giovedì 8 dicembre 2022

L'INVENZIONE DI GESÙL'enigma di un marchese

 


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L'enigma di un marchese

Comincio con Perrault e il suo Gatto con gli stivali; dal gatto, mi dirigo verso Carabas; per giustificare Carabas, il gatto padrone e il narratore che gli dà vita, mi invito da Filone di Alessandria. Quest'ultimo mi permette di seguire, alle prime file, le tribolazioni di un reuccio palestinese nonché la Passione di Gesù-Giosué Cristo-Messia. Peregrinazione di fantasia? Niente affatto...

Procedendo, faccio una scoperta che rimette in causa niente meno che la natura stessa della lingua del Nuovo Testamento: noto, nel presunto greco originale del corpus, la massiccia presenza di prestiti.

Quella presenza, davvero massiccia e non occasionale, mi assicura che la mia ipotesi di partenza era giusta: il nucleo del corpus è proprio ebraico. Ora non c'è dubbio: elimino il greco; ed elimino anche l'aramaico. 



Perrault, lo si ha spesso sottolineato, ha cura, quando introduce tale o talaltro personaggio, non solo di nominarlo, ma anche di spiegare il suo nome: Cenerentola si chiama così perché « andava a rifugiarsi in un cantuccio del focolare, e si metteva a sedere nella cenere; cosa che, in famiglia, le aveva procurato il soprannome di Culincenere; però la minore delle due sorelle, ch’era un po’ meno sguaiata dell’altra, la chiamava Cenerentola». Pollicino, da parte sua, «non superava la grandezza d’un dito pollice»; Cappuccetto Rosso, il cui soprannome sembra andar da sé, beneficia tuttavia di tre righe di glossario, in una storia che non ne conta più di cento: «la brava donna le aveva fatto fare un cappuccetto rosso: e le stava così bene che tutti ormai la chiamavano Cappuccetto Rosso»; stessa spiegazione, inessenziale a prima vista eppure ben fornita, per il perfido Barbablù: «ma, per sua disgrazia, quest’uomo aveva la barba blu»; quanto a Riccardin dal ciuffo, è quasi sfuggito alla regola, che paradossalmente, ma molto abilmente, raddoppia l'interesse dato da Perrault al suo titolo: «Mi dimenticavo di dire che egli nacque con un ciuffettino di capelli sulla testa: e per questo lo chiamarono Enrichetto dal ciuffo», con per giunta questo supplemento: «perché Enrichetto era il suo nome di battesimo». Il Gatto con gli Stivali e la Bella Addormentata, a loro volta, giustificano i loro nomi o soprannomi nel corso del racconto stesso dove intervengono.

Detto altrimenti, Perrault, a giusto titolo reputato un autore conciso, genialmente ed essenzialmente avaro di parole e di frasi, sembra in questa circostanza sprecare righe, troppe righe, nel rendere inutilmente evidenti denominazioni già di per sé molto chiare.

Non insisterò sulle ragioni di quell'ostinazione di Perrault nel non mantenere la propria concisione quando si tratta per lui di presentarci un nome, un soprannome o un nomignolo: M. Soriano, nella sua indagine su Les Contes de Perrault, culture savante et traditions populaires (Parigi, Gallimard, 1968), lo ha già fatto, peraltro con grande senso di suspense.


Impasse su «Carabas»

Per contro, rammento questo: una volta, in Il Gatto con gli stivali, c'è un nome proprio ben oscuro, ripetuto come per piacere, che, dal fatto della sua importanza narrativa, richiederebbe una spiegazione tanto quanto gli altri, un nome che tuttavia Perrault non spiega da nessuna parte: Carabas. Il gatto chiama il più giovane «Marchese di Carabas», e l'unica giustificazione che l'autore trova, peraltro molto allusivamente, per l'introduzione di questo nome, risiede in un improvviso accesso di fantasia del gatto: «questo era il nome che gli era saltato il ticchio di dare al suo Padrone», frase che figura tra parentesi, come un garbo noncurante concesso al lettore — un inciso distratto e senza grande importanza. E M. Soriano, non più dei più autorevoli esegeti di Perrault, non fa il minimo tentativo di chiarire il significato del soprannome del più giovane: non si sa, non se ne parla.

