(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro del miticista William Benjamin Smith, «Ecce Deus, Studies of Primitive Christianity». Per leggere il testo precedente, segui questo link)
- PREFAZIONE
- PARTE I — LA PROPAGANDA PROTO-CRISTIANA
- PARTE II — TESTIMONIANZA DEL NUOVO TESTAMENTO
- PARTE III — I PILASTRI DI SCHMIEDEL
- PARTE IV — IL SILENZIO DI GIUSEPPE E DI TACITO
- PARTE V — IL REGNO E L'INVITO AL PENTIMENTO
- PARTE VI — “UNA CITTÀ CHIAMATA NAZARET”
- PARTE VII — (I)SCARIOT(A) = CONSEGNATORE
- POSTFAZIONE
POSTFAZIONE
Durante il passaggio di quest'opera in stampa, un passaggio reso lento dalla noia della correzione delle bozze attraverso un oceano e un continente, sono apparse diverse pubblicazioni che trattano direttamente o indirettamente di Ecce Deus (l'edizione originale tedesca di questo libro, pubblicata, con un occhio di riguardo agli interessi della libertà e della cultura, da Herr Eugen Diederichs, di Jena), alcune delle quali, affinché il lettore sia messo au courant della discussione, dovrebbero essere segnalate in questo volume. Non è questa la sede per addentrarsi in un'elaborata considerazione delle repliche a Der vorchristliche Jesus, come il recente “Replik an W. B. Smith” di Schwen (nella Zeitschrift für wissenschaftliche Theologie di Hilgenfeld), [1] poiché le questioni particolari ivi esposte sono in gran parte non trattate nel presente lavoro. Sembra opportuno, però, richiamare l'attenzione su The Historicity of Jesus, del professor Shirley Jackson Case, dell'Università di Chicago. Altrove [2] ho recensito a lungo il libro, avendolo studiato con molta soddisfazione. Ciò che ci preoccupa qui è che il suo autore, pur conoscendo Ecce Deus e citandolo ripetutamente, non ha fatto alcun tentativo di rispondere ad esso, di confutare le prove che esso porta contro la “storicità” in questione. Il lettore può trovare la propria spiegazione di tale omissione in un'opera che dichiara di essere una “dichiarazione completa e priva di pregiudizi”, in cui “non è ignorata nessuna fase di qualsiasi importanza nella storia o nello stato attuale del problema”. L'unica conclusione logica sarebbe che il professor Case considera il presente lavoro privo di “conseguenze”: un'opinione che potrebbe interessare per la sua unicità e per rammentare una della predizione dei vicini di Noè, secondo cui si tratterebbe solo di una pioggia passeggera. Nel frattempo, la serietà delle considerazioni ignorate dal prof di Chicago è attestata non solo da numerose recensioni, ma ancor più dall'apparizione inquietante di articoli come quello di Macintosh nell'American Journal of Theology (1911, pag. 362-372), “Is Belief in the Historicity of Jesus Indispensable to Christian Faith?” e di discussioni simili da parte di Bousset, Troeltsch, Hermann. Nonostante tutte le proteste, il significato di queste scritture sembra abbastanza inequivocabile. I critici si chiedono se sia “indispensabile” solo perché cominciano a sospettare che possa rivelarsi indifendibile. Si stanno preparando con cautela, non certo ad arrendersi — oh, no! Per carità, mai e poi mai si potrebbe sognare una cosa del genere — ma semplicemente ad evacuare da un giorno all'altro la cittadella finora ritenuta inespugnabile. Quanto tempo ci vorrà prima che alcuni dimentichino, nel loro nuovo ambiente, il palazzo imperiale da cui sono venuti, e persino di esserci mai stati?
L'elaborato articolo di Meyboom nel Theologisch Tijdschrift traspira un tale spirito di generoso apprezzamento che potrebbe essere raccomandato al lettore senza commenti. Però è bene osservare che il suo rammarico principale, quello contro l'ampia generalità e persino vaghezza di certe affermazioni, sembra colpire un difetto che pende dalla parte del pregio. Chiaramente il libro abbozza solo i contorni; dichiara esplicitamente che molti dettagli devono ancora attendere a lungo per essere completati. Ciò rientra nella natura del caso. Dove le prove strettamente storiche sono così scarse, dove i documenti più antichi furono “detti” nascosti, dove i fatti furono così presto e così consapevolmente celati, dove essi furono sistematicamente trasmessi, spesso al di là di ogni riconoscimento, nelle rappresentazioni assolutamente interessate di cronisti ex parte, è miracoloso se all'inizio è stato possibile ottenere molto più di indizi generali. È solo la direzione degli astri nei loro percorsi che possiamo sperare di riconoscere. In un movimento che si protrasse per quasi tre secoli e che si estese su quasi tutto il bacino mediterraneo, dobbiamo spesso accontentarci di un “da qualche parte” e di un “in qualche momento”, e ogni tentativo presente di ottenere una precisione maggiore può essere deprecato. Né tale precisione è un vero desiderio. L'unica importante “questione del giorno” è quella della “storicità”, della pura umanità del Gesù. I dettagli, anche se non in modo assoluto, sono comunque relativamente poco importanti. Una volta che la pura divinità, la non-umanità, del Gesù è stata chiaramente evidenziata, tutte le altre cose, a loro tempo e a loro volta, saranno aggiunte. Con la nuova tesi delle origini cristiane succede lo stesso che con le altre nuove teorie della storia e persino della scienza fisica. Nel fondare la dottrina generale della discendenza con le modifiche, sono solo le proposizioni molto generali e vaghe che vengono inizialmente raccomandate: come ad esempio che in qualche modo tutti gli organismi viventi sono direttamente derivati da antenati, e questi da pre-antenati, e così via in ordine ininterrotto all'indietro all'infinito. Ma in che modo siano derivati, questa è un'altra questione. Dire “Mediante Selezione Naturale” era, ed è tuttora, prematuro. Rispetto all'ipotesi più antica di creazioni speciali, è indifferente come essi possano essere stati derivati, come possano essere state apportate le modifiche, anche se per altri aspetti ciò può essere estremamente importante.
