lunedì 12 dicembre 2022

L'INVENZIONE DI GESÙAlcune cifre

 


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Alcune cifre

Ora non siamo più bloccati dalla cortesia e dalle ipotesi. Il Nuovo Testamento era originariamente ebraico. Posto ciò, mi interrogo sui modi di produzione del corpus.

Senza falsa modestia, inizio il mio lettore ai rudimenti della Cabala ebraica. Non si spaventi: andrò lentamente. L'iniziazione sarà concreta. I grecisti vogliono prove ed esempi? Eccone decine. Della Cabala ebraica nel Nuovo Testamento? ma sì, e a catinelle — come i prestiti! Si vogliono degli esempi? ne ho.

La presenza massiccia, nei Vangeli (e nel Nuovo Testamento in generale), sotto il loro greco, fuori dal loro greco, delle procedure più elementari della Cabala ebraica: ecco di cosa ci occuperemo d'ora in poi. E non solo faccio penetrare il lettore nei misteri della Cabala ebraica: gli mostro anche quanto i grecisti — e le Chiese — hanno saputo nasconderci sotto gli errori il vero significato del testo neotestamentario. Gli faccio toccare col dito l'ampiezza e le conseguenze del danno.

E, per non essere avaro di battute, lo informo, di passaggio, del trattamento che gli «studiosi» fanno subire pure ai testi gnostici.



Comincio con una domanda semplice, stupida, eppure alla quale nessuno sembra preoccuparsi di rispondere: perché Simon Pietro, al momento dell'episodio della «pesca miracolosa» (Giovanni 21:2), tira fuori dall'acqua 153 pesci, non uno di più, non uno di meno?

E subito, più in generale: perché i Vangeli, e il Nuovo Testamento nel suo insieme, brulicano di numeri, di frazioni e di multipli? Qual è il significato di questa mania dei numeri? E soprattutto: a chi dovrebbero rivolgersi queste cascate aritmetiche, a quali lettori in grado di comprenderli e di svelarne i codici?

Per risolvere quella questione e darle il significato che merita, occorre fare una digressione per la cabala ebraica.


Tre codici della Cabala

I conoscitori di quella Cabala, 

«Cabala» proviene dalla radice ebraica QBL, radice che implica l'idea di «ricezione» e di «tradizione». La Cabala non è una pratica fumosa: è il cuore stesso, l'epicentro della scienza del Libro, la sua Sapienza — la Sapienza della sua produzione e della sua lettura e della sua pratica (e non solo della sua lettura, come troppo spesso si crede e si dice). 

attiva e presente massicciamente fin nei testi più antichi della Bibbia ebraica, ne raggruppano le procedure classiche sotto tre voci:

Queste procedure, mi affretto a precisare, non sono la totalità della Sapienza ebraica: esse costituiscono la facciata meno manifestamente esoterica del suo esoterismo. 
Inoltre, questi procedure sono, nella loro stessa definizione, molto precedenti al I° secolo della nostra era, perché sono impiegate sia dagli ebrei che dai samaritani: la rottura tra le due comunità risale all'VIII° secolo A.E.C. (cfr. 2 Re 17).

Gematria, Notarica e Temura.

Queste procedure, queste pratiche della mente, sono dipendenti dall'ebraico come lingua e dalle particolarità del suo alfabeto: ne sono l'espressione e il risultato.

Come mostra l'esempio di Marco il Mago, gnostico del II° secolo (cfr. Ireneo di Lione, Adversus Haereses 1:13ss.), i meccanismi cabalistici sono rapidamente inefficaci non appena lasciano la loro matrice originale, l'ebraico; tentando di ambientare in greco queste procedure, si cade rapidamente (in un attimo) nelle decostruzioni artificiali; — ci si può persino domandarsi se non sia Ireneo in persona a sbagliarsi, volontariamente o meno, sulla lingua originale del Marco gnostico, così tanto ha difficoltà a farci credere, in greco, a tali artifici (è facile per lui, in seguito, prenderli in giro...). — Chiaramente, le procedure della Cabala di cui parlo, e in particolare la Gematria, hanno come campo tradizionale e quasi naturale le risorse intrinseche dell'ebraico (ed è su quella opinione che si basano i cabalisti): Il fatto che ci sia in ebraico un numero considerevole di anagrammi (e di anagrammi efficienti); il fatto che l'ebraico non scrive le sue vocali; il fatto, infine, che il Libro sul quale si basa il pensiero tradizionale ebraico (e samaritano) sia, radicalmente, un libro codificato e ritenuto tale. E, nel suo saggio sulla Cabala ebraica, Vulliaud ha ben ragione di ricordare, tra l'altro, la frase di Samuel Arkevolti: «Le lettere ebraiche non sono come quelle delle altre lingue, perché sono vive». — In questo stesso saggio, Vulliaud produce un chiaro capitolo sulle procedure elementari della Cabala.


La Gematria

Per Gematria, si intende la messa in relazione di termini, di gruppi di termini o di espressioni, aventi lo stesso valore numerico. Ogni lettera ebraica è, di per sé, sia una lettera che un numero: da questo fatto è facile, essendo dato un termine (o un gruppo di termini), calcolarne la somma aritmetica. Quella somma, o valore, ne è la gematria. Così «Abramo», in ebraico ʼBRHM, ha per gematria 248, ossia: 1 per ʼ, + 2 per B, + 200 per R, 5 per H, + 40 per M. Grazie al calcolo gematrico, si stabiliscono così dei legami tra parole (o gruppi di parole) che non hanno, secondo la semantica volgare, secondo il dizionario, alcun tipo di relazione.

E aggiungo subito: ...mentre è su quella semantica che si basa la conoscenza, la pseudo-conoscenza, della Bibbia ebraica presso i cristiani: il Libro si trasforma così, miseramente tenuto conto del suo originale ebraico, in una raccolta di singoli fatti, di aneddoti.

Per esempio, esiste, per gematria, una relazione immediata tra Abramo e la misericordia (divina), perché RḤM, «mostrare misericordia», possiede il suo stesso valore numerico: 248.

 Tema sviluppato spesso e abbondantemente nei midrashim. 


La Notarica

La Notarica è la codifica con la quale si raggruppano le iniziali, le mediali o le finali di più parole per formarne una o più altre.

Quella pratica si basa sul fatto che le lettere ebraiche sono tutte, oltre a lettere-numeri, delle iniziali, delle parole, le iniziali di queste parole. Così, la prima lettera dell'alfabeto, di valore numerico 1, è ʼ, «aleph» — ed ʼ è anche l'iniziale di ʼLP, egualmente «aleph», il significato (geroglifico) essendo «il bue»; la seconda lettera, B, «beith», di valore numerico 2, è anche l'iniziale di BYṬ, egualmente «beith», il significato essendo «la casa», ecc. — Ecco la peculiarità dell'ebraico, tra le lingue che il Nuovo Testamento mette in gioco: possedere delle lettere che sono: dei segni, dei numeri (o cifre), delle iniziali e delle parole. Le 22 lettere funzionano così, una per una, come aleph e beith (ʼ e B), secondo un meccanismo globalmente sconosciuto alle lingue indoeuropee: poiché in nessuna lingua indoeuropea (il greco, il latino, ecc.) le lettere dell'alfabeto riescono a soddisfare le quattro definizioni congiunte delle lettere ebraiche: essere — lo ripeto — lettere, essere numeri, essere iniziali, essere parole.

Gli esempi di notarica, detto altrimenti gli acrostici, sono innumerevoli nella Bibbia ebraica.

E innumerevoli nella letteratura ebraica e samaritana; innumerevoli anche nei testi gnostici — in quegli accumuli di lettere in cui gli studiosi, anche moderni, persistono a vedere solo parole senza senso...

Così, in Esodo 3:13, la frase di Mosè, comunemente tradotta «Se mi dicono: Qual è il tuo nome? — cosa risponderò loro?» vive e riposa su una notarica: l'espressione originale LY MH ŜMW MH (letteralmente «a me, quale il suo nome, cosa») è composta da quattro parole le cui finali sono, nell'ordine e per acrostico, Y, H, W e H — le quattro lettere costitutive del più sacro nome divino (lo «Jahvè» o «Geova» delle traduzioni); e quella notarica, ovviamente intenzionale nel testo, e ovviamente efficace, non appare evidentemente più nelle traduzioni attuali: essa non vi figura nemmeno in una nota! E la materia del testo ne è similmente oscurata.

Inoltre, nella frase che ho appena citato, la parola LY, «a me» (il «mi» di «se mi dicono»), contiene la Y («a me») che, aggiunta alla parola ʼLHM, «a loro» (il «loro» di «cosa dirò loro?»), dà ʼLHYM, «Elohìm», un altro nome divino. Ecco che, in una frase breve («schematica», come direbbe Girard), passata inosservata nelle traduzioni, figurano due dei nomi divini: e nessun che non sappia l'ebraico lo vede, né lo intuisce. — Insisto su questo tipo di lettura del testo biblico, perché molto spesso i trattati sulla Cabala (anche loro...), e non solo quelli di divulgazione, lasciano credere che tali procedure di codifica e di decodifica siano proprie degli esegeti ebrei del Libro sacro: non è affatto così; questi esegeti non fanno, e non hanno mai fatto altro, che modellare la loro comprensione del Libro sulla produzione stessa di questo Libro: è perché, nel Libro, queste procedure si esprimono, e si esprimono appieno, che gli esegeti tradizionali ebrei (e samaritani), gli autentici Saggi ebraici, le hanno utilizzate a loro volta per spiegare il Libro. Soprattutto non bisogna vedervi dei giochi artificiali, e neppure bisogna vedervi dei giochi formali: la Cabala è la materia del Libro, e non il suo ornamento. — E bisogna anche capire che tali giochi, inscritti nel cuore dell'economia dell'ebraico come lingua («lingua sacra», come ripetono i Talmud e la letteratura correlata), sono, per natura, mistici, sentiti e trattati come tali: nessuna separazione, qui, tra il Mistico e lo Scientifico. (E spiegherò più oltre quanto gli scrittori primitivi del Nuovo Testamento siano immersi nella Cabala ebraica così concepita).


