lunedì 6 gennaio 2025

GESÙ DIO DELLA PASQUA — Il tema Pasquale nel rituale della chiesa primitiva

(segue da qui)

 III

IL TEMA PASQUALE 

NEL RITUALE DELLA CHIESA PRIMITIVA

Se la mitologia del cristianesimo si è cristallizzata attorno alla Pasqua ebraica, dobbiamo ritrovare nel rituale della Chiesa delle tracce di quella origine.

Sfortunatamente il problema delle cerimonie primitive è stato complicato, per così dire, a piacimento, tanto dai teologi delle varie confessioni quanto dagli esegeti indipendenti, nella direzione delle loro idee preconcette.

La scienza cattolica si sforza da generazioni a falsificare la storia delle origini mediante la sua distinzione classica e arbitraria tra le agapi o pasti fraterni e il rito comunitario. Per preservare la transustanziazione divina da ogni attacco profano, come sarebbe il suo legame con un banchetto non sempre frugale, essa pretende che le riunioni degli apostoli, dove i presenti spezzavano il pane e passavano il calice, sono sempre state di natura essenzialmente diversa dal sacramento dell'eucarestia, che consisteva anch'esso nello spezzare il pane e nel passare il calice! Le famose riunioni notturni, ormai sprovviste di significato profondo, restano così senza alcuna filiazione determinata; e l'ostinazione nello sfidare le autorità, unicamente per non mancare affatto ad una semplice usanza, appena adatta a rinsaldare i legami di amicizia, diventa tanto più toccante quanto incomprensibile.

Siccome il documento più primitivo, la 1° epistola ai Corinzi, non stabilisce alcuna separazione tra il banchetto fraterno e l'eucarestia, i teologi, lungi dal mostrarsi imbarazzati, immaginano che alla metà del I° secolo, degli abusi, che tendevano a confondere le due pratiche, si fossero insinuati nella Chiesa.

Ma ecco che, quando si tratta di determinare a quale dei due pasti si riferisse precisamente Paolo nella sua epistola, gli studiosi cattolici  si dividono improvvisamente, per arrivare a conclusioni contraddittorie, che distruggono la loro teoria comune così laboriosamente costruita.

L. Vanhalst [1] e Pierre Batiffol [2] sostengono che la pratica corinzia descritta da Paolo sia «esclusivamente eucaristica»; l'apostolo si infurierebbe contro l'indecenza di aggiungere alla cena del Signore un pasto. Padre dr. Efrem Baumgartner [3] ritiene al contrario che si tratta di gozzoviglie che si consumavano nelle agapi!

Riscontriamo la stessa divergenza di opinioni sulla natura del pasto della Didaché. P. Ladeuze, [4] Monsignor Duchesne [5] e Baumgartner [6] non vi trovano la minima traccia di sacramento: le formule recitate sul pane e sul calice sarebbero chiaramente preghiere per l'agape; dal canto suo Pierre Batiffol [7] fa osservare che la proibizione ai non battezzati di prendere parte a questo pasto non può applicarsi a un'usanza qualunque: si tratta quindi del sacramento dell'eucarestia e anche del futuro canone della messa. [8]

Dopo aver distinto arbitrariamente, a fini puramente confessionali, due tipi di riunioni cristiane, la teologia cattolica, presa di colpo nella rete della propria sottigliezza, si rivela incapace di discernere, talmente sorprendente è la rassomiglianza, se un tale pasto costituisca un'usanza profana oppure un sacramento comunitario, e, confessando così ingenuamente l'identità dei due presunti atti, scambia comunemente l'uno per l'altro.

Le parole di Paolo sul valore dell'istituzione eucaristica sembrano esplicite:

«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che è spezzato per voi: fate questo in memoria di me.

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo in memoria di me, tutte le volte che ne berrete.

Poiché tutte le volte che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annuncerete la morte del Signore finché egli venga». [9]

Certi esegeti [10] ritengono che le due espressioni: «Questo è il mio corpo» e «voi annuncerete la morte del Signore» consistono male assieme. Se si tratta solo della commemorazione di un evento, ragionano, a che pro quella transustanziazione del Signore in specie alimentari?

Però, anche sopprimendo il testo sospetto di interpolazione: «Questo è il mio corpo», resta il fatto che Gesù raccomanda ai suoi discepoli una pratica da rinnovare indefinitamente. Perché insista così, per un ordine esplicito, affinché si riuniscano soprattutto in vista di mangiare e di bere, è perché non si tratta di una semplice commemorazione della sua morte, capace sicuramente di esprimersi nel corso di un pasto, ma anche di tutt'altra maniera. A meno di sopprimere l'insegnamento tutt'intero, va riconosciuto a quel cibo un carattere sacro: è per mezzo di esso che si effettua l'unione con il Cristo morente.

