sabato 10 dicembre 2022

L'INVENZIONE DI GESÙPrestiti nel piatto
(René Girard affronta i Vangeli)

 


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Prestiti nel piatto
(René Girard affronta i Vangeli)

Cosa c'è di più scoraggiante dei «prestiti»? Eppure è la presenza massiccia di queste parole nel greco del Nuovo Testamento che assicura il valore della mia ipotesi iniziale: è questo che mi conferma che i Vangeli canonici (e il Nuovo Testamento nel suo insieme) sono stati originariamente scritti in ebraico — e non in greco o in aramaico.

Perciò insisto su queste parole singolari: sto piantando il mio chiodo nel cranio dei grecisti; sto indicando l'incredibile errore delle Chiese.

E non mi limito ad affermare: porto degli esempi. Affogo — di proposito! — il mio lettore nell'inganno di cui sono vittime i testi fondatori del cristianesimo.

A poco a poco, le questioni tecniche e linguistiche lasciano il posto all'unico problema che vale: perché gli studiosi, funzionari ecclesiastici o no, ci ingannano — da quasi venti secoli — sulla lingua del Nuovo Testamento? — Pazienza... ci arriverò.

Ecco, giusto per allegare ancora di più i denti del lettore, lo invito ad un autodafé: quello di un capitolo di Girard. Domanda: come lavora un filosofo contemporaneo sul Nuovo Testamento? Risposta: non importa come.  



Prima categoria di prestiti

I cosiddetti Vangeli «canonici» contengono e mostrano a chi sa discernerli, come se fossero seminati negligentemente nel tessuto del loro vocabolario, due categorie di prestiti. La prima categoria, la meno fornita — e di gran lunga —, è costituita da termini di origine semitica: si tratta di alcuni nomi comuni, come «korbanas» o «rabbuni», di alcuni nomi propri, come «Dalmanuta»
Se si tratta di un nome proprio, si direbbe piuttosto un genitivo (introdotto dall'aramaico D) che significa «delle vedove».
«Golgota», o «Gabbatà», e di alcune frasi o parti di frasi, come «talità kum» o «eloì eloì lema sabactàni»... Queste parole e frasi sono prese dall'aramaico, e non dall'ebraico; queste parole e frasi sono qui trascritte, come meglio possono, nell'alfabeto greco, lingua universalmente presunta essere quella dei Vangeli (e del Nuovo Testamento), con un'aggiunta approssimativa di vocali in vista della pronuncia... Tutti sono stati oggetto di un'attenzione scrupolosa da parte degli esegeti. E costoro si applicano in generale a produrre la seguente teoria: 
Sto semplificando (e divertendomi), bisogna dire che l'erudizione si lascia andare, con il Nuovo Testamento e la letteratura correlata, a degli exploit che disdegnerebbe e condannerebbe (a buon diritto) in altri ambiti.
è normale che, da francese, scrivendo in francese un testo sull'Italia, io debba disseminare la mia narrazione con spaghetti, ciao, o pericoloso sporgersi — così il colore locale è assicurato, e salvato; il mio racconto si fa più vero. Infatti cosa sarebbe una storia russa senza borchtch, datcha, vodka o moujik, una storia cinese senza gong-tchan-dang, ying e yang o ginseng, una storia bretone senza menhir, festnoz o pennti? Non si riconoscerebbero gli odori della regione.

Gli scrittori dei Vangeli, dunque, tutti nel loro greco però, avrebbero accondisceso qua e là, per cortesia geografica verso l'ambientazione della loro saga, a fare qualche ammiccamento al dialetto del posto, a piccole dosi certo, ma realmente, nonostante tutto: ebrei (cristiani?) che si esprimevano in greco comune — la famosa, fin troppo famosa, koïnē — avrebbero sporadicamente sacrificato alla translitterazione del loro aramaico. E questo sarebbe d'altronde uno degli aspetti, inattesi ma efficaci non è vero, dell'Incarnazione: 
Una delle lamentele più constanti della teologia e dell'omelia cristiana classica riguarda l'Incarnazione divina nel luogo più remoto della terra. Con questo va ovviamente intesa la Palestina del I° secolo. Ora, siccome ciò dovrebbe sapersi anche nelle chiese e nei seminari, l'Impero romano dell'epoca non conteneva certo più dell'1% di non-analfabeti (non dico: di letterati), mentre la Palestina contemporanea — non regione perduta, ma patria della religione del Libro — ebrei e samaritani assieme, abbonda di studiosi.
un hic et nunc che si afferma fino al livello lessicale — da narratore, non mi accontento di situare i miei fatti e i miei personaggi, 
Noto, a beneficio del lettore poco familiare con questi problemi, che la topologia e la cronologia dei Vangeli formano un groviglio tra i più inestricabili (della stessa natura, per contro, di quello — confuso — dei Manoscritti del Mar Morto, dei Talmud e dei Midrashim).
talvolta ricopio letteralmente le parole (le traslittero).

E si perfeziona persino l'interpretazione pretendendo, per esempio a proposito di Matteo 27:46, che avendo Gesù in croce (sul legno, in greco stauros, «il palo») pronunciato parole di angoscia («dio mio, dio mio, perché...») e avendo potuto farlo solo in aramaico, lingua semitica prevalentemente parlata al suo tempo nei luoghi considerati (sic), 
Quella assurdità è ancora un luogo comune tra i commentatori moderni; è un ritornello obbligatorio.
conveniva, vediamo quindi, per realismo editoriale o per devozione, o per entrambe le ragioni, riportarle tali e quali.
Mentre con l'eccezione di una parola (LMʼ al posto di MTWL MH, «perché», «per che cosa») la detta esclamazione è solo un targum, cioè una traduzione, appunto aramaica, del Salmo 22:2 — targum qui inevitabile in vista di ciò che segue, cioè la confusione, restituibile soltanto in lingua semitica, messa in scena dagli ascoltatori, tra «mio dio» (ʼLY) e il profeta «Elia» (ʼLYH): cfr. Matteo 27:47; tradurre in greco l'esclamazione in questione, quella del salmo, invece di traslitterarla, avrebbe fatto perdere alla confusione fonetica ogni sapore e ogni dolore. 
Stessa cosa per il passo relativo alla resurrezione della dodicenne, in Marco 5:41: «figlia, alzati» essendo stato pronunciato dal Gesù del racconto in aramaico, era importante, ci viene detto, che Marco (giornalista?) 
L'interpretazione alla quale faccio allusione qui — gli evangelisti reporter — si unisce ai deliri di Renan sugli apostoli poco istruiti, ignoranti, analfabeti. Pensate dunque, il cristianesimo è stato fondato da pescatori di Galilea, e Giuseppe era carpentiere!... Renan, professore di ebraico, non sapeva che molti dei rabbini più illustri citati nel Talmud e nella letteratura correlata esercitavano mestieri di questo tipo: uno  calzolaio, un altro scalpellino, ecc.? Ciò non ha impedito loro di essere studiosi!... E gli esegeti e i predicatori moderni ripetono alla nausea queste assurdità... A proposito, quale ebraico insegnava Renan? 
restituisse l'ingiunzione in quella lingua, anche se ciò significava tradurla infine in greco, al seguito di una clausola a sua volta in greco («che vuol dire...»), clausola che si ritrova, sotto una forma o sotto un'altra, attorno a tali traslitterazioni («che si dice...», «che si interpreta...») in tutto il corpus.
I Vangeli sono anche, ma variamente, disseminati di glosse sui costumi ebraici. È questo, lo si vedrà più avanti, il lavoro dei traduttori (ebrei-greci) e non quello degli scrittori originali (se traduco un testo, diciamo, arabo o tibetano, in francese, sono costretto, a beneficio del lettore parimenti francese, ad aggiungere le note, i riferimenti — le glosse, appunto: qui, come si usa nei manoscritti antichi, le glosse in questione si sono amalgamate al testo principale).
Quella tesi, in uso — con o senza abbellimenti — 
L'abbellimento migliore — e il più diffuso — è quello dei Vangeli-come-testi-di-letteratura-originariamente-orale (il mio lettore gusterà, nei miei prossimi capitoli, cosa ne sia di quella cosiddetta oralità): essa è la conseguenza della tesi sugli evangelisti analfabeti.
presso tutti gli esegeti, presenta infatti un'estrema debolezza.

Prima di tutto, sarebbe valida solo se le parole così traslitterate appartenessero sempre a frasi pronunciate dal Gesù del racconto o da uno o l'altro dei suoi interlocutori. Ma ciò non è affatto il caso: «korbanas», «Golgota» e «Gabbatà», per esempio, occorrono nel tessuto narrativo, nella narrazione di eventi — e non nei dialoghi o nei monologhi.

Ma soprattutto essa non rende conto, contrariamente all'ipotesi iniziale di una preoccupazione di fedeltà e di realismo locale, del così piccolo numero, in definitiva, di termini aramaici così coinvolti e trattati. Se questa preoccupazione fosse davvero esistita laddove i nostri esegeti la suppongono presente, avrebbe dovuto diffondersi, mostrarsi più generosamente distribuita: le parabole, i dialoghi e i discorsi, le esclamazioni, avrebbero dovuto essere percorsi a volontà da parole aramaiche traslitterate poi spiegate e tradotte in corretto koïné. Invece, al posto di ciò, abbiamo a che fare con una pelle di zigrino: frammenti, semplici isolotti perduti, per tutto il Nuovo Testamento, in quasi 6000 termini di morfologia non semitica.

