domenica 13 gennaio 2019

«Il Dio Gesù» (di Paul-Louis Couchoud) — Gesù l'Uomo-Dio (I)



Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?

(Kent Murphy)

 Mito di Cristo 

Mito di Cristo
follia dell'uomo
che incendi l'anima
che esalti l'illusione
che inibisci le pulsioni
che persegui l'impossibile
mito di Cristo
che frantumi
l'arcano sogno
unico pungolo di menzogna
non accecare ancora
(G. Ferri)


Prima di Wells, il miticista le cui opinioni erano più vicine alla mia, fu Paul-Louis Couchoud che scrisse negli anni venti, anche se ho preso il mio libero approccio al problema e ho derivato pochissimo dallo stesso Couchoud.
(Earl Doherty, fonte)

Per la Fede in un Gesù storico la vita è semplice: dilaga finché può. Poi smette. Prima o poi, un giorno o l'altro, questa Fede, instancabile e tenace, cessa in modo del tutto autonomo e il suo contrario, il Dubbio, prende ad attanagliare lo spirito e la mente, visibile dall'esterno sotto forma degli stessi testi che, solo un attimo prima, avevano supportato la Fede. Tutto questo mentre interpolazioni si denunciano, correzioni si scoprono, derivazioni si portano in luce, nuove interpretazioni irrompono, datazioni si aggiornano, paternità si modificano. I cambiamenti intercorsi in questo primo tempo avvengono così lentamente e sono compiuti con tale miscuglio di sicurezza e inconsapevolezza da avere in sé qualcosa di rituale. Come se la Fede capitolasse nel Dubbio seguendo regole precise, una specie di metamorfosi convenzionata, a cui si adeguano perfino i Dubitatori, gli scettici, i minimalisti — propriamente, i miticisti — mentre attendono che la Fede si ritragga per dare inizio all'invasione di questo nuovo paradigma in sostituzione del vecchio. Questa nuova rivoluzione copernicana è irrevocabile. Niente può fermare il Dubbio che comincia a diffondersi attorno al Gesù di Paolo e dei primi apostoli cristiani. Se ci avesse provato soltanto sul Gesù di carta (quello, per intenderci, dei vangeli) avrebbe incontrato resistenza, nella misura in cui delle leggende umane non provano né dimostrano alcunché sulla consistenza storica dell'eroe loro protagonista, ma adesso che intorno al Gesù di Paolo, dell'epistola agli Ebrei, di Apocalisse, tutto è silenzioso e immobile, nessun riferimento biografico terreno viene dato, ma tutto di Gesù è così, in una parola, mitologico, il Dubbio penetra sempre più profondamente in tutta quella figura, in tutta quell'oscurità che gli fa da alone come sua seconda natura. Il Dubbio raggiunge ogni singolo tratto di Gesù che emerge da quelle lettere e apocalissi. Raggiunge perfino i passi che, prima facie, avrebbero potuto essere presi per riferimenti ad un uomo storico, e che ora, secunda facie, possono ricevere plausibili interpretazioni all'insegna del mito. E raggiunge l'essenza di quel Gesù.
Ancora intatto, senza neppure necessità di assumere interpolazioni (fatta eccezione per 1 Tessalonicesi 2:14-16) ma depredato da ogni certezza di una consistenza storica, che solo un attimo prima supportava la Fede nella sua implicita storicità, quel Gesù ha in sé ora una impersonalità strana, come un idolo che i suoi adoratori hanno dovuto abbandonare in fretta e furia, lasciandolo immobile e inutile. 

Nell'attimo stesso in cui la Fede in un Gesù storico abbandona il Gesù storico, il Gesù di Paolo e dei primi cristiani appartiene al mondo degli spiriti e degli esseri invisibili. E l'invisibile e l'inesistente si somigliano molto.

Al contempo non è facile stabilire con precisione che cosa, all'insorgere del Dubbio, scompaia effettivamente dalle lettere di Paolo, dalla lettera agli Ebrei, dall'Apocalisse. Non può essere un Gesù considerato “storico”: gli autori di quei testi credevano per davvero nella sua esistenza “storica”, proprio come nell'esistenza “storica” di Satana, di Melchisedec, di sinistri “arconti di questo eone”... 