Noto, d'altra parte, che i fratelli Grimm, un po' alla maniera dei suddetti esegeti, non ne capiscono nulla, neppure loro: anch'essi non si soffermano sul termine. Laddove Perrault scriveva in fretta e furia: «Ecco qui, Maestà, un coniglio di conigliera che il signor Marchese di Carabas» (questo era il nome...) mi ha incaricato di presentarvi da parte sua», loro scrivono, con un eccesso di pesantezza in più che Voltaire troverebbe germanico: «Quando il gatto arrivò davanti al re, fece un profondo inchino e disse, dicendo a gran voce: — Mio Padrone, il Conte di... — e citò un nome lunghissimo e distinto». Sorvoliamo rapidamente su carabas come vocabolo presuntivamente «lunghissimo e distinto», sulla «gran voce» e sul «profondo inchino» (i Grimm sanno anche, a differenza di Perrault, che il mulino toccato al maggiore era «a vento»...): l'importante è che i nostri ricopiatori di Perrault non hanno la minima idea di cosa voglia dire «carabas»; non vi intendono nulla.

Perrault non sa, o fa finta di ignorare; quelli che lo leggono e lo copiano non sanno, o fanno finta di non aver letto: saltano sulla difficoltà. Bella unanimità.


Carabas in Filone

Ora la chiave di questo enigma, perché ce n'è una, mi è fornita — per quanto improbabile ciò possa sembrare — più di un millennio e mezzo prima di Perrault, da Filone di Alessandria, filosofo ebreo di lingua greca nato nel 13 o 20 A.E.C., e più precisamente da questo passo del suo In Flaccum («Contro Flacco»), passo che io traduco qui letteralmente come il suo greco 

Il greco del passo, e non quello di Filone: si vedranno nel seguito le ragioni e l'importanza di quella distinzione. 

e l'eleganza me lo permettono:

 «C’era un folle di nome Carabas (...). 

In quella parentesi, l'autore menziona che la follia di Carabas è solo benigna. Si insiste, nella digressione, che non è un pazzo, ma una sorta di idiota del villaggio. — Ricordiamoci che anche Gesù-Giosuè, nei Vangeli, è un pazzo; cfr. Marco 3:21: «A quella notizia, i suoi [vale a dire la sua famiglia, sua madre Maria-Miriam e i suoi fratelli] uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: È fuori di sé!».

Costui, che errava giorno e notte nudo per le strade, senza cercare di evitare il caldo e il freddo, era lo zimbello della gioventù e dei giovani sfaccendati».

«Spingendo tutti insieme questo disgraziato fino al ginnasio essi lo fecero salire sopra un palco ben alto perché tutti potessero vederlo. Appiattendo (?) del papiro a guisa di diadema glielo misero sul capo; poi gli ricoprirono il resto del corpo con un tappeto (?) al posto di una clamide; poi un tale, vedendo un giunco di papiro lungo la strada, lo strappò e glielo mise in mano a guisa di scettro».

«Dopo averlo così decorato con le insegne della regalità e gli ornamenti (?) che sono quelli di un re, come al teatro nelle farse, alcuni giovani con dei bastoni in spalla — a guisa di lancieri — formarono intorno a lui la guardia del corpo. In seguito altri venivano, chi per salutarlo, chi per farsi rendere giustizia, chi per consultarlo sugli affari pubblici»

«Poi dalla folla che si era riunita tutta intorno, si alzò uno strano grido, il nome di Marin (è, si dice, il titolo che si dà al sovrano in Siria), poiché essi sapevano che Agrippa era di razza siriana e che era di una parte importante della Siria che andava a prendere il regno».

Seguo qui l'edizione Pelletier, In Flaccum, Parigi, Cerf, 1967, ma non la sua traduzione. 