Perché delle parole aramaiche (traslitterate)? — Perché così poche parole in aramaico?

Niente, nelle razionalizzazioni degli esegeti, fino ad ora, ci permette di rispondere, in modo rapido e coerente, a queste due domande combinate. 


Seconda categoria di prestiti

Ma c'è una seconda categoria di prestiti nel corpus, e quella categoria non riguarda solo i Vangeli ma tutto l'intero Nuovo Testamento. Avrebbe dovuto essere oggetto di calcoli statistici, di inventari, di confronti — come minimo, di un riconoscimento ad ogni passo dell'analisi o della semplice lettura di ogni episodio o brano neotestamentario. Ebbene, tanto vale rassicurare o preoccupare tutto in una volta gli eventuali dilettanti sui monumenti fondatori del cristianesimo: nulla è stato fatto in questo ambito.

Qual è la situazione, grosso modo? — Per dirla in breve, questa classe di termini, molto più importante numericamente della prima, si compone di parole greche (o latine già adattate in greco), impiegate qui correttamente dal punto di vista morfologico, e che risultano figurare come per caso in veste di prestiti, per traslitterazione, nei Talmud, nei Targum e nei Midrashim, e nella letteratura correlata — detto altrimenti, in ciò che si è convenuto chiamare la letteratura rabbinica post-biblica (o peribiblica).
E nessuno ha realizzato la misura di questo afflusso straordinario, nel Nuovo Testamento, di tale vocabolario mutuato — mentre gli esegeti, per secoli e secoli, si contano a migliaia!
Contrariamente, in effetti, all'ebraico dei cosiddetti testi «settari» o «esseni» del Mar Morto, 
Testi sprovvisti dei prestiti di cui parlo qui — fenomeno di cui non si è (ovviamente no, fin qui) ricavato tutto il vantaggio che converrebbe. Ricordo che questi manoscritti sono scritti in minoranza in aramaico e in maggioranza in ebraico, lingua presunta defunta nei secoli considerati. Bravi i grecisti! 
queste immense compilazioni ebraiche dopo la distruzione del Secondo Tempio includono nel loro ebraico e nel loro aramaico una serie di parole, in particolare greche e latine, che hanno traslitterato, cacofonicamente o meno, 
Le cacofonie, spesso inevitabili (a causa del reciproco esotismo delle lingue semitiche e indoeuropee, e dei loro rispettivi alfabeti) sono talvolta squisite. Ne ho dato numerosi esempi nel mio capitolo precedente. Molti giochi di parole sono elaborati a partire da loro come a partire da nomi di persone e di luoghi (nomi fittizi o reali). 
nell'alfabeto di 22 lettere, il loro. E quella appropriazione di parole straniere, lungi dall'essere trascurabile o marginale, attraversa l'insieme di queste compilazioni: è raro che una pagina del Talmud non ne presenti diverse.
Cfr. su questo argomento, e a dispetto delle sue imperfezioni (meno numerose d'altronde di quanto si pretenda — spesso per ragioni tanto inconfessabili quanto extralinguistiche), il lavoro di S. Krauss, Griechische u. Lateinische Lehnwörter, ristampa Olms Verlag, Hildesheim, 1964 (l'edizione originale è del 1898-1899), e il dizionario di Jastrow. È un buon esercizio comparare e confrontare l'elenco delle parole greche o latine-grecizzate del lessico mutuato di Krauss con quello dei termini del Nuovo Testamento: non c'è un hobby più istruttivo nel week-end... I due elenchi, senza sforzo, contengono dozzine e dozzine di elementi comuni — e nessun esegeta menziona quella massiccia convergenza, nessuno!... mentre le conseguenze sono di grande peso.
Siccome il mio lettore potrebbe non essere familiare con questo tipo di letteratura e di problema, e certamente non ne ha sentito menzionare nelle omelie o nelle catechesi cristiane (o nei manuali di storia delle religioni), ne darò alcuni esempi.
In altre parole: un numero ridicolmente piccolo di esempi; è con centinaia di prestiti che si ha a che fare qui.

Alcuni esempi

Asthenēs, in greco «il malato», diventa nel tardo ebraico ʼSṬNYS, significato correlato. Salpix, «la tromba», vi diventa SLPYNGS, la traslitterazione operandosi (come accade spesso) sul plurale o sul genitivo dell'originale.
Notate che sto scegliendo parole che figurano anche nel Nuovo Testamento. — Per una buona analisi di questi meccanismi di prestito dal tardo ebraico, cfr., tra le altre opere, e oltre a quelle di Jastrow e Krauss già citate, M. H. Segal, A Grammar of Mishnaic Hebrew, Oxford, Clarendon Press, 1980 (ristampato, l'opera risalente al 1927), e Mireille Hadas-l.ebel, Histoire de la langue hébraïque, Parigi, 1981 (in quest'opera, chiara e facilmente accessibile, si apprezzerà ciò che ne è del cosiddetto ebraico estinto nei primi secoli della nostra era).
Sunedrion, «il senato», «l'assemblea», diventa SNHDRYN, il famoso (e misterioso) Sinedrio. Katēgoros, «l'accusatore», passa all'ebraico, così come katēgoria, «la denuncia», sotto le forme QTYGWR e QTYGWRYʼ, quando in opposizione a PRQLYTdal greco paraklētos, «l'avvocato», «il consolatore» (in ebraico biblico MNḤM, pronunciato ménahem — cfr. il famoso Paraclito cristiano che, in queste condizioni, non ha nulla di greco).
La radice NḤM (da cui proviene MNḤM, origine giudeo-ebraica del Paraclito) significa in ebraico biblico (voce nifal, quindi al passivo): «pentirsi», «cambiare idea», «consolarsi», «essere consolato», «consolarsi con la vendetta», «vendicarsi». Ménahem (derivato da quella radice, di conseguenza) è anche un nome proprio: così si chiamava un discendente (figlio o nipote) di Giuda di Gamala, martire zelota, ribellatosi al censimento che menziona Luca all'inizio del suo capitolo 2 (questo Giuda figura in Atti 5:37, accompagnato da un curioso errore cronologico); — altri discendenti di questo stesso Giuda, destinati per le stesse ragioni ad una fine della stessa natura, avevano per nome Simone e Giacomo (cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche 20). In Matteo 3:4, Giovanni il Battista è detto portatore «di una veste di pelo di cammello» e «cinto di una cintura di pelle»; questo abbigliamento, lungi dall'essere l'osservazione di cronisti, è una citazione di 2 Re 1:8, e di Zaccaria 13:4 — citazione letterale tranne che per una parola, kamēlos, «il cammello», in ebraico GML, stessa radice di «Gamala», città dell'anti-romano Giuda e degli zeloti galilei. 
E così via... perché si potrebbe allungare la lista: decine e decine di parole greche (o latine grecizzate) vi affluiscono.

Ma il mio scopo non è di spiegare la lingua dei Talmud — e degli ebrei di lingua ebraica del I° secolo. È di farci capire l'importanza di questo meccanismo di prestito tenuto conto del vocabolario dei soli Vangeli, nonché del Nuovo Testamento nel suo insieme. Perché si osserva qualcosa che il mio lettore, a parte l'esegesi secolarmente alla moda, deve aver intuito: un gran numero di parole greche del cosiddetto corpus cristiano 
Tra un quarto e la metà del totale, secondo le mie statistiche personali.
rientra ovviamente nella lista dei termini di cui il tardo ebraico si appropria come prestiti; ben di più: numerose nozioni e azioni tra le più significative che adornano i testi fondativi del cristianesimo sono sostenute, nel loro lessico, da termini che compaiono in quella lista: fino a diathēkē, «il testamento», cambiato in DYʼṬYQY!...


L'episodio della morte di Giovanni Battista

La morte di Giovanni Battista: Matteo 14:3-12, Marco 6:17-29, e Luca 3:19-20. Come dappertutto, né più né meno che dappertutto nel corpus, una miniera di prestiti. 

Erode cattura Giovanni e lo mette in prigione, in greco phulakē: prestito dal tardo ebraico nella forma PYLQY, stesso senso; questo termine si avvicina (in ebraico, nel lessico mutuato) a PYLQYN o PYLQYS, duplicato del greco pelekus, «l'ascia», lo strumento di una decapitazione.