Esattamente simile è il caso presente della tesi neotestamentaria. Le prospettive generali sono già chiare: non c'è più alcuna buona ragione per mantenere il dogma liberale del Gesù puramente umano; c'è la ragione più grande per abbandonarlo e metterlo da parte per sempre, per adottare la formula di Origene, “Il Dio Gesù” (Contra Celsum 6:66). Ma una ventina di interrogativi rimangono ancora irrisolti, e potrebbero rimanere a lungo così. Gradualmente, con riluttanza, essi troveranno le loro risposte; in nessun caso scuoteranno i risultati fondamentali ora raggiunti. Disse Lincoln alla famosa conferenza con Davis: “Lasciate che io scriva la prima frase, 'L'Unione sarà mantenuta', e voi potete scrivere tutto il resto”. Il senso in cui si può rispondere a questi interrogativi secondari non può disturbare la logica del nostro pensiero su questi argomenti, né modificare di molto il significato dei risultati ora raggiunti per i problemi che ci si pongono nella religione, nel culto, nella chiesa, nella società, nella civiltà di oggi.
Non è raro trovare negli scritti degli storicisti oscure allusioni a convincenti argomentazioni a favore della storicità, che però essi tengono in serbo. È un peccato che qualcuno nasconda così la propria luce sotto il moggio. Nella Theologische Revue, nel giudicare l'Ecce Deus, il cattolico moderato Kiefl ammette generosamente: “Il libro è, senza dubbio, geistvoll geschrieben”; ma ritiene che, “per quanto la critica dell'autore sia precisa e variamente corretta (treffend), tuttavia la dimostrazione della sua contro-ipotesi è altrettanto difettosa”. Protesta contro “l'allegorizzazione immotivata”, ma non ne dà le ragioni, e ritiene che il difetto principale risieda nel prestare tanta attenzione ai Pilastri di Schmiedel, “ignorando invece altre prove”. Ciò suona strano, tenuto conto della trattazione dettagliata delle argomentazioni della personalità, della Testimonianza Paolina e di alcune altre. I fatti del caso si possono comprendere facilmente. Lo stesso Schmiedel ha dichiarato apertamente (pag. 17, citato supra, pag. 33) che non ci sono altre argomentazioni veramente convincenti se non quelle derivate da questi stessi brani o da altri simili. Inoltre, questi “pilastri” sono concreti, manifesti, mentre le presunte “altre prove” attendono ancora una formulazione precisa.
Così Wendland poggerebbe il suo caso sul “fondamento aramaico dei Sinottici e sull'esistenza di una missione indipendente di Paolo”. Ecco due argomentazioni dichiarate “sufficienti”. Ma come? Ognuno di esse si regge su una sola gamba, una posizione instabile per un sillogismo. Per esprimere una parvenza di ragionamento dobbiamo rifornire ciascuna di un aiuto, di una premessa importante. Quale sarà? Wendland non ne dà alcun indizio. Lo stesso vale per molte argomentazioni apparentemente a favore della storicità. Quando l'argomentazione maggiore viene fornita, si scoprirà che è falsa oppure scorrelata con la tesi. Si potrebbero citare esempi simili. Non è giusto pretendere che il tuo avversario illustri le tue premesse e smascheri le tue fallacie. Quando queste misteriose “altre prove” [3] saranno formulate in maniera altrettanto chiara e logica delle “prove-pilastri”, esse riceveranno una considerazione altrettanto attenta e, si può prevedere, con risultati del tutto simili.
Essendo questa la riluttanza generale dei proponenti dello Storicismo, è gratificante trovare nel libro di Case (pag. 269) un riassunto delle argomentazioni pro-storiche, più completo di quanto si possa trovare altrove nello stesso ambito. Lui dice:
[1] I dati del Nuovo Testamento sono perfettamente chiari nella loro testimonianza della realtà della vicenda terrena di Gesù, [2] e provengono da un periodo in cui è fuori discussione la possibilità che i primi redattori della tradizione si siano ingannati su questo punto. [3] Non solo Paolo fa della personalità storica di Gesù un requisito necessario al suo Vangelo, [4] ma l'intera situazione in cui si muove Paolo mostra uno sfondo storico in cui la memoria di questo individuo è centrale. [5] Le fasi più antiche della tradizione evangelica affondano le loro radici sul suolo palestinese, [6] e risalgono al periodo in cui vivevano ancora i seguaci personali di Gesù; [7] mentre la cristologia primitiva mostra tracce evidenti di Gesù, l'uomo di Galilea, dietro la sua fede nel Cristo celeste. [8] La memoria personale dei discepoli di questo Gesù dalla esistenza reale è anche la fonte da cui prende avvio il tipo di vitalità particolarmente forte della nuova comunità.
