semitico” e infine allude anche ai rappresentanti della cosiddetta Profezia di Giosuè, un punto rimarchevole su cui vogliamo fermarci. Come il Profeta Giosuè posarono un gruppo di uomini del I secolo EC, a quanto pare a beneficio del “risorto” Giosuè, che aveva profetizzato il condottiero Giosuè figlio di Nun dell'Antico Testamento.  Avrebbe realizzato secondo la tradizione segni e prodigi simili al precedente (ad esempio l'attraversamento del Giordano) e avrebbe avuto numerosi discepoli al suo seguito (Antichità 18,85-87, il profeta samaritano, Antichità 20,97- 99, Teuda,  Guerra 2,261-263; Antichità 20,169-171; si veda Antichità 21:38, il profeta egiziano al Monte degli Ulivi).
In realtà, questa profezia poteva essere stata di eminente importanza per l'origine del cristianesimo. Un indizio illuminante dell'eventuale più antica manifestazione del “Movimento di Gesù” (gli Essaioi di Epifanio?) la pone nella forma di una profezia, ci offre il confronto tra i seguenti due passi - il primo è una citazione dalle cosiddette Ricognizioni Pseudoclementine (del quarto secolo, con materiale più antico), l'altro è l'opera del cristiano Eulogio del sesto secolo. In entrambi i casi si arriva ad una controversia religiosa quando i Samaritani:
...ma essi giustamente aspettano l'unico Profeta che viene a restaurare e chiarire le cose che non sono conosciute, come dichiarò Mosè precedentemente. Ma per l'astuzia di Dositeo caddero nella divisione ed erano quindi maldisposti in modo da essere incorreggibili per mezzo di Gesù.
(Ricognizioni 1:54)

Alcuni credevano, Giosuè, figlio di Nun era lì, come disse Mosè, un profeta a me pari  il Signore Dio solleverà tra i vostri fratelli (Det 18:15), mentre gli altri protestarono e proclamarono come questo profeta qualcuno di nome Dosthes o Dositeo.
(Eulogio)

Più interessante del fatto che entrambi gli autori hanno lo stesso fenomeno in mente, è una piccola ma cruciale differenza. Mentre Eulogio parla di Giosuè figlio di Nun (Iēsoun ton Nauē), chi può essere inteso dal contesto è indubbiamente soltanto il Gesù (Iesum) dei vangeli nelle Ricognizioni Pseudoclementine. Dovrebbe il passo tradizionale di Eulogio comprendere una tradizione più antica che proviene dal tempo in cui dietro era in vista   non Giosuè figlio di Nun ma Gesù, il Pneuma risorto e atteso “vero profeta”? 
...
Oltre alla profezia di Giosuè anche l'immagine del profeta Elia dell'Antico Testamento potrebbe essere stata derivata nei vangeli, dal momento che invero parecchie storie sono meglio comprese come Midrash di episodi dell'Antico Testamento.  Price conclude il suo libro con quelle parole:
“I Gesù dei vangeli sono ciascuno complesse sintesi di vari altri, più antichi, caratteri di Gesù. Alcuni di quelli potrebbero essere stati riflessi di vari profeti messianici e rivoluzionari, altri le fittizie controparti di itineranti carismatici, e altri ancora storicizzazioni di mitici Re del Grano e gnostici Eoni. Penso che sia una questione aperta se un Gesù storico avesse avuto qualcosa a che fare con uno qualsiasi di questi Gesù, tanto meno i Gesù dei vangeli. Ciascuno è l'idolo, il totem, di un particolare tipo di comunità di Gesù o culto di Cristo, e non potremo mai sapere se e in quale misura ciascuna comunità riflette un Gesù ricordato al contrario di un Gesù o di un Cristo che è una concretizzazione dei suoi propri credi e valori.”