La Temura

La Temura, infine, è il processo cabalistico di sostituzione delle lettere. Ad ogni lettera, tra le 22 lettere dell'alfabeto ebraico, si può così far corrispondere un'altra lettera, e le parole si trasformano perciò l'una nelle altre. L'esempio più facile da capire, e lo ricavo ancora una volta dalla Bibbia e non dai suoi commentari necessariamente posteriori, anche i più informati, è quello di Geremia 25:26: «E il re di Sesac berrà dopo di loro»; in realtà, per Temura, per sostituzione di lettere, va letto BBL, «Babele», al posto di ŜŜK («Sesac», un luogo inesistente).

Si tratta qui della cosiddetta temura «ath-bash», quella che fa corrispondere alla prima lettera dell'alfabeto l'ultima, alla seconda la penultima, e così di seguito fino all'esaurimento dei 22 segni-numeri. Esistono ben altri tipi di sostituzioni tramite temura (cfr., a questo proposito, e tra altri, Il giardino dei Melograni di Moses Cordovero).


Significato e portata della Cabala

Quello che bisogna capire è questo —  perché tutto il mio punto si basa su questo: che solo l'ebraico, per tradizione e ad esclusione di ogni altra lingua, e in particolare delle lingue indoeuropee, coinvolte nel problema della redazione (originale) del Nuovo Testamento, permette di produrre reazioni soddisfacenti a tali procedure; che queste procedure non sono affatto giochi da salotto agli occhi degli autori biblici e dei loro successori: essi hanno partecipato, questi cosiddetti giochi, e in massa, non solo all'elaborazione delle esegesi rabbiniche (midrashim), ma anche, più primitivamente, a quella dei libri più antichi della Bibbia ebraica. Non si tratta, in primo luogo, di sistemi o di metodi esegetici: la Cabala non è, prima di tutto, l'arte di leggere il Libro ritenuto sacro; è, prima di tutto, l'arte di scriverlo.

Ora, al tempo della scrittura dei Vangeli, queste procedure (per parlare solo di loro) erano ancora e sempre quelle dei maestri della Scienza ebraica.

Questa frase, lo sento, farà sussultare molti dei miei lettori; eppure è la semplice fotografia di un'ovvietà: tra la scrittura dei libri più antichi della Bibbia e la compilazione dei Talmud si trova il periodo dei Vangeli; ora, si trovano gematrie, notarici e permutazioni temuriche nella Torà così come nei Talmud — c'è dunque continuità in quella scienza e in quella competenza; risalendo la storia, essa merita il suo nome: cabala-tradizione. (Forse conviene aggiungere, ma senza insistere, che i Manoscritti del Mar Morto, la cui scrittura si presume di epoca poco lontana da quella dei Vangeli, contengono anche, e non solo nei loro testi esegetici, procedure di questo tipo. Non riesco a immaginare la ragione buona o cattiva per la quale i numerosi specialisti di questi manoscritti mancano sempre quella osservazione).

L'ho mostrato nei capitoli precedenti, 

E recentemente Claude Tresmontant lo ha dimostrato — cfr. il suo studio intitolato Le Christ hébreu, Parigi, O.E.I.L., 1983. Le mia ricerche personali risalgono al 1980-1982. — Le dimostrazioni di C. Tresmontant non devono nulla alle mie, e viceversa; per vie diverse, o almeno indipendenti, siamo arrivati alla stessa conclusione sulla lingua originale dei Vangeli.

tutto nei Vangeli è ebraico: la sintassi, lo stile, le espressioni, i concetti, la mentalità, l'uso dei verbi «salire», «discendere», «fare», «rispondere», e altre — tutto nei Vangeli (e nel Nuovo Testamento) risulta dalla litteralizzazione, in greco scadente (perché in greco letterale, giustamente), di un originale ebraico.

Cosa estrarre di greco, di originariamente greco, da questo insieme di testi? Varie glosse, dei brevi passi come il prologo del Secondo Luca, ecc: delle miserie.

 Ma quella valanga di prove, di più che indizi, non è sufficiente, sembra; la maggioranza (la stragrande maggioranza!) degli esegeti neotestamentari si attaccano alla loro «opinione» testarda; vogliono ad ogni prezzo, e malgrado l'evidenza contraria, che i Vangeli siano greci — preferiscono attenersi al greco, ad un greco nullo, cacofonico, barbaro, piuttosto che ricorrere all'ebraico primitivo del corpus. — Questo ebraico farebbe loro paura? 

Si direbbe che molti di questi commentatori (in particolare, tra loro, vari funzionari della Chiesa) siano imbarazzati dall'origine ebraica dei testi fondatori del cristianesimo: la loro mania del greco, si direbbe, serve loro per de-semitizzare il più possibile il corpus. — Ma la loro mania del greco serve loro, soprattutto, a nascondere i modi di produzione dei libri neotestamentari: non tarderemo a vedere perché.


La prova delle prove

Ebbene, ho per i sostenitori di quella insopportabile «teoria», ad esclusiva intenzione di quella maggioranza di «grecisti», una prova che sorpassa tutte le altre, tutte le precedenti, tutte quelle che ha dato Tresmontant, tutte quelle dei miei capitoli precedenti, e quella prova è:

la presenza massiccia nei Vangeli (e nel Nuovo Testamento in generale), sotto il loro greco, oltre il loro greco, delle procedure più elementari della Cabala ebraica: gematria, notarica e temura, 

Procedure alle quali bisogna ovviamente aggiungere gli innumerevoli giochi di parole, giochi di uso comune in tutta la letteratura ebraica, e giochi che solo, qui, una retroversione verso l'ebraico ci permette di reperire, di ricostruire, e di comprendere. Alcuni esempi, tra centinaia, che traggo a caso dai miei appunti: 

 Matteo 21:11: «Essa partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù (o: Giosuè): infatti egli salverà il suo popolo dai loro peccati». Sorvolo sul linguaggio incomprensibile che quella frase costituisce, in greco, per un lettore greco: «tu gli porrai nome», e «popolo» avvertito come un plurale — da cui «loro peccati» — sono, in greco, delle curiosità grammaticali, ma in ebraico espressioni comunissime; ciò che mi interessa è questo: in che modo «egli salverà», in greco sōzein, può fornire una spiegazione di «Gesù»; in greco, quella spiegazione non funziona: nessun lettore greco può indovinare, e comprendere a fortiori, quale legame unisce «Gesù-Giosuè» a «salvare» e «salvare» a «Gesù-Giosuè»: l'espressione «infatti», sebbene ci sia («infatti egli salverà...»), non ha alcun significato in greco. Solo il ricorso all'ebraico sottostante permette di apprezzare il gioco di parole, «Gesù» (= «Giosuè»), letteralmente «dio-salva») essendo in quella lingua, e solo in quella lingua, non in greco (e non in aramaico), della stessa radice del verbo «salvare» (in entrambi i casi, la radice YŜᶜ). E questo esempio mostra: che il testo era originariamente in ebraico; che esso è stato tradotto letteralmente in greco; che quella traduzione letterale gli ha fatto perdere il suo vero e autentico senso — il senso originale (quello del gioco di parole); e soprattutto: che il testo originale era stato scritto solo per dei lettori ebrei, e non per i gentili (né, oltretutto, per ebrei che non sapevano l'ebraico). L'annuncio di «Gesù» non era destinato ai Gentili: ecco che non è secondario! 
 Efesini 4:26: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (versione francese corrente);  alcun legame, in greco, tra il sole (ēlios) e l'ira (parorgismos) — ma un legame certo, immediato, in ebraico: è la stessa parola, ḤMH che vi designa entrambi!
 Marco 15:9 e 11: «Pilato rispose loro: «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?... Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba» (versione tutta per tutti); in greco, «Pilato» si dice Peilatos e «rilasciare», qui, apoluein: alcun legame, è il caso di dirlo. Nell'ebraico, questo legame è (era...) immediato: la radice PLT, quella della trascrizione di «Pilato», significa «rilasciare», «liberare un prigioniero». — Ma allora... Non sarà che l'azione di Pilato (o, se si vuole, la sua intenzione) derivava, in ebraico, nella narrazione d'origine, dalla grafia del suo nome — e non del tutto da osservazioni o da relazioni storiche?!

Questi tre esempi, presi, lo ripeto, di proposito tra centinaia d'altri tutti altrettanto decisivi, mostrano cosa ne è del greco dei Vangeli (e delle Epistole? e degli Atti? E dell'Apocalisse?): tutti i giochi di parole che contenevano originariamente (sull'esempio della letteratura ebraica) sono andati perduti allorché il loro originale semitico è passato, anima e corpo, nell'indoeuropeo.

procedure che sono reperibili solo per mezzo di retroversione, oltre la lettura del solo — e deplorevole — greco.