Carabas e Gesù

La folla, numerosa, e la vittima, unica; tutti contro uno, contro il capro espiatorio; un carnevale; la pseudo-corona regale; la falsa clamide; il falso scettro; le false insegne del falso monarca; gli scherni degli pseudo-cortigiani: non c'è affatto bisogno di insistere — tutto ciò ovviamente ripropone gli atti e gli utensili essenziali della Passione di Cristo come si svolge nei Vangeli. Alla semplice e ingenua lettura di questo passo dell'In Flaccum, si coglie subito che il pazzo Carabas e Gesù sono proprio lo stesso uomo.

Cfr. J. G. Frazer, Le Bouc émissaire, Paris, Geuthner, 1925, pag. 365-377. 


Ripresa del problema

E mi ritorna la domanda: perché diamine Perrault ha dato questo soprannome, per tramite del Gatto con gli stivali, al più giovane degli eredi del mugnaio? Infatti — e questo è importante —, da nessun'altra parte, se non nel suo racconto e nel Contro Flacco di Filone, si parla di un Carabas.

Con questa scarna correzione, però: Luciano di Samosata (II° secolo) menziona in due dei suoi racconti, di cui il secondo è forse apocrifo, Il Mentitore e Gli Amori, un certo Corebo, di cui la leggenda greca riporta così la farsa: «Folle che, essendosi sposato, non voleva giacere con sua moglie per paura di offendere sua suocera. Sua moglie gli fece credere di avere un male che poteva guarire solo tramite il contatto con un uomo, e riuscì a fargli consumare il suo matrimonio». (Prendo quella nota dalla traduzione delle Opere complete di Luciano fatta da E. Talbot, Parigi, Hachette, 1912). Come il nostro schernito Carabas, questo Corebo è folle, ma la loro affinità si ferma lì. In compenso si può notare tra Carabas e Corebo una semplice differenza di vocali; ora l'ebraico — come il siriaco, l'aramaico ecc. — scrive solo le consonanti: la radice della parola è quindi, in questo caso, proprio KRB o QRB. — Vi è, come per Corebo, una storia di bella famiglia con Gesù: nei Talmud, si chiama Gesù BR PNDYRʼ, in altre parole «il figlio dell'amante»; e, in questi stessi Talmud, lo si nomina — o soprannomina — BR STDʼ, foneticamente bar Satda: ora Satda è una trasposizione aramaica del greco stadieus, «il corridore dello stadio»: potrebbe essere che Gesù sarebbe stato detto frequentare, e nelle stesse circostanze, lo stesso ginnasio del folle Carabas ? 

Ho quindi chiesto a M. Soriano, già citato, meraviglioso conoscitore dei Racconti e della vita del loro presunto autore, se Perrault avesse o non avesse letto Filone di Alessandria; ed ecco cosa mi ha risposto:

«Charles Perrault ci ha lasciato la lista delle sue letture, sia nelle sue Memorie che nei suoi Uomini Illustri, e da nessuna parte, a mia conoscenza, cita Filone o le Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe. — Tuttavia non dimentichiamo che la sua formazione è giansenista e che suo fratello Nicolas è dottore in teologia. Nicolas ha letto sicuramente questi autori e, siccome i Perrault formano un clan, mi sembra probabile che Charles Perrault abbia beneficiato delle letture di suo fratello. Questo è evidente dalle note in Uomini Illustri che l'accademico ha dedicato ai grandi teologi del Secolo di Luigi XIV, per esempio Launoy, ecc.»

Ritorno così, ora un po' rassicurato, alla mia domanda originale: che ne è del triangolo Carabas-di-Filone/Carabas-di-Perrault/Gesù-dei-Vangeli?

Consapevole (chi non lo sarebbe? ) della parentela decisiva tra il racconto di Filone e quello della Passione di Gesù, certi studiosi hanno letto «barabas» in luogo di «carabas» nell'episodio del ginnasio; si sa che barabas, trascritto (e approssimativamente vocalizzato) in aramaico, significa «figlio del padre»; si sa anche come Pilato propone alla folla, giudea questa volta e non greca, di scambiare Gesù (che si presenta costantemente, a sua volta, come figlio di suo padre divino) con il rivoltoso Barabba, di cui diversi manoscritti del Secondo-Matteo aggiungono curiosamente che si chiamasse Gesù: affermazione giuridicamente insostenibile ai sensi del diritto romano, di uno scambio 

Il termine è importante: lo si vedrà più tardi quando sarà studiato il senso del termine «strano» Marin, che la folla fa assumere a Carabas. 

tra due facce della stessa medaglia?