Se il Gesù storico è concetto tutto moderno, estraneo a quei testi, perché tutto questo disagio davanti al loro Gesù invisibile? Questo significa che esiste una contraddizione tra la nostra idea di Gesù storico e come Gesù si manifesta veramente negli scritti di Paolo, il che in sostanza implica quanto segue: l'elemento pregnante in questo contesto è che la nostra idea di Gesù storico è talmente ancorata nella nostra coscienza occidentale, al risveglio da 2000 maledetti anni infetti da cristianesimo “storicista” — il quale ha sempre anteposto e sovrapposto i vangeli alle epistole —, che non soltanto rimaniamo scossi quando vediamo che l'effettiva realtà delle lettere di Paolo se ne discosta completamente, ma tentiamo anche di nascondere questo fatto con tutti i mezzi. Ciò non è soltanto il tipico modus operandi dei folli apologeti cristiani (come questo colossale idiota), no, è il modo in cui ci si sottrae solitamente al problema costituito dall'ENORME SILENZIO INTORNO AD UN GESÙ STORICO NEGLI SCRITTI DI PAOLO E DEI PRIMI CRISTIANI, partendo da una necessità che nessuno è in grado di motivare, ma che tutti conoscono: se Paolo è così sorprendentemente silente sull'uomo che gli ha cambiato la vita, se l'autore di Ebrei è così inaspettatamente silente sull'uomo che gli ha cambiato la vita, se l'autore dell'Apocalisse è così improbabilmente silente sull'uomo che gli ha cambiato la vita, e, quello che conta più di tutto, se il Gesù di Paolo è concepito dall'Apostolo dei gentili in maniera così strettamente identica al Gesù dei cosiddetti “Pilastri” (anteriori a Paolo e perciò i veri originatori della setta misterica) — divergendo da loro solo in materia di Torà — allora la minaccia alla Fede nel Gesù storico è evidente. 

L'immagine del Gesù di Paolo che subentra irrimediabilmente al tramonto ineluttabile di quella Fede non ha né peso, né estensione, né più di tempo e di luogo, non ha nessun legame con un ipotetico ebreo palestinese del I secolo, ma lo nega

Quest'immagine è stata lasciata, più o meno deliberatamente, scivolare attraverso di noi per poi sparire, e se per motivi diversi rimane impressa dentro di noi, vive un'esistenza propria celata nelle oscurità del nostro cervello, con tanto di rapide quanto goffe razionalizzazioni ad hoc tipicamente “usa e getta” (e degne semmai di questo cretino): “Paolo, Ebrei e Apocalisse non accennano a un Gesù storico perché se ne fregano, perché tutti sapevano chi fosse, perché ne sono imbarazzati” e altre stronzate del genere.

I nostri più sinceri interrogativi, invece di sgorgare in ritmo, si trascinano nelle bassezze delle folli armonizzazioni o si sfigurano sotto il ghigno dei nostri sistemi precostituiti, famigeratamente bramosi di qualcosa come un “Gesù storico” come loro ipotesi portante ineliminabile. 

Più intravediamo che il Gesù di Paolo è il Gesù dei cristiani che precedettero Paolo, più ci avviciniamo ad esso, e più lo fuggiamo: tutti noi tremiamo al pensiero di dover un giorno urlare, come il bambino della nota favola, “il Re è nudo!”, mentre il Dubbio continua a tracciare sopra le nostre vecchie certezze storiciste un lancinante punto interrogativo…

Quello che conta ora sono le sensazioni di Paolo, la sua intensità, la sua capacità di precipitare in una demenza consacrata. Chi ha intravisto in lui questi stati mistici sa che il suo Gesù vi perde il senso abituale che avremmo voluto imporgli indotti a ciò dai vangeli: il suo Gesù sale verso l'abisso, viene impalato dai demoni, discende verso il cielo. Dove siamo? Domanda che non ha più ragione d'essere: il Gesù di Paolo e dei primi cristiani non ha più un luogo

In quel non-luogo dove Gesù, per Paolo e i primi cristiani, subì la sua prova suprema inchiodato a un palo, ogni cosa era sottoposta a forze che non conoscevano alcuna legge o ragione, e niente possedeva la propria natura o essenza ma era soltanto una maschera sulla faccia dell'oscurità assoluta, un'oscurità che nessuno aveva mai visto. 

L'alterità irriducibile del Gesù di Paolo rispetto a qualsiasi altro Gesù anche solo leggermente più umano è ben denunciata, in tutta la sua titanica vastità, da P.-L. Couchoud, in un libro che mi onora del suo stesso autografo:
“A Daniel Haléry,
en bon souvenir et fidele admiration,
je presente cet Anti-Renan,
essai de bonne foi sur le plus haut
probléme de l'histoire
P. - L. Couchoud”

Concepito, dai primi cristiani, come “Uomo in forma celeste”, per Couchoud Gesù non potrà per l'eternità acquisire l'umanità terrena che si pretende per un Gesù storico, non importa quante “Vite di Gesù” possano essere scritte nel frattempo da credenti o da non-credenti.