Oppure per ripetere una volta di nuovo le memorabili parole di Augstein:  “...una sintesi che fluiva da diverse figure e convergeva in una sola.”
La decostruzione storica dell'immagine del Gesù dei vangeli ha promosso soprattutto quelle componenti che avevano relazioni con tutti i profeti e i salvatori messianici che perlopiù possedevano una base storica.  Perfino escludendo gli elementi mitici e misterici, associati all'immagine del salvatore che muore e risorge.  Una volta che la loro esistenza è stata disputata per un pò di tempo, noi ora sappiamo di nuovo che la devozione di deità morenti e risorgenti era diffusa. Il mito di Attis, Adone, Dioniso, Eracle, hanno ― a dispetto di differenti elementi individuali ―  essenzialmente lo stesso modello fondamentale al pari della tradizione sulla morte e resurrezione di Cristo. Il lamento e la celebrazione della resurrezione di Adone, Attis e altre deità oggetto di culto erano comuni per tutto il Mediterraneo e presenti parzialmente allo stesso tempo al posto della Settimana Santa e della Pasqua cristiana. Il culto di Cristo ha combinato l'idea fondamentale originatasi nel contesto ellenistico di un dio che muore e risorge con il Redentore gnostico che discende sulla terra e risale al cielo.  Specialmente il tipo simoniano-marcionita del cristianesimo antico, a cui risalgono le epistole “paoline”, è più o meno una pura incarnazione del culto di Cristo. Un aspetto speciale è, a parte la teologia mistica di una morte e resurrezione, la prevalenza del nome Cristo (che è usato da solo nelle Odi di Salomone). La connessione già incontrata nelle “lettere di Paolo” del nome Cristo col nome Gesù apparentemente è una fusione della profezia di Giosuè col culto di Cristo ― forse già una caratteristica del culto simoniano.
Nei vangeli, allota tutti quei motivi erano combinati in un'unica “opera di arte totale”. Allo stesso tempo, gli evangelisti si misero a continuare la già cominciata opera di storicizzazione del Salvatore. A questo punto i dettagli storici di Flavio Giuseppe sono risultati particolarmente utili. Allora videro verso la metà del secondo secolo la storia del dio-uomo nato in Betlemme e messia ebraico crocifisso sotto Ponzio Pilato, Gesù Cristo la luce del mondo.

(mia libera traduzione in italiano delle pagine 5-12, con omissione delle note)

Penso che Detering ha catturato della profonda evidenza, qui. Ora sappiamo perchè l'evangelista di turno, nel tentativo di fabbricare il proprio avatar terreno di Gesù Cristo sulla Terra, era interessato ad attingere a piene mani anche da personaggi menzionati in Flavio Giuseppe altrimenti noti come insurrezionisti anti-romani. Tutti quei messianisti, per quanto falliti e vituperati come i peggiori criminali di guerra del loro tempo, avevano comunque posato come il Giosuè redivivo dell'Antico Testamento nella loro azione apocalittica e messianica. E in quella misura, a loro volta avrebbero riflesso, chi più chi meno, ciascuno per proprio conto e ciascuno inconsapevolmente, la miglior luce messianica quanto mai adatta per la deità antropomorfizzata nei vangeli.

Di certo i paralleli individuati da Einhorn rimangono suggestivi se non altro per il loro numero piuttosto elevato rispetto ad altri. Personalmente rimango del parere che la sua tesi deve necessariamente risultare convincente nella misura in cui si rivaluti il Criterio di Imbarazzo applicato al presunto materiale di disiepta membra di sedizione sparso nei vangeli. In caso contrario, l'evidenza portata da Einhorn rafforza in realtà l'argomento di Detering su come fu evemerizzato un'antica deità ebraica di nome Gesù.