Con questa esposizione di “altre prove”, a lungo desiderate, che ci siamo presi la libertà di separare e numerare per facilitarne la consultazione, il professor Case ha reso il pubblico molto debitore. Ci sia consentita qualche osservazione.
A. Sembra degno di nota il fatto che i Pilastri brillino solo per la loro assenza. Il professor Case sembra considerarli con la stessa leggerezza con cui Schmiedel considera tutte le “altre prove” di Case. Ciò sembra molto rilevante, perché Schmiedel non è affatto l'unico ad appoggiare la sua fede sui Pilastri.
B. La conclusione favorita dalla personalità unica, incomparabile e del tutto ininventabile è ugualmente sminuita, se non addirittura del tutto omessa. Ciò sembra ancora più rilevante, perché questa è stata senza dubbio l'argomentazione principe di molti storicisti.
(1) L'asserzione che “i dati neotestamentari sono perfettamente chiari, ecc.” ignora sia i fatti del caso sia l'intera interpretazione simbolica esposta nell'Ecce Deus. Se questa interpretazione fosse misuratamente corretta, allora questi “dati” sembrerebbero “perfettamente chiari nella loro testimonianza” contro la storicità in questione. A meno che non si dimostri errata questa interpretazione, l'argomentazione principale nell'elenco deve crollare; e ciò che si dice al punto (2) circa i “redattori della tradizione” parrebbe perdere tutto il suo significato.
(3) L'affermazione relativa a Paolo non è affatto corretta; è piuttosto proprio il contrario della verità. Vedi supra, pag. 146 e seguenti, e l'articolo di Schläger già citato.
(4) Il professor Case sembra essere hegeliano nel sostenere l'identità degli opposti.
(5) Al pari di quella di Wendland, l'argomentazione secondo cui la tradizione “affonda le radici sul suolo palestinese” cerca di reggersi su una gamba sola, molto goffamente. Come stato di fatto, non abbiamo motivo di supporre che questo movimento cristiano si originasse in Palestina oppure in qualunque altro luogo. La vivida rappresentazione nei Vangeli è messa in scena in Palestina, e per la ragione indicata in Matteo 4:15, 16: per adempiere alla profezia circa l'alba di una grande luce sulla “Galilea delle genti”. Quasi tutti i riferimenti topici dei Vangeli sono derivabili direttamente o indirettamente da questo motif, ed è degno di nota il fatto che gran parte del dipinto evangelico rimanga nell'aria senza una dimora locale, e talvolta senza un nome. La predicazione in Giudea è un pensiero postumo — non presente nella fonte dei Logoi (Q), come concede ora Harnack — ed è un riflesso altamente elaborato dello specchio della profezia, sacra e profana.
(6) Il “periodo in cui vivevano ancora i seguaci personali di Gesù” presuppone tutto ciò che è in discussione, come del resto avviene altrove nel libro del professor Case.
(7) Qui potrebbe stare una modesta allusione ai Pilastri; in ogni caso, il loro crollo trascina giù con sé l'asserzione di Case.
(8) La frase conclusiva circa la “memoria personale" può essere una concessione un po' stizzita alla vecchia argomentazione della personalità, ed è fin troppo vaga per costituire una base di discussione. Che l'assenza di una siffatta “memoria personale” sia un segno originale della predicazione antica è stato chiaramente esposto in questo volume. È sufficiente che il lettore ricordi che quella di Paolo fu la personalità più “particolarmente incisiva”, che egli “lavorò più abbondantemente di tutti loro” e che egli ammise di non avere una siffatta “memoria personale”. Né il lettore potrà fare a meno di notare la vaghezza che contraddistingue tutte le considerazioni avanzate nel brano citato.
Alla luce di quanto detto, sembra dubbio che gli storicisti in generale ringrazieranno lo storico di Chicago per la sua esposizione del caso.
Un'unica osservazione che riguarda il modo preferito di confutazione in voga tra gli storicisti, l'argomentazione del silenzio. Forse non è strano che essa abbia suggerito ad abili recensori tedeschi una confutazione basata sul silenzio. Gli animi più accesi possono essere lenti a pronunciarsi, ma non sempre gli intelletti più dotati. Nondimeno, l'uomo della parabola che non indossava un abito nuziale sembra aver mantenuto un silenzio dignitoso e impressionante.
Avendo già risposto ampiamente (in Auseinandersetzung mit Weinel e nella Prefazione alla seconda edizione di Der vorchristliche Jesus) ai rimbombi delle trombe tedesche, non ci si sente obbligati a rispondere ai “corni della terra degli Elfi che lievemente soffiano” nel contributo di Bacon per la Hibbert Journal (luglio 1911). Essi possono però servire a uno scopo utile: indicare un'osservazione necessaria sul tipo di ragionamento da impiegare in queste discussioni. Sembrerebbe che persino un principiante della logica possa comprendere la distinzione tra una concatenazione e un ordito, tra una disposizione in serie e una disposizione in parallelo delle prove. In matematica prevale il primo tipo: la conclusione pende da un unico filo. Se questo si spezza, essa cade a terra. Basta esporre un solo errore nelle premesse; l'intera conclusione è così invalidata: la concatenazione non è più forte del suo anello più debole. Accade ben diversamente nella Storia, nella vita, dove è il secondo tipo a reggere. Le prove sono disposte fianco a fianco, come fili in un telaio. È la loro forza combinata a sostenere la conclusione. L'ordito è molto più forte persino del suo filo più resistente. Noi parliamo della prove “cumulative”, della “consistenza dei risultati”, della convergenza degli indizi. Ovviamente, per confutare tale argomentazione non sarebbe sufficiente individuare fili deboli nell'ordito e serie incertezze in vari indizi. Anzi, va dimostrato che nessuno dei filamenti regge, che tutti si spezzano sia separatamente che collettivamente, che tutti gli indizi concordanti, sia singolarmente che assieme, inducono in inganno.