Erode ha paura della folla, okhlos
Paura della folla costante nei Vangeli. Il parallelo tra la morte di Giovanni («consegnato» come Gesù, cfr. Marco 1:14) e quella di Gesù-Giosuè è tanto sorprendente quanto quello che presiede alla loro nascita. Così, tra gli altri esempi, Giuseppe è detto tektōn, «carpentiere (?)»; questa parola è sempre data nella Septuaginta (ma anche in Aquila e nelle versioni concorrenti) come equivalente all'ebraico ḤRŜ. Ora questa parola ḤRŜ vuol dire, tra molti altri significati («lavoratore», ecc.), «il sordo», «il muto», «il sordomuto» (è in questo senso che lo intende generalmente il tardo ebraico), «colui che fa il sordomuto»; ora Zaccaria è reso muto al momento della nascita di suo figlio Giovanni (questo confronto, noto e insisto, non si riconosce ovviamente se non tramite un ricorso all'ebraico, per mezzo di una retroversione dal testo greco). 
adattata nel tardo ebraico sotto la forma ʼWKLWZYʼ, «raccolta di truppe o di lavoratori forzati», «esercito».
Vedete, sempre, questo spostamento di significato! E traetene, a proposito del corpus, alcune forti conseguenze.
È il compleanno del re: genesia, in prestito GYNYSYʼ, «anniversario della nascita o della morte», «commemorazione», ma anche: «la nascita nobile», «la nobiltà».
Il traduttore primitivo (ebraico-greco) di Matteo ha utilizzato il prestito mentre quello di Marco l'ha tradotto: parla di un «buon giorno», duplicato dell'ebraico YWM TWB (si dice «buon giorno» per «compleanno» in greco?) — il termine ebraico primitivo che aveva davanti non era dunque mutuato. 
La figlia di Erodiade si mette a danzare, orkheomaï in prestito ʼRKYSTYS, «la danzatrice», termine foneticamente simile a tutti i prestiti che cominciano per ʼRKY, duplicato del prefisso greco arkhi, «capo di», «inizio di».

E poi: lei danza chissà dove, ma «in mezzo», en tō mesō, ancora un prestito, MYSWN, stesso senso, che suona perfettamente come MYSWN, stessa grafia, questa volta duplicato del latino missus, «il pasto», «il piatto»: il ballo si svolge, lo si ricordi, nel mezzo — nel corso — di un pasto.

E non è finita.

Erode accetta con giuramento di darle ciò che lei gli domanderà; «accettare» qui è omologeō, che in tardo ebraico dà ʼWMWLWGYYʼ, «l'accordo», «il contratto», «il conferimento».

La ragazza chiede che le si porti la testa del Battista «su un piatto», pinax, il prestito più succulento, in effetti, dell'episodio: adattato in ebraico, diventa PNQS (o PYNQS), non «il piatto», ma «il registro», «la tavoletta», «il libro dei conti del mercante, dello scrutinatore, dello scriba»; questo termine, come prestito appunto, è parallelo a TBLʼ, dal latino tabula o tabella, stesso senso («la tavoletta»).
Pinax: in puro greco «il piatto», in prestito «il registro»... E accade così per molti termini presenti nel Nuovo Testamento, termini che — lo ripeto, non lo ripeterò mai abbastanza —, passando dal greco all'ebraico per traslitterazione, hanno cambiato significato o connotazione: ma allora, quando li si incontra, si deve comprendere questi termini nel loro senso greco o nell'accezione che hanno acquisito come prestiti? — Ma i nostri traduttori di turno invece non hanno la minima idea di questo tipo di difficoltà: tutto per il loro greco, traducono il greco dei Vangeli, delle Epistole e dell'Apocalisse a grandi colpi di dizionario greco! E su questo — su questo falso greco preso per una lingua pura — si inventa l'esegesi... 
Ora, in ebraico questa volta, la radice TBL è quella dell'immersione, del battesimo; TBL, in puro ebraico, è «battezzare»: è normale, narrativamente parlando, che Giovanni, chiamato «il battista»
Oppure: «il battezzatore» — così, in ebraico, HTWBL (participio presente, qal).
abbia visto il suo nome, dopo la sua nascita, posto su una (piccola) tavoletta, pinakidion in Luca 1:63, e al momento della sua morte (?) la sua testa deposta su un piatto, appunto pinax o tabella, a sua volta una tavoletta: 
La tavoletta è presente anche al momento della morte di Gesù; è su una tavoletta che si scrive, in tre lingue, «re dei Giudei» — ancora un parallelo tra Giovanni e Gesù. 
«battista» e «tavoletta», che non hanno più relazione fonica e grafica in greco che in francese, suonano perfettamente simili in ebraico (puro da una parte, in prestito dall'altra).
È da lungo tempo che gli esegeti, soprattutto quelli che si preoccupano tanto di semiotica e semantica, avrebbero dovuto insistere su questi, tra mille altri fatti testuali meno significativi, molto tempo fa (insistere o, prima di tutto, vederli)!
Quanto a «mettere la testa di qualcuno su una tavoletta», o «su un registro» (cfr. l'espressione biblica NŜʼ ʼṬ-RʼŜ, letteralmente «sollevare, portare, la testa»), ciò significa «registrarlo», «recensirlo», «includerlo in un'enumerazione o in un arruolamento»: si sa a quali rivolte gli zeloti, tra gli altri, si sono accinti, all'epoca in esame, al solo pensiero di essere recensiti ed enumerati dall'occupante romano e dai suoi tirapiedi, manifesta violazione di almeno due versi della Torà: Genesi 16:10, e 32:13.
Devo ricordare, per quanto riguarda il battesimo, che l'acqua, in ebraico MYM, è per i rabbini (e per i samaritani?) il simbolo della Torà, e, per quanto riguarda il banchetto di compleanno, che la stirpe di Erode è idumea, ossia non ebraica? 

La morte del Battista in Marco

Finora ho commentato la versione di Matteo; quella di Marco, in parallelo, mostra una sovrabbondanza di prestiti: per esempio, tutti gli ospiti di Erode sono prestiti, ovvero: megistan, che, per tramite del latino magister, diventa MGYSTYR, «ufficiale superiore imperiale», khiliarkhos, diventato KLYRKYN, «capo di mille (soldati)», e infine prōtos, adattato in ebraico sotto la forma PRWTY, «primo», «eccellente, di prima classe», «capo».
Cfr. il vocabolario del pasto in Ester e in Daniele, sia nelle versioni greche che nell'originale semitico — ma non posso dire tutto.
La ragazza sa domandare «rapidamente», euthus, in tardo ebraico ʼWWTYʼWS, stesso senso.

L'esecutore di vili azioni è, in Marco, ancora una volta, un prestito, spekoulatōr, in tardo ebraico SPQLʼTWR o ʼYSPQLTWR, «la guardia armata», «l'aguzzino».
Siccome si tratta di un termine latino grecizzato e il Secondo-Marco impiega diversi termini di questo tipo (legion, denarion, ecc. — tutti a loro volta prestiti tra i rabbini), alcuni furbi (o meglio: molti furbi, tutti furbi) hanno concluso che questo Vangelo fosse stato prodotto da uno scrittore residente a Roma (cfr., per esempio, Cullmann, Le Nouveau Testament, PUF, Parigi, 1976, pag. 28: «Troviamo dei latinismi nel suo greco — trascrive parole latine in greco — quindi non è escluso che abbia scritto il suo Vangelo a Roma»): purtroppo per questi incauti deduttori, molti rabbini — ed ebrei in generale — che utilizzano quel tipo di termini, nei Talmud, nei Midrashim e in altri scritti, non hanno mai messo piede nell'Urbe. Tutti i rock'n'rollers di ieri e di oggi sono andati a farsi un giro a Los Angeles, a Memphis o a Liverpool con il pretesto di parlare di «punk», di «cool» o di «shoot»? — Ma, con i Vangeli, è permesso dire chissà cosa, purché sia indovinata!
E, alla fine dell'episodio, in Marco come in Matteo, i discepoli si fanno carico del cadavere, 
Ancora un parallelismo con la traiettoria di Gesù-Giosuè. 
del corpo, ptōma, in prestito PYTWMʼ, «resti di chi è morto di morte violenta»


Conseguenze delle analisi precedenti

E così ne è per l'insieme degli episodi, dialoghi e narrazioni confusi, dei Vangeli, delle Epistole, degli Atti e dell'Apocalisse canonici: si nota in ogni verso la presenza di termini greci introdotti, per prestito, nel vocabolario del tardo ebraico (post-biblico e periblico); nessuna parte del corpus vi sfugge (anche se è possibile, e infine auspicabile, una tabella che stabilisca chiaramente la statistica modulata del loro impiego: ma questa tabella resta da fare).

La sintassi dei Vangeli (e del Nuovo Testamento nel suo insieme), per le sue espressioni proprie, non greche, per i suoi idiotismi, non greci, 
Nel suo libro, dal titolo senza dubbio mal scelto, La Clé traditionnelle des Evangiles, Parigi, 1936, Paul Vulliaud produce (pag. 192-256) un catalogo vertiginoso delle espressioni semitiche più evidenti tra quelle che popolano il Nuovo Testamento. Da questo impietoso campione, i partigiani di una redazione originariamente greca del corpus ne escono annientati. Polibio, la koïné e i papiri ellenistici, che tirano sempre fuori dal loro cappello (cfr. Bultmann), non vi reggono! 
per il suo uso costante di semitismi irricevibili, inconcepibili, sia nel greco classico che nel greco della koïné
E per i suoi errori in greco, riprovevoli perfino in un autore che si suppone si esprimesse in koïné: così, per citarne solo uno, vedete i verbi che portano complementi a casi o con preposizioni che non richiedono, mentre questi casi e queste preposizioni, erroneamente introdotti, sono equivalenti ad espressioni semitiche recuperabili, indiscutibili, identificabili. Ma non insisto: i riassunti di Vulliaud, mai citati, mai ripresi, sono, anche su questo punto, luminosi.
ci mette già la pulce nell'orecchio.