Un caso particolare potrebbe aiutare ad illustrare meglio la differenza di vedute tra Detering e la tesi del libro che sta recensendo.
Ad esempio, laddove Neil Godfrey indicava a Lena Einhorn, a proposito di Giovanni il Battista, che l'evidenza della sua introduzione nella storia per motivi teologici è indiscutibile, al contrario dell'evidenza della sua introduzione per altri motivi (magari più storici), così replica Lena:
Non potrei essere più d'accordo per quanto riguarda i riferimenti teologici nel Nuovo Testamento — dove spesso ci sono dei link a scritture precedenti. Io porto un altro esempio di questo nella mia risposta a Joe Atwill sotto (ad esempio 1, Pesca di uomini). Ma il mio punto è che questo aspetto letterario-teologico non è sempre — o anche più spesso — l'unico parallelo. Quello che dico è: il Nuovo Testamento è una ragnatela incredibilmente intessuta, con strati multipli nello stesso testo. E mentre un livello è letterario-teologico, un altro, a mio avviso, è pura storia. Ma mentre il letterario-teologico si trova sulla superficie, la storia è così abilmente intrecciata nel tessuto del testo che lo si deve ammirare.
Nell'esempio che segue, la pesca — e ciò che si pesca — risale al pronunciamento escatologico in Geremia, e ad altri libri dell'Antico Testamento. Ma quando si guarda più da vicino, in Matteo 17:24-27, la pesca è qui collegata alla caustica, e altamente politica, questione se pagare o meno le tasse alle autorità. E, in caso affermativo, come pagare queste tasse.

Per quanto riguarda Teuda e Giovanni il Battista: tu scarti i paralleli tra loro come “difficilmente comparabili”. Io penso che ciò è fatto con troppa leggerezza.
Se noi — per il momento — diamo per scontato che Gesù e “l'Egiziano” siano la stessa persona, allora abbiamo la seguente situazione:
1) L'ultimo leader messianico che Flavio Giuseppe nomina prima di “l'Egiziano” è Teuda. E lui usa lo stesso termine per descriverli ( “goes”).
2) Sia Teuda che Giovanni il Battista riuniscono i loro seguaci presso il fiume Giordano.
3) Sia Teuda che Giovanni il Battista sono attaccati da parte delle autorità.
4) Sia Teuda e Giovanni il Battista sono catturati vivi, ma poi decapitati. E la testa è portata alle autorità.
5) E per ultimo, ma non meno importante: Non c'è molto logica nel fatto che Erode Antipa fa arrestare Giovanni il Battista, dal momento che Giovanni non era attivo nella zona sotto la giurisdizione di Antipa (Galilea e Perea). Il procuratore che ha arrestato Teuda, tuttavia, è in realtà il governatore della Giudea, dove sia Teuda e Giovanni Battista erano attivi.

In effetti, nonostante è evidente ― Detering docet nell'esempio di Menaem e di Gesù ben Anania ― che gli evangelisti vedono i personaggi citati in Flavio Giuseppe come “parte di una costellazione di figure che riempiono le immagini mentali “di Marco” dei tempi ed eventi a cui stava rispondendo” (Godfrey), tuttavia è altrettanto evidente che, nel caso di Teuda e dell'“Egiziano”, Einhorn ha illustrato, oltre a paralleli dello stesso tenore, anche dei paralleli che suppliscono (a quanto pare: bene) a stranezze e anacronismi sollevati prima facie dal racconto evangelico, investendo non un mero episodio qua e là (come si limitavano a fare i paralleli con Menaem e con Gesù ben Anania) ma l'impalcatura essenziale della vita del Gesù evangelico (o, per quella materia, dell'azione di Giovanni il Battista). Mi riferisco a quella decina di punti che gli apologeti ritengono storici sul Gesù evangelico, e che sono così indebitati alla loro ridicola professione di fede da essere giustamente definiti “noiosi” proprio da uno di loro (pertanto non starò di certo ad elencarli per l'ennesima volta).