Mi ricorda, questo Gesù non-antropomorfizzabile a priori (pur essendo concepito come Uomo arcangelico, l'equivalente ebraico di un dio greco-romano), il protagonista di un libro di Vladimir Nabokov, “Cincinnatus. C.”, intitolato “Invito a una decapitazione”

Entrambi non possono conciliarsi ontologicamente con il mondo nel quale si pretende e si esige che siano vissuti. Cincinnatus è in prigione e verrà, a data da sapersi, decapitato. Il suo crimine? Gettare un'ombra sul terreno, fare resistenza alla Luce (di un dio bastardo?), in un mondo dove gli esseri umani hanno tutti un corpo trasparente e si fanno trapassare volentieri da essa.  La colpa di Gesù, il motivo per cui lo storico serio deve espungerlo dalla Storia, è piuttosto simile, ma inverso: un arcangelo celeste, un “uomo in forma celeste”, non può mai essere esistito tra normali esseri umani. Ma l'alterità di Cincinnatus è ben più di questa: lui è la negazione nichilistica della realtà che lo circonda. Lui è l'assoluto Non-Essere. Per il demente sant'Agostino, il Male è Privazione di essere. Il serpente della Genesi è del giardino del Creatore ma in realtà è estraneo al Creatore e alla sua creazione. Così Cincinnatus è effettivamente la negazione del reale che lo circonda e per questo, solo per questo, sarà decapitato.
Il libro si trascina per 19 tediosi capitoli nella noia nauseante e claustrofobica di un Cincinnatus che viene allettato e viziato in tutti i modi dalle lusinghe dei suoi carcerieri, dei suoi parenti, dei suoi amici: ballano con lui, giocano con lui, cantano con lui, scherzano con lui, ridono con lui, passeggiano con lui, ma niente. La sua alterità è un fatto. 

Sennonché, al momento della decapitazione:
“Faccio da solo, faccio da solo” disse Cincinnatus e si distese a faccia in giù, come gli avevano mostrato, ma all'improvviso si coprì la nuca con le mani.
“Che sciocco ragazzo” disse M'sieur Pierre da sopra. “Se fa così, come posso... (sì, me la dia qui; e subito accanto, il secchio). Allora? E come mai tutti questi muscoli così contratti? Non ci deve essere la minima tensione. Perfettamente rilassato. Tolga le mani, per favore... (la dia a me, adesso). Stia assolutamente calmo e conti a voce alta”.
“Fino a dieci” disse Cincinnatus.
“Come ha detto, amico mio?” replicò M'sieur Pierre, come se volesse farsi ripetere la frase, e a bassa voce aggiunse, già cominciando ad ansimare: “Un passo indietro, signori”.
“Fino a dieci” ripeté Cincinnatus, allargando le braccia.
“Non sto facendo ancora niente” disse M'sieur Pierre, con una nota nuova nella voce, una specie di ansimo, e l'ombra del movimento rotatorio del braccio già correva sulle assi quando Cincinnatus si mise a contare con voce alta e ferma: un Cincinnatus contava ma l'altro aveva già smesso di ascoltare il suono di quell'inutile conteggio che svaniva in lontananza; e, con una chiarezza mai sperimentata prima — all'inizio quasi dolorosa, tanto era improvvisa, ma che poi aveva soffuso di gioia tutto il suo essere —, si chiese: perché sono qui? Perché sto disteso in questo modo? E dopo essersi posto queste semplici domande, ad esse rispose alzandosi e guardandosi intorno.
Tutt'attorno regnava una strana confusione. Attraverso i fianchi del carnefice ancora avvitati nella torsione si vedeva la balaustra. Seduto sui gradini, il pallido bibliotecario, piegato in due, vomitava. Gli spettatori erano assolutamente trasparenti, e del tutto inutili, e continuavano a rifluire e ad allontanarsi — solo quelli delle ultime file, che erano dipinti, restavano al loro posto. Cincinnatus scese con lentezza dal palco e se ne andò tra quei detriti in movimento. Venne raggiunto da Roman, che ora appariva molto più piccolo ed era, al contempo, anche Rodrig: “Che cosa fa?” gracchiò, saltando di qua e di là: “Non può! Non può! E' disonesto verso di lui, verso tutti... Torni indietro, si metta giù — insomma, era già disteso, era tutto pronto, era tutto finito!”. Cincinnatus lo ignorò e lui con un grido desolato corse via, già preso solo dal pensiero della propria salvezza.
Della piazza rimaneva ben poco. Il palco era crollato ormai da un pezzo in una nube di polvere rossastra. L'ultima a passarvi accanto di corsa fu una donna con uno scialle nero, che portava in braccio, come una larva, il piccolo carnefice. Gli alberi caduti giacevano a terra appiattiti, senza rilievo alcuno, mentre quelli rimasti ancora in piedi, pure bidimensionali, con di lato l'ombra del tronco a suggerirne la rotondità, a stento restavano aggrappati con i rami alla maglia lacerata del cielo. Tutto stava andando in pezzi. Tutto stava cadendo. Un vento vorticoso sollevava e faceva turbinare polvere, stracci, schegge di legno dipinto, pezzetti di gesso dorato, mattoni di cartapesta, manifesti; rapida trascorreva un'arida oscurità; e in mezzo al turbinio della polvere, agli oggetti che cadevano, allo scenario sbatacchiato dal vento, Cincinnatus s'incamminò verso il luogo dove, a giudicare dalle voci, c'erano esseri simili a lui.
(pag. 220-222)
Come Cincinnatus, lascia che anche Gesù si incammini verso il luogo dove, a giudizio di Paolo, “c'erano esseri simili a lui”. Se Gesù è concepito come un “uomo in forma celeste” fin dall'origine del cristianesimo, allora è inutile sforzarsi di vedere la storicità perfino in quei racconti dove a quest'“uomo in forma celeste” lo si fa camminare e predicare in Galilea e in Giudea. È, in realtà, impossibile a priori, a meno di far torto alla sua concezione originaria, e in tal caso trattasi di operazione fraudolenta, oltre che posteriore rispetto al tempo delle Origini.
Nell'ebraismo non c'è un esempio simile. I vari Giuda, Teuda, l'“Egiziano”, non furono considerati messia dopo la loro morte. Giovanni il Battezzatore fu considerato il Messia dai suoi seguaci, data la testimonianza di pseudo-Clemente:
Ma anche tra i discepoli di Giovanni, quelli che si credevano grandi si separarono dal popolo: facevano passare il proprio maestro come se fosse il Cristo. Ora, tutti questi scismi erano ordinati a impedire sia la fede in Cristo che il battesimo.
Ma ecco ancora un discepolo di Giovanni saltar su a dire che era Giovanni, il Cristo, e non Gesù, tant'è vero che fu proprio Gesù ad affermare che Giovanni era più grande di tutti gli uomini e profeti. Ora, se è più grande di tutti, non c'è dubbio che bisogna considerarlo più grande anche di Mosè e di Gesù stesso e che, di conseguenza, essendo il più grande di tutti, era lui il Cristo.
La risposta gli giunse da Simone il Cananeo che fece questa osservazione: “Certamente Giovanni è stato più grande di tutti i profeti e di tutti i nati da donna, ma non era più grande del Figlio dell'uomo; ed è perciò Gesù che è anche Cristo, mentre Giovanni è stato solo profeta; e la distanza che corre tra questi e Gesù è la stessa che corre tra un precursore e la persona che lui annuncia, o ancora: tra uno che dà la Legge e un altro che la Legge la compie”. Questi concetti disse, con altri analoghi, e poi zittì.
(Pseudo-Clemente, Ritrovamenti 1:54, 60)
Egli fu considerato risorto dai morti (lo sappiamo dal fatto che “Marco” tradisce dell'enfasi alquanto troppo interessata nel prendersi il disturbo di sottolineare un'azione di per sé altrimenti del tutto inutile da riferire, ma niente affatto inutile se il suo scopo era di negare delle voci scomode su un Giovanni risorto: “I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”, Marco 6:29) ma non fu considerato un arcangelo celeste e un Cristo cosmico, se non in termini polemici, nel vangelo di Marcione. Simon Mago è l'unico esempio di un uomo deificato in ambiente ebraico ancorché samaritano (ma noi non siamo razzisti, vero?), ma Simon Mago non è mai esistito: fu più probabilmente un dio evemerizzato oppure la mera parodia di Marcione. E ad ogni caso, anche se fossero esistiti personaggi come Simon Mago e Menandro, e persino se fossero stati adorati come dèi sulla terra, come afferma il folle apologeta proto-cattolico Ireneo sul loro conto:
 Egli afferma che la prima Potenza è sconosciuta a tutti; egli poi è il Salvatore mandato dagli invisibili per la salvezza degli uomini. Il mondo è stato fatto dagli angeli, che egli, come Simone, dice emessi dal Pensiero. Grazie alla magia da lui insegnata è data la conoscenza per poter vincere gli stessi angeli che hanno creato il mondo.  (Ireneo, Contro le eresie, I 23, 5)
...si adorava “il Cristo in loro”, non loro stessi.