Ciò che è necessario, di sicuro, è partire dal greco (non abbiamo più a nostra disposizione che questo punto di partenza), ma per lasciarlo immediatamente e ritrovare sotto di esso, sia attraverso di esso che contro di esso, la riga — punto per punto — del testo primitivo ebraico (giudaico).

Quella ginnastica di retroversione implica una seria conoscenza delle lingue coinvolte; essa ci conduce a colpo sicuro lontano dai catechismi e dalle versioni volgari; ma è la sola via di accesso al testo: la via necessaria. 

E vengo agli esempi di cifre.


Esempio del lievito

Perché, in Luca 12:1, è scritto: «Guardatevi dal lievito dei farisei — che è l'ipocrisia»? Su questo punto, Bultmann e altri 

Quanti nomi nella mia penna ! Mi prudono.

rimangono più che muti; passano oltre; corrono a raggiungere, ma invano, il comodo grembo della loro santa koïnē. Che relazione c'è infatti in greco tra zumē, «il lievito», e upokrisis, «l'ipocrisia»? — risposta: nessuna. Quella frase è quindi incomprensibile in greco, tanto quanto lo è in francese. Eppure adorna, da secoli, i sermoni, i messali e i cervelli cristiani — cervelli di cui la maggior parte avrebbero peraltro molta difficoltà a spiegare cosa sia un «fariseo». — Ma se si sa che in ebraico l'equivalente del «lievito» è ḤMṢ e quello dell'«ipocrisia» è ḤNP, allora si capisce tutto: si capisce il «che è» del greco e della versione francese corrente; perché, in ebraico, e nella cabala, e non altrove, la gematria del «lievito» è la stessa di quella dell'«ipocrisia»!

Gematria di ḤMṢ («lievito», ma anche «aceto», da cui l'episodio dell'aceto al momento della Passione, da cui, pure, i suoi sottintesi): 8 + 40 + 90, ossia 138. Gematria di ḤNP («l'ipocrisia», ma anche, e piuttosto, «l'empietà»): 8 + 50 + 80, ossia egualmente 138.

Ridicola e sterile in greco, evidente in ebraico, nella cabala, quella frase non è mai stata scritta in greco, e non è stata scritta ad uso di lettori greci (ebrei o no), per contro, è stata ulteriormente tradotta, e quella traduzione le ha fatto perdere il suo significato — il suo fondamento aritmetico.

La frase è di Luca. «Luca buon scrittore» è uno dei luoghi comuni dell'esegesi... Ma il suo greco è di fatto tanto semitico quanto quello degli altri evangelisti, e quindi tanto vuoto quanto il loro rispetto ai canoni di un ellenismo anche solo moderatamente pignolo; solo il prologo ha l'aria di un'origine greca: ed è proprio questo che lo fa confliggere con il resto dell'opera; tutto ciò che resta, quanto al suo nucleo, e messe da parte le glosse dei traduttori, è ebraico.

Quindi una relazione tra il lievito e l'ipocrisia esiste solo in ebraico; è gematrica; è cabalistica: intraducibile e illeggibile in un'altra lingua, quella gematria (quella cabala) non è altro che zero nel Secondo-Luca dei nostri manoscritti indoeuropei. 

Altro esempio, tratto da un altro Vangelo:


Le 30 monete di Giuda

In Matteo 26:15, delle monete d'argento sono date a Giuda: 30 monete; come per i pesci, non una di più, non una di meno. La giustificazione delle 30 monete è riportata da Matteo (e soprattutto dalle note delle nostre attuali edizioni-traduzioni), non a fatti reali, che si sono verificati storicamente, ma a... una citazione di Zaccaria 11:12: «E presero i 30 pezzi d'argento», citazione che non menziona affatto — e per una buona ragione! — il nome di Giuda. E i nostri commentatori, i nostri dotti, i nostri grecisti, si accontentano e intendono accontentarci del riferimento, senza porsi la domanda, ancora una volta stupida e di buon senso, che mi viene subito in mente: perché 30 monete e Giuda? — Ora, ed è proprio questo che il greco è incapace di dirci, il numero 30 corrisponde alla gematria dell'ebraico YHWDH, «Giuda» (e anche: «la Giudea»).

Ossia, nell'ordine delle lettere-cifre della parola: 10 + 5 + 6 + 4 + 5 = 30.

Solo l'ebraico, tramite gematria e tramite cabala, giustifica la relazione narrativa tra i 30 pezzi d'argento e Giuda

Ancora un'immagine della maniera antistorica in cui sono costruiti i testi evangelici e i loro racconti. — Quanto al fatto che, attraverso Giuda (o: attraverso la Giudea,  distinta dalla Galilea e dalla Samaria?), il denaro e la croce (il legno, l'albero, ᶜṢ) sono qui narrativamente riuniti, è ancora la gematria (e non il greco — e non la Storia) che ce lo indica: il valore di KSP, «il denaro», è identico a quello di ᶜṢ, «il legno»: 160. Con l'articolo H, di valore 5, le due parole hanno per gematria comune 165, la stessa di quella di MLK + YHWDYM, detto altrimenti «il re degli ebrei» (o: «...dei Giudei») — da cui, ancora una volta al di fuori del greco, Marco 15:26, e la sua menzione del «motivo della condanna» di Gesù-Giosuè: la pretesa al titolo di «re dei Giudei»! Al di fuori della Storia e al di fuori del greco, solo l'ebraico, per le sue connessioni gematriche, invitava il narratore primitivo a collegare così il legno (la croce), il denaro e il titolo regale; nel greco tutto ciò è perduto — nell'ebraico tutto ciò possiede (possedeva) lo stesso valore. Equivalenza assoluta dei tre termini.


Esempio del pane

Altro esempio, sul quale posso solo azzardare una bozza, così tanto è ricco: quello del «pane», ebraico LḤM («pane», «festa», «cibo», ma anche «lotta», «massacro»).

Gesù-Giosuè-Dio salva è detto nato a Betlemme, in ebraico BYṬ-LḤM, letteralmente «casa del pane» o «casa della strage»; tutte le variazioni evangeliche sulla famosa (e storicamente nulla) «strage degli innocenti» sono attinte dagli equivoci di LḤM, equivoci senza alcuna eco nel greco. — E questo la dice lunga sulla concezione che gli evangelisti primitivi, giudei-ebrei, avevano della Storia; quella concezione non era certamente quella che gli si presta loro abitualmente: non erano affatto dei cronisti. 

I confronti gematrici qui sono troppo numerosi; ne citerò solo qualcuno.

Si noti da subito che LḤM, «pane», possiede due valori gematrici, poiché la sua M, posta in finale, può equivalere alternativamente a 40 o a 600; la ricchezza (la potenza) gematrica di questo termine è dunque doppia, e tanto più grande è il numero dei suoi equivalenti.

«Il pane», LḤM quindi, ha la stessa somma o valore gematrico di «Abramo» + «Isacco» + «Giacobbe»: 638 — da cui l'intima relazione evangelica tra la definizione di Gesù-Messia 

Segnalo ad alcuni catechisti e raffazzonatori di omelie (indoeuropee) che «Cristo» non significa «crocifisso».

come «pane» (per esempio in Giovanni 6:35, 41, 48) e la citazione da Esodo 3:6 (fornita in Matteo 22:32, e Marco 12:26): «Io sono il dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» — intima relazione aritmetica che il greco, tanto per cambiare, dimentica nell'oblio. Quale relazione, infatti, esiste inoltre nel greco, in Matteo 8:11, tra la «festa» (ebraico LḤM, sempre lui) e «Abramo, Isacco e Giacobbe»? — Nessuna. Nessun greco può capire questo testo. Nessun lettore, che non sia ebreo di cultura e di lingua ebraica, può comprendere le connessioni gematriche di cui «pane» è uno dei nodi, perché è solo in ebraico che queste connessioni si basano, si giustificano — esistono. (Queste connessioni non erano destinate, originariamente, ai gentili o agli ebrei non di lingua ebraica; non destinate ai Greci; non destinate ai Romani; non destinate alla Chiesa romana).

Quanto al senso... Quanto al valore semantico dei concetti... Si confronti la futilità, in greco come in francese, di Giovanni 6:48 («Io sono il pane della vita...»), e il suo valore esplosivo in ebraico, dove, l'ho appena detto, LḤM, «il pane», significa anche «la strage» e «la lotta», ovvero l'esatto contrario della vita (e, se ci si riferisce al senso del verbo ḤYH, della resurrezione). — La stessa incredibile mutilazione si verifica con il concetto di «buon pastore», nella traduzione greca o poïmēn o kalos (per esempio in Giovanni 10:11 e 14: «Io sono il buon pastore») — l'originale ebraico è HRᶜH HTWB, miscela ancora più esplosiva del pane della vita, poiché RᶜH, «pastore», è in ebraico dalla radice RᶜH che significa sia «pascolare-far pascolare» che... «essere malvagio», cosicché l'immagine primitiva ebraica del «buon pastore» era quella del cortocircuito tra «il bene» (TWB) e «il male» (Rᶜ), cortocircuito già presente nell'«albero» (ᶜṢ, «la croce») del Bene e del Male piantato dal Libro della Genesi nel Giardino dell'Eden: questo enorme cortocircuito non esiste più, strettamente parlando non esiste più, nei Vangeli e nella loro traduzione greca. Spreco assoluto!