E così, chi si rifiuta di seguire fino in fondo le conclusioni di Einhorn, è costretto ad annacquare e di molto i paralleli da lei trovati (dal misconoscimento della loro natura di genuini “paralleli” fino all'enfatizzarne la presunta “vaghezza”) perchè sa in cuor suo che l'alternativa (credere alla verità di quei paralleli) darebbe ragione da vendere all'ipotesi di un deliberato “shift in time” di 20 anni ― e dell'identità tra Gesù e l'“Egiziano”.
D'altro canto, Einhorn si ritrova con l'onere di illustrare perchè l'altro capo del suo argomento (quello tradizionale del Criterio di Imbarazzo applicato al presunto materiale sedizioso sparso nei vangeli) dovrebbe valere come corollario inevitabile della presunta realtà dei suoi paralleli. In fondo, secondo la sua teoria, del sano imbarazzo è stato a muovere i cospiratori a retrodatare di vent'anni circa l'azione sediziosa dell'“Egiziano”, innescando quelli effetti che Einhorn pretende di vedere nei vangeli in compagnia di un Bermejo-Rubio. Perciò il problema sollevato da “A Shift in Time” di Lena Einhorn si riduce al problema dell'applicabilità o meno del Criterio di Imbarazzo sul materiale evangelico + i presunti paralleli trovati da Einhorn.

Si apprezzi la differenza: un Maccoby (o un Brandon, o un Eisler, o un Bermejo-Rubio) non aveva alcuna ragione in principio di anche solo accennare ad un “Criterio di Imbarazzo” perchè niente (a parte il suo credo storicista) ―al di là di apparenti allegorie― poteva insinuare quel dubbio.

Con Lena Einhorn è diverso: quel dubbio è insinuato dalla sola presunzione di quei paralleli (perfino concedendo in anticipo che siano falsi) perciò lei è legittimata, a differenza di un Brandon, a domandarsi se sia lecito o meno usare il Criterio di Imbarazzo pur di confermare o rimuovere quel dubbio suscitato da quei reali o presunti paralleli. E si noti che questo è ancora diverso dal concludere che il Criterio di Imbarazzo risulti efficace o  meno sui vangeli, solo che ora è davvero possibile contemplare, almeno su un piano strettamente astratto ma razionale, la mera possibilità di un suo utilizzo (al di là che si riveli efficace o meno). Gli storicisti finora non erano legittimati, a mio parere, neppure a intravedere quella possibilità. Ed è chiara ora la differenza: vedere che il Gesù evangelico riflette una generica classe di uomini in Flavio Giuseppe (la classe dei profeti apocalittici, la classe dei sediziosi, la classe dei maghi, la classe degli sciamani, la classe dei maestri, ecc.) non autorizza affatto ad approcciare storicamente delle apparenti allegorie (non più di quanto possa autorizzarlo vedere che Gesù figura al terzo posto nella classifica degli eroi mitologici di Rank-Raglan).
 Ma Einhorn sta proponendo finalmente qualcosa di diverso: vedere che il Gesù evangelico riflette ora un particolare individuo menzionato in Flavio Giuseppe (“l'Egiziano”) di fatto legittima Einhorn ad approcciare storicamente quelle che fino a qualche secondo prima erano ancora delle mere allegorie. Questo ancora non vuol dire che tale approccio storico alle allegorie (leggi: l'utilizzo del Criterio di Imbarazzo) risulti efficace o meno: la fallacia del possibiliter ergo probabiliter potrebbe ancora attendere al varco chi sta usando quel Criterio. Ma intanto Einhorn ha registrato un piccolo progresso: ora sappiamo che possiamo interrogarci sull'efficacia o meno del Criterio di Imbarazzo, dato che ora siamo autorizzati a vederne un'applicazione. Prima non eravamo autorizzati ad usarlo, tantomeno a chiedere della sua efficacia o meno.

Già uno studioso ha applicato quel Criterio di Imbarazzo sul solo Flavio Giuseppe per concludere che lo storico ebreo creò a tavolino “Giuda il Galileo” per distogliere l'attenzione su un altro “fariseo” sedizioso: lui stesso.

Potevano i seguaci dell'“Egiziano” aver fatto la medesima cosa con il loro leader?