Ma il fatto che occorrano, ed occorrano in abbondanza, così tanti prestiti, nel senso in cui li ho definiti, quelli della seconda categoria, è allora decisivo:
Perché mi si comprenda bene: gli evangelisti, nella versione greca dei loro racconti, quando diverse parole greche si prestavano praticamente a designare o qualificare tale e tale personaggio, tale e tale azione, tale e tale nozione, sceglievano precisamente quella che figura come prestito nel vocabolario del tardo ebraico (e dell'aramaico): ad esclusione delle altre, a loro scapito. Se si trattasse solo di alcuni casi isolati, sarebbe un caso, una coincidenza: ma gli esempi abbondano — è un gioco ritrovarli. — Questa scelta non è stata fatta dagli evangelisti primitivi ma, lo si vedrà, dai loro traduttori (giudeo-greci).
i Vangeli sono traduzioni dal semitico, aramaico o ebraico.  

Ma, tra le due lingue semitiche — l'aramaico e l'ebraico — ora in competizione a scapito definitivo del greco, solo l'esame di ciò che ho definito più sopra i prestiti della prima categoria può ragionevolmente permetterci di decidere — e di decidere a favore dell'ebraico, a scapito questa volta dell'aramaico.
Attenzione, sabbie mobili! Qui è troppo per gli studiosi: il caro greco, qui, è già difficile per loro; ma rifiutare anche l'aramaico... Sento schiaffeggiarmi sulle dita: usciranno fuori la loro antifona sulla lingua-ebraica-morta-nel(nei)-primo(primi)-secolo(secoli)-della-nostra-era. 
 
Per farmi meglio comprendere

Ragioniamo per analogia.

Una delle forme di ragionamento ebraico: forma che i rabbini (e i saggi samaritani) non hanno preso da Aristotele, anche se ciò fa male ai nostri ellenisti.
Il poeta inglese contemporaneo J. H. Prynne è l'autore di un pezzo di una cinquantina di righe composte in omaggio alla memoria di Paul Celan. Essendo Celan tedesco, la poesia reca, nell'originale inglese, un titolo in tedesco: Es lebe der König. Così il pezzo è scritto in inglese, ad eccezione del suo titolo. Avendo dovuto tradurre questo testo in francese, cosa ho fatto? Ho messo tutta la poesia in francese, e ho mantenuto il suo titolo-citazione in tedesco: solo esso è rimasto intatto, linguisticamente estraneo alla traduzione (francese) come lo era originariamente al testo (inglese).

Lo stesso vale per i Vangeli.

Il processo è parallelo tranne che per un dettaglio.

Se originariamente fossero stati scritti in una sola lingua, l'aramaico, non si capisce perché gli antichi traduttori (in greco) avrebbero lasciato qua e là, intatti e solo traslitterati, alcuni termini proprio aramaici: anche questi, come gli altri, avrebbero dovuto essere tradurli, e non accontentarsi di trascriverli!

Per contro, come nel caso della poesia di Prynne, in gran parte in inglese, in minima — in minimissima — parte in tedesco, se i Vangeli sono stati scritti dapprima globalmente in ebraico con qua e là qualche (raro) termine aramaico, 
Questo è il caso della letteratura ebraica di ogni epoca.
è comprensibile che, come nel mio caso, i traduttori (primitivi) abbiano fatto passare tutto l'ebraico nel greco e conservato tali e quali, intatte, le parole aramaiche — salvo poi, in seguito e a margine, tradurle e spiegarle in greco.
Traduzioni e spiegazioni non fanno quindi mai parte della scrittura originale. 
Se non si fosse trattato di poesia, ma di un trattato  per esempio tecnico — in prosa, avrei fatto lo stesso: avrei scritto una nota, un riferimento, dicendo chiaramente che Es lebe der König, in tedesco nel testo (espressione di rito), significa «Viva il Re!» Ma l'urgenza di una spiegazione di questo tipo, che seguisse la loro trascrizione rendendola accessibile ai non semiti, era più grande per loro che per me: perché, se un francese alfabetizzato è supposto conoscere il tedesco e conoscere almeno l'opera di Büchner da cui è ricavato il titolo-citazione della poesia di J. H. Prynne, gli antichi traduttori del Nuovo Testamento non hanno potuto pensare — e hanno avuto ragione— che il lettore medio greco (giudeo-greco) avrebbe capito, alla semplice lettura di una trascrizione (di una traslitterazione), sia «talità kum» che «lema sabactani» — tanto più che l'alfabeto tedesco è lo stesso di quello francese, mentre quello greco differisce di molto da quello dei semiti.

C'è dunque in tutto ciò una logica elementare, in realtà banale, che mi sorprende non abbia ancora varcato la soglia dell'esegesi. Non sarà quindi che essere esegeta equivarrebbe a non preoccuparsi seriamente (urgentemente) della lingua originale del testo sul quale si è presunti lavorare ? 


Degli esempi

Resta ora da capire perché l'originale semitico non era scritto interamente in ebraico.
Va inserito nel dossier il fatto che tutti i testi ebraici includano parole aramaiche, normale conseguenza della parentela tra le due lingue — conseguenza, anche, della notevole pressione che si esercita da molto tempo, nel I° secolo, sulla «lingua sacra» (l'ebraico), pressione nel contempo domestica e politica dell'aramaico, lingua transnazionale.
Il lettore lo ha forse già intravisto, poiché un principio di risposta è già stato fornito più sopra. Ecco qui:

«Talità kum», prima di tutto, in Marco 5:41. — In aramaico, e non in ebraico, TLYṬʼ significa quindi «la bambina», «la fanciulla». La scena riguarda, stando al passo sinottico di Luca (8:41), la figlia di Giairo. Costei sta dormendo, sul punto di morire, e Gesù la risveglia, la solleva. Ma l'episodio è come interrotto dall'intervento di una donna affetta da emorragia: la donna, impura secondo la tradizione e la legislazione ebraica, tocca l'orlo della veste di Gesù/Dio-salvatore. Ora, se TLYṬʼ vuol dire proprio «fanciulla» in aramaico, TLYṬ significa «veste» in ebraico:
L'alfabeto ebraico e l'alfabeto aramaico sono identici in quel tempo (almeno tra gli ebrei, perché i samaritani invece hanno conservato la grafia primitiva e autentica).
è il vestito (equivalente al pallium romano) che portano, come segno di distinzione, gli ufficiali e i letterati; è anche, e soprattutto, la veste che si indossa facendo, per esempio, la preghiera del mattino, e dai cui quattro lati pendono frange, ṢYṢṬ (termine ovviamente presente nella narrazione evangelica originale).

Nell'originale è facile di conseguenza immaginare che esistesse un gioco di parole (un legame linguistico) tra «la fanciulla» e «la veste»; questo gioco di parole funzionava evidentemente a pieno regime solo in semitico: ebraico (la veste) contro aramaico (la fanciulla). I traduttori antichi, incapaci — e per una buona ragione! — di renderlo in greco, hanno creduto bene di fare la cosa giusta conservando intatta la sua parte aramaica (da cui «talità» trascritto) mentre riversando in greco la sua parte ebraica (dall'ebraico TLYṬ si è così passati all'imation greco, in entrambi i casi «abito», «veste»). Questa procedura, ibrida, si chiarisce solo tramite un ricorso inevitabile (e non di lusso!) al lessico semitico: nulla nel greco solo, perfino ornato da una trasparente trascrizione aramaica, ne rende — necessariamente — conto.

Stessa cosa per il grido di dolore emesso sulla croce (a partire, lo ripeto, da un salmo vecchio di più secoli). La pura e semplice trascrizione dell'invocazione — l'ho già detto — serve a rivestire e conservare al meglio il gioco di parole «mio dio»/«Elia», gioco incomprensibile non appena lo si fa calare nel vocabolario greco («dio» dicendosi e scrivendosi theos — nessuna relazione fonica o grafica con «Elia»).
Nel Vangelo di Pietro, il greco non porta «mio dio», ma «mia forza», variante che si comprende, anche qui, solo sulla base dell'ebraico, ʼLY significandovi entrambe le cose (cfr. Vangelo di Pietro 5:19).
Con «Golgota» il problema è un po' diverso, un po' più eccitante. Si tratta di una traslitterazione dell'aramaico GWLGLṬʼ, termine di cui non si è sentito parlare da nessuna parte, se non qui e nei catechismi, come di un luogo: 
Ma i Vangeli sono abituati, nel loro greco, alle creazioni di luoghi — la più strana di queste creazioni, in vista della sua posterità, essendo beninteso Nazaret; ma anche Arimatea non è neppure male.
è il «cranio»
Ancora un parallelo tra Gesù e Giovanni: uno muore nel luogo (?) del «cranio», e all'altro si taglia la «testa».
traduzione peraltro data all'unanimità nelle glosse (di traduzione, appunto) di Matteo 27:33, di Marco 15:22, Luca 23:33, e di Giovanni 19:17. Tutti i traduttori europei concordano nel prestare alla parola solo quest'unico significato («cranio»), mentre in realtà ne possiede due nei Talmud e nella letteratura ebraica: GWLGLṬʼ non essendo soltanto «la testa, il cranio», ma anche «l'imposta (pro capite)», «la tassazione (romana)».
Si veda il dizionario di Jastrow, pag. 22lb. La parola viene dalla radice GLL, radice che produce «Galileo», «Galilea», «girare» (la pietra di una tomba, per esempio), ecc., radice vicina a GLH, «svelare», uno dei cui equivalenti greci, per via di traduzione, dà la parola «apocalisse»! — più nulla del lavoro su quella radice ebraica traspare, beninteso, nel greco del Nuovo Testamento. 
Lascio al lettore il compito di riflettere sulla presenza, qui, di questa imposta.
E di ricordarsi di ciò che ho detto più sopra sul cosiddetto piatto presente al banchetto di Erode al momento della danza di Salomè. 
Tanto più che è lo stesso, in prossimità, per «Gabbatà»; si dice che sia il luogo dove siede Pilato in Giovanni 19:13 (a quattro versi dal Golgota...). ); e i traduttori (giudeo-greci) fanno una loro glossa: eis topon legomenon Lithostrōton, detto altrimenti: «il luogo del Pavimento»; non si saprebbe dire per quale insospettabile miracolo «Gabbatà» significhi «pavimento»; per contro, questo potrebbe benissimo essere l'equivalente grafico dell'aramaico GBYWṬʼ, un luogo in effetti, ma dove officiano i pubblicani, i GBʼYM, coloro che raccolgono la tassa romana.