Attorno al termine «messia»

In Marco 14:62 c'è quella domanda: «Sei tu il Messia, 

Nei libri che parlano o pretendono di parlare del Nuovo Testamento e delle origini del cristianesimo, i controsensi sul significato della parola «Messia» (impiegato a vanvera) sono spaventosi.

il figlio del Benedetto?». Sicuramente non sarà il greco a dirci che «messia-cristo-unto», in ebraico MŜYḤ, è composto dalle parole ŜM e ḤY, di cui la prima (letteralmente «il nome») è un comune sostituto ebraico del nome divino YHWH, mentre il secondo significa semplicemente «vivente», quindi «rivivente», quindi «risorto»

Cfr. i dizionari biblici, e cfr. Jastrow, pag. 454a.

non sarà quindi il greco a dirci che l'ebraico «messia» contiene, per semplice cesura e anagramma, il concetto del «Dio vivente», del «Dio risorto», concetto che mi si concederà però che non è marginale nel corpus cristiano.

Ma c'è di più.

Il greco è egualmente incapace di suggerirci, nella frase interrogativa che ho appena citato, la giustificazione dell'espressione «messia figlio del benedetto»; quella espressione (MŜYḤ + BN + BRWK) ha la stessa gematria di LḤM, «il pane». Mediante il solo ebraico, sotto il greco e a suo scapito, per retroversione, si coglie di colpo tutto il senso della risposta affermativa che segue: 

«Sono io», ebraico ʼN(K)Y HWʼ, letteralmente, «io lui». (con tutti i sottintesi mistici  ed esoterici del pronome HWʼ, «lui»!) 

essere il pane ed essere il messia-figlio-del-benedetto equivale, nella lingua percepita ed elaborata come sacra dagli scrittori originali, la stessa cosa: 638.

Notiamo che in ebraico, non in greco ovviamente, «benedetto» e «primogenito» sono anagrammi assoluti: BRWK nel primo caso, BKWR nel secondo; ancora un confronto che ha il suo peso nel corpus. — Quanto all'espressione che ho appena menzionato, «messia figlio del benedetto», MSYḤ BN RRWK, essa ha tramite notarico (delle sue lettere finali) la parola ḤNK, «Enoc» — ma come sviluppare tutti questi punti?...

Ma continuiamo con il pane.


Ritorno al «pane»

L'ultima lettera, M, di LḤM, «il pane», quando lascia il valore di 600 e prende quello di 40, come gli permette la Cabala, dà alla parola il valore aritmetico di 78.

30 per L, + 8 per , + 40 per M, somma: 78, (Da Dio a Gesù compreso, nella genealogia fornita in Luca 3:23-38, si succedono 78 nomi!)

Quella gematria di 78 è anche, e come per coincidenza, quella di «figlio di Dio»

«Figlio di Dio» (o, se si vuole, «del Padre», come lo chiamano spesso i Vangeli) è BN YHWH, ossia 52 + 26 = 78. — Infatti, l'espressione può anche voler dire «figlio-dio» o «figlio + dio». — E si notino qui le progressioni della cifratura. Dio è detto «uno», in ebraico ʼḤD, valore gematrico 13. Il doppio di 13 è 26, gematria di YHWH (il tetragramma divino, il verbo «essere» in tutte le sue forme). Il doppio di 26 è 52, gematria di BN, «il figlio» — tutti questi raddoppiamenti provengono dalla B che figura in testa alla Torà (B = 2). — Ora questo 52 è anche la gematria di BHMH, «la bestia» (cfr. il famoso, o la famosa, Beemot), da cui l'inetta domanda in greco di Apocalisse 13:4: «Chi eguaglia la bestia?» (risposta non formulata, ma invocata dalla forma aritmetica della domanda stessa: BN, «il figlio», 52), da cui anche il numero delle teste della bestia (5 + 2 = 7) e quello delle sue corna (5 x 2 = 10), numeri elaborati sulle due cifre costitutive del numero 52. — Ma 52 non è solo ciò: è anche la gematria di HTWBL, letteralmente «il battezzatore», «il battista»: ora Gesù, come il Battista, «è consegnato»; essi hanno una nascita e una traiettoria simile; sono costantemente messi in equilibrio. — E non è finita: se, questa volta, non si adotta più la gematria classica ma la cifratura per ordine di lettere (ciascun segno grafico rivestendo il semplice valore del suo numero d'ordine nell'alfabeto, da 1 a 22 compreso), 52 è l'equivalente, in nessun ordine particolare: di «Giovanni» (YWḤNNN = 10 + 6 + 8 + 14 + 14 = 52), di «messia» (MSYḤ, = 13 + 21 + 10 + 8 = 52), di «rabbunì» (cfr. il titolo dato a Gesù in Marco 10:51 e Giovanni 20:16 — RBWNY = 20 + 2 + 6 + 14 + 10 = 52), ecc.  ecc. ecc. — Ma i grecisti mi grideranno: «coincidenze!» Lungo i Vangeli (e il Nuovo Testamento), dialoghi, domande, equivalenze o opposizioni semantiche, trasferimenti di parole e di nozioni, si basano (si basavano) in ebraico su cumuli di calcoli aritmetici: e nessuno li vede, nessuno li studia — da secoli! 

Vedete adesso la frase di Matteo 4:3: «Se tu sei il figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani»; quella frase è nulla in greco (come in francese), dove la si direbbe clownesca, ma di una sottigliezza a tutta prova agli occhi di chi la retroverte nel suo ebraico originale:

1. In greco, uios, «il figlio», theos, «il dio», lithos, «la pietra», e artos, «il pane», non hanno il minimo accenno di connessione. Sono parole senza legame, che non funzionano insieme nell'economia della lingua. Nel greco già sintatticamente debole, la frase di Matteo non funziona né semanticamente né foneticamente.

2. In ebraico, per retroversione, le cose accadono del tutto diversamente. Già, per un lettore superficiale, vi è (vi era) un gioco di parole tra BN, «il figlio», e ʼBN, «la pietra».

Si veda, a questo proposito, il capitolo «Pietra e figlio in Flavio». I giochi di parole sulla pietra, sul figlio e sulla costruzione sono molto ben impiegati nella letteratura ebraica e (quindi!) nel Nuovo Testamento. In greco questi giochi sono aboliti; in ebraico, BN, «figlio», ʼBN, «pietra», BNH, «costruire», «edificare», BYNH, «intelletto, gnosi», ecc. sono immediatamente assonanti e vicini. 

Esiste anche, nel Pastore di Erma, grande testo che tutti, purtroppo, concordano nel credere di produzione greca e cristiana, una profusione di giochi su queste parole, giochi di parole percepibili solo per retroversione. Ma l'editore e traduttore francese di questo capolavoro non ne ha visto uno solo, nonostante la sua ammissione, qua e là, di qualche «semitismo»! (cfr. Erma, Le Pasteur, edizione-traduzione Joly, Parigi, Le Cerf, 1968, 2° edizione). 

Bisogna notare: che Il Pastore di Erma, come il corpus neotestamentario, esiste solo in greco (e in sahidico, copto, ecc.); che il suo greco, come quello del Nuovo Testamento, è un greco di traduttori; che il suo greco, come quello del Nuovo Testamento, rinvia ad un originale semitico (ebraico, con l'inclusione di termini aramaici e di prestiti); che il Pastore di Erma ha figurato a lungo nel Canone cristiano (fa parte del Codex Sinaiticus), anche se il nome di Gesù non vi occorre mai (ma quella assenza non gli è propria: quasi la metà dei più antichi monumenti del cristianesimo ignorano questo nome). — Anche qui, non potendo dire tutto, sono obbligato a passare oltre.

Ma poiché sono arrivato a Erma, e ci sono farse che meritano un ampio pubblico, ne noto una che rafforzerà, negativamente, il mio punto sui Vangeli — una che Erma in ogni caso (senza dubbio un contemporaneo degli evangelisti) non aveva certamente previsto. Nel suo Pastore (Visione 4:2,4), si legge:  «Ecco perché il Signore ha inviato il suo messaggero, di nome Tegri che sovrintende alle belve, egli chiuse la bocca...» Il traduttore francese, seppur a conoscenza, o presunto a conoscenza, della letteratura ebraica, concede a questo «Tegri» una nota: «Questo nome proprio... si trova solo qui». Avrebbe dovuto scrivere: «Non ho mai visto questa parola da nessun'altra parte se non qui». Ma nella 2° edizione, l'autore-traduttore completa la sua nota con un riferimento ad un articolo di un certo Krüger, intitolato (sic): «Una possibile fonte turco-mongola per Tegri nel Pastore di Erma». (Immagino, non avendolo letto, ma avendo frequentato un tempo le opere di Plan Carpin, di Heissig e di Grousset, che questo impossibile articolo confrontasse il Tegri di Erma ai Tangri — letteralmente «i Celesti», «il Cielo» — dei Mongoli: non si rifiuta nulla: gli uni riversano i Vangeli primitivi nell'ellenismo, gli altri portano Erma fin nel deserto del Gobi...) E Joly commenta questo riferimento ai Mongoli dicendo: «Purtroppo non abbiamo alcuna competenza per apprezzare l'ipotesi di J. R. Krüger a proposito del vocabolo Tegri». È il caso di confessarlo! Infatti, senza alcuna fantasia, ṬRYG (e tutti i suoi anagrammi), originale del Tegri di Erma, è, nella letteratura ebraica e samaritana-ebraica (cfr., per esempio, Esodo Rabbah 32:1 — passo riferito, appunto, a un angelo-messaggero, ebraico MLʼK), una parola fabbricata che vale gematricamente 613, e che esprime, non certo la mongolità, ma il numero dei comandamenti divini elencati nella Torà. Nel suo De Arte Cabalistica, Libro 3, anche Reuchlin, seppure pessimo cabalista, parla del numero «dei 613 comandamenti di Dio» che i dottori ebrei «chiamano ṬRYG». Invece di seguire, anche solo per un minuto, la Via della Seta e un articolo burlone, il signor Joly avrebbe dovuto informarsi sui rudimenti della letteratura giudeo-ebraica e sulla sua tradizione: questo è il minimo che si deve pretendere da sé, e da altri, per un'edizione-traduzione del Pastore. — Lo si vede, il cosiddetto Nuovo Testamento «canonico» non è privilegiato per quanto riguarda i maltrattamenti: Erma e il suo capolavoro ne hanno anche la loro bella parte — e non datano da ieri.