O in alternativa, è EFFICACEMENTE applicabile il Criterio di Imbarazzo, tanto su Flavio Giuseppe quanto sui vangeli, quanto ancora su entrambi ?

Lascio l'interrogativo in sospeso, aspettando pazientemente di esaminare questo prossimo articolo del prof Bermejo-Rubio sul tema specifico, prima di tirare finalmente le somme ― e magari, definitivamente ― sull'argomento. 

Mentre scrivo, ho però raggiunto queste conclusioni con sufficiente grado di certezza:

1) è evidente che gli evangelisti attinsero anche da Flavio Giuseppe (vedi Gesù ben Anania), e perfino da quei personaggi più discutibili (vedi Menaem) agli occhi dell'establishment romano (il dr. Detering parla giustamente di una strana sensazione di deja vu quando si leggono i vangeli alla luce degli scritti di Flavio Giuseppe ―e non solo di Flavio Giuseppe);
2) è evidente che il caso di Einhorn è più forte del caso di un qualunque proponente di un Gesù storico sedizioso;
3) è evidente che ci troviamo di fronte ad un aut-aut piuttosto che ad un et-et: o i paralleli sollevati da Einhorn sono veri, e allora il Criterio di Imbarazzo è da applicarsi sui vangeli ―e allora Gesù non è nient'altri che “l'Egiziano”oppure i paralleli sollevati da Einhorn sono frutto di mera parallelomania (come costui).
4) Un modo, forse l'unico a disposizione, per testare la verità della sua premessa (la verità dei paralleli tra il Gesù evangelico e “l'Egiziano”) sarebbe di testare la verità di una delle sue conclusioni (la reale efficacia del Criterio di Imbarazzo) più attese sotto quella premessa.



 

 


A Shift in Time: How Historical Documents Reveal the Surprising Truth About Jesus

di Lena Einhorn
(New York: Yucca Publishing, 2016; 227+11 pages)
Recensione a cura di Hermann Detering



Nei paragrafi precedenti ho presentato l'argomento  di Einhorn in maniera molto semplificata, e inoltre ho omesso parecchio del suo libro che supporta la sua tesi. I numerosi schemi e tabelle che illustrano e sintetizzano graficamente i suoi punti sono particolarmente meritori e rafforzano le conclusioni del libro. 

Nonostante quanto detto sopra, comunque, non trovo me stesso del tutto convinto dalla soluzione di Einhorn.
L’attenzione di questo studio è troppo concentrata su  Flavio Giuseppe. Rimaste trascurate sono tutte le altre correnti coinvolte nello sviluppo del cristianesimo, come le religioni misteriche, lo gnosticismo, il culto del Kyrios, il cinicismo, il platonismo, la filosofia del Logos ecc.

Al lettore manca una visione in cui i risultati dello studio di Einhorn siano forniti insieme ai risultati degli studi biblici e inseriti in un più ampio contesto. È difficile farsi un quadro corretto dello sviluppo storico del cristianesimo, che iniziò come una setta messianica ed evolse nella primitiva chiesa cattolica del II secolo.

Dove è espresso, nel Nuovo Testamento, lo spirito rivoltoso del fondatore del Cristianesimo? E quale significato aveva la resurrezione di Gesù per i ribelli cristiani dei primi tempi? Einhorn dedica un intero capitolo alla “Resurrezione dei Morti” nel Nuovo Testamento, senza arrivare a parlare dell’importanza del messaggio centrale dell'intera religione: la resurrezione di Gesù stesso.