Da Gabbatà al Golgota, si vede che c'è solo un passo, ma non quello che si crede.
Nessun bisogno di insistere sul fatto che degli (gli?) archeologi, pieni di intenzioni e di successi, hanno trovato e identificato il «pavimento» di cui si tratta presuntivamente qui; l'hanno trovato: lo si visita! 
Sia Gabbatà che Golgota mi ricordano — non so perché — il Midrash Rabbah su Ester (M. R. Est. 7:21): «Il valore numerico di HKSP, l'argento, è 165, lo stesso di quello di HᶜṢ, la croce, il legno — il totale del valore numerico delle lettere dell'uno è uguale a quello dell'altro».
Testo basato sul calcolo gematrico (ogni lettera dell'alfabeto ebraico essendo anche un numero o una cifra). Un testo che, a sua volta, mi ricorda certe caratteristiche del personaggio di Giuda. — Acrostici, calcoli e trasferimenti numerici di lettere, anagrammi, giochi di assonanze, doppi sensi (i migliori e i peggiori, ma sempre efficaci narrativamente ed esegeticamente), ecc., abbondano nei Talmud, nei Midrashim e... nella Bibbia ebraica, — ma anche sotto gli occhi di chi, pazientemente, tenta di retrovertere tale e tale passo del Nuovo Testamento (e di tanti apocrifi, e tanti libri o frammenti gnostici). Una traccia di queste procedure, subito preclusa in greco, molto a suo agio nell'economia dell'ebraico come lingua, emerge peraltro con «il numero della bestia» di Apocalisse 13:18: è lì il timido punto saliente di un voluminoso iceberg — il passaggio al greco ha affondato e annegato la totalità del blocco. 
Continuo.


Le Chiese e i loro testi fondativi

L'Occidente, e questo è comico, possiede l'estrema peculiarità di appoggiarsi anche nelle sue mentalità, nei suoi modi di sentire, di pensare, di giudicare e di agire — ma, forse soprattutto, di immaginare — su due lingue alle quali non ha mai avuto accesso, se non marginalmente, se non per mezzo di traduzioni: il greco e l'ebraico. E la Chiesa romana, nucleo e fulcro di questo dissidio, assume e sviluppa quasi a suo piacimento tutti gli aspetti di quella commedia: derivata da due corpi che non le appartenevano, prima quello ebraico, poi quello che raccoglie Bisanzio, li ha sostituiti con un terzo, quello latino: non più una Bibbia ebraica, giudaica, non più un Nuovo Testamento greco, ma una traduzione-adattamento di entrambi.

E si assiste allora all'inaudito: l'allestimento di un intero edificio ideologico e fantastico le cui fondamenta sono state acquisite, funambolicamente, al mercato dell'usato — per via di traduzioni.

Ma questa è solo il primo aspetto della commedia di cui parlo. Infatti la mia espressione «mercato dell'usato» (o «di seconda mano») si applica strettamente alla Bibbia, all'Antico Testamento. Per quel che è del Nuovo Testamento, non è una traduzione che si affronta, ma una traduzione di traduzione, questi testi, originariamente semitici (e destinati ai semiti), essendo stati messi in greco, poi, attraverso il greco, in latino e nelle lingue vernacolari. Mercato non di seconda mano questa volta, ma di terza mano... Bella manovra detta dei tradimenti successivi: per cui ci si domanda cosa può rimanere nella mente di un lettore (presunto appartenente ad una cultura «giudeo-cristiana» — cliché ben noto) del Nuovo Testamento tradotto dal greco (il suo greco semitico) in francese, in inglese o in tedesco — o, per molto tempo, in latino — delle idee, dei modi di sentire, delle mentalità, dell'originale stesso? Bella domanda: frammenti di pezzi; anche un bel po' di malintesi.

Passo ad altro, almeno in apparenza.


René Girard «lettore» del Nuovo Testamento

Nel suo studio intitolato Le Bouc émissaire (Parigi, 1982), René Girard offre dei Vangeli — voglio dire: dei Vangeli come testi — un'immagine che, pur essendo condivisa dalla totalità dei critici, non è meno fittizia.

Secondo lui, infatti, questi sono dei libri «scritti in un greco spurio, cosmopolita e sprovvisto di prestigio letterario». E continua: «Sono, inoltre, perfettamente traducibili 
Ah, lei sa tradurre epiousios nel Padre Nostro, signor Girard? Ecco una vera buona notizia — sono secoli che non ci si riesce. E gli hapax del Nuovo Testamento, sa renderli anche in francese, essendo sicuro del loro significato? — È enorme.
e si dimentica presto, quando li si legge, 
Spero che le pagine precedenti mi abbiano davvero permesso di mostrare al lettore che, se c'è un corpus di testi di fronte al quale non va «dimenticato» nulla, è proprio quello del Nuovo Testamento: di fronte ad esso, bisogna far prova dell'attenzione meno smemorata
in quale lingua li si sta leggendo, purché si conosca il greco originale, la vulgata latina, il francese, il tedesco, l'inglese, lo spagnolo, ecc. Quando si conoscono i Vangeli, la loro traduzione in una lingua sconosciuta è un modo eccellente per penetrare, a basso costo, 
Si vedrà più oltre che il prezzo di un tale abbaglio è, al contrario, molto doloroso.
nell'intimità di quella lingua. I Vangeli sono tutto per tutti; non hanno accento, perché hanno tutti gli accenti» (pag. 218-219).

Sorvolo fischiando sul possibile uso di Luca o di Giovanni come creatori di un metodo Assimil a basso costo; quella perla è quella che porta meno conseguenze.

Per contro, cosa si penserebbe di uno specialista di Omero o di Li T'ai-po che non sapesse leggere, nel testo, né il greco né il cinese, e che addirittura si compiacesse e si vantasse di quella ignoranza, e che arrivasse a vantarsi di aver imparato l'ungherese o il russo in tale e tale traduzione dell'Iliade? Lo si rinvierebbe a studi più solidi. Ma no: con un corpus «tutto per tutti», tutto è decisamente permesso.

Eccoci qua.

Ma soprattutto: è certo che i Vangeli siano, come ci rimangono, scritti in un greco "imbastardito», «cosmopolita» e «sprovvisto di prestigio letterario»? Nessuno di questi attributi, del resto, si adatta a loro.
Già l'espressione «scritti in greco» è sbagliata: potrebbe indurre a credere che la scrittura iniziale sia stata fatta in greco, il che è immediatamente contraddetto da un esame dello stile e della sintassi del corpus. 
Come mostrano chiaramente la sua sintassi, il suo vocabolario, l'abbondanza (come nell'ebraico o nell'aramaico dell'epoca, tra i rabbini e non solo tra loro) dei suoi prestiti, 
Ne ho appena parlato a lungo. Vanno messi pure i prestiti nel dossier, d'ora in poi.
il greco del Nuovo Testamento — e dei Vangeli in particolare — è una lingua di traduttori, e (se occorre precisarlo ancora) di traduttori letterali. 
Un po', senza che il sistema sia così rigido tra loro (e geniale nel suo genere), nella maniera in cui è riuscito a farlo, nel suo campo — quello della Bibbia ebraica — Aquila.
Lungi dall'essere quello della cosiddetta koïné
Il modo in cui Vulliaud si fa beffe di quella pseudo-tesi, confutandola col supporto di prove numerose e schiaccianti, segna una buona data nella storia dell'alleanza tra (vera) erudizione e polemica. 
è un greco semitico, un duplicato assoluto, una lingua artificiale per natura, quella degli scribi che hanno sotto gli occhi uno o più originali in ebraico, e che si applicano — sforzandosi — di riversarli in greco il più fedelmente possibile, senza altra pretesa che quella.