Se non dagli ebrei di Giudea, almeno dagli ebrei della Diaspora si poteva fare un'eccezione alla regola? La possibilità è esclusa in anticipo da Filone di Alessandria, proprio lui che non ebbe eguali, tra i suoi connazionali, nell'assorbire influenze ellenistiche:
Non si trattava affatto di una scelta priva di conseguenze, ma della più grave di tutte: fare di un uomo, di un essere generato e mortale l'equivalente dell'Essere increato ed eterno! I giudei giudicarono che fosse l'apice dell'empietà e della profanazione.
(Filone, Ambasciata a Gaio, 17:118)
Come scrive Couchoud:
Si sarebbero offerti alla morte piuttosto che dire che l'imperatore fosse dio. Loro vi si sarebbero offerti, se fossero stati costretti a dirlo di Mosè, di Elia. Avrebbero fatto un'eccezione per il nabì galileo? Certo che no! La deificazione di un uomo è perfettamente inconcepibile in un tale contesto.
(pag. 60-61)
Lo stesso Plinio il Giovane attesta nel 112 E.C. che i cristiani adoravano “Cristo come un dio”.
Plinio il Giovane, tuttavia, che ha dovuto giudicare, nel 112, dei cristiani di Bitinia e del Ponto, riferisce a Traiano che all'alba, essi cantano un inno a Cristo come a un dio (quasi deo), cioè vale a dire, secondo il rito usato non per gli eroi, ma per gli dèi. Questo sembra ignorare l'idea di una morte eroica. In ultima analisi l'Uomo-Dio Christus ci è noto solo dai cristiani.
(pag. 36, mia enfasi)
Se Plinio nel 112 E.C. era ancora del tutto ignaro del concetto di un Gesù storico, non così Tacito nemmeno una decina d'anni dopo (se il Testimonium Taciteum, scritto nel 118 E.C., è autentico), così provando che nel frattempo, in quel lasso di tempo, tra il 112 e il 118 E.C., il Più Antico Vangelo aveva introdotto per la prima volta nella propaganda cristiana l'idea che Gesù fosse stato crocifisso da Pilato