Il critico giusto di questo libro o del suo predecessore non solo lo valuterà, ma dovrà valutarlo dove è più forte, e non solo dove lo è meno. Anche se le prove fossero inconcludenti in una dozzina di punti, esse potrebbero comunque essere conclusive in altri, e ciò sarebbe sufficiente; sì, potrebbero essere non decisive in ogni punto considerato singolarmente, eppure decisive (con altissima probabilità) qualora tutte fossero considerate assieme. È la totalità dei fatti e degli argomenti addotti che deve influenzare infine il giudizio. Quando, perciò, i critici si accontentano di tentare di mostrare qualche mancanza di rigore nelle prove qua e là, ma non fanno alcun tentativo di invalidare l'intera serie di indizi reciprocamente indipendenti ma reciprocamente corroboranti, [4] essi sembrano tradire una concezione particolare della natura delle prove e sollevano il quesito se quella di Hilbert, di Peano e di Russell sia l'unica Nuova Logica.
Quanto detto è certamente storia vecchia; eppure deve essere mantenuta sempre nuova, perché viene costantemente dimenticata, ad esempio anche da Windisch (Theol. Rundschau, 1912, pag. 114 e seguenti), il quale, pur essendo discretamente generoso nel giudicare Ecce Deus, lo trova “frammentario, e quindi insoddisfacente”, “una serie di saggi scorrelati”, e chiede con urgenza “non più schizzi frammentari, ma presentazioni correlate e complete”. Tutto questo, su cui Windisch ripone particolare enfasi, sembra in realtà solo un mezzo disastro. Sarebbe potuto andar peggio. Alcuni libri sono “completi” in modo molto armonioso, eppure non soddisfano. Tutti i libri, infatti, hanno i difetti delle loro qualità; e questa mancanza di unità artistica è stata apertamente dichiarata dall'autore. Il lettore deve constatare che “un orientamento completamente nuovo” (Schwen) non può essere presentato nella forma “completa” desiderata. Se l'autore dovesse aspettare finché una tale “presentazione” diventasse possibile, i suoi amici-nemici insisterebbero esultanti per passare all'ordine del giorno. Nuove prove si offrono ogni giorno, nuovi aspetti si disvelano costantemente, nuove prospettive si aprono da ogni parte. Senza dubbio dovranno passare molti anni prima che il raffinamento e il riallineamento possano essere completi. [6]
Nel frattempo le prove, sebbene confessatamente “frammentarie”, non sono “per questo insoddisfacenti”. Le prove delle dottrine scientifiche spesso soddisfano nonostante siano molto frammentarie, perché attestano con un grado di probabilità sufficientemente alto. In effetti, è noto che la nostra conoscenza è frammentaria. Ma quando Windisch parla di “saggi scorrelati” va decisamente fuori strada. Tanto vale descrivere i meridiani di longitudine come “scorrelati”: essi si uniscono strettamente ai poli. Così le numerose linee di dimostrazione in questo libro sono, in effetti, indipendenti — e qui sta il loro valore logico: un errore in una di esse non comporta un errore in nessun'altra — esse devono essere tutte confutate simultaneamente, perché anche se tutte fallissero tranne una, e questa non fallisse, l'unica conclusione sarebbe comunque raggiunta e stabilita; ma esse non sono scorrelate, perché tutte convergono verso la stessa conclusione, che le tiene insieme in unità. La lamentela di Windisch è dunque rivolta a un difetto estetico: la condizione di un merito logico. Però, con il passare dei giorni, le argomentazioni indipendenti diventeranno ognuna per sé un insieme più “completo”, e qualche volume successivo potrà fare appello con maggiore forza al senso artistico di Windisch. Nel frattempo, questa reciproca indipendenza non esonera affatto gli avversari dall'obbligo di rispondere; al contrario, fa accrescere tale obbligo.
Ad un recensore va consentito di decidere ex cathedra e senza argomentazioni. Talvolta, però, Windisch adduce delle ragioni, come quando inorridisce di fronte all'affermazione che Ebrei non fa la minima allusione al ritratto evangelico, e cita Ebrei 5:7 per confutarla. Il brano era nel pensiero dell'autore, come risulta dal linguaggio usato (pag. 92), ma non contiene l'allusione immaginata. Naturalmente, la maggior parte dei commentatori lo riferisce al Getsemani; ma persino il conservatore Köstlin, che fu certamente esente da qualsiasi sospetto di critica recente, non poté trovare alcun riferimento del genere. La rappresentazione concorda certamente in qualche misura con il racconto evangelico — un racconto, ad ogni modo, che farebbe grave disonore a qualunque uomo coraggioso, che non avrebbe certo “per la sua divina paura della morte” “pregato e supplicato con lacrime e un potente grido per la liberazione dalla morte”, che milioni di comuni mortali hanno incontrato senza alcun cedimento. Il brano è un tentativo, forse non del tutto felice secondo i nostri canoni, di rendere poetico, o meglio di drammatizzare (in modo del tutto naturale), [6] l'autosacrificio del grande Sommo Sacerdote, del Dio morente, un filo variopinto che percorse tutta la sfera della coscienza antica. Non c'è alcuna prova che il brano sia basato su Luca o su qualunque altro Vangelo. Anzi, gli indizi indicano il contrario. Sarebbe molto più probabile che i Vangeli abbiano drammatizzato il versetto di Ebrei, o ancor più probabilmente il suo originale. È inutile dilungarsi, né solleviamo qui alcuna questione critica circa questi quattro versetti (7-10), anche se uno come Windisch deve intuire che una questione seria può essere sollevata; ma sembra strano che qualcuno possa leggere tutta questa Epistola in una sola volta senza essere colpito dalla sua ampia distanza dalla moderna concezione liberale, e persino dall'antica concezione evangelica.