Tutto nei Vangeli, la maniera di citare le Scritture, il posto dei complementi sostantivati, l'utilizzo dell'infinito assoluto, l'uso dei verbi «fare», «rispondere», «salire», «discendere» (ecc., ecc.), uso idiomatico, i giochi di parole (persi nel greco ma presto chiariti non appena si retroverte), e mille altri indizi, tutto ci rimanda al nucleo semitico. Prima di essere «tutto per tutti», secondo l'infelicissima espressione di Girard, i Vangeli sono — erano, primitivamente — prima di tutto letteratura ebraica.
E ancora non faccio menzione, qui, che della lingua e dello stile; non parlo dei concetti: messia, nomi divini, immersione, alleanza, ecc. ecc. e delle procedure mistico-letterarie: parabole (il mashal ebraico), gematrie, ecc.
Quanto al prestigio letterario...

Si può giudicare il prestigio letterario di un corpus che ora si possiede solo in traduzione scolastica?
Si giudica Shakespeare e il suo «prestigio» sulla traduzione di François Victor-Hugo?
È una cosa seria? È serio, come fa incautamente Girard, analizzare il significato di «Paraclito» e «scandalo» sulla sola e unica base dell'etimologia greca, quando questi due termini, peraltro usati nello stesso modo nella Septuaginta, sono solo duplicati delle radici ebraiche da cima a fondo, NḤM e KŜL ?
Cfr. Girard, op. cit. pag. 190, e il capitolo 15. 
Girard, affrontando infine non più i Vangeli in generale
Come faceva nel suo libro precedente, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Parigi, Grasset, 1978. Quest'opera costituiva un'impalcatura teorica, tra l'altro, sul cristianesimo, di cui ignorava i testi più antichi (Pastore di Erma, per esempio, Epistola di Barnaba, Apologeti e Padri Apostolici, ecc.) — forse perché questi testi contraddicono le sue tesi?
ma passi precisi, cerca ad ogni costo, da filosofo, da sociologo, da teologo, ma certo non da linguista (da semplice lettore), di rendere conto di tre estratti dai limiti ben definiti: decapitazione di Giovanni Battista, rinnegamento di Pietro, e i demoni di Gerasa.
A condizione che si accettino queste etichette ricevute, etichette che rimettono in discussione l'esame (la retroversione) dei passi in questione.
Per confutare la sua ben nota teoria del corpus cristiano come immagine massima di una «totale assenza di complicità positiva o negativa con la violenza» (pag. 183 del Bouc émissaire), il nostro autore avrebbe fatto meglio a guardare, per esempio, i mercanti del Tempio, il fico appassito, o lo statere estratto dal pesce, — ma passiamo oltre. Accontentiamoci, attraverso il primo episodio citato, di assaporare il ritratto che Girard traccia dei Vangeli come testi.

 
Come Girard uccide Giovanni Battista

La morte del Battista... 
Apprendiamo da subito, a freddo, che ekhein, «avere», nella frase di Giovanni «Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello»
Cfr. Matteo 14:4, e Marco 6:18.
non ha alcuna «connotazione legale». Un «Non ti è permesso» senza una connotazione legale, ecco che è singolare... Ma il commentatore, sicuro della sua inaudita scoperta, aggiunge: «Non installiamo il legalismo pignolo in luoghi dove non ha mai regnato» (pag. 184-185). Se il giudaismo è un luogo, e la Palestina idem, dove il legalismo non ha regnato, pignolo o meno secondo i gusti, lo è certamente solo per Girard: è da Freud che lo mando — dev'essere un lapsus!
La traduzione di Soncino del Talmud cosiddetto «di Babilonia» arriva a diciotto volumi di «pignolerie».
Tanto più che sulla questione del matrimonio, e del matrimonio con la moglie del fratello, i rabbini in particolare e gli ebrei (e i samaritani) in generale sono legalisti a volontà.

Dopo quel primo abbaglio superato con passo leggero, si apprende in seguito che la figlia di Erodiade è designata qui korasion e non korē perché lo scrittore avrebbe voluto specificare l'età dell'interessata: «fanciulla, ragazzina», al posto di «ragazza». Questo equivale a dimenticare la Septuaginta che riserva korē per... la pupilla dell'occhio, 
Cfr. Hatch-Redpath, Concordance to the LXX, pag. 779c. Per un lettore del Nuovo Testamento, quella concordanza (come quella di Aquila e altri) è di certo molto più utile di Heidegger e del suo «Mitsein» convocati da Girard al banchetto del tetrarca.
pur facendo quasi sempre di korasion l'equivalente dell'ebraico NᶜRH, in particolare nel Libro di Ester, libro citato da Marco in occasione dell'assassinio del Battista.
Ma, lo si vedrà presto, Girard ritiene che quella citazione sia superflua... 
Ora NᶜRH, non dispiaccia a Girard, significa nella Bibbia significa «la giovane ragazza» così come «la giovane donna» o «la serva» — l'età, qui, talvolta non ha alcuna importanza.

Si apprende anche che «il genio evangelico non ha niente a che vedere con la cortigiana di Flaubert, la danza dei sette veli e il ciarpame orientalista» (pag. 189); ma questo equivale a dimenticare che l'immagine di quella danza e di questo ciarpame non risale né a Flaubert né a Mallarmé; guarda, lo vedo già negli Atti di Pilato 
Pag. 137 dell'edizione copta Graffin-Nau, già citata.
dove si legge: «La ragazza 
I traduttori copti sono più flessibili di Girard sull'età di Salomè (se Salomè c'è); essi sono meno pignoli. 
prese nelle sue mani una coloquintide delicata e un fiore di giglio rosso che emanava un buon odore»; e il ciarpame continua: «portava un abito di grande valore. Era vestita con una bella tunica da danza cosparsa di fiori, mentre una sottoveste di porpora le cingeva i fianchi»
Quel che Girard chiama «ciarpame», questo cosiddetto bazar orientale, è vicino a quello del Cantico dei Cantici, libro ispiratore per eccellenza, non degli appassionati di strip-tease, ma dei più grandi studiosi e mistici ebrei.
Questo testo non è, come quello di Flaubert, del 1876; risale, per quanto se ne sa, al I° o II° secolo. Noto, di passaggio, che la danzatrice porta un fiore di giglio: ora il Libro di Ester è ambientato in gran parte a «Susa la Cittadella»; «Susa» e «giglio» si dicono, congiuntamente, in ebraico (non in copto, e non in greco!), ŜWŜN, termine che designa anche uno strumento musicale.
Ci si ricordi di questo tipo di dettagli; avranno più oltre la loro importanza.
Sempre pedagogo del «tutto per tutti», Girard ci insegna ancora che il testo di Matteo appare «schematico» (pag. 189): «questo schematismo», dice, «sconcerta tutti i commentatori». Questo equivale a far mostra, senza o con i detti commentatori, di una vigile e scrupolosa ignoranza dei racconti dei Talmud, dei Midrashim e della letteratura ebraica (o samaritana) correlata. Meglio ancora: questo cosiddetto schematismo si ritrova anche in una miriade di episodi biblici: ma esiste solo nelle traduzioni (indoeuropee), agli occhi del lettore che non ha alcuna idea precisa delle risorse dell'ebraico in fatto di sottintesi.

Poi Girard fa una digressione per una nozione non presente nel passo studiato, ma secondo lui essenziale, quella di «scandalo», in greco skandalon: abbiamo diritto all'etimologia greca di questo termine così spesso in effetti utilizzato nel Nuovo Testamento, come peraltro nell'Antico (nella versione greca della Septuaginta, in quella di Aquila, ecc.); ma Girard avrebbe dovuto risparmiarci quella banale etimologia: skandalon è qui, come altrove, solo l'equivalente approssimativo per gli antichi traduttori (biblici e peribiblici), della radice ebraica KŜL — è lì, su KŜL, e se ce ne fosse bisogno, che l'analisi avrebbe dovuto concentrarsi fin da subito (ed esclusivamente).
KŜL, in ebraico quindi, significa qualcosa di più violento di quello che i commentatori mettono sotto il greco skandalon; è «inciampare», ma anche «cadere», «morire» (in senso proprio e figurato).
Per illustrare lo scandalo e i suoi misfatti, Girard cita poi Matteo 18:5-7: «Chi accoglie un bambino...» e, su questo testo, pone una distinzione tra il bambino e l'adulto, altro effetto della sua ignoranza dei luoghi in cui il legalismo si fa talvolta pignolo: QTN, in ebraico «piccolo» o «essere piccolo», indica nella letteratura ebraica non necessariamente il bambino in contrapposizione all'adulto, 
D'altronde, tra gli ebrei giudei queste distinzioni tra le età sono più sottili e, diciamolo, più pignole (cfr. la Misnà, passim).
ma il piccolo-nella fede, 
Perché QTN è anche «essere troppo piccolo», «non degno di» — cfr., signor Girard, i dizionari, almeno i lessici.
colui che, anche a settantasette anni suonati, rimane un minore quanto all'insegnamento e alla comprensione teorico-pratica della Torà e dei (613) comandamenti che promulga.

Continuo. — Seguono alcune osservazioni, certamente filosofiche, sulla danza e lo scandalo, la mimica e l'impiccagione, su Mallarmé e poi su Sartre: si vede che il testo non è commentato; è un pretesto: serve a produrre una tesi esotica (esotica ai Vangeli) in dosi elevate.