Hemmerdinger, da parte sua, 

Cfr. Pelletier, op. cit. pag. 69, nota 4. 

«mostra che si tratta di una parola greca che indica il possessore di una o più navi», e Pelletier giustamente accetta quella incredibile congettura: la Passione del Cristo canonico sarebbe quella di un armatore? — Infatti si ritorna sempre là: il Carabas di Filone rimane, quanto al trattamento carnevalesco che gli è inflitto, il doppio — il gemello — di Gesù. 

Ma noi siamo ad Alessandria, e non a Gerusalemme, durante la mascherata nel ginnasio; e la data è chiaramente fornita dal contesto: la scena si svolge nell'estate del 38. Durante quell'estate, Caio Caligola, da poco imperatore di Roma, ha trasformato radicalmente il destino di un certo Agrippa, quello di cui si parla alla fine dell'estratto tradotto più sopra, il futuro Agrippa I, nipote di Erode il Grande. Ora, anche nel Gatto con gli stivali, il destino del figlio minore, da miserabile che era, è divenuto prospero; grazie al gatto, l'erede della peggior sorte è diventato l'erede della migliore.

Ma chi è questo Agrippa — che ne è di colui che la folla greca deride, in quell'estate del 38, attraverso Carabas?

Si noti, dal momento che si tratta nei due casi di una traslitterazione in greco, la somiglianza delle consonanti (le sole scritte in semitico) di «Agrippa» e di «Carabas»: G e K (o Q), R e R, P e B

— È qui che mi obbligo ad una lunga digressione.


Le tribolazioni di Agrippa

Fissare altrimenti che con una tabella (e ancora!) la buona posizione genealogica di uno qualsiasi dei membri della famiglia di Erode rappresenta, si sa, un funambolismo,  

Si legga lo schema fornito in Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, edizione Lidis, Parigi, 1973: è un vero rompicapo. Si veda anche, nel libro 18 delle Antichità, pag. 568 della stessa edizione (nella traduzione di Arnauld d'Andilly, un giansenista, fratello del Grande Arnauld, entrambi amici intimi di Perrault!): Flavio Giuseppe tenta lì, quasi con successo ma non senza imbarazzo, di dire chi era chi e il parente o l'alleato di chi in quella famiglia.

così tanti matrimoni consanguinei e identità di nomi sono numerosi e frequenti in seno a quel lignaggio. Malgrado tutto, Flavio ci dice che Agrippa (14 A.E.C. — 44 E.C.) è il figlio di Aristobulo, figlio a sua volta di Erode il Grande e di Mariamne I (o Miriam, Maria), e di Berenice (Veronica), figlia di Costobaro e di Salomè (quella Salomè essendo la sorella del suddetto Erode il Grande).

La Berenice di cui si parla qui non è quella che fu l'amante appassionata e disprezzata di Tito; e la Salomè di cui si parla qui non è la presunta figlia di Erodiade, a proposito della quale si legge, nel Vangelo gnostico (?) di Tommaso: «Disse Salomè: Chi sei tu signore, e di chi sei figlio? Hai preso posto sul mio letto e hai mangiato dalla mia tavola.  E Gesù le disse, Io sono quello...». (paragrafo 61).

Agrippa, per varie ragioni, passò la sua giovinezza a Roma, dove, come precisa Giuseppe, «fece così grandi spese in festeggiamenti ed in doni eccessivi, principalmente in favore dei liberti di Cesare, 

In altre parole, di Tiberio. Negli Atti di Pilato, versione-traduzione copta, vedo che Tiberio è chiamato «Tebelios» e non «Tiberios» o «Teberios»: ora la radice TBL, in ebraico, è quella dell'immersione, del battesimo. 

di cui voleva guadagnare l'affetto» che si trovò presto in rovina.