La sorpresa di Windisch per il fatto che la testimonianza di Giustino Martire sul racconto evangelico sia così poco considerata non è affatto giustificata, perché la spiegazione gli è già presentata in Ecce Deus. La testimonianza non deve essere negata: essa è semplicemente priva di valore, essendo viziata dalla sua bizzarra concezione della Storia (del Vangelo) come compimento e riflesso della profezia e delle scritture dell'Antico Testamento. Un tale ideologo non avrebbe esitato a dichiarare che questo o quell'altro “evento” fosse accaduto, e fosse stato ricordato nelle Memorie degli Apostoli, se solo avesse pensato di averne trovato la prefigurazione nell'Antico Testamento. Non insegna forse esplicitamente anche Crisostomo che la profezia deve prevalere persino sugli stessi fatti storici? E Tertulliano non ha forse scritto: “E fu sepolto e risorto, questo è certo, perché è impossibile”? [7] Il pensiero critico moderno non è un metro di misura per i primi cristiani.
Windisch pensa che “propagare il monoteismo nella forma di un culto di Gesù equivale a scacciare il diavolo per mezzo di Belzebù”. Esattamente così sembrano aver pensato gli scribi e i farisei (Marco 3:22), ma non i proto-cristiani. Egli immagina una contraddizione tra il culto del Gesù precristiano e la dottrina che il proto-cristianesimo fosse un monoteismo aggressivo. Ma dove sta la contraddizione? Egli tralascia di dirlo. Nel frattempo, neppure Deissmann si felicita dell'espressione “il culto monoteista di Gesù”? La percezione di una contraddizione da parte di Windisch potrebbe sembrare drammaticamente acuta.
L'argomentazione dell'“Elemento didattico” viene da lui riassunta così: “Gesù ha detto qualcosa di diverso da Cicerone e Aristotele, ecc.; perciò Gesù non è una personalità storica”. Questa sintesi, ammette, è “grob gesagt”; in verità, è così inetta che si sospetta che possa trattarsi di un errore di stampa, un errore non di Windisch, ma del diavolo. La vera argomentazione è che i “Detti” non depongono a favore di una personalità unica, definibile e non inventabile, perché anche i detti più caratteristici non sono originali, ma sono adattamenti delle parole alate dell'antica saggezza; siccome si sarebbe potuto trovare naturalmente qualche traccia personale nei veri detti di un meraviglioso maestro umano, la sua assenza depone contro la storicità in questione. Questo ragionamento non è difficile da capire; perché Windisch preferisce farne una caricatura piuttosto che rispondervi?
Un altro allievo di Schmiedel è venuto coraggiosamente in soccorso dei Pilastri, i quali, è ammesso, “sono fortemente attaccati”, aggiungendo, al pari di Neumann, al loro numero (Meltzer, “Zum Ausbau von Schmiedels Grundsäulen” — Prot. Monatsh., 1911, H. 12, 461-476). Le sue aggiunte superano la prima serie, essendo circa una dozzina; e alcune di esse, che erano già da tempo venute in mente al sottoscritto, meritano una menzione, anche se né singolarmente né collettivamente possono sostenere il peso imposto su di loro. Windisch ammette che la raccolta di Meltzer “va passata al setaccio”, ma anche il più fine dei setacci non conserva nulla che valga la pena di dire. Tuttavia, questa seconda annata di Zurigo, solo in misura minore rispetto alla prima (perché “il vecchio è meglio”), richiede attenzione, essendo tra le “cosiddette” prove la meno invisibile. All'inizio, però, è estremamente interessante notare che lo stesso Windisch rinuncia ora a cinque dei nove brani originali (Marco 13:32; 15:34; Matteo 11:5; 12:32; 16:5-12) in quanto “non convincenti”; solo Marco 3:21; 10:18; 8:12; 6:5, egli lascerebbe ancora “contare”. Quando un pilastro come il grido sulla croce (Marco 15:34) viene abbandonato con riluttanza perché “non in grado di reggere” (nicht tragfähig), l'interesse e la fiducia nei pilastri “sono quasi svaniti”.
La seconda fila di colonne di Meltzer è così composta: Marco 10:40 = Matteo 20:23; Marco 14:33 = Matteo 26:37; Matteo 16:28; 24:30, 34; 11:20-24=Luca 10:12-18; Matteo 15:22-28; 11:19; Marco 3:22; 2:7; 12:35-37; 5:39; Matteo 5:9, 45; Marco 8:33; Luca 9:54 e seguenti. Aggiungi il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la stupidità dei discepoli, la svalutazione dei discepoli, la fuga dei discepoli. La nostra prima osservazione è che solo metà di loro si trovano in Marco. Ma dei nove pilastri originari, i quattro che ancora si reggono (anche secondo il giudizio di Windisch) sono tutti in Marco; tutti quelli che non sono in Marco sono ora respinti. È doppiamente improbabile, quindi, che una qualunque di queste nuove colonne non trovate in Marco si regga pure nel pensiero dei critici liberali.