Un altro problema riguarda la questione di come la teoria di Einhorn delle origini cristiane si relaziona al’apostolo Paolo. La cronologia tradizionale di Paolo  lascia poco spazio ad un “time shift” come proposto qui— di fatto, lo contraddice completamente.
Perciò Lena Einhorn cerca di tracciare una nuova cronologia paolina (pag. 172-179). Comunque—senza scendere nei particolari—io dubito che la sua cronologia possa trovare approvazione tra gli studiosi del Nuovo Testamento. Ma questo potrebbe essere irrilevante, perchè nella mia opinione le paoline epistole sono in tutta probabilità composizioni pseudo-epigrafiche del secondo secolo.   Tuttavia perfino una posizione più radicale circa la cronologia di Paolo non può sopprimere altre domande in relazione all’apostolo. Per citarne una, come si comporta la cristologia e la soteriologia paolina nel quadro di un Messia guerriero e ribelle anti-romano che la comunità cristiana si dice abbia adorato ad un primo tempo?

Einhorn, riguardo Gal. 1, 14, cerca di fare di Paolo uno zelota, ma né Atti né le Lettere danno la più piccola indicazione di attività rivoltose da parte dell’apostolo. E, per usare un argomento ad hominem, quanto è probabile che il cittadino romano Paolo avesse potuto partecipare ad una rivolta contro Roma?

Circa l’identificazione di personaggi neotestamentari con persone menzionate in Flavio Giuseppe, vorrei sottolineare a questo punto che ci sono altre possibilità oltre alle spiegazioni che ci offre Einhorn.

per esempio, nel suo libro il pretendente Messianico anti-romano Menahem è identificato con Simon Pietro. Tuttavia, la figura di Menahem poteva aver influenzato in alternativa anche la rappresentazione di Gesù nei vangeli. L’ingresso messianico di Menahem a Gerusalemme, l’ostilità dei sacerdoti, il cambiamento nel giro di pochi giorni dell’umore del popolo da “Osanna” a ”Crocifiggilo”, la fuga dei discepoli, la tortura finale, e la morte dolorosa (Guerra 2.17.8-9)—, tutto questo porta a pensare agli eventi della settimana della Passione.

C’è anche da aggiungere che il pretendente messianico Menahem dovrebbe, secondo un’antica fonte rabbinica, essere nato a Bethlemme, e il suo destino, tra l’altro, è collegato esplicitamente alla distruzione del Tempio. Hugo Gressmann già dal 1922 sospettava che la tradizione di Menachem poteva aver influenzato l’immagine del Gesù dei vangeli.
Riguardo il detto che Gesù avrebbe ricostruito il tempio in tre giorni (Marco 14:58; 15:29; Giovanni 2:19), Gressmann notò che poteva “essere penetrata nella tradizione evangelica solo dopo la distruzione di Gerusalemme”, e quindi trasferita da Menahem a Gesù (una discussione qui, pag. 6). Anche l’ingresso di Gesù a Gerusalemme poteva essere  descritto in modo simile.

Il protomartire Stefano (Einhorn 63-72) presenta un problema unico. A differenza di Einhorn (pag. 65) io trovo davvero difficile identificare lo Stefano di Flavio Giuseppe (Guerra 2.12.2) con un soldato romano.

Sebbene gli studiosi di solito considerano il martirio di Stefano il modello del martirio di Giacomo nelle Pseudoclementine, lo storico H.-J. Shoeps è del parere opposto. Lui assumeva che il racconto delle Pseudoclementine fosse più antico. Procedendo dai fatti indiscussi che l'antica tradizione cristiana—ad eccezione di Luca—è notevolmente silente sul diacono della chiesa Stefano e, invece, pone Giacomo e il suo martirio al centro della scena, Shoeps arrivò alla conclusione che il racconto lucano fosse pura finzione. Luca tendenziosamente volle indebolire la immagine di Saulo/Paolo come persecutore dell'antica comunità cristiana e del suo leader, Giacomo. Così, l'evangelista inventò la storia di Stefano, usando elementi dal martirio di Giacomo. Quindi lui riuscì non solo a far accettare l'immagine di Saulo/Paolo, ma anche a trasferire la tendenza anti-Torah e anti-Tempio dall'antica fazione di Giacomo sul leader della fazione ellenista, Stefano.