Il discorso di Gesù nel capitolo 6 di Giovanni rivela che i pasti dei primi cristiani costituivano un rito di comunione teofagica? Dopo aver saziato una moltitudine con pochi pani, Gesù dice che, se Mosè ha dato agli ebrei il pane del cielo, è Dio che distribuisce il vero pane del cielo. E questo pane è lui stesso.

«Io sono il pane della vita. Colui che viene a me non avrà più fame e colui che crede in me non avrà mai sete». [11]

Gesù impiegherebbe qui una metafora? Il seguito del racconto ci illuminerà:

«I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo è il pane che discende dal cielo, affinché uno ne mangi e non muoia. 

Io sono il pane vivente che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; ora il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo». [12

Gli ascoltatori, stupiti, si domandano se si tratti semplicemente di un simbolo; ma, affinché non ci sia alcun equivoco, Gesù prosegue:

«Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi». [13]

Per maggiore precisione aggiunge ancora:

«...la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda». [14]

I discepoli, questa volta, hanno perfettamente compreso, perché trovano che quelle parole sono dure e che si ha difficoltà ad ascoltarle. Gesù rappresenta loro allora che, se l'atto raccomandato è rozzo in apparenza, la carne non è che un veicolo dello Spirito.

«È lo spirito che vivifica, la carne non serve a nulla». [15

Questa è esattamente la tesi della Chiesa attuale che, per mascherare l'originaria barbarie del rito, non esita a violare il principio di identità, sostenendo che se il corpo del Cristo, consumato nell'eucarestia, è realmente della carne, almeno quella carne è una sostanza spirituale.

I protestanti affermano che le espressioni chiarissime: carne e sangue, sono felici immagini per indicare la parola di Dio. Mangiare e bere significherebbe accogliere con fede quella parola. [16] Curiosa maniera di esprimersi, per un Dio che si rivolge alla gente semplice! Come ha potuto Giovanni, che più di ogni altro evangelista voleva idealizzare il Cristo, mettere in bocca al suo dio parole dal significato così equivoco? Questo tipo di immagine resta veramente unico nella letteratura. Marcione senza dubbio presentava la fede sotto il simbolo del pane che nutre l'anima; ma resta ancora da dimostrare se l'espressione gli sia venuta naturalmente, se non abbia voluto trasporre in un senso puramente spirituale un rito di teofagia che gli ripugnava. Se Gesù avesse voluto indicare soltanto la fede nella sua missione, lui avrebbe detto che recava ai suoi discepoli il pane della vita, ma non che fosse lui stesso questo pane disceso dal cielo e che i fedeli dovevano mangiare.

Spitta considera un'interpolazione tardiva i versetti dal 51 al 59, dove si tratta di carne da mangiare e di sangue da bere, per conservare solo il pane della vita, suscettibile di prestarsi al limite a un'interpretazione simbolica. Henri Delafosse crede di trovare una contraddizione assoluta tra i passi dove è detto: «Chi crede in me ha la vita eterna,... la carne non serve a nulla» e quelli dove un cibo carnale è la condizione della salvezza:

«Ciascuno di questi due atti ci è presentato successivamente come necessario e sufficiente. In un punto del discorso la vita eterna è garantita a tutti coloro che accettano la divinità in Cristo. Poi, un po' più oltre, apprendiamo che, per avere la vita eterna, ci tocca mangiare la sua carne. Se quell'ultima operazione è indispensabile, la fede nel Figlio di Dio non basta quindi. E se la fede basta, il consumo della carne è superfluo. … Ci troviamo di fronte ad una irriducibile opposizione». [17]

In verità, l'espressione «chi crede in me è salvato» riunisce in una formula suggestiva la totalità della vita del fedele. Se si domanda a un cattolico in cosa consiste essenzialmente la religione, egli risponderà:  «Credere, tutto consegue da lì». Ma ciò non vuol dire che non tocca osservare certi obblighi. Credere in Dio significa seguire la sua via, compiere i riti che ha istituito, conformarsi ai comandamenti della Chiesa e obbedire al curato.

La soppressione dei versetti, che si presentano come la trasposizione mitologica di un rito di forma barbarica e anzi nello spirito di una comunità primitiva, si trova quindi lontana dall'essere giustificata. Anche se ne facessimo a meno, il resto del discorso implica l’idea della transustanziazione. Il confronto è indotto dall'associazione di idee con la manna del deserto e il soddisfacimento della moltitudine: e, intendendo queste semplici parole: «Io sono il pane della vita», che sembrano però agli esegeti molto meno compromettenti dell'espressione carne e sangue, ecco che gli ascoltatori di Gesù, che invece, non si sbagliano affatto, cominciano a mormorare:

«I Giudei mormoravano contro di lui, perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo». [18]

Lo scandalo veniva dal fatto che egli si dicesse disceso dal cielo o dal fatto che si desse per un cibo? 