3. Ma, sempre per mezzo di retroversione del passo, la lettura gematrica è ancora più produttiva. Infatti, da una parte, la gematria di ʼBN, «la pietra», è la stessa di quella di BN HʼLHYM, «figlio di Dio»: 703

Identità che, anch'essa, come le altre, corre attraverso tutto il corpus.

703 è peraltro il valore aritmetico di GN, «il giardino» (giardino qualunque oppure paradiso, «il giardino dell'Eden»). Ma non si parla, da qualche parte nei Vangeli, di un certo «figlio di dio» (resa volgare) ambulans in horto?

e, d'altra parte, la gematria di LḤM, «il pane», è la stessa di BN YHWH, «figlio di Dio»: 78; — ma, e questo è uno dei nodi del testo, nel primo caso è di «figlio di Elohìm» che si tratta, mentre nel secondo è di «figlio di YHWH» (= «figlio del tetragramma»). 

E poi 78, valore del pane, è anche quello di questo stesso tetragramma divino (YHWH) sviluppato: HWH WHYH WYHYH, «è + era + sarà», sviluppo esplicitamente citato, rivelato, divulgato, in Apocalisse 1:8 (per esempio) — e sviluppo di 12 lettere («12» non è un numero marginale nel corpus, non è vero?). 

Detto altrimenti, nella frase di Matteo che ci interessa, non è per nulla questione, stupidamente (stile catechismi per prestigiatori) di trasformare le pietre in pani: è tutto il lavoro ebraico sui nomi divini (e sulla loro discendenza, come nei 78 esponenti della genealogia del capitolo 3 di Luca) che è in gioco qui. Niente di più, anzi, niente di meno. 

Aggiungo, senza alcuna intenzione, che 78, gematria del pane, è anche quella di HGLYL, letteralmente «il (distretto) rotondo», «la Galilea»


L'esempio del «pinnacolo»

Ma, poiché sono arrivato all'episodio detto «della tentazione nel deserto», Matteo 4:1-11, arrivo a questo:

 da una parte, vi si legge che il diavolo (?) conduce Gesù-Giosuè sul «pinnacolo del tempio» (in greco, epi to pterugion tou ierou),

Come fanno i nostri traduttori europei di questo pezzo a spingere pterugion (letteralmente, in greco, «la piccola ala» — equivalente prevalente dell'ebraico KNP nella Septuaginta, in Aquila, ecc.) a diventare un «pignone» o un «pinnacolo» è un mistero-miracolo allo stato puro, ma passiamo oltre. 

 d'altra parte, nello stesso passo, leggo una citazione del Salmo 91 (11-12): «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti, e sulle loro mani ti eleveranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede».

Ammettendo accurata quella traduzione...

Capisco che quella citazione possa condurre (sempre fuori dalla Storia, anti-storicamente) Gesù ad essere elevato, ma perché su «una piccola ala»? — Questo è ciò che la citazione del Salmo 91 non dice.

O piuttosto: questo è ciò che essa non dice in greco — mentre è proprio quello che indica il ricorso all'ebraico! Perché pterugion, «piccola ala», è in realtà l'equivalente greco, qui, di KNP, «ala», «orlo» e, metaforicamente, «la religione ebraica», «l'assoluta adesione a Dio» (cfr. Jastrow, pag. 651). E questo termine, detto altrimenti la posizione di Gesù, è dato tramite notarico alla fine della citazione: il Salmo dice in effetti: «ti eleveranno perché non inciampi», in ebraico YŜʼWNK PN ṬGP

Notate, già, l'inizio del primo termine: fa un gioco di parole con «Gesù»!

le ultime lettere di queste tre parole sono, nell'ordine, K, N e P, e queste finali formano la parola KNP, «l'ala».

Se dunque Gesù, nell'episodio, si ritrova su un'ala, è perché, tramite notarico (tramite acrostico), il verso del salmo citato nella circostanza conteneva la menzione del suddetto luogo: ma andate a trovarlo nel greco! — Andate anche a trovare nel greco che PN ṬGP, «perché non inciampi», ha per gematria 613, numero dei comandamenti («tu farai» e «tu non farai», secondo l'etichetta dei rabbini) della Torà! — 

Il senso metaforico di KNP («ala», ma anche «adesione a YHWH») interviene quindi pienamente. 

Ma eccoci molto lontani dai quadri sulpiziani...

Come si vede qui ancora, la narrazione evangelica non è affatto storica; procede, cabalisticamente, sulla base di testi molto anteriori ad essa (qui il verso di un Salmo). E gli evangelisti non fanno affatto mistero della loro poca preoccupazione per la Storia: danno, in ebraico, le loro citazioni referenziali; mostrano come funzionano; in connessione costante ed esclusiva con le risorse della loro lingua sacra e del loro Libro sacro. O piuttosto: davano... mostravano... — perché più nulla, o quasi nulla, del loro approccio e del suo risultato si conserva nel greco; essi procedevano così in ebraico. E procedevano così da eruditi, non da illetterati — e da uomini del Libro, e non da cronisti. Guardate Matteo 1:21-23. La traduzione francese comune è la seguente: «Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù (Giosuè) perché salverà il suo popolo dai loro peccati. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quella parola del Signore che disse per mezzo del profeta: Ecco, La vergine sarà incinta e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che vuol dire: Dio con noi». Lo si vede — si dovrebbe vederlo — immediatamente: questo testo non funziona. Da una parte il nome del figlio è «Gesù-Giosuè», e dall'altro si giustifica questo nome tramite una citazione di Isaia (7:14) che ci invita a chiamarlo tutto al contrario... «Emmanuele»! ciò è idiota; eppure è il greco. 

Ma tutto si spiega facilmente tramite notarico (tramite acrostico) se si legge la citazione profetica in ebraico: il «partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele» delle nostre versioni corrisponde all'originale YLDṬ BN QRʼṬ ŜMW ᶜMNWʼL. Ora le prime lettere, rispettivamente, di YLDṬ (verbo «partorire»), di ŜMW («suo nome») e di ᶜMNWʼL («Emmanuele», «Dio con noi», «Dio nostro popolo»), formano, nell'ordine, la parola YŜᶜ («salvatore»), radice di «Gesù-Giosuè»

Il ricorso a quella citazione, assurda e derisoria nel greco, frutta meglio solo nell'ebraico, per esegesi cabalistica. Il nome «Gesù» applicato al presunto fondatore del cristianesimo non è quindi ricavato per nulla dalla Storia, nel senso in cui lo intendiamo, ma da un gioco di parole («Gesù-Giosuè» = «Dio salva») e, per esegesi (per midrash), da una citazione di un profeta.  E quella citazione di Isaia produce altre connessioni! Così YLDṬ BN, «partorirà un figlio», ha per gematria 496, lo stesso valore di MLKWṬ, «il regno». Annuncio del figlio, essa è anche annuncio del Regno. E non lo è, ancora una volta, storicamente, ma nella lingua, nell'ebraico — nel lavoro sull'ebraico.

Noto infine che in pienezza (in «pleroma»), cioè con le lettere esplicitate, la grafia YŜWᶜ (grafia che possiede, nell'ordine, le stesse vocali di YHWH, grafia vocalmente — «nello spirito-nel soffio» — equivalente al più sacro nome divino!), «Gesù», vale 522,  valore anche di MLKWṬ YHWH, «Regno di Dio-Regalità Divina», che, per pudore (un pudore consueto tra gli studiosi giudei-ebrei), gli antichi traduttori dei Vangeli hanno reso come «regno dei cieli»

Comincio quasi a intravedere perché i nostri specialisti autorizzati del Nuovo Testamento sbraitano ad alta voce allorché si osa loro suggerire che i Vangeli sono stati originariamente scritti in ebraico. 

(Giustificazione delle identità che ho appena notato: 

1/ YLDṬ BN = 10 + 30 + 4 + 400 + 2 + 50 = MLKWṬ = 40 + 30 + 20 + 6 + 400; somma, in entrambi i casi: 496

2/ Il pleroma (o sviluppo) di YŜWᶜ è: YWD + ŜYN + WW + ᶜYN = 10 + 6 + 4 + 300 + 10 + 50 + 6 + 6 + 70 + 10 + 50 = 522. Questo pleroma ha proprio lo stesso valore di MLKWṬ YHWH = 40 + 30 + 20 + 6 + 400 + 10 + 5 + 6 + 5).

Notarici... Gematrie... Pleromi... Codifiche ebraiche... Quello che nessuno si aspettava da parte degli evangelisti — ma io continuo.