Si pensi qui, ma non posso insistere, alla famosa parabola (in ebraico MŜL — termine e pratica ebraica e non greca!) del «Figliol Prodigo»: la traiettoria di questo figlio e quella di Agrippa hanno molti punti in comune. 

Altrettanto poco fortunato, dunque, del più giovane del racconto ai suoi inizi, Agrippa dovette ritirarsi, in attesa di giorni migliori, «nella fortezza di Malata, in Idumea, 

In altre parole, in Arabia, terra natale della stirpe di Erode. 

per finirvi miseramente la sua vita». Ma questo non è che l'inizio delle tribolazioni del personaggio. Infatti, allertati da Cipro, sua moglie, il tetrarca Erode e la sua nuova moglie, Erodiade, 

L'Erodiade, questa volta, della cosiddetta tradizione cristiana, l'ispiratrice di Flaubert, di Gustave Moreau e di Mallarmé, la madre, si dice, della Salomè che, si dice, fece decapitare Giovanni Battista.

acconsentano a prestargli del denaro: non è, dopotutto, loro parente? Generosi, gli concessero in più la magistratura di Tiberiade. Ma i donatori non tardarono a litigare con il loro debitore. Agrippa ritorna quindi alla casella zero. Poi immagina di andare a trovare Flacco, il governatore di Siria, 

Il Flacco che incontreremo di nuovo più tardi ad Alessandria e che Filone affronterà presto nel suo libro. 

per implorare il suo aiuto, almeno finanziario. Flacco, dapprima comprensivo con lui a causa di un'amicizia che risale a Roma, finisce a sua volta per litigare con il suo supplicante. Secondo ritorno di Agrippa alla sua casella iniziale. Si ritira per qualche tempo a Tolemaide, l'attuale San Giovanni d'Acri (?), e poi, per estrema necessità, decide di rientrare a Roma. Decisione volontaria, questa volta, di un terzo ritiro. Purtroppo, il pover'uomo non possiede nemmeno l'argento per il viaggio. Il discendente di Erode è senza soldi... Così, per pagare la sua traversata, corre a cercare un liberto di sua madre, 

Il padrone ricorre ai servizi del servo perché il servo ha più risorse di lui: così il figlio minore del racconto di Perrault usa i servizi del gatto. 

di cui è già l'insolvente debitore, e che accetta di anticipargli, perfidamente, solo una parte della somma richiesta: Agrippa potrà attraversare il Mediterraneo solo in parte! ma annegherà nella casella del pozzo? No; pressato da altri creditori, il nostro viaggiatore perviene lo stesso ad Alessandria.

Cfr., per i viaggi di questo tipo e in quel periodo, Grand Atlas de l'Histoire mondiale, Parigi, Albin Michel-Encyclopaedia Universalis, 1979, mappa pag. 91. 

Conoscendo Alessandro, alabarca della città — e fratello di Filone, nostro autore — lo prega di prestargli anche solo... 200.000 pezzi d'argento, una somma enorme che Alessandro rifiuta di prestargli, mentre la concede alla moglie Cipro già nominata («perché», osserva Giuseppe, «ammirava la sua virtù e l'amore che recava a suo marito»); 

Frase che sottintende che Agrippa non brillava, invece, per la virtù né per l'amore coniugale. 

ad Agrippa, Alessandro concede solo... cinque talenti (ma non è così male!); e così l'idumeo riuscì a raggiungere Roma, mentre sua moglie e i suoi figli tornano in Giudea.

Nel Gatto con gli stivali, il giovane e il suo servitore sono, come Agrippa, dei peregrini; si spostano in continuazione: la loro ricerca, tutta quanta, è geografica. 