Gesù ripete ancora:

«Questo è il pane che è disceso dal cielo». [19]

E una seconda volta gli ascoltatori non ne vogliono sapere; si guardano gli uni gli altri e si rifiutano di ascoltare un'espressione così crudele:

«Questo parlare è duro, chi lo può capire?» [19]

Non si potrebbe dire di una persona che tenta di farsi passare per un essere celeste che le sue parole sono dure. Esse erano dure all'udienza di Gesù perché implicava la credenza nella comunione teofagica.

Così, anche utilizzando esclusivamente i passi ritenuti autentici. il significato rimane lo stesso: perché un teologo immagini che l'identificazione di Dio col pane della vita susciti l'indignazione, è perché per lui non si tratta di una semplice figura; occorre che, prevedendo l'obiezione immediata dei suoi catecumeni, egli voglia intraprendere, per mezzo di un racconto mitologico, la giustificazione di un rito, la cui natura strana avrebbe potuto stupire le coscienze delicate.

I primi cristiani credevano proprio, spezzando il pane, di consumare un cibo divino, simile ai loro antenati che, all'epoca della Pasqua preistorica, mangiavano le focacce dell'ultimo raccolto, per impregnarsi del potere degli spiriti campestri.

Le preghiere della Didaché, che sembrano risalire alla fine del I° secolo, si riferiscono anch'esse ad un rito di comunione teofagica?

«Non vi è fatta alcuna allusione», ritiene Maurice Goguel, [20] «all'istituzione della comunione da parte di Gesù, non più che a una relazione qualunque tra il pane e il corpo, tra il vino e il sangue. L'assenza di queste due idee deve essere interpretata come l'indizio che esse non fossero familiari all'autore, che non avrebbe mancato di trarne un'argomentazione per insistere sulla serietà che deve essere portata alla celebrazione dell'eucarestia».

Si tratterebbe quindi di semplici azioni di ringraziamenti, come gli ebrei ne recitavano in tutti i pasti, per benedire i cibi.

Però, se confrontiamo le preghiere ebraiche per i pasti, riportate nel trattato Berakhoth del Talmud di Gerusalemme, con le formule corrispondenti della Didaché, ci accorgeremo presto che esiste tra loro un abisso: quello che separa l'atto profano da un sacramento.

Gli ebrei avevano costume di dire, nel momento di mettersi a tavola:

«Sia lodato, o Signore, nostro Dio, re dell'universo, che hai creato il frutto della vite». [21]

Nella Didaché si legge:

«Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo servo, che tu ci hai fatto conoscere per mezzo di Gesù, tuo servo». [22]

Mentre nel pasto ebraico profano i presenti si limitano a ringraziare Dio per un beneficio naturale, nella cerimonia cristiana si tratta di una vite molto speciale, quella di Davide, che Gesù ha fatto conoscere. Ma Gesù non è che un servitore di Dio: non è lui che ha donato la vite agli uomini, opera riservata al Creatore.

Per il pane gli ebrei recitavano:

«Sia lodato, o Signore, nostro Dio, re dell'universo, che fa uscire il pane dalla terra». [23]

Qui il termine pane è inteso ovviamente alla lettera. 

Nella Didaché si trova:

«Noi ti rendiamo grazie, nostro Padre, per la vita e la conoscenza che tu ci hai fatto conoscere per mezzo di Gesù, tuo servo. A te la gloria in tutti i secoli». [24]

Non si tratta più del pane comune, ma del pane della vita, di cui parla Giovanni, quello che dona la conoscenza per mezzo di Gesù. Questo significato si trova confermato dalla formula di ringraziamento che termina il pasto:

«Quando vi sarete saziati, fate così l'eucarestia.

Ti rendiamo grazie, Padre santo, per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l'immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli!

Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa a gloria del tuo nome. Tu hai dato agli uomini cibo e bevanda a loro conforto, affinché ti rendano grazie. Ma a noi hai fatto dono di un cibo spirituale, di una bevanda spirituale e della vita eterna per mezzo del tuo servo». [25]

Questo pane e questo vino spirituali significano semplicemente la fede? Ma si tratta proprio di preghiere recitate attorno a una tavola. Era un vero calice e un vero pane, che il presidente della festa indicava come un mezzo per acquisire la vita e la conoscenza.

Non si dice espressamente che Gesù si trovi presente lui stesso sotto queste specie: quella concezione poteva apparire solo dopo la formazione di una leggenda terrena; ma è per mezzo di Gesù che si compie il miracolo, proprio come ci siamo rappresentati il banchetto pasquale, nel momento in cui la mitologia di Giosuè si introdusse nel rito, con i canti dell'Hallel. Abbiamo così la fase in cui l'eroe divino tende a confondersi con i cibi, anch'essi di natura divina.