Io ho concluso, assime e ad H.-J. Shoeps, che il presunto diacono ellenista Stefano non è mai esistito.
Ciononostante, non voglio negare che i paralleli elencati da Einhorn tra Flavio Giuseppe e il Nuovo Testamento a volte hanno una certa plausibilità.

Tuttavia, non posso essere d’accordo con l’ipotesi offerta da Lena Einhorn di un “time-shifting” nella forma in cui lei la presenta.

Il motivo di questo, in fin dei conti, è che Einhorn ritiene di doversi conformare alla storicità del Messia cristiano. Perciò si trova costretta a dover dimostrare un’identità che non potrà mai essere provata in maniera non ambigua.

Perché, provare in modo convincente che il Messia del Nuovo Testamento è nient'altro che il pretendente messianico egiziano citato in Flavio Giuseppe, è a mala pena possibile, dato lo scarso materiale delle fonti. Senza nuove fonti, queste teorie non potranno mai essere verificate.

Secondo la mia opinione, aggrapparsi alla storicità di Gesù è una premessa che potrebbe aiutare a spiegare a volte paralleli e anacronismisorprendenti, ma quella premessa stessa non è necessaria.

Il libro di Einhorn non avrebbe meno valore se non avesse cercato queste identificazioni. La spiegazione delle sorprendenti similitudini tra la tradizione neotestamentaria e Flavio Giuseppe deve essere cercata altrove.
Per me, quell'“altrove” diventa apparente quando si scarta la presupposizione di un'esistenza storica di Gesù.
Fare così ci permette di apprezzare che Gesù è in tutta probabilità un tardo costrutto letterario, il prodotto di vari flussi di tradizione messianici e gnostici che sono fluiti “sinteticamente in uno”.

Ho già spiegato altrove come l'entità di un redentore, concepito in termini puramente mitologici, subì un processo di “storicizzazione”.  Nell’immaginazione dei suoi seguaci, l'entità fu originariamente indistinguibile da altre divinità fmailiari alle religioni misteriche, divinità che potrebbero averla preceduta.  Attraverso un intreccio di elementi storici —in realtà, pseudo-storici—, l'autore del vangelo di Marco (oppure forse il suo predecessore) fu uno dei primi a incontrare le necessità della sua comunità di una divinità più concreta, questo apparentemente nella Roma del secondo secolo. Da qui la creazione di un salvatore nella Storia, un salvatore che combina tratti di vari pretendenti e profeti messianici menzionati da Flavio Giuseppe (per esempio, il profeta di distruzione Gesù ben Anania). Questa non è l'arte dello storico ma del racconta-storie,  infatti sebbene comincia con eventi storici li utilizza a scopi letterari e fantasiosi. Nel suo libro, Deconstructing Jesus, Robert Price offre vari esempi illuminanti di come fu utilizzato questo metodo, e come fu combinato un numero di elementi costitutivi nel nuovo edificio.


In un certo senso, allora, il “time-shifting” postulato da Einhorn nel suo libro poggia su un nucleo di verità. Solo che non deve essere inteso, comunque, come lo spostamenteo di una particolare persona della Storia, oppure come lo spostamenteo di un particolare nesso di eventi da un'epoca ad un'altra.  

Piuttosto gli evangelisti hanno fuso insieme elementi mitologici con le biografie di varie figure della Storia, collocando gli attori risultanti in un contesto cronologico e geografico che meglio serviva ai loro scopi. 
Il libro “A Shift in Time” nondimeno serve decisamente a utili obiettivi per i miticisti gesuani. Rende possibile un esame dei metodi che gli evangelisti utilizzarono nella loro invenzione letteraria. Facilita anche un'analisi della natura di alcuni blocchi costitutivi che furono usati come ispirazione nella formazione del loro salvatore, Gesù. È lodevole, in ogni caso, che Einhorn ripetutamente rammenta al lettore la natura ipotetica della sua tesi, che sono, come molte in questo campo, stimolanti spunti di riflessione. Come ammise Lutero: “siamo mendicanti, questa è la verità”.

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