Una volta in Italia, Agrippa persiste nell'accumulare disavventure e, strenuamente, prestiti: per esempio: come il padrone perpetuo debitore del suo gatto, ottiene — è enorme! — 1.000.000 pezzi d'argento da Allo, ex liberto di Augusto. Come il figlio più giovane di Perrault, questo incredibile sfortunato, questo pozzo di denaro, si trascina dietro il collasso: pesca sempre il numero sbagliato. Per aggiungere ai suoi debiti e ai suoi guai, non vuoi che, legato d'amicizia da molto tempo di Caligola, figlio di Germanico, gli confidasse davanti a testimoni che avrebbe voluto vederlo subito regnare al posto di Tiberio! - parole che finiscono per pervenire alle orecchie dell'imperatore. E il nostro eroe, molto sfortunato in quel caso, si ritrova nelle mani delle guardie e gettato in prigione.

Il figlio più giovane del mugnaio è ridotto al lastrico; ha ereditato solo un gatto, mentre i suoi fratelli si godono invece il mulino e l'asino. Parallelamente, uno degli eredi della Palestina è in prigione, pieno di debiti, mentre altri, a loro volta suoi parenti, regnano nel suo paese.

Ma, come nel racconto di Perrault, si verificherà un'inversione di fortuna e sfortuna nella vita di Agrippa. Tiberio muore 

Quando Tiberio muore, si verifica una scena strana: qualcuno annuncia la morte dell'imperatore ad Agrippa, ancora in prigione, in quella maniera: «Marsia si affrettò a darne il lieto annuncio ad Agrippa. Lo trovò sulla via che lo portava al bagno; gli fece un cenno col capo e gli disse in ebraico: Il leone è morto. Agrippa non ebbe difficoltà a comprenderlo». Ora, se non mi sbaglio, «il leone è morto» è in ebraico HʼRY MWṬ, il che ricorda la pseudo-città «Arimatea» dei Vangeli. Infatti, Arimatea vi figura al posto dell'ebraico ĤʼRY MWṬ, letteralmente «dopo la morte (di)» — clausola frequente nella Bibbia e che inaugura, in particolare, il Libro di Giosuè, altrimenti detto, tramite il greco, di Gesù (YHWŜᶜ): Giuseppe, cosiddetto «di Arimatea», interviene in realtà «dopo la morte di» Gesù-Giosuè; e la frase sussurrata da Marsia ad Agrippa significa, in filigrana, che «dopo la morte di» Tiberio ogni speranza di una liberazione gli è permessa (da qui il sapore dell'osservazione di Flavio, ormai ben compresa: Agrippa non ebbe, infatti, difficoltà ad afferrare il sottinteso; non ebbe difficoltà, notiamo, a coglierlo (nell'anno 37 o 38! ) in ebraico). 

e Caligola sale al trono. Egli rilascia

Per le circostanze di quella messa in liberta, rinvio a Filone e a Flavio Giuseppe. — Noto d'altra parte che la radice PLT (che figura in «Pilato») significa in ebraico «liberare», «rilasciare» — semplice osservazione di passaggio (Pilato non è quello che desidera rilasciare Gesù?)... 

il suo amico Agrippa e lo fa — inaspettatamente — tetrarca al posto di tutti i piccoli re di Palestina: Agrippa porta ora la corona. 

Non accede fin da subito al trono della Giudea; — si trattenga solo il rovesciamento della situazione del personaggio. Agrippa finirà per spodestare Erodiade e suo marito, suoi ex creditori, che saranno esiliati a Lione. Perrault però non dice che la fortuna dell'erede inizialmente sfavorito si è costruita a spese di quella dei suoi due fratelli maggiori — l'unica cacciata nel racconto è quella dell'orco, il possessore, guarda caso, del castello. 

E Giuseppe fa questo commento, che si adatta perfettamente al contesto del racconto di Perrault: «questo evento fu un esempio illustre del potere della fortuna, quando si paragonano le miserie passate di Agrippa con la sua felicità presente». Il caso di dirlo, davvero.

Caligola gioca, in quella vicenda, nel contempo sia la parte del gatto che quella del re, padre della principessa da sposare: egli è il doppio strumento della fortuna del povero erede; grazie a lui — e solo a lui — il peggio di Agrippa è diventato improvvisamente il suo meglio.