L'esame di questi diversi testi ci obbliga a concludere che l'agape dei primi cristiani non era affatto un semplice pasto pio, ma al contrario il rito fondamentale della Chiesa: un vero sacramento. Gli storici che negano questo fatto evidente si mostrano molto in difficoltà a spiegare la ragion d'essere di un simile costume, una volta che lo hanno spogliato di ogni carattere religioso. 

Alcuni lo fanno risalire ai banchetti pagani:

«Nell'impero romano», dice Louis Coulange, [26] «i membri di una stessa corporazione si riunivano in certi giorni determinati per banchettare in comune. Conformemente all'usanza generale, i cristiani organizzarono pasti collettivi».

Secondo lo stesso autore, [27] la seconda Catilinaria di Cicerone ci insegna che i compagni del congiurato mostrarono la loro perseveranza in banchetti prolungati fino al mattino, antelucanis cœnis. Questa è l'espressione impiegata da Tertulliano, [28] a proposito dei pasti cristiani.

Per altri autori, meno temerari, l'agape ricaverebbe la sua origine da un costume ebraico. P. Lobstein [29] fa osservare che l'abitudine dei pasti collettivi era divenuta, in Palestina, nel I° secolo della nostra era, un elemento importante della vita. I farisei e gli esseni vi partecipavano. Cosa di più naturale del fatto che i cristiani avrebbero fatto altrettanto?

«Diversi passi della Bibbia», dice l'abate J. Corblet, [30] «ci mostrano che in certe feste gli ebrei offrivano alla loro famiglia, ai loro amici e talvolta ai leviti, ai poveri e agli orfani un banchetto dove si mangiava la vittima che avevano offerto in sacrificio. Questo pasto si faceva nel luogo stesso in cui la vittima era stata immolata. C'erano anche dei pasti che seguivano la sepoltura, per la consolazione delle persone in lutto».

Manca a quella enumerazione, per essere completa, solo la menzione del pasto pasquale. Dopo aver spinto le ricerche fino ai banchetti di Catalina, dopo aver esaminato successivamente tutti i pasti collettivi sprovvisti di significato rituale, e come tali incapaci di generare l'eucarestia, gli esegeti trascurano il solo pasto ebraico che, per sua natura intrinseca, fu una comunione teofagica.

Il pasto pasquale comportava la distribuzione di quattro-cinque calici di vino e di pane azzimo che dovevano essere spezzati, e ogni convitato mangiava la dimensione di un'oliva con erbe amare, simbolo delle sofferenze patite in Egitto. In seguito si serviva un agnello arrosto al forno e la cerimonia si terminava con degli inni. Cosa sussiste di tutto questo rituale nel banchetto cristiano?

La vittima pasquale. elemento essenziale della festa ebraica, non vi figura. Che un agnello sia stato realmente immolato in un'epoca arcaica è ciò che lasciano supporre le frequenti allusioni a questo rito nell'Apocalisse giovannea, che non sa ancora nulla di un Gesù crocifisso. Ma quando il Tempio, unico santuario autorizzato per i sacrifici, era stato distrutto nell'anno 70, l'agnello doveva scomparire. Gli israeliti moderni a loro volta hanno smesso di nutrirsi del cibo sacro, che si sarebbe potuto credere l'ultimo sopravvissuto della festa: la padrona di casa tedesca si limita a porre sulla tavola, come simulacro, due ossa di pecora. I cristiani, che manifestavano un'avversione particolare per le immolazioni, hanno rinunciato per prima all'esposizione materiale, sulla tavola sacra, di un animale che, sotto l'influsso dei canti dell'Hallel, cedeva a poco a poco il suo posto all'eroe Giosuè.

Ma il carattere sacro, che il giudaismo stesso riconosce alla vittima pasquale, si estende allo stesso modo, tramite una sorta di magia positiva, agli altri elementi del pasto.

«Colui che, alla vigilia di Pasqua», si legge nel Talmud, [31] «mangia il pane azzimo rassomiglia a colui che convive con la fidanzata presso i suoi suoceri».

In questo caso è il pane che, in virtù di una strana associazione di idee, si trova assimilato ad una persona santa.