Prima di quell'idea, infatti, i cristiani non credevano che la crocifissione di Gesù fosse avvenuta nei pressi di Gerusalemme, o da qualche parte in Giudea. 
Perché non avrebbe avuto luogo sulla terra? L'autore di Ebrei, idealista se mai vi fosse stato uno, non arriva affatto fino a questa conclusione. Per lui, il sacrificio sacerdotale di Gesù, per quanto sia temporale, non è affatto un avvenimento di questo mondo. Ha avuto luogo fuori dal mondo e i cristiani devono uscire dal mondo se vogliono incontrare il Crocifisso: “Gesù patì fuori della porta della città per santificare il popolo. Usciamo dunque anche noi fuori dal campo per andare verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile (13:12).
(pag. 179)
Cosa spinse, tra mille altri fattori noti e ignoti, a inventare completamente a tavolino una Non-Vita sulla Terra per un “uomo in forma celeste”, mai veramente esistito sulla terra? 

Secondo Couchoud, nella concezione dei cristiani, Gesù cominciò ad assumere veramente carnalità, e non solo a rassomigliarla come aveva sempre fatto fino ad allora, a partire non dalla nascita, ma dalla resurrezione, per poi estenderla, brandelli di carne alla volta, a ritroso, via via indietro, fino ad acquisire finalmente una nascita pienamente umana, ancorché perfino allora una nascita “immacolata”.

Mentre per Pietro e per Paolo Gesù fu soltanto “in forma di uomini” (vedi il pre-paolino Inno ai Filippesi), l'evoluzione doveva scatenarsi, dopo il 70 E. C., da un Gesù risorto “nella carne” ad un Gesù crocifisso “nella carne”, prima di giungere ad un Gesù vissuto “nella carne” e infine nato “nella carne”. Perché tanta enfasi “nella carne” era necessaria, soprattutto a partire dalla resurrezione per poi estendersi su tutta la vita di Gesù?

Couchoud ci spiega freddamente il perché: 
Paolo infine, guidato e ossessionato dalla sua grande antitesi tra la carne e lo spirito, riconosce in Gesù un corpo piuttosto che una carne. Dio ha mandato suo Figlio “in una rassomiglianza a carne di peccato” (Romani 8:3) perché in questa falsa rassomiglianza di carne il peccato fosse annientato. Il corpo stesso di Gesù, quello che è assiso alla destra del Padre, che viene distribuito ai fedeli nell'Eucaristia, che è costituito in pieno dalla massa degli eletti, è di spirito e di gloria, non di carne. Spirituale ma non carnale, celeste non terreno, sarà il corpo della nostra resurrezione: “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio né la corruzione può ereditare la incorruttibilità” (1 Corinzi 15:50). Ma ora che i martiri soffrono nel profondo della carne ferite e torture, che sostengono nella carne il combattimento mortale, non sembra più giusto che la loro carne sia annientata. Le chiese rivendicano, contro l'insegnamento di Paolo, la resurrezione della carne. E se Gesù è il modello supremo dei martiri, conviene (questa piccola parola conviene, quindi, da dove la teologia intera può scaturire) conviene che Gesù abbia avuto, nella sua morte e nella sua resurrezione, una vera e propria carne. Per poter compatire le nostre infermità, per divenir solidale con noi, conviene che sia stato sottomesso alle stesse prove e tentazioni, agli stessi tormenti dei martiri. Il salmo 22: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?...” che ha garantito a Paolo la visione della Crocifissione, ha ispirato di più al successore di Paolo quella di un'agonia di angoscia: “Lui (il Figlio di Dio) nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime offrì preghiere e suppliche a Colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà; benché fosse Figlio, imparò l'ubbidienza dalle cose che soffrì” (5:7). Gli evangelisti seguiranno la via così aperta. Essi non avranno paura di sottomettere il Figlio di Dio a delle tentazioni, di mostrare in lui le sofferenze della carne per accrescere la vittoria dello spirito. In lui si uniranno la divinità e la carne (il Verbo si è fatto carne). Anche a questo proposito l'Epistola agli Ebrei si colloca al centro del percorso che va da Paolo ai vangeli.
(pag. 179-180, mia enfasi)
Così il nome di Ponzio Pilato fu scelto, tra tutti i governatori romani, come killer del Gesù di carta, perché la sua insensata ferocia, ben documentata da Flavio Giuseppe, garantiva una reale sofferenza per un “reale” Gesù “nella carne”. Dire che “Gesù patì sotto Ponzio Pilato” equivaleva a dire che “Gesù patì veramente nella carne” (come sbraitava con la bava alla bocca, contro i doceti, il folle apologeta proto-cattolico pseudo-Ignazio), dunque la sua carne meritava un sollievo nella resurrezione carnale, proprio come quella dei cristiani perseguitati dalle autorità romane dopo il 70 E.C. Paradossalmente, quindi, occorre ribaltare l'argomento preferito dai folli apologeti cristiani (come questo colossale cretino): non è vero che Gesù esistette veramente perché i cristiani testimoniarono con la vita stessa la fede nella sua esistenza, ma piuttosto il contrario. Proprio perché i cristiani testimoniarono con la vita stessa la fede nella sua esistenza, i cristiani per primi bisognarono di un Gesù risorto “nella carne”, e perciò parimenti vissuto “nella carne”, per essere confortati dalla speranza di una resurrezione della loro stessa “carne”. Umano, troppo umano! Quanto fu più superiore di loro Paolo l'Apostolo, che soffrì le persecuzioni “nella carne” senza aver affatto bisogno di un Gesù risorto “nella carne”