Pag. 195, improvvisamente, una speranza — la menzione del piatto: «Tutto poggia, indubbiamente, su questo piatto». Ma questa speranza è subito delusa: nulla è detto (etimologicamente o no) sul significato di pinax, sulla situazione di questo vocabolo tra due lingue (per via di prestito), non viene fatta alcuna menzione dell'idea di tavoletta, di scrittorio, di registro di conti o di censimento; si preferisce, fuori luogo e a parte da esso, dirci che Salome in possesso della testa, povera fanciulla spaventata, non sa come disfarsene! Da dove Girard pesca ciò? Il suo «peccare di eccessivo letteralismo equivale a mal interpretare», pag. 196, è solo una scusa molto stupida.

A pag. 198, si apprende che «il testo nel suo insieme ha qualcosa di danzante»;
Un greco scadente che danza! Una lingua di traduttori letterali!
Forse il «ciarpame orientale» di prima finirà per aver ragione del commentatore... 

Ma non vedo l'ora di arrivare a pag. 201, al pezzo forte della festa; leggo questo: «I commentatori cercano fonti letterarie. Nel Libro di Ester, il re Assuero fa all'eroina un'offerta analoga 
Questa «analoga» è un eufemismo, e un abbaglio in più: è la stessa offerta; è una citazione parola per parola che occorre nel passo di Marco. 
a quella di Erode (Ester 5:6)». Girard ci dirà qualcosa su questo riferimento? Niente; lo scarta subito: «È possibile, ma il tema dell'offerta esorbitante è talmente comune, nei racconti leggendari, che Marco o Matteo potevano averlo in mente senza pensare a un testo particolare». Non sto mentendo: lo si verifichi — è a pag. 201.

Su 12 versi che conta il racconto di Marco, lo scrittore ne ha dedicati 2 a citare
È una citazione, e non un'allusione; ed è una citazione di Ester, non di Plutarco o di Esiodo. 
il del Libro di Ester, e il nostro esegeta filosofo trova il riferimento secondario, senza importanza, allusivo, degno di essere dimenticato! Questo è incredibile. A quali «racconti leggendari» 
Si direbbe del Bultmann & Co.: nei suoi formidabili commentari sui Vangeli, costui si riferisce costantemente, massicciamente, a Sofocle, a Esiodo, a Plutarco, a Dione Cassio, o al folclore indiano, e, più in generale, a tutto ciò che non ha alcuna relazione con il corpus commentato (gli autori neotestamentari invece, quando citano, citano la Bibbia — non gli autori e filosofi pagani: la Bibbia!)
avrebbe pensato lo scrittore del Secondo-Marco? A dei racconti Incas? — Tutta la scena si basa su quella citazione, e Girard non la vede.
La citazione non riguarda peraltro, come dice Girard, un passo del Libro di Ester, ma due: 5:3, e 7:2. 
In Ester 5:3, l'ebraico recita così: «Allora il re le disse: 

Il re è Assuero; in ebraico, l'inizio del suo nome (ʼḤŜWRWŜ o, altra grafia, ʼḤŜRŜ) è ʼḤ, vale a dire «il fratello» (ora qui Erode è detto bramare la moglie di suo fratello), e la fine del suo nome, RWŜ suona come RʼŜ, «la testa» (ora la posta in gioco qui è proprio la testa di qualcuno). — Nel passo di Matteo e di Marco che ci interessa, vi è, sotto il greco naturalmente (come al solito!), un altro gioco di parole sui nomi propri: «Erode» si dice in ebraico HRDWS; ma ḤRD significa nel contempo «tremare», «essere spaventato», «essere imbarazzato» (ora, dopo il suo giuramento, il tetrarca è detto appunto «nell'imbarazzo») e «affrettarsi», «sbrigarsi» (ora la ragazza non vuole la testa che brama entro una settimana o due: la vuole subito — al più presto). — Tutto questo è davvero solo secondario?
Che cosa vuoi, regina Ester? Qual è la tua richiesta? Fosse anche la metà del mio regno, ti sarà dato!»Ma «ti sarà dato» si legge e si dice in ebraico YNṬN LK, perfetta assonanza con «Gionata (Giovanni?) sarà per te».
La confusione tra Giovanni e Gionata non è rara nella letteratura ebraica; cfr., per ciò che è già della Bibbia, gli articoli iōanan e iōnathan della Concordanza Hatch-Redpath (Supplemento, pag. 91b e 93b). — Inoltre, gli evangelisti precisano che Giovanni «è consegnato», e che Gesù «è consegnato»; «è consegnato» è in ebraico NṬN o YNṬN.
E non è tutto. «Quale è la tua richiesta?» si legge, sempre nell'ebraico,  
E non in greco! non in francese! non nelle versioni del tipo «tutto per tutti». 
MH BQŜṬK (letteralmente «cosa» per MH, «in» per B, «richiesta di» per QŜṬ, e «te» per K). Ora QŜṬ («richiesta»), in quella espressione interrogativa, suona molto facilmente come QSṬ, parola impiegata da Ezechiele (9:2, 3 e 11) per designare... la tavoletta da scrivere dell'uomo vestito di lino, termine che la Septuaginta traduce in greco — che nuova coincidenza! — con... pinakis e con... pinakidion.  
Il che ci fa ritrovare l'origine del pinax evangelico, quello dove le versioni tradotte (in greco e sul greco) collocano la testa di Giovanni, il famoso e cosiddetto «piatto». (E aggiungo che QSṬ e pinakis/pinakidion si presentano solo nei passi del Libro di Ezechiele citati più sopra). 
In altre parole, il riferimento che Girard respinge via, esibisce in realtà la ragione linguistica numero uno dell'identità di colui la cui testa è in gioco, così come il cosiddetto piatto sul quale si collocherà questa stessa posta in gioco. 

Invece di rimuginare sull'etimologia di skandalon sbagliando la lingua e ricopiando il primo manuale venuto, 

René Girard, che eppure fonda le sue tesi e teorie filosofiche sui testi spesso antichi, farebbe bene a frequentare i buoni dizionari. Così, sempre in Le Bouc émissaire, pag. 132-133, l'autore ci confessa che Michel Sertes gli ha fatto notare il valore tecnico di turba in un brano di Tito Livio, e scrive: «La parola turba ha un valore quasi tecnico, è la folla in ciò che ha di turbato, di perturbato e di perturbatore». Invece di scomodare Michel Serres per così poco, René Girard avrebbe dovuto leggere il Dizionario latino di Gaffiot, lessico che infesta le scuole dal 1934, e la sua pag. 1612: «turba, -ae, 1. tumulto di una folla disordinata, mischia, disordine, confusione». Il senso tecnico, il fumo negli occhi e la cosiddetta scoperta di Girard, si riducono al primo significato della parola nel più comune vocabolario latino che ci sia!
Girard avrebbe fatto meglio a leggere il Libro di Ester in ebraico. Così facendo, non avrebbe parlato di «racconti leggendari»: 
Intendendo con ciò, come lo indica e lo sottolinea il contesto, quello di culture diverse da quella ebraico-giudaica (e samaritana). I pescatori semianalfabeti di Galilea e i loro colleghi sarebbero diventati improvvisamente dei Frazer?
fare come gli evangelisti giudei-ebrei e leggere la Bibbia, in ebraico, con i suoi significati e i suoi sottintesi, gli sarebbe stato ampiamente sufficiente. Invece di scrivere che l'ingiunzione «Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello» non ha alcun sapore legale o legalista, avrebbe fatto meglio a domandarsi perché, in quanto personaggio di un racconto, Giovanni viene gettato in prigione e incatenato: «non ti è permesso» si dice in ebraico ʼSWR (letteralmente «legato», la proibizione essendo un vincolo), mentre «la prigione» si legge e si scrive BYṬ HʼSWR (letteralmente «la casa del legato»);
Stranamente, «prigione» contiene, sempre in ebraico, per via di anagramma, le quattro lettere della parola «Ester» — ancora una curiosa coincidenza.
 e, diventato buon lettore del Libro di Ester, attento alle etimologie semitiche e non greche, avrebbe saputo perché una ragazza o donna, al banchetto di Erode, si sia messa a danzare: è infatti in questo libro, così importante per l'edificio narrativo dei Vangeli e, in particolare, di quel che si definisce «la Passione»
In Ester 1:6, si descrive così (una specie di ciarpame?) la cornice della festa offerta da Assuero al suo popolo (traduzione F. Michaéli): «Arazzi di cotone finissimo, bianchi e viola, stavano sospesi mediante cordoni di bisso e di porpora ad anelli d'argento e a colonne di marmo». L'espressione ebraica resa con «e di porpora ad anelli d'argento» può anche tradursi, facilmente, con: «della porpora su un galileo», e con: «contro un galileo, dell'argento». — Non ci sono solo citazioni esplicite nei Vangeli; il gioco sulla Scrittura e la generazione di racconti a partire da essa si fanno talvolta al disotto. 
che si legge (Ester 2:5) che il primo nome della figlia adottiva di Mardocheo era «hadassa» (HDSH), vale a dire «il mirto» (al femminile, in ebraico); ora HDS è segnalato da Jastrow, nel suo dizionario (pag. 334a), col significato di «danzare (sulla punta dei piedi)»: Ester-Hadassa (Ester-mirto) sarebbe quindi Ester-la-Danzatrice.