Che la potenza mistica, racchiusa nell'agnello, si sia trovata trasferita nel pane e nel vino. lì non c'è altro che un'evoluzione normale. Quando il Tempio esisteva, gli ebrei avvolgevano la carne dell’agnello pasquale con pane azzimo ed erbe amare e li mangiavano insieme, per adempiere a questo precetto: «La si mangerà con pane azzimo ed erbe amare». [32] Le varie specie del pasto erano quindi unite da un legame misterioso. Il pane e il vino in particolare costituiscono l'alimento fondamentale e si ritrovano sempre su una tavola adeguatamente servita; essi permettevano il rinnovamento frequente della cerimonia, molto meglio di un agnello, che non si poteva servire ogni giorno. Come dice Giustino, [33] essi compongono per assimilazione il corpo dell'uomo; la loro condivisione tra i presenti simboleggiava naturalmente la solidarietà dei membri di una comunità; essi risvegliavano anche l'idea della carne e del sangue divini, prodotti dello stesso cibo. L'uso dell'aspersione del vino sui convitati, ancora in vigore nel pasto pasquale ebraico al tempo di Henri Heine, [34] evocava l'aspersione sul popolo [35] del sangue di Gesù, versato per la salvezza. 

Però l'ordine di successione del pane e del vino, nel banchetto cristiano, è inverso a quello che si osservava nel rito pasquale, dove si distribuiva il primo calice prima di spezzare il pane azzimo. Quella inversione è certamente di data recente, perché la Didaché menziona in primo luogo i ringraziamenti sul calice; ma una simile modifica si spiega facilmente: senza parlare dell'abitudine generale, che vuole che si cominci a mangiare prima di bere, i cibi assimilati a una persona umana devono apparire nello stesso ordine delle diverse parti di quella persona. Ma è la carne che si scorge innanzitutto: per un antico essa si presenta come un contenitore e il sangue un contenuto; ecco perché si dice sempre la carne e il sangue, non il sangue e la carne.

Un solo calice è rimasto nell'eucarestia: essendo il vino divenuto di natura divina, si capisce che non si fu più propensi a usarne senza cura: la consacrazione si compiva così in un unico momento solenne.

Il pane sembra essere stato del pane comune e non azzimo.  

Nella Pasqua ebraica, l'usanza di matzot o pani azzimi ai trovava legata alla festa delle primizie del raccolto, che aveva luogo l'indomani. Perdurando il costume dopo la nazionalizzazione del rito, si immaginò che gli ebrei, nella loro fuga precipitosa, non avessero avuto il tempo di lasciar lievitare la loro pasta. Ma quando il rito si trasformò in mistero, esso perse i suoi legami con una festa del raccolto, come con una leggenda storica. D'altra parte si capisce che i cristiani non potevano mangiare invariabilmente alle loro riunioni così frequenti pani senza lievito, sprovvisti per loro di un significato preciso.

Infine segnaleremo come ultima difformità che, mentre la Pasqua era celebrata solo una volta all'anno, il pasto comunitario della Chiesa primitiva sembra aver avuto luogo tutti i giorni, kath'èméran, dicono gli Atti. Un rito, infatti, tende a ripetersi il più spesso possibile. La festività pasquale poteva celebrarsi un mese dopo la data legale, il 44 iyar, quando era impedito di farlo il 14 nisan. Ben più, per conformarsi alle prescrizioni dell'Esodo, [36] ogni sera, «tra i due vespri» e ogni mattina, all'alba, i sacerdoti sacrificavano nel Tempio un agnello di un anno e senza difetto, [37] una sorta di commemorazione quotidiana del rito pasquale. A maggior ragione la setta gnostica precristiana doveva provare il bisogno di rinnovare continuamente le sue forze nella comunione col suo dio.

Ma se le difformità tra i due riti si spiegano per mezzo di un'evoluzione naturale, almeno gli elementi che sussistono dalla Pasqua nel sacramento dell'eucarestia non sono ridotti e snaturati, al punto da non presentare più caratteri sufficientemente specifici per permettere di affermare l'esistenza di una filiazione reale?  Cosa possediamo di concreto? Che i cristiani si mettessero a tavola dopo aver pronunciato le preghiere sul pane e sul vino? Ma quella pratica non si rinnovava in tutti i pasti ebraici? Questa è proprio la spiegazione che gli esegeti pretendono di dare della riunione che doveva diventare il sacrificio della messa. Il pane, ritiene Alfred Loisy, [38] vi figurava unicamente perché costituisce l'alimento principale della gente semplice. L'espressione frazione del pane, senza dubbio come si direbbe ai nostri giorni spuntino, sembra a questo autore perfettamente naturale.

Però Paolo chiama il calice col nome riservato a quelli del pasto pasquale: il calice di benedizione. [39] Ma è soprattutto l'espressione tradizionale frazione del pane, impiegata con insistenza dagli Atti, dai Vangeli, da Paolo e dalla Didaché, che rivelerà l'origine del banchetto cristiano. Maurice Goguel non la trova così naturale come vorrebbe Alfred Loisy; egli si ingegna al contrario a trovare spiegazioni. L'usanza è forse prevalsa, propone, perché Gesù aveva l'abitudine di spezzare il pane ad ogni pasto. Questo gesto meccanico sarebbe così diventato un segno di raccolta per la comunità. Oppure ancora si è voluto commemorare il miracolo della moltiplicazione dei pani, che suscitava l'idea di frammentazione.