Questi sei pilastri che sono in Marco, siccome non è possibile esaminarli tutti minuziosamente qui e ora, possiamo giudicare non dalla base, ma dalla cima, perché il principale è questo: “Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è stato preparato per altri” (Marco 10:40, traduzione di Burkitt). A prima vista, l'intera storia sembra essere un'invenzione relativamente tardiva, per quale motivo non è facile dirlo — forse per ambientare il grande detto circa l'umiltà (Marco 10:43-45)? Non abbiamo motivo di credere che anche l'oscura forma sinaitica — data sopra — sia l'originale, né qualcuno può dire quale fosse l'originale; notevoli cambiamenti sono avvenuti anche nel passaggio a Matteo. Ma, anche così com'è ora, è tutt'altro che chiaro che un adoratore del “dio Gesù” non avrebbe potesse averlo scritta. Infatti, costui avrebbe potuto distinguere, e distinse, il suo Dio-Salvatore dal Dio Altissimo, come si fa in Ebrei e altrove. Così l'Apostolo afferma esplicitamente che il Figlio deve regnare come Dio per un certo tempo, per poi diventare egli stesso soggetto al Padre (1 Corinzi 15:24-28). È inutile chiedersi: Come possono essere queste cose? Pochi o nessuno di noi può capirle; ma quanti possono capire gli spazi superiori o la relatività dello spazio e del tempo? È sufficiente che gli adoratori del “Dio Gesù” avessero effettivamente predicato e insegnato una serie di dottrine non unificate e semi-contraddittorie “riguardanti il Gesù”. Tali incoerenze hanno anzi infettato la teologia di tutte le epoche, compresa quella attuale. Omero non esitò a rappresentare persino il Padre degli dèi piegato al Fato, vincolato da un giuramento “che non potrà sciogliere nessun dio”. Dice l'oracolo (Erodoto, 1:91): “Al Destino stabilito non può fuggire neppure un dio”. Confronta anche Ebrei 6:17, 18. Sembra strano che Meltzer si appoggi a un simile pilastro. Quanto fosse facile per il pensiero antico, anche per il pensiero giudaico, distinguere tra un Dio molto alto e Dio Altissimo, lo si vede chiaramente nella strana dottrina di Meṭaṭron, così ricorrente negli scritti ebraici, che è puramente divino, che svolge le funzioni più divine, che reca persino l'ineffabile nome di Dio, e che tuttavia non va adorato non essendo Dio stesso. [8]
Sicuramente non c'è bisogno di dire altro circa il “Tradimento” e il lettore può tranquillamente valutare da sé le altre citate malefatte dei discepoli. Anche se incapaci di comprendere appieno un certo episodio, saremmo irrazionali ad adottare l'ipotesi di Meltzer; su questo punto Windisch è d'accordo almeno in parte con il sottoscritto, di cui dice (nel recensire Ecce Deus): “Con acume egli mostra, innanzitutto, che Schmiedel nelle sue proposizioni prova l'impossibile; ciò che per noi è una contraddizione non dovette affatto essere avvertito come tale dagli Evangelisti”. Solo sul Rinnegamento dobbiamo soffermarci per dire che sembra essere una delle storie più profondamente significative dei Vangeli; essa va valutata e compresa come parte integrante dell'intero ritratto di Simon Pietro, sia canonico che extra-canonico, soprattutto in relazione a Simon Mago, di cui pare una trasfigurazione ortodossa. Questa questione difficile richiede una trattazione speciale non possibile in questa sede. Ma accettare l'episodio come semplice Storia, senza sospettare alcun significato più profondo, e trovarvi una dimostrazione invincibile di storicità, equivale a trascinare all'estremo la semplicioneria.
Di questi nuovi fondamenti dobbiamo menzionare solo un altro, in cui anche Windisch riconosce il più “importante di tutti”: l'accusa di essere “un mangione e un beone” (Matteo 11:19); gli altri passi (Marco 3: 22; 2:7) non richiedono certo di essere segnalati. Al sottoscritto è parso a lungo che il versetto matteano (cfr. Luca 7:34) sia di gran lunga il più plausibile che gli storicisti possano produrre: perché sicuramente ghiottoneria e ubriachezza non sono caratteristiche divine, ma umane, fin troppo umane. Osserva però che il passo non è in Marco, e che è evidentemente soltanto attribuito a Gesù. Inoltre — e qui sta il nocciolo della questione — si tratta di una riflessione posteriore della comunità cristiana, quanto posteriore nessuno può dirlo. A questo punto siamo lieti di poterci appoggiare allo studio penetrante di Dibelius (Die urchristliche Ueberlieferung über Johannes den Täufer, 1911), che riconosce in quei versetti (11:18, 19) “l'interpretazione da parte della comunità di una parabola di Gesù”. Basta che essi non siano storici, né primitivi, né si riferiscano ad alcunché di storico in maniera sempliciotta. L'affermazione conclusiva, secondo cui “la Sapienza è stata giustificata dalle sue opere (i suoi figli tutti)”, indica che qui siamo in una regione difficile del pensiero gnostico, assai distante dai sentieri piacevoli della Storia reale.