E, per finire e per non annoiare troppo il mio lettore, si ricordi che la morte di Giovanni Battista raccontata da Giuseppe (Antichità Giudaiche 18) fa immediatamente  seguito ad un'evocazione della guerra tra Erode e Areta; ora «Areta» è, nella trascrizione ebraica, l'esatto anagramma fonico di «Ester».

Quando ci si è lasciati alle spalle Heidegger e Sofocle e si è letto un minimo di midrashim, 
Commentari ebraici-giudaici (o aramaici), o samaritani-ebraici (o aramaici) sulla Bibbia.
si sa cosa producono narrativamente questi giochi di parole e di assonanze.


Ultimo sforzo di Girard

Citando, a pag. 210, le famose parole di Matteo 16:18, «Tu sei Pietro e su questa pietra 
Qui un termine (petra, «pietra») che è mutuato nel tardo ebraico: era proprio necessario che il traduttore (ebreo-greco) conservasse, con esso, il gioco di parole sul nome dell'apostolo.
edificherò la mia chiesa, e le porte dell'Ade non prevarranno contro di essa» (versione francese tutta per tutti), Girard, come firma finale da parte sua, si permette di vedervi, in questo Ade, un riferimento alla grecità: questo è, per scimmiottare l'ebraico, il colmo dei colmi.

Ogni piccolo teologo sa, almeno si spera, che adēs è il termine greco scelto dalla Septuaginta (e da Aquila, ecc.) per tradurre ŜʼWL, «lo Scheol»!
Stessa parola di «Saul» («Saulo»), primo nome di Paolo — questo, tra parentesi.
Quando Girard scrive (giuro che è vero: si veda pag. 210 del suo libro) «il riferimento alle porte dell'Ade, cioè alla dimora dei morti tra i Greci, 
Quando vi è «Ade» (adēs) nella Septuaginta, ciò vuol dire che gli originali scrittori ebrei della Genesi, o di Numeri, facessero riferimento alla «dimora dei morti presso i Greci»? — Questa è ancora nuova.
mi sembra significativo», significa solo la sua ignoranza della Bibbia ebraica e delle sue traduzioni antiche in greco.

Più oltre, si trova persino un'allusione girardiana a... Eraclito e a Dioniso: quale relazione, gli domando, con lo Scheol?!
A meno che i Settanta (e Aquila, e altri), rendendo «Scheol» con «Ade», non abbiano voluto sottolineare che Mosè era un assiduo lettore di Eraclito? ecco, questa sarebbe un'ipotesi da esplorare. 
Stiamo sognando in piedi.

Per contro quella bella panoplia di metodi esegetici di Girard mi sembra sufficiente: non mi interessa esaminare cosa fa del testo evangelico il commentatore nella sua tortura del gallo del rinnegamento e dei demoni di Gerasa; tratta tutto in modo simile — si direbbe un'antologia.


Urgenza di una retroversione

Io concludo quindi. — Alcune osservazioni sui prestiti; poi altre su Girard — quale è il legame tra i due temi? Ma appunto: i Vangeli, la loro lettura — la loro buona o cattiva lettura. Voglio che si tocchi concretamente, nella sua tristezza, la mancanza di scrupoli di cui gode generalmente questa collezione, il suo tessuto verbale  il suo diritto ad esistere come testo. Ora l'urgenza 
Per quasi venti secoli! Ciò non è solo una situazione comica: è una situazione che si trascina.
è infatti la seguente: da una parte, rifiutare qualunque analisi, per quanto brillante,
Girard non ne manca; le sue costruzioni teoriche sul mimetismo e sul sacrificio sono modelli del genere, — a condizione, come ci si è appena accorti all'istante, di non controllare troppo da vicino l'uso che fa, alla loro occasione, dei due Testamenti. Marcione, già nel II° secolo, per stabilire più o meno la stessa tesi di Girard (il dio dell'Antico Testamento come dio giusto, e il dio del Nuovo Testamento come dio misericordioso — opposizione ricca di miopia) aveva tentato, barcamenandosi, una de-giudaizzazione dei Vangeli. Impresa senza speranza se si sa che, per raggiungere i suoi fini, aveva favorito... il Secondo Luca — un racconto nel quale pullulano i semitismi di traduzione! (Esistono diverse altre affinità tra Girard e Marcione).
 che parta dal greco per finire nel greco: la lettura giusta, tutto al contrario, è quella — deve essere, dovrebbe essere quella — che consiste di certo nel partire dal greco,
E questo non è un lavoro facile: quante versioni, e manoscritti, e varianti!
poiché esso solo ci resta (e tutte le traduzioni successive, fino alla prova del contrario, lo hanno preso per base e modello), ma per uscirne al più presto, cercando di trovare attraverso di esso, grazie ad esso, e servendosi di esso 
In altre parole: di esso, delle sue varianti, della sua resa nelle versioni siriache,  copte, ecc. — È necessario lavorare sotto il greco e sotto le versioni che ne sono derivate.
come supporto e solo come supporto, con tutti i mezzi, il nucleo semitico da cui è giustamente emerso questo particolare greco in quanto  greco dei traduttori.

Una lettura di questo tipo, basata sulla retroversione, non condurrà necessariamente ad un'interpretazione sicura e adeguata dei testi in questione, 
Infatti, per arrivare a un'interpretazione affidabile, bisogna padroneggiare a fondo, e come minimo, tutte le equivalenze ebraiche-greche avanzate dai Settanta, da Aquila, da Teodoto, da Simmaco, così come dai targumisti (attraverso il loro aramaico); e padroneggiare egualmente l'intero sistema lessicale ebraico facendosi carico dei prestiti; e padroneggiare infine tutte le versioni ebraiche della Bibbia, al fine di individuare la maniera (le maniere) di cui i redattori si sono serviti per elaborare i passi neotestamentari in questione: ma vedremo più oltre che gli autori primitivi del Nuovo Testamento (biblico e peri-biblico) avevano una conoscenza vertiginosa della letteratura ebraica (biblica e peri-biblica) e di certo non la utilizzavano solo attraverso citazioni esplicite.
ma ciò di cui sono certo (e la massa di esegesi che escono in stampa ogni anno non è lì a smentirmi...) è che un altro metodo porta inevitabilmente agli errori più sconfortanti.

Primo punto, quindi: per misurare il senso di un passo del Nuovo Testamento o di tutti i libri che lo compongono, in particolare dei Vangeli, è meglio - ed è un eufemismo - disporre di una grammatica e di un dizionario ebraici che di un'antologia, anche se erudita, dei filosofi greci.
Il Nuovo Testamento contiene una sola citazione dei filosofi greci? No; nessuna. Per contro, elabora racconti e dialoghi a colpo di innumerevoli «infatti è scritto», clausola modellata sul famoso ŜNʼMR dei midrashim ebrei e samaritani, ŜNʼMR che non rinvia ad Omero, ad Aristotele o ad Eschilo, ma alla Bibbia. 
Secondo punto, inseparabile dal primo: per apprezzare non più questa volta il senso, i sensi, ma il ciclo narrativo, i dialoghi, i concetti, l'ambiente, i fatti, i luoghi, del Nuovo Testamento (e la loro produzione testuale, appunto), è meglio documentarsi della letteratura ebraica di espressione semitica (in pratica: l'Abot de-​Rabbi Natan, e non Filone di Alessandria — soprattutto non lui!), compresa l'antica letteratura cabalistica, 
Includendovi i passi più antichi (e tradizionali) dello Zohar, perché, contrariamente a quanto sosteneva G. Scholem, Vulliaud ha saputo provare (cfr. la sua Kabbale juive, Parigi, Nourry, 1923) con vigore che la maggior parte di quest'opera è composta da trattati antichi e non medievali. D'altra parte, e nonostante le sue ben note «tendenze», la Kabbala Denudata (1677) di Knorr von Rosenroth è una lettura molto salutare: peccato che gli esegeti moderni del Nuovo Testamento leggano così poco questo trattato; Pascal, a suo tempo, aveva almeno fatto lo sforzo di informarsi sulla Sinagoga dal Pugio Fidei di R. Martin. Forse non era la migliore guida possibile in materia, ma una tale curiosità intellettuale da parte di un cristiano desideroso di perdere, o totalmente o frammentariamente, la sua ignoranza delle modalità di fondazione della sua stessa religione, della sua cultura, merita di essere ricordata. 
piuttosto che di Platone o di Eraclito: e non si tratta di una scelta facoltativa — perché tutte le espressioni narrative e concettuali del corpus cristiano canonico, o cosiddetto tale, come sono state messe in opera, raccolte alla meno peggio in greco, 
Cfr., come illustrazione di questa legatura, l'inizio del Secondo Luca.
non appartengono in alcun modo alla cultura greca o latina; di quella cultura, nulla appartiene qui, nemmeno in minima misura!

In una parola, e per servire da bandiera dell'ultim'ora a quel che ho appena detto: non è nel greco che «Gesù» fa rima con «salvatore» 
Non nel greco e non in aramaico. — Cfr. Matteo 1:21. Ricordo che in greco «Giosuè-Gesù» si dice e si scrive Iēsous, e che «salvare» si dice e si scrive sōzein — nessuna relazione, nessun gioco di parole. 
ma nell'ebraico, perché ogni neofita di ebraico sa che è lì, ed esclusivamente lì, che i due termini funzionano insieme, appartenenti entrambi alla stessa radice YŜᶜ.

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