Il pane, presso gli ebrei, presentava la forma di gallette rotonde e piatte, che occorreva spezzare tra le dita, invece di tagliarle col coltello; ma, tranne che al pasto pasquale, nessun significato religioso si attribuiva a questo atto. Il Talmud [40] ci informa solo che era un onore dare a un ospite illustre il pane da spezzare, affinché ne distribuisse frammenti adatti. Né nella lingua greca né nella lingua ebraica l’espressione spezzare il pane designava abitualmente un pasto. In tutto l'Antico Testamento l'abbiamo riscontrata solo due volte. [41] In Isaia: [42]

«(Il digiuno di cui mi compiaccio) non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame».

e in Geremia: [43]

«Non si spezzerà per loro il pane del lutto».

Il primo caso non si riporta ad un pasto, ma alla distribuzione di un pezzo di pane ad un povero. Nel secondo, si tratta non di un pasto ordinario, ma di un pasto funebre, vale a dire di una pratica già rituale dove la frazione poteva avere un significato mistico. L'insistenza dei primi cristiani nell'impiegare una simile espressione non può ridursi né a un'espressione familiare né a un'usanza senza interesse. Se i Vangeli amano rappresentare Gesù nell'atteggiamento di chi presiede ad un banchetto, quella leggenda costituisce chiaramente la trasposizione di un rito fondamentale. Non è per caso che, nel racconto della moltiplicazione dei pani, noi leggiamo:

«Egli prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai suoi discepoli». [44]

Nell'istituzione della cena:

Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli. [45]

Nell'incontro con i discepoli di Emmaus:

«E come era a tavola con loro, prese il pane e rese grazie: poi, spezzatolo, lo dette loro.

Nello stesso tempo i loro occhi si aprirono e lo riconobbero». [46]

Quest'ultimo passo soprattutto indica proprio che la frazione del pane si trovava intimamente associata alla persona di Gesù, poiché è grazie ad essa che i discepoli si persuadono della resurrezione del loro Maestro. Lungi dall'apparire come un gesto insignificante della vita pratica, i cristiani gli attribuivano chiaramente un significato mistico profondo, che si spiega mediante l'unico rito ebraico dove si ritrova la stessa usanza, con un significato altrettanto mistico: il pasto dell'agnello pasquale.

Un altro aspetto rivelerà similmente l'origine pasquale del banchetto cristiano: esso aveva luogo invariabilmente la notte. Paolo la chiama la cena del Signore.

Gli Atti degli Apostoli, Plinio e Tertulliano fanno la stessa attestazione. [47] Gli esegeti storicisti, che tengono particolarmente a far nascere l'eucarestia da un'abitudine profana, sostengono che l'usanza dei pasti notturni sia prevalso, perché la fine della giornata era il momento più propizio alla riunione di umili lavoratori. Ma nel Nuovo Testamento si trovano numerosi racconti di pasti. Ma le leggende non sono condizionate dalle esigenze della vita pratica. Malgrado la loro indipendenza, i pasti mitologici hanno luogo anche la notte.

È perché il sole tramonta che Gesù acconsente a sfamare la folla con cinque pani; è in occasione del pasto pasquale che egli riunisce i suoi discepoli, per dire loro addio, e i pellegrini di Emmaus incontrano lo sconosciuto, come per caso, alla fine della giornata.

«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».

Il banchetto cristiano, iniziato all'ora in cui accendono le fiaccole, [48] terminava solo fino all'alba, sovrappiù di fatica inspiegabile per umili lavoratori, che non preparavano carni abbandonanti, come Catilina. Quest'usanza appare tanto più strana in quanto le leggi romane proibivano le riunioni notturne. [49] Per il semplice fatto che si celebrava la notte, il pasto cristiano dava luogo a rumori che portarono quasi a una tragedia. Malgrado questo pericolo, i cristiani persistettero nondimeno a banchettare fino al levar del giorno. In circostanze così gravi, quella insistenza si può spiegare solo per una necessità rituale. Ma sappiamo che, tra tutti i pasti ebraici, il pasto pasquale era l'unico che cominciava al tramonto per terminare all'alba. Anche lì la filiazione è chiara. 