Ammirazione a parte, ciò che proprio non capisco di Couchoud, è la stima e il rispetto che lui nutriva verso i folli apologeti cristiani del suo tempo: verso non solo gli storicisti atei che andavano per la maggiore in Francia (Loisy e Guignebert), ma anche verso gli stessi teologi sotto mentite spoglie di storici (quali Padre de Grandmaison, Lagrange, Goguel, Daniel-Rops, ecc).

Per me, a differenza di Couchoud, chi insegna presso un istituto religioso (o in qualche modo affiliato con una organizzazione religiosa) è a priori un ipocrita, un essere falso, non importa quanto possa risultare simpatico o affabile nella vita privata. In qualunque istituto del genere io respiro puzza di ipocrisia, untuosità più o meno affettata, più o meno larvata, affettazione da tutti i pori, falsità strisciante. 

In un ospedale, per quanto dotato dei migliori medici, dei migliori attrezzi, delle migliori infermiere, dei migliori comfort per i pazienti, non si riesce a respingere, ad esorcizzare del tutto, la puzza di Morte che vi regna, velim nolim, al suo interno, specie a fronte dei casi clinici più disperati che sfortunatamente, prima o poi, sono destinati a sopraggiungere. Ma questa puzza di Morte non è causata dall'uomo. Mentre in un istituto che si pretende “scientifico” ma che è condizionato puntualmente dalle varie lobby cristiane (mettici qui ovviamente lo zampino del Vaticano), la puzza di ipocrisia che vi si respira è deliberata nella misura in cui i presunti “accademici” devono per forza insegnare che Gesù è “probabilmente esistito”, pena altrimenti l'immediato licenziamento. Parafrasando il demente pontefice regnante, direi proprio “meglio essere atei, piuttosto che folli apologeti cristiani”.

L'ultima e definitiva “eresia”, il miticismo, non potrà mai e poi mai penetrare in un istituto cosiddetto “scientifico” ma popolato da cristiani, ex-cristiani, filo-cristiani, cripto-cristiani, che sono appunto pagati PER ESSERE TUTTO FUORCHÈ MITICISTI.

Parimenti una casa editrice loro affiliata non potrà mai pubblicare libri che conducono serie indagini storiche sotto la tesi della non-esistenza storica di Gesù.

I folli apologeti cristiani sono PERSONE FALSE per definizione. IPOCRITE, LARVATE DA CIMA A FONDO DI IPOCRISIA DELLE PEGGIORI CHE IO ABBIA MAI CONSTATATO A MEMORIA D'UOMO. La loro vita non è più preziosa di quella di un animale. Il massimo che potrei fare con loro, dovessi averne personalmente a che fare, è ricambiare ipocrisia con ipocrisia, sarcasmo con sarcasmo, con opportune frasi di circostanza giusto il tempo di seminarle il più celermente possibile.

Pertanto, come possono mai avere ricevuto la stima di Couchoud? È un autentico mistero. Aggravato dal fatto che Couchoud definisce il miticista tedesco Arthur Drews “un po' filisteo”. Ma come cazzo si permette? Conosco il Drews (avendone tradotte alcune opere) e ne apprezzo l'onestà intellettuale. Come di grazia possa essere definito lui “un po' filisteo”, è totalmente al di là di me! 