Arriviamo infine all'ultimissima pubblicazione dell'onorato professor Rudolf Steck, su “L'Autentica Testimonianza di Giuseppe su Cristo” (Prot. Monatsh., 1912, 1-11). Scritta nello stile chiaro, erudito ed eccellente dell'autore, è dedicata principalmente ad affermare e ridiscutere la critica di Credner sul brano delle Antichità Giudaiche (10:9, 1) riguardante “Giacomo, il fratello di Gesù, il cosiddetto Cristo”. Non è necessario riaccendere la discussione. Poiché anche Zahn riconosce ora interpolato il passo (Forschungen z. G. d. nt. K., 6:305), la questione può essere accantonata. Ma Steck, pur riluttante ad ammettere l'interpolazione, intuisce che una siffatta singola menzione di Gesù senza alcuna spiegazione è intollerabilmente solitaria e altamente improbabile (pag. 8). Per questo lui si trova giustamente costretto a consultare ancora una volta la ben più famosa interpolazione (Antichità Giudaiche 18:3, 3) e, se possibile, a ricavarne qualche informazione. Fallite tutte le altre ipotesi, lui ripiega su quella del critico olandese Mensinga (Theol. Tijdschrift, 1883, 145-152), il quale, sentendo giustamente quanto sia difficile credere che Giuseppe potesse aver taciuto sull'uomo Gesù, si ritrovò indotto all'ipotesi che Giuseppe avesse detto qualcosa, cioè non solo che i cristiani credono nella natura e nell'origine divine di Gesù, ma che l'idea si fosse originata in un certo episodio storico poco edificante per la nuova fede (perciò espunto dai cristiani e sostituito dall'esistente paragrafo 3!). Seguirebbe poi, da parallelo, l'episodio di Paolina a Roma. Non sembra proprio necessario discutere quest'idea dell'olandese. Lo stesso Steck la afferma come una mera ipotesi, sulla quale si trattiene dal porre l'accento. Infatti, essa naufraga su un fatto evidente: il massacro degli Ebrei (descritto nel paragrafo 2) è seguito, nel paragrafo 4, dall'affermazione che “nello stesso tempo un secondo terribile fatto turbò i giudei”. Ma questo secondo (ἕτερον) evento è comprensibile solo se il paragrafo 4 segue il paragrafo 2, perché ἕτερος (come osserva giustamente Steck) è “l'altro dei due”. Ma Steck asserisce che δεινόν (terribile) non può riferirsi al massacro del paragrafo 2, ma deve riferirsi “propriamente a qualcosa di potente, di strano, di straordinario”: come pensa lui con Mensinga, a qualche scandalo circa Giuseppe e Maria! Questo è un mero dato di fatto e, con tutto il dovuto rispetto per il professore di Berna, dobbiamo insistere sul fatto che il significato principale e comune di δεινός è tremendo, terrificante, spaventoso, terribile, che deriva da δέος, allarme, afflizione, tremore, terrore. Omero dice del dio arciere: “Un tintinnio terribile venne dall'arco d'argento”. [9] Ciò dev'essere il significato qui, perché solo qualcosa di terribile (e non un pettegolezzo scandaloso circa due bifolchi) avrebbe “turbato (ἐθορύβει) i giudei”. L'ipotesi di Mensinga non piace davvero a nessuno, ed è semplicemente l'ultimo sotterfugio di Steck per salvare il brano circa il “fratello”, che a suo avviso va salvato se la storicità deve essere difesa in maniera plausibile. L'articolo di questo critico illustre è prezioso perché espone con chiarezza le esigenze della situazione liberale.
Riassumiamo, allora, la questione. Nonostante i frequenti riferimenti ai “suoi fratelli” nei Vangeli (e negli Atti 1:14), su di essi non è basata alcuna argomentazione seria a favore della storicità, salvo la prova-pilastro schmiedeliana già sufficientemente trattata. Vi rimangono solo i due brani paolini. Nel primo di questi (1 Corinzi 9:5) l'espresisone: “Gli altri Apostoli e i fratelli del Signore e Cefa”, combinata con gli appelli di parte espressi in 1 Corinzi 1:12, “Io sono di Paolo, io, di Apollo, io, di Cefa, io, di Cristo”, suggerisce molto fortemente, del tutto a prescindere da ogni questione di “storicità”, che qui abbiamo a che fare con una categoria dei nuovi settari, che “i fratelli del Signore” sono o identici oppure in linea con coloro che dissero: “Io sono di Cristo”. Anche se potrebbe non essere possibile dimostrarla rigorosamente, sembra una visione del tutto soddisfacente della questione, in ogni modo probabile e impossibile da smentire. Nel secondo brano (Galati 1:19) la frase è: “Giacomo, il fratello del Signore”. Ma se quanto è stato appena detto è corretto, non c'è nulla qui che ci faccia sorgere qualche dubbio. Giacomo fu semplicemente parte di una cerchia, forse molto elitaria e circoscritta, i cui membri per il loro fervore e la loro intensa devozione furono conosciuti come “fratelli del Signore”, o forse “di Cristo”. Tutto sembra spiegato adeguatamente e in pieno accordo con l'uso evangelico della frase “miei fratelli”. Inoltre, dobbiamo notare che le parole “fratello del Signore” suonano molto strane se indicassero in quei primi giorni un fratello in carne ed ossa di un uomo Gesù. “Il Signore” era il nome più alto per il Dio-Salvatore intronizzato e dominatore del mondo; esso denotava specificamente lo Jahvé dell'Antico Testamento. Sembra estremamente improbabile che in ogni caso un simile parente possa essere chiamato “fratello del Signore”. Sicuramente sarebbe stato altrettanto facile e molto più naturale chiamarlo “fratello di Gesù”. Il fatto che egli non sia mai chiamato così sembra propendere direttamente per il significato spirituale e allontanare direttamente dal significato carnale della parentela. Fortemente corroborante è il fatto ulteriore che nella molto più tarda interpolazione in Giuseppe non leggiamo più il “fratello del Signore”, ma “il fratello di Gesù, detto il Cristo”. Questo interpolatore del "“Giuseppe falsificato” (Zahn) intese senza dubbio una parentela carnale, e per questo dice, come dovrebbe dire, “fratello di Gesù”; così avrebbe scritto pure l'Apostolo se lui avesse inteso la stessa cosa.