Esempio della «colomba»

Come il greco ci permetterebbe di cogliere la frase di Matteo 3:16:

Frase unanimemente disprezzata nelle chiese da gente che ha molte opinioni sulla contraccezione e sulla bomba nucleare (tra le altre), ma che è incapace di misurare il tenore e i modi di produzione dei testi sui quali pretendono di affidarsi — illudendosi, al riguardo, sulla lingua.

«egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba» ? Non è davvero con la colomba greca della frase, peristera, che andremo a ritrovarci, perché questo volatile non ha mai avuto il minimo legame né con Dio né con il suo spirito.

È solo in ebraico che YWNH, «colomba» (e, inseparabilmente, «Giona», l'ospite del grande pesce), possiede le stesse vocali, nell'ordine e non scritte, di YHWH, il tetragramma divino (il nostro povero «Jahvè-Geova»), il nome più sacro di Dio.

«Dio» è d'altronde una traduzione greca di YHWH, un termine improprio. YHWH, per i Saggi giudei-ebrei, è il «nome impronunciabile» per eccellenza. 

YWNH («Giona») si separa o si distingue graficamente da YHWH solo per la sua N; ora la N è, in ebraico, il geroglifico (NWN) del pesce: la storia di Giona e della balena del nostro immaginario infantile verte in realtà, in ebraico, attorno a questo problema; ma devo anche insistere su questo; devo anche insistere sulla N che figura in «Ninive»?

La discesa dello spirito di Dio (vale a dire del suo soffio, del suo vento — ebraico RWḤ, al femminile) come colomba è la discesa delle vocali divine. In greco, peristera, «la colomba», pneuma, «lo spirito», e theos, «il dio», non hanno il minimo accenno di relazione.

L'importanza delle vocali (non scritte, in ebraico) è qui cruciale, poiché è per le sue vocali che la grafia YŜWᶜ (o YHWᶜ, ecc., «Gesù-Giosuè», letteralmente «Dio salva-ha salvato-salverà») è equivalente alla grafia YHWH, Nome sacro. È a ciò che fanno allusione il testo e la sua «discesa» di una colomba: facevano allusione, in ebraico, nell'originale!

Come gli altri, questo testo di Matteo è stato scritto in ebraico, da scrittori giudei-ebrei, per lettori giudei-ebrei, e poi tradotto letteralmente (nel solo rispetto della semantica e dell'ordine delle parole, e senza riguardo per il senso più profondo, per il misticismo); e questo testo appartiene alla letteratura scritta, non alla letteratura orale, e al lavoro sulla lingua, non alla cronaca giornalistica.

Aggiungo che YWNH, «colomba», ha la stessa gematria, 71, di HʼNYH, «la barca» (cfr. le barche dei Vangeli — e cfr., nel libro di questo profeta, «Giona» che si imbarca, vale a dire, in ebraico, «che discende»); che la gematria di KYWNH, «come una colomba», «in quanto colomba», «come Giona» (si veda, ancora, Matteo 3:16), è la stessa, 91, di quella di HʼLHYM, «l'Elohìm (unico)», di NʼM, «la Parola, l'oracolo, divini», di ʼMN, «l'Amen», ecc. Infine, aggiungo che la discesa della colomba-Giona al momento del battesimo di Gesù si verifica al Giordano: alcuna relazione tra «discesa» («discendere») e «Giordano» nel greco (stessa non-relazione come in latino, in francese, ecc.), mentre in ebraico YRDN, «Giordano», significa letteralmente «che discende» (radice YRD, «discendere»). Tutti accostamenti, giochi semantici e aritmetici, perduti nel greco, nei catechismi, nei messali e nelle chiese. 


Esempio del «regno diviso»

E quale è la giustificazione della famosa frase 

Ci si rende conto che prendo deliberatamente come esempi frasi ben note, universalmente citate da secoli — e universalmente tradite? 

di Matteo 12:25: «Ogni regno diviso contro se stesso va in rovina»

Resa francese abbastanza elegante; in greco è incomprensibile — come al solito.

se non che la gematria di MLKWṬ, «reame», «regno», è di 496; che 496 diviso per 2, come il testo ci invita a fare, dà 248; e che 248 è il valore aritmetico di ḤRM, «rovina», «desolazione», «devastazione».

 Gli antichi traduttori dell'originale hanno reso ḤRM, qui, con il greco erēmoō: i due termini, da una lingua all'altra, suonano simili, e la retroversione ne è altrettanto facilitata — e assicurata: grazie ai traduttori primitivi, anche se si limitano a ciò. 

Non importa quanti regni si possano dividere in qualsiasi altra lingua diversa dall'ebraico, mai, per gematria, detto altrimenti nell'economia della lingua stessa, si avrà che un mezzo regno sia (necessariamente) l'equivalente di una rovina.

 

Esempio del prologo di Giovanni

Come si sa — come si dovrebbe saperlo — migliaia di pagine fasulle hanno assalito il logos («il verbo») del Prologo di Giovanni. Tutti hanno visto — e vedono ancora! — in questo logos il culmine della grecità; nel commentario sono stati scomodati Platone, Aristotele e Filone. E poi Plotino, già che ci si era. E poi, pure gli Stoici. Come se la Septuaginta, che utilizza questo termine centinaia di volte come equivalente sistematico dell'ebraico DBR («parola/cosa»), fosse stata l'opera di scrittori originali. Ma no! Erano dei traduttori.

Claude Tresmontant, nel suo Christ hébreu, come aveva fatto Vulliaud prima di lui, si sbarazza facilmente di queste aberrazioni, aberrazioni che si trovano anche nei manuali di filosofia, almeno in quelli che si degnano di parlare del cristianesimo — tema del Secondo-Giovanni influenzato dai filosofi greci... 

Questo Prologo di Giovanni, come tutti i testi di cui è, dopotutto, solo il vicino, funziona infatti sulla base della sua lingua d'origine, l'ebraico, e sulle procedure di cui ho dato qui la lunga descrizione. Questo prologo non è originariamente greco; è ebraico — deve leggersi (finalmente!) come tale.

La sua sintassi è evidentemente nulla rispetto alla grammatica e al lessico greco; per esempio, nel verso 13, si parla di «sangue», al plurale, plurale quanto meno insolito in greco e comune in ebraico (DMYM). E nel verso 3, questo o gegonen, che normalmente rientra in un calcolo gematrico e a proposito del quale i nostri esegeti si pongono dei problemi di... punteggiatura (di virgole, non sto mentendo!). — Che casino, che casino... Sofocle, nelle mani di specialisti simili a quelli del Nuovo Testamento, finirebbe per essere un autore di operette.

Alcuni esempi di gematria, presi da questo prologo. Il cosiddetto logos, in ebraico (originale) DBR«si fece 

Ancora un errore inammissibile dei traduttori-esegeti passato inosservato, una pura impostura: «farsi» si dice in ebraico «essere fatto» (NᶜŜH); e l'equivalente di «diventare» è «essere per» (HYH o NHYH L); il verbo greco utilizzato qui (con un semplice attributo) è il duplicato, prevalente nella Settanta, del verbo «essere» ebraico (HYH), molto semplicemente. Affermazione di esistenza, di equivalenza, e non di trasformazione. (E non dimentichiamo, in questa occasione, che il nome divino YHWH è il concentrato di tutte le forme del verbo HYH, appunto, «essere»). 

carne», in ebraico BŜR.

Se si esegue la somma di «carne» e di «parola», si ottiene la gematria 502 + 206, ossia 708, valore che, nella disamina, è anche quello di:

Questo BŜR, come sa ogni conoscitore di ebraico, non denota (o non solo?) il corpo, la carne, ma la parte organica dell'individuo vivente; l'espressione biblica «tutta la carne» (inefficace in greco, eppure presente nel Nuovo Testamento), KL BŜR, è l'equivalente di «tutto l'uomo» (tutto l'uomo come tutto, e non tutto l'uomo come carne). Come sottolinea Claude Tresmontant nel suo studio già citato, i malintesi sulla carne neotestamentaria sono carichi di conseguenze. E — aggiungo subito — questi malintesi risalgono ai primi Padri della Chiesa (cfr., per esempio, Tertulliano e il suo De Carne Christi). 

Segnalo, inoltre, che «vangelo» si dice in greco euaggelion, e che, sempre in greco, nel greco del Nuovo Testamento, «carne» si dice sarx: nessuna specie di rapporto. In ebraico, le due parole si scrivono rispettivamente BŜRH e BŜR: da qui i numerosi giochi su questi termini nel corpus, giochi ignorati dagli esegeti dal momento che rimangono invisibili sia nel greco che nelle nostre traduzioni economiche derivate dal greco. — Mi dispiace proprio, veramente e sinceramente per i cristiani. 

Altro punto importante. Nessuna lettera ebraica vale aritmeticamente zero. Di conseguenza, e come lo permette la Cabala, posso considerare nullo e assente ogni zero che interviene nella gematria di una parola: da eliminare. Così, il valore di DBR, «verbo» (?), «parola/cosa», 206 (4 + 2 + 200), è equivalente a 26 — eppure 26, come sa già il mio lettore, è la gematria di YHWH, «Dio» (da cui la frase, immediata in ebraico, inammissibile in greco: «Dio era il verbo» — constatazione di un semplice 26 = 26); allo stesso modo, il valore di BSR, «carne» (?), 502, può ridursi a 52 — e 52 è la gematria di BN, «il figlio». Carne e parola, se si mantengono queste stupide traduzioni, sono qui gli equivalenti diretti, e rispettivi, del Figlio e di Dio: e quella duplice uguaglianza, che il prologo di Giovanni dice e afferma (che constata), non esiste nella Storia; non è un materiale di cronisti che tengono i loro quaderni (gli apostoli-cronisti à la Renan...) — essa esiste, di per sé, nell'ebraico, nella lingua, nella lingua che era originariamente quella del corpus: ed esiste, allo stato di rivelazione, solo lì. 