Quanto ai vangeli, Couchoud ritratta la tesi, da lui avanzata in un libro precedente, della priorità marcionita. Il vangelo più antico è quello di “Marco”.
In questo vangelo, i demoni sono i soli a conoscere Gesù.
Gli Arconti-demoni sono sostituiti dai capi degli ebrei, che non riconoscono affatto il Figlio di Dio e che costringono Pilato a crocifiggerlo. Sulla croce, Gesù dice: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Luca 23:34). Saranno beffati e puniti quando il Romano prenderà e distruggerà la loro Città. Il tema visionario è molto riconoscibile.
(pag. 186) 

Questo avvicina Couchoud alla tesi recente del miticista R.G. Price, secondo il quale:
Gli ebrei uccidono Gesù; perciò, Dio distrugge gli ebrei. Questa è la sintesi dell'intera storia allegorica.
(R.G. Price, Deciphering the Gospels: Proves Jesus Never Existed, pag. 26, mia traduzione, mia recensione qui)

In ogni trattamento dei vangeli, Couchoud fa notare l'irriducibilità totale di un “uomo in forma celeste” rispetto alla nuova concezione che lo vuole uomo tra uomini, pur non riuscendo neanche allora ad eliminare fino in fondo, la divinità che è nel suo DNA di personaggio letterario, e che è anche la causa prima del Dubbio circa la sua esistenza storica, che irriducibilmente è destinato a portarsi seco.
Un Gesù può essere collocato sulla terra solo facendo torto alla sua concezione originaria di “uomo in forma celeste”. In qualsiasi narrazione dove si colloca Gesù in un contesto umano, fosse anche addirittura per denigrarlo e dipingerlo come un bastardo terrorista, il solo fatto che si tratti di lui, fa dubitare a priori della storicità del racconto, proprio come si dubiterebbe a priori della storicità di un racconto terreno e umano avente per protagonista Dioniso, o Mitra, o Demetra, o Osiride, o Attis, o qualsiasi altro dio che muore e risorge di età ellenistica. 

Perfino nell'estremo caso in cui sono dei cristiani stessi a insistere fieramente sulla mera umanità — e non divinità — di Gesù, come fu storicamente il caso con gli ebioniti, per i quali:
Gesù era un uomo come tutti gli altri.
(pseudo-Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, 23)
...ebbene, perfino in quel singolare caso, il loro Gesù completamente uomo appare del tutto mitologico, del tutto teologico, essendo la loro totale abdicazione della divinità di Gesù fatta — tanto per cambiare— in nome dell'ostilità teologica verso chi, al loro medesimo tempo (II secolo E.C.) stava arrivando a eguagliare Gesù, blasfemamente ai loro occhi, con Dio stesso, e non semplicemente con il suo Figlio (“Io e il Padre siamo una cosa sola” — Giovanni 10:30). I veri giudeo-cristiani che riflettono la concezione originaria più antica in assoluto dei “Pilastri” Giacomo, Cefa, Giovanni sono quelli dietro il testo dell'Apocalisse, col suo Gesù Agnello e guerriero celeste, spirante odio anti-romano e teologico contro i romani e i cristiani paolini. Gli ebioniti sono al più una loro tarda evoluzione in senso storicista.

L'effetto sortito dal Gesù inserito artificialmente in una narrazione apparentemente di fatti e dialoghi umani, sulla Terra, è il medesimo suscitato nel vedere un Maometto raffigurato in un dipinto islamico, come questo:

Gli si può far commettere l'azione perfino più imbarazzante — nell'immagine, si vede Maometto permettere la decapitazione di un suo nemico sconfitto — eppure il fatto che non viene raffigurato il volto del “Profeta” (è proibito farlo), la fiamma bianca che lo avvolge, fa avanzare dei seri dubbi sulla sua presenza effettiva, “storica”, in quel contesto, alla faccia di tutto l'imbarazzo possibile sollevato dal riferimento ad una macabra decapitazione.

Questo per dire che la sola presenza di un essere così divino (= così mitologico) in un contesto altrimenti poveramente “realistico”, è distruttiva, disgregante, dirompente, destabilizzante, deleteria, rispetto a quel contesto. Un essere divino (= mitologico) e un contesto terreno sono due insiemi indipendenti, irriducibili, come l'olio non si scioglie nell'acqua. È una contraddizione in termini. Oppure solamente una leggenda umana di un “uomo in forma celeste”. Si ha bisogno di prove esterne indipendenti per credere alla storicità di un personaggio simile, non il mero sentito dire dei suoi adoratori sulla terra. Nel caso del Maometto storico, sembra che ci siano. Nel caso di Gesù non ne esiste nemmeno una, che non sia stata debitamente confutata dalla critica.

E così, il Gesù di carta si assottiglia e quello, più limitato, che definiamo astrattamente “Gesù storico”, svanisce sotto i nostri occhi. È veramente morto, mai esistito nella sua stessa morte, o soltanto moribondo, eventualmente esistito? La scarsità delle fonti mi preclude la decisione finale. Dopo aver sostenuto che non è mai esistito, che è finito il tempo di immaginare, tantomeno di cercare, qualcosa come un “Gesù storico”, mi assalgono dei rimorsi: e se, malgrado tutto, fosse esistito? In questo caso, ad altri, più esperti — definitivamente anti-cristiani —, stabilire il grado esatto della sua agonia. 