Sembra, quindi, che il Nuovo Testamento non contenga alcun segno chiaro di siffatta parentela carnale, e tuttavia, se siffatta parentela fosse realmente esistita, sembra strano che non se ne trovi traccia; strano che né il padre, né la madre, né il fratello, né la sorella, né alcun altro parente di un tale uomo Gesù siano mai sentiti nominare in una menzione storica autentica o probabile. Meravigliosamente appropriate sono le parole di Ebrei (7:3): “Senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita”. Questo è il Gesù del cristianesimo primitivo.
Non è sembrato che valesse la pena citare l'energica tesi di Berendts, in Die Zeugnisse vom Christentum im slavischen “De Bello Judaico” des Josephus, 1906; (anche Analecta sum slav. Josephus, in Zeitschrift di Preuschen, 1908; pag. 47-70), secondo cui Giuseppe inserì nella prima edizione della sua “Guerra Giudaica” una nota elaborata di “Cristo e i Cristiani”, che poi espunse siccome “il corso dell'evoluzione spirituale del suo popolo si allontanò dal cristianesimo” (pag. 75), dal momento che anche i critici più comprensivi (come Schürer, Theol. Literaturzeitung, 1906, 262 e seguenti; e Case, pag. 260) intuiscono chiaramente che il suo zelo e la sua erudizione hanno fallito, e lo dichiarano.
Quale è allora, in definitiva, la testimonianza di Giuseppe? Il famoso paragrafo 3 è certamente un'interpolazione cristiana. Tutti gli sforzi, anche i più ingegnosi, per ritrovarvi qualche traccia di una testimonianza originale (ora cristianizzata) sono vistosamente falliti; e continueranno a fallire, poiché le parole d'esordio del paragrafo 4, un “secondo terribile fatto”, rimandano chiaramente e senza ambiguità al primo “terribile fatto”, il massacro descritto al paragrafo 2. Con ciò questi paragrafi sono auto-consistenti tra loro, e qualsiasi terzo paragrafo intermedio è escluso.
Ma quando questo paragrafo è abbandonato, così lo è anche l'altra frase in questione, “fratello di Gesù”, ecc., per altre ragioni e perché Giuseppe difficilmente avrebbe introdotto una nota così isolata. Risulta quindi che questo storico ebreo di quel tempo e di quel paese non fa alcuna menzione di Gesù: un fatto inspiegabile anche per gli stessi Historiker, secondo la loro stessa ipotesi. Da qui la loro strenua difesa dell'indifendibile. Ringraziamo il professor Steck per il suo articolo abile e onesto. Sembra che ogni nuova indagine confermi sempre più efficacemente la concezione delle Origini del cristianesimo qui esposta.
NOTE
[1] Però è necessario apportare una modifica alla valutazione di Schwen della situazione generale: "“Si tratta di un'interpretazione completamente nuova della storia religiosa al tempo degli imperatori romani, dell'abbattimento sia del cristianesimo liberale che di quello conservatore”. Chiaramente Schwen intende la teologia, o l'interpretazione del “cristianesimo”. Il cristianesimo stesso, vero, autentico, primitivo e militante, non subisce alcuna violenza in questi volumi.
[2] In un prossimo numero dell'Open Court.
[3] A questo proposito ci viene in mente l'avvocato che dichiarò: “E ora, Vostro Onore, se questa argomentazione viene respinta in quanto non valida, ne ho un'altra che è altrettanto conclusiva”.
[4] Con ciò, si è ben lungi dall'affermare che, persino nei minimi dettagli, tali critici abbiano finora prevalso in ogni singolo punto di attacco. Al contrario, il loro fallimento evidente e universale sembra essere variamente ammesso nei loro stessi ranghi, come già indicato in punti diversi di questo volume; anzi, a giudicare dal temperamento mostrato troppo spesso, deve essere un malcelato segreto per questi stessi critici; perché è una profonda massima etica in diritto, e sicuramente molto di più in teologia, quella di denigrare solo l'avversario che tu non puoi confutare.
[5] Se Windisch ritiene prematura la pubblicazione di tali saggi, allora si trova in disaccordo con Pfleiderer e con altri maestri di questo tipo, per la cui sollecitazione essa fu intrapresa.
[6] Vedi pag. 296 supra.
[7] “Et sepultus resurrexit; certum est, quia impossibile est” (De Carne Christi 5).
[8] Vedi il mio articolo nell'Open Court di luglio 1912.
[9] “E risuonò spaventoso, il ronzio dell'arco d'argento”. — Walter Leat.