(La cancellazione dello zero nei calcoli gematrici è una costante nella storia della Cabala: è, come la messa in pienezza, in pleroma — o sviluppo esplicito delle lettere (termine presente nel Nuovo Testamento e comune tra gli gnostici) —, espressamente usata tanto nella Bibbia ebraica quanto nei Midrashim, nei Talmud e nella letteratura correlata — e figura anche nelle codifiche samaritane, provando così la sua estrema antichità).

 ḤN, «grazia», stessa radice di YWḤNN, «Giovanni»;

 BRWK, «benedetto», il cui anagramma (ovviamente di diverso valore gematrico) è BKWR, «primogenito»;

 BNY ʼLHYM, «i figli di Dio»;

 HʼBN, «la pietra»;

— HGN, «il giardino (dell'Eden)» ecc. ecc. 

Concetti non correlati nel greco, eppure inopportunamente presenti e ripetuti nel Nuovo Testamento (e nei testi apocrifi e gnostici), si riuniscono qui perché sono stati originariamente pensati, trattati, sviscerati, in ebraico.

Inoltre, mediante soppressione dello zero (cfr. la mia nota precedente), si può ridurre il valore 708 a quello di 78, e ottenere così tutte le equivalenze di LḤM, «il pane» (78 a sua volta). — E mai gli esegeti hanno afferrato questi meccanismi! Bravo il loro amore del greco... 


Il figlio «come unico»

In questo stesso Prologo di Giovanni, si parla del figlio «come unico» (verso 18 — traduzione volgare); niente a che vedere tra «figlio» e «come unico» in greco (uios da una parte, e ōs monogenous, come qui, dall'altro) — ma nell'ebraico la stessa gematria 

52 per BN, «figlio», e 52 (ossia 20 + 10 + 8 + 10 + 4) per KYḤYD, «come unico». Tutta la concezione evangelica del «figlio come unico» parte non dalla Storia ma da un'equivalenza numerica. 

Negli Estratti da Teodoto (in ebraico Natanaele o Jonatan — letteralmente «Dio dà/Dio dato»), che Sagnard, a suo tempo, ha così ben massacrato, quella identità gematrica appare diverse volte, tra tante altre. Ma Sagnard non l'ha vista. Il suo saggio citato dappertutto, dappertutto lodato, La Gnose valentinienne et le Témoignage de saint Irénée (Parigi, Vrin, 1947), si basa su una ignoranza totale (finta? voluta?) della lingua e della letteratura ebraica. La sua edizione-traduzione degli Estratti da Teodoto, Parigi, Le Cerf, 1948 (e 1970), non dà alcuno spazio o riferimento ai sistemi della gnosi ebraica, giudea o samaritana (quando così tanti gnostici sono di origine samaritana!), mentre i testi in questione — di cui gli Estratti fanno parte — funzionano a pieno regime su questi sistemi. 

 In Estratti 6:2, Sagnard traduce ton monogenē legousin on kai theon prosagoreuesthaï con «è il Monogene che è anche chiamato Dio», senza rendersi conto che kai theon lì significa «e Dio», e che l'equivalenza gematrica qui è tra YḤYD, «il monogene», «l'unico», e WYHWH, «e Dio», infatti in ebraico, non in greco, i due termini valgono 32 (nel primo caso, 10 + 8 + 10 + 4, e nel secondo, 6 + 10 + 5 + 6 + 5). Bisognava quindi tradurre: «è il monogene (o: l'unico) che chiamano e-dio» — e capire con questo che Teodoto e il suo maestro Valentino leggevano nella Bibbia YḤYD, «unico», «figlio unico», ogni volta che vi incontravano WYHWH, «e Dio» (in altre parole, già nel Libro della Genesi!). 
 Estratti 6:3: nessuna nota vi indica che gli gnostici valentiniani pongono l'equazione «Cristo» = «logos» + «vita» in ebraico, perché essa funziona precisamente solo in ebraico: in greco, «cristo-messia-unto» si scrive e si dice khristos, «verbo» logos, e «vita» zoē — nessuna relazione; in ebraico, MŜY, «messia», è composto da ŜM, «parola-nome-verbo», e da ḤY, «vivente-risorto». in Estratti 6:3, era originariamente posta, in ebraico, l'identità «messia» = «dio risorto» — e quella identità funziona (funzionava) solo in ebraico; e Sagnard non lo vede, non lo spiega. 
 In Estratti 25:1, nessun commento di Sagnard sulla frase: «I seguaci di Valentino hanno definito l'Angelo: un logos che ha ricevuto una missione da parte di Colui che è; e chiamano pure gli Eoni con lo stesso nome del logos: logoï». Quale lettore può avallare e capire un tale blabla? E Sagnard l'ha capito e avallato lui stesso? È con traduzioni di questo tipo che gli Gnostici sono ancora oggi disprezzati e ignorati — quando non vengono presi per dei semplici fantasiosi! Il greco qui è un tradimento. «Angelo-messaggero» è (era, nel testo originale di Teodoto) in ebraico MLʼK, valore gematrico 91 (ossia: 40 + 30 + 1 + 20). Una delle parole più importanti nella Bibbia ebraica per indicare la parola o l'oracolo di Dio (qui, divenuto in greco logos) è NʼM, «dire-detto» — stessa gematria, 91 (ossia: 50 + 1 + 40). E, per finire, l'equivalente di «eoni» è qui HʼLHYM, «gli Elohìm, gli Eoni» — stessa gematria, 91 (ossia: 5 + 1 + 30 + 5 + 10 + 40). Il brano, senza il minimo significato in greco e nel francese inspiegabile di Sagnard, in realtà stabilisce (constata) un'equivalenza tra tre termini ebraici (biblici) dalla stessa gematria, e li oppone tutti e tre a «Colui-che-è», in ebraico HWH o HWYH, letteralmente «l'essente», anagramma esatto di YHWH (la cui gematria, 26, ovviamente non concorda, giustamente in ebraico, con la loro). 
 Da nessuna parte nella traduzione-edizione di Sagnard figura una nota che spiega la parola topos, «luogo», così spesso impiegata negli Estratti, nella Gnosi — e nel Nuovo Testamento! Così, in 59:2, si legge quella perla: «Essendo arrivato nella regione del luogo, Gesù trovò...». Questo è ignorare il fatto che l'equivalente (l'originale) ebraico di questo topos («regione del luogo»! occorreva renderlo... ) è MQWM, e che questo luogo o MQWM è il corrispondente di YHWH, «Dio», perché YHWH = 10 + 5 + 6 + 5, e MQWM = 10² + 5² + 6² + 5². In breve, MQWM, la cosiddetta «regione del luogo» di Sagnard-esperto-di-gnosi è in realtà «YHWH le cui lettere costitutive si elevano al quadrato pronunciandole una ad una» (MQWM, «luogo» è infatti dalla radice QWM che significa «levarsi-elevarsi»). 
 E gli esempi non sono finiti. In 24:1, gli Gnostici valentiniani dicono: «Ecco perché i segni dello Spirito — guarigioni e profezie — si realizzano...» Ancora un controsenso. Al posto di «segni» per sēmeia, lui avrebbe dovuto leggere «lettere» (stessa parola in ebraico, ʼWṬ al plurale), e mettere una nota che spiegasse perché mai le lettere dello Spirito sono dette «guarigioni e profezie». In greco, nessuna relazione tra pneuma, «spirito», iaseis, «guarigioni», e prophēteiai, «profezie» — nessuna (cosa poteva dunque capirvi Sagnard con la sua ostinazione per il greco? ) — ma in ebraico «spirito» si scrive RWḤ, cioè R «e» (W) Ḥ; ora R è l'iniziale di RPʼ, «guarire», W significa «e», e  è l'iniziale di ḤZH, «profetizzare». Ecco il fondamento della frase citata più sopra; ecco il lavoro degli Gnostici sull'ebraico, in ebraico — non in greco, e non in parole incomprensibili. 

E questi pochi piccoli esempi (tra quanti del loro genere?) provano ciò che dicevo più sopra: non ci si illuda, scandalosamente, della lingua a proposito dei soli Vangeli e dei loro scrittori primitivi; pure gli gnostici sono sacrificati allo stesso ridicolo errore. 

accosta le due parole.


Un'altra qualifica del figlio

Nello stesso Prologo, il figlio è detto «pieno di grazia e verità», duplicato (peraltro inammissibile) dell'espressione biblica RB ḤSD WʼMṬ, dal significato più che leggermente diverso,

Ora la gematria di «grazia», ḤSD, 72, aggiunta a quella di «verità», ʼMṬ, 441, dà 513, stesso valore di KLH + ḤṬN, «la sposa» e «lo sposo» che simboleggiano l'unione mistica di Israele e del suo Dio, sposa e sposo così spesso presenti nei messaggi e nelle parabole del Nuovo Testamento.

E quella gematria di 513 è anche quella di HḤRŜ, equivalente assoluto, per la Septuaginta (e Aquila, ecc.), del greco tektōn, il cosiddetto «carpentiere» di Matteo 13:55: «Non è costui il figlio del carpentiere...» 