Infine, allo stesso modo in cui il pasto pasquale comportava inni di lode al Signore, tratti dai salmi biblici, i cristiani, secondo il rapporto di Plinio a Traiano, 

«si riunivano in un giorno determinato, prima dell'alba, per cantare alternativamente fra loro un inno a Cristo, come a un Dio». [50

Plinio non parla del banchetto, ma noi conosciamo le ragioni diplomatiche del suo silenzio. [51]

Tertulliano dice analogamente:

«Dopo lavate le mani e accesi i lumi, ognuno è invitato davanti a tutti a levare un canto in onore di Dio, come può, tratto dalle sacre Scritture o dal proprio spirito... La preghiera parimenti chiude il convito». [52

Le sopravvivenze del rito originario non sussisterebbero solo nel banchetto. Nel 1872, Gustav Bickell ha sostenuto una tesi, che i teologi moderni, come l'abate Eugène Jacquier, difendono ancora, [53] secondo la quale la prima parte della messa riprodurrebbe nelle sue grandi linee il servizio della sinagoga, mentre la seconda, l'anafora, conterrebbe benedizioni e ringraziamenti ispirati al rituale della Pasqua ebraica, principalmente ai canti dell'Hallel. La raccolta corrisponderebbe al Salmo 115 (12-18); la segretezza al Salmo 116 (12-19); la prefazione ai salmi 117 e 118 e il canone al salmo 136. Le preghiere della comunione e le azioni di ringraziamento della post-comunione riprodurrebbero quelle che gli ebrei dicevano sul pane e sul calice.

L'abate Jacquier sostiene che le preghiere eucaristiche della Didachè corrispondono anch'esse al rituale pasquale. Certe formule rimangono persino intatte:

«O Signore onnipotente», si legge nella Didaché, «tu hai creato tutto a causa del tuo nome; tu hai dato agli uomini cibo e bevanda».

«A causa della gloria del tuo nome», recitavano gli ebrei al pasto pasquale, [54] «tu nutri tutto e tu mantieni tutto».

Queste influenze si spiegano, come sostiene l'abate Jacquier, per mezzo di un accostamento simbolico tra la Pasqua, festa dell'antica Alleanza, e un'alleanza nuova, suggellata dal sangue del Cristo? Ma se i primi cristiani chiamavano Gesù la loro Pasqua, quella concezione, di ordine puramente filosofico, non li incoraggiava per nulla a copiare il rito ebraico nei suoi dettagli liturgici: al contrario, essi ignoravano completamente l'origine pasquale dell'eucarestia. Secondo gli evangelisti il ​​pasto d'addio aveva avuto luogo il 14 nisan solo per una semplice coincidenza. Inoltre, come abbiamo segnalato, essi utilizzano molto liberamente le regole stabilite. Come mai i teologi si sarebbero ispirati naturalmente, per l'organizzazione del loro canone ad un costume sfigurato al punto da diventare irriconoscibile? Inoltre né gli Atti né la Didaché rapportano la riunione fraterna primitiva alla commemorazione della Cena del Signore, alla vigilia della festa nazionale. Se nondimeno noi ritroviamo nel Nuovo Testamento e nelle formule della messa sopravvivenze non equivoche, una sola spiegazione sembra possibile, quella che domina la totalità della nostra opera: la religione cristiana tutt'intera si è costruita attorno ad un antico rito ebraico, trasposto da una setta gnostica, il rito dell'agnello pasquale.

NOTE

[1] Critica di un'opera di Baumgartner, nella Revue d'histoire écclésiastique, volume 12, 1911, pag. 722, Louvain, ufficio della Revue.

[2] Etudes d'histoire et de théologie positive, 1° serie, pag. 282, Parigi, Victor Lecoffre, 1902.

[3] Eucharistie und Agape im Urchristentum, Eine literar-historische Untersuchung. Soleure, Buch und Kunstdrückerei union, 1909.

[4] L'Eucharistie et les repas communs des fidèles dans la Didachè, nella Revue de l'Orient chrétien, 1902, pag. 347, Parigi, A. Picard e figli.

[5] Bulletin critique de littérature, d'histoire et de théologie, volume 5, 1884, pag. 385-386, Parigi, Ernest Thorin.

[6] Etudes d'histoire et de théologie positive, 2° serie, pag. 113-114, Parigi, Victor Lecoffre, 1905.

[7] Ibidem, pag. 117.

[8] 1° ai Corinzi 11:24-26.

[9] H. Delafosse, La Première épître aux Corinthiens, pag. 76, Parigi, F. Rieder et Cie (collana Christianisme), 1926; - Louis Coulange, La Messe, pag. 57-58, Parigi, F. Rieder et Cie (collana Christianisme), 1927.

[10] Giovanni 6:35.

[11] Ibidem, 6:49-51.

[12] Ibidem, 6:53.

[13] Ibidem, 6:55.

[14] Ibidem, 6:63.

[15] Wendt, Das Johannesevangelium, pag. 128 e seguenti, Gottinga, Vandenhoeck und Ruprecht, 1900. — P. Lobstein, La Doctrine de la Sainte Cène, pag. 138, Strasburgo, Fréd. Bull, 1889.

[16] H. Delafosse, Le Quatrième Evangile, pag. 56, Parigi, F. Rieder et Cie (collana Christianisme), 1925.