Ma fino a quel momento, io penso e credo che non esistette mai nessun Gesù storico sulla terra

IL DIO GESÙ


di PAUL-LOUIS COUCHOUD

saggio (1951, Parigi, Gallimard) 

tradotto da: Giuseppe Ferri
 
ALLA MEMORIA DEGLI ANTICHI DEI DI SALVEZZA CHE HANNO CULLATO L'INQUIETUDINE DEGLI UOMINI PRIMA CHE APPARISSE NELLA GLORIA CELESTE IL DIO MORTO E VIVENTE.

PARTE PRIMA


GESÙ L'UOMO-DIO


L'AUTORE:
Ecco, io voglio scrivere di Gesù.
LA FEDE: Fai attenzione. Farai del male a un sacco di gente, imparerai poco.
LA RAGIONE: Coraggio! si deve dire ciò che si sa, come lo si sa.
LA FEDE: Io precedo, me stessa, la conoscenza.  La credenza è buona, la conoscenza è incerta.
LA RAGIONE: No! È facile credere, difficile sapere.
LA FEDE: È difficile credere. Credere è l'unica cosa necessaria. Credere è ciò che fa l'uomo.
L'AUTORE: Io voglio mostrare la ricerca di un non credente rispettoso.
LA FEDE: Niente di più?
L'AUTORE: Niente di più.

Questi quaderni di riflessioni e ricordi si rivolgono a poche persone.
Chi di noi può dire che si approccia al dibattito di Gesù senza avere una posizione? Il credente la prende nella sua fede. Il razionalista immagina di prenderla nel senso comune. Se abbiamo la forza di sospendere la nostra opinione e di seguire un'indagine paziente, possiamo partire assieme.
Gesù è un tema terribile. In quanto uomo storico (se Gesù è un uomo storico), non è afferrabile se non in testi religiosi che sconcertano lo storico. In quanto Dio (se Gesù è la seconda Persona del Dio unico), non è, come Adone, o Mitra, o questo Dioniso che ha segnato con il suo soffio tanti oggetti dei nostri musei, un dio abolito che si può fissare e dissezionare nel suo velo di porpora. Lui regna, agisce, oggi e per secoli, sulla parte più civilizzata del globo. È il Dio vivente dei cristiani, altrettanto vivo oggi come lo fu alle origini. Se ha sembrato subire delle eclissi, ha subito ripreso un nuovo splendore. Nell'ordine spirituale, è in Occidente senza un rivale divino. Nell'ordine temporale è, per importanza, nei beni, il più grande Abitante della terra. Ha templi, antichi o nuovi, basiliche o cappelle in tutti i quartieri delle città, in tutti i villaggi, i monasteri, i palazzi, gli uffici, le scuole. Il patrimonio del Crocifisso è più grande di quello di ciascun Stato. La sua croce, eretta dappertutto, testimonia ovunque della sua presenza. Sopra i morti, piccole cataste di fosfati, lei attesta la loro vita eterna. Rammenta che l'umanità scomparsa ha ricevuto da lui la promessa della resurrezione e che sta aspettando la tromba del suo Giudizio. Tre volte al giorno l'Angelus annuncia che si è fatto uomo e che ha abitato in mezzo a noi.
Gesù non è certamente un buon soggetto letterario. Le persone sagge, le persone di gusto tacciono con decenza quando il nome di Gesù è pronunciato. Trattare di Gesù, equivale a prendere una qualifica di bifolco. Le accademie che accolgono con favore la descrizione di un dio della Fenicia o degli antichi Germani respingono qualsiasi studio diretto sulla divinità o sulla storicità di Gesù. “Gli studiosi che commentano instancabilmente le cerimonie religiose dei Canachi o degli Aztechi, trascurano all'unanimità di occuparsi della messa”. (Roger Caillois). Non più del sole e della morte, Gesù non si guarda fissamente.
Detto tutto ciò, io credo che sia possibile evocare nello spirito un circolo di persone istruite, di cristiani liberi, di uomini retti, riuniti a parte dalla massa pia, lontani altrettanto dalla massa antireligiosa, come in qualche priorato in disuso. Con loro discuterò il problema centrale di Gesù, intendo il problema congiunto della sua storicità e della sua divinità. Che ciascuno di noi deponga per qualche ora la posizione che ha preso sull'argomento, l'interesse personale che vi porta a buon diritto, le passioni, l'emozione stessa con cui si riscalda. Rinunciamo all'ardore polemico: “Tutte le volte che accusiamo, giudichiamo, decidiamo, la sostanza non viene raggiunta” (Valery). Affrontiamo a sangue freddo queste maledette domande eterne, come dice Dostoevskij. A questo prezzo, possiamo sperare di dissipare alcune nebbie opache e avanzare verso la chiarezza.

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