Il «seno del padre»

E non è finita, non dispiaccia ai grecisti.

Ai grecisti e ai dilettanti di aramaico. Infatti i metodi cabalistici di cui parlo qui, e i calcoli e confronti che ne derivano, eliminano non solo il greco ma anche l'aramaico.

Sempre in questo prologo, così ellenistico per i nostri esegeti di turno, ciò che si traduce con «seno del padre» (verso 18), detto altrimenti, in ebraico, ḤYQ YHWH (letteralmente «l'incisione di YHWH»), ha per gematria 144 (ossia: 8 + 10 + 100 + 10 + 5 + 6 + 5), doppio del valore di ḤSD, «grazia» — eppure, a due versi dalla menzione del cosiddetto «seno» del cosiddetto «padre», la parola «grazia» è ripetuta due volte «grazia per grazia»: ḤSD + SD = 72 + 72, ossia proprio 144)

E non rilevo gli errori di traduzione che si trovano a questo punto nelle versioni francesi, tedesche, inglesi, ecc. o nella vecchia versione di San Girolamo, in latino. Fuggiamo da quel dolore. Il «seno del padre» (duplicato del greco) è una stupidaggine... Sul termine «grazia», così potentemente abusato nel cristianesimo e tra gli esegeti, posso comunque aggiungere un punto importantissimo: la parola SD («grazia»?), come era utilizzata nel prologo primitivo del Secondo Giovanni, è numericamente equivalente a una delle pienezze (a uno dei pleromi) del nome divino-sacro, infatti YHWH, essendo composto dalle lettere YWD, «yod», HY, «hé», WYW, «waw» e HY, «hé» (vedere trattati di Cabala, passim), può scriversi: YWD + HY + WYW + HY, espressione pleromatica di valore 72 (cioè: 10 + 6 + 4 + 5 + 10 + 6 + 10 + 6 + 6 + 5 + 10). E, in questo caso, ripetere due volte SD, come faceva qui l'autore ebraico primitivo nel suo ebraico primitivo, equivale a ripetere due volte anche YHWH: ora 2 volte YHWH è 2 volte 26 (valore di YHWH), ossia 52, la gematria di BN, «il figlio». — Da un greco imbevibile, il Prologo di Giovanni assume un bell'aspetto e una coerenza decente non appena lo si rende alla sua lingua originale.


La «luce vera»

Nel verso 9 del Prologo, il testo parla della «luce vera» (resa trancese — e già greco — inammissibile!), in ebraico HʼWR HNʼMN (al maschile) la cui gematria è 358 (ossia: 5 + 1 + 6 + 200 + 5 + 50 + 1 + 40 + 50), la stessa di quella di MŜYḤ, «messia-cristo-unto» — messia espressamente menzionato nello stesso Prologo.

Il Prologo contiene anche, sotto il greco, nell'ebraico d'origine, giochi sule parole, inversioni di termini, effetti acrostici (acrostici che sono essi stessi oggetto di un calcolo gematrico), ecc. Per paura di stancare il mio lettore (e unicamente dal fatto di quella paura), passo oltre.


Altro esempio: «un solo uomo»

Lascio ora il Prologo di Giovanni e vengo, nello stesso Vangelo, ai versi 11:50 e 18:14. È il famoso detto: «È meglio che un solo uomo muoia per il popolo».

Non è una frase accessoria; è su di essa che poggia il racconto della Passione e, con essa, tutto l'edificio delle Chiese. 

In greco, quella frase è interessante (anche se, come sempre, dalla sintassi più traballante di quanto lascino supporre le versioni moderne); René Girard, nel suo Bouc émissaire, ha recentemente costruito su di essa e attorno ad essa alcune considerazioni sociologiche altisonanti di cui i mistici ebrei, e i nostri evangelisti primitivi, dovrebbero in retrospettiva, sorprendentemente, essergli molto grati. — Ma una volta retrovertita verso il suo ebraico di origine, essa assume, o piuttosto recupera, l'energia non proprio sociologica da due soldi, che gli avevano originariamente attribuito i suoi scrittori: il suo vero valore anti-storico. Ecco:

«Un uomo» è in ebraico BN ʼDM;

Letteralmente «figlio dell'uomo», «figlio di Adamo», «figlio dell'uomo-Adamo», espressione ricorrente nella Bibbia ebraica e nella letteratura peri-biblica e post-biblica, ed espressione mistica (cfr. il suo utilizzo nel Nuovo Testamento).

«un solo» è ʼḤD; e «il popolo» è ᶜM.

Ancora del vocabolario ebraico di prima settimana...

Ebbene, che mi si creda o no, la gematria di «popolo» in ebraico è identica a quella di «un solo uomo»! In entrambi i casi, 110.  

ᶜM, «popolo» = 70 + 40. BN ʼDM + ʼḤD, «un solo uomo» = 2 + 50 + 1 + 4 + 40 + 1 + 8 + 4.

Detto altrimenti, la frase evangelica «è meglio che un solo uomo muoia per il popolo» («per» = «al posto di», greco uper) si basa, ancora una volta, non sulla Storia o sul greco — o su entrambi — ma sul semplice fatto che in ebraico «popolo» e «un solo uomo» sono intercambiabili. Non nella Storia, non nella realtà-dei-cronisti-e-dei-testimoni-oculari; — nella lingua.

Occorre ancora parlare delle «nozze di Cana», delle connessioni gematriche che vertono sul «pastore» e sulle «pecore», della bestia dell'Apocalisse, e delle parabole,

Parabole che duplicano i MŜLYM ebraici; il MŜL non è un genere letterario greco, ma ebraico.

e dei nomi geografici o presunti tali (talvolta molto a torto), e dei nomi di persone... Ma come dire tutto contro coloro che non dicono nulla?

Ho preso esempi tra centinaia di altri possibili; li ho scelti significativi; ho evitato il ricorso al dettaglio; le frasi che ho citato sono note, e ovunque incomprese quanto alla loro portata e alla loro produzione.


Non presumo più, io affermo

Ma, per quanto siano ridicolmente pochi, gli esempi che ho messo a nudo traggono comunque la conclusione necessaria, la conclusione che, oggi, dovrebbe avere la banalità e la bonomia di un bel luogo comune — questo truismo che gli «specialisti» rifiutano: che, ricchi di gematrie e di notarici, i Vangeli, gli Atti, le Epistole e l'Apocalisse, quelli che si chiamano «canonici», hanno potuto essere stati scritti originariamente solo in ebraico — non in greco; e non in aramaico. Infatti è solo in ebraico che funzionano tali procedure, ed è solo nella tradizione e nella letteratura ebraica che sono moneta comune (in quanto generatori di testi) — non nella letteratura greca.

E la mia conclusione trova subito il suo corollario: scritti in ebraico, questi testi, proprio perché contengono calcoli e codifiche incomprensibili in greco, hanno potuto essere pensati, scritti e fabbricati solo per lettori ebrei, non per i Gentili, e nemmeno per gli ebrei, à la Filone, che avevano perso l'uso della «lingua sacra». Originariamente, gli autori dei cosiddetti testi fondatori del cristianesimo non avevano nulla a che vedere, né di fatto né in intenzione, con la Gentilità.

Insomma, i Vangeli — per parlare solo di loro — non si rivolgevano affatto alle chiese di Antiochia, di Roma o di Bisanzio. E nemmeno si rivolgevano agli ebrei della Diaspora che capivano solo il greco. E non si rivolgevano agli ebrei, di Palestina o della diaspora, che parlavano solo aramaico. 

E non ci si opponga a ciò col pretesto di trovare nel cosiddetto corpus cristiano la menzione del «mondo» e di «tutta la terra» e di «tutte le nazioni»; infatti la retroversione verso l'ebraico di termini di questo tipo (termini utilizzati già nella Bibbia) è ben lontana dai controsensi universalisti che si commettono su di loro — o piuttosto: il loro universalismo, se ce n'è uno in ebraico, non è là dove il greco e i grecisti lo mettono. 

Qualsiasi lettore non ebreo, greco, alessandrino, romano o altro che, per caso o per fortuna, si fosse avventurato a dare un'occhiata al Matteo o al Giovanni originale, non avrebbe visto altro che dei scarabocchi.

Quanto a noi, lettori — per effrazione! — di un secondo greco, di un greco dei traduttori, non ci resta più, come ho appena cercato di fare nel miglior modo possibile, che ricostruire con pazienza (ci vuole), talvolta con difficoltà (esiste), lo stato primitivo di tutto o parte del corpus, e non (soprattutto non!) dare credito alle versioni francesi e altre di una raccolta che, in quanto non originale, ha generato nel contempo la Chiesa e le chiese, l'Occidente, e tanti errori ancora oggi così sfacciatamente comici: 

Tutta la teologia cristiana, da tutti i primi Padri della Chiesa, si basa — lo ricordo — solo sul greco del Nuovo Testamento.

perché, a parte la religione cristiana, si conosce al mondo una religione (una cultura) che abbia basato le sue idee, le sue gesta e le sue mentalità, su dei testi sbagliandosi così sulla loro lingua? — La tristezza, qui, si unisce al sorriso.

Quanto ai miei 153 pesci dell'esordio, beninteso sono anche loro gematrici: 153 è infatti il valore di BNY HʼLHYM, «i figli di Elohìm», «i figli di Dio», così come di HPSḤ, «la Pasqua», «l'Agnello pasquale», ecc. — espressioni che, nel corpus, non sono di ultima importanza, come si converrà a buon diritto — ma è questa la conclusione?

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