[17] Giovanni 6:41.

[18] Ibidem, 6:60.

[19] L'Eucharistie, des origines à Justin Martyr, pag. 243, Parigi, Fischbacher, 1910. 

[20] Le Talmud de Jérusalem, traité des Berakhoth, capitolo 6:1, traduzione di Moïse Schwab, volume 1, pag. 110, Parigi, Imprimerie nationale, 1871.

[21] Didaché 9:1.

[22] Le Talmud de Jèrusalem, ibidem, pag. 110.

[23] Didaché 9:2.

[24] Ibidem, 10:1-3.

[25] La Messe, pag. 9 (secondo Gaston Boissier, La Religion romaine, volume 2, pag. 282), Parigi, Les éditions Rieder (Collana Christianisme), 1927. Il carattere dei banchetti organizzati dai collegi romani è studiato da J.-P.Waltzing, Etude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains..., volume 1, pag. 322-332, Bruxelles, F. Hayez, 1895. 

[26] Ibidem, pag. 16.

[27] Etiam antelucanis caetibus, nel De Corona 3.

[28] La Doctine de la Sainte-Cène, pag. 88, Strasburgo, Fréd. Bull, 1889.

[29] Recherches historiques sur les agapes, pag. 3, Amiens, stampato da Rousseau-Leroy, 1885.

[30] Le Talmud de Jérusalem, traduzione di Moïse Schwab, trattato del Pesahim 10:1, volume 5, pag. 148. 

[31] La Haggada ou Cérémonies des deux premières soirées de Pâque, ad uso degli Israeliti dei riti tedesco e portoghese. Traduzione di L. Blum, riveduta da M.-L. Wogue, rabbino capo, pag. 49, Parigi, Durlacher, Léon Kann, editore, 6° edizione, 1907.

[32] Prima apologia 66:1-3.

[33] Le Rabbin de Bacharach, pag. 225, Parigi, Société du Mercure de France, 1906.

[34] Matteo 27:25.

[35] Esodo 29:39. Ezechiele 46:13.

[36] Edmond Stapfer, La Palestine au temps de Jésus-Christ, pag. 418 e 421, Parigi, Fischbacher, 1885.

[37] L'Evangile de Jésus et le Christ ressuscité, nella Revue d'histoire et de littérature religieuses, gennaio-febbraio 1914, pag. 80, nota 2, Parigi, Emile Nourry.

[38] 1° ai Corinzi 10:16.

[39] Le Talmud de Jérusalem, traduzione di Moïse Schwab, Trattato Berakhoth, volume 1, pag. 413.

[40] F.-P. Dutripon, Concordantiae bibliorum sacrorum vulgatae editionis, alle parole frango e panis, pag. 538 e 1007, Parisiis, Belin-Mandar, 1838. — Edwin Hatch and Henry A. Redpath, A Concordance to the Septuagint, alla parola artos, volume 1, pag. 162, colonna 2, Oxford, at the Carendon press, 1897.

[41] Isaia 58:7.

[42] Geremia 16:7.

[43] Marco 6:41.

[44] Marco 14:22.

[45] Luca 24:30-31.

[46] 1° ai Corinzi 11:20. Atti degli Apostoli 20:7. Plinio il Giovane, Lettere 10:97. Tertulliano, De Corona militis 3. Maurice Goguel, L'Eucharistie, des origines à Justin Martyr, pag. 142.

[47] Tertulliano, Apologetico 39.

[48] Baudouin, Ad leges Romuli 1:8. Cicerone, de Legibus 2, 109:21. Codice teodosiano, De Malef. 1:8.

[49] Plinio il Giovane, Lettere 10:97.

[50] Louis Coulange, La Messe, pag. 23-24, Parigi, Les éditions Rieder (collana Christianisme), 1927.

[51] Tertulliano, Apologetico 39.

[52] Gustav Bickell, Messe und Pascha, Der apostolische Ursprung der Messliturgie und ihr genauer Anschluss an die Einsetzungsfeier der h. Eucharistie durch Christus, Magonza, F. Kirchheim, 1872. 

Gustav Bickell, Zeitschrift für kath. Theologie, 1880, pag. 90-112, 1884, pag. 400-412.

Gustav Bickell, articolo Liturgie, in Krauss (Franz-Xaver), Real-Encyklopâdie der christlichen Alterthümer, volume 2, pag. 309 e seguenti. Friburgo in Brisgovia: Herder'sche Verlagshandlung, 1886. 

Eugène Jacquier, La Docteine des Douze Apôtres et ses ensiegnements, Tesi di teologia, pag. 201 e seguenti, Lione, E. Vitte, Parigi, Lethielleux, 1891. 

[53] Didaché 10:3.

[54] Eugène Jacquier, Ibidem, pag. 204. 

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