Ma Carabas, in tutto ciò? — Non l'ho affatto dimenticato; vengo da lui, avendo raggiunto l'anno 38. Non penso che a lui.


Agrippa ad Alessandria

Nell'estate del 38, Agrippa si imbarca per raggiungere il suo regno. Da Pozzuoli, invece di andare direttamente in Siria o in Palestina, fa scala ad Alessandria, e quella sosta è doppiamente svantaggiosa per lui. Innanzitutto il governatore ora è Flacco, questo Flacco con cui, pochi anni prima, aveva litigato in Siria quando era il suo mendicante; lui lo sa; ed è senza dubbio per questo che Filone nota il suo desiderio di dimorare ad Alessandria in incognito e di non indugiarvi. La città, d'altra parte, popolata in maggioranza da greci e in minoranza da ebrei (e da samaritani), ogni gruppo etnico avendo i suoi quartieri, le sue corporazioni, il suo status politico, è attualmente il luogo chiuso di una lotta aperta tra le due comunità, lotta che Filone descrive come una vera guerra civile, con le sue esazioni, i suoi pogrom, i suoi vari saccheggi. E, di quella lotta, come il Pilato dei Vangeli, Flacco si lava le mani; 

La somiglianza delle due posizioni e dei due atteggiamenti è impressionante (e nessuno lo rileva!); lo è ancora di più quando si pensa, in ebraico, alla somiglianza grafica dei due nomi: PLTWS per «Pilato», e PLKWS per «Flacco» (cfr., nell'alfabeto ebraico quadrato, la forma delle lettere kaph e teth).

rimane passivo, e questo è ciò che Filone, perché è un ebreo, gli rimprovera: perché la passività del governatore, lungi dall'essere oggettivamente neutrale, favorisce tacitamente il clan più forte e più numeroso, quello dei greci.

Apprendendo che Agrippa è sbarcato — per loro è un re ebreo —

Mentre in realtà è idumeo, cioè, in semitico, ʼDMY o BR ʼDM, o BN ʼDM, espressione che significa anche, per equivalenza grafica tra «Adamo» ed «Edom» (ebraico ʼDM), «figlio dell'uomo» — che coincidenze, decisamente...

la folla, la popolazione greca, invece di deriderlo apertamente, di attaccarlo frontalmente, lo deride per interposta persona e per il tramite di un povero sostituto: ed è qui che il nostro Carabas, il folle, il sempliciotto, fa la sua famosa entrata. E vengo subito al testo di Filone già citato e tradotto: il folle divenuto re in una mascherata, la parodia carnevalesca di un'intronizzazione. Carabas, in realtà, è quindi Agrippa. È Agrippa, infatti, che la folla deride facendosi beffe di Carabas.

È quindi facile comprendere che Carabas non può essere che un ebreo: il contesto, l'economia generale dell'aneddoto e le osservazioni linguistiche che seguono, lo suggeriscono fortemente. Nessuna etimologia greca di «carabas» sembra d'altronde accettabile.

Ritorno indietro. In ebraico, la K e la B sono di una grafia sufficientemente vicina da generare confusione: i copisti della Bibbia ebraica ci hanno abituato a tali errori grossolani.

Confondono pure, e ancora più spesso, sempre a causa di una sfortunata rassomiglianza grafica, la R e la D (resh e daleth). La Septuaginta, nel tradurre la Bibbia in greco, ha talvolta ulteriormente aggravato queste confusioni di lettere.

Si capisce quindi perché certi hanno voluto leggere «barabas» al posto della trascrizione «carabas» data da Filone.

E — insisto — quella confusione non può spiegarsi che in ebraico, nella grafia ebraica, non in greco! 

 

Osservazioni di peso su Filone

Ma vi è di più importante. D'altra parte, Infatti, gli esegeti non sono mai riusciti a provare che Filone, l'immenso commentatore peraltro della Bibbia, ebreo di razza, sapesse l'ebraico; c'è persino ogni possibilità che avesse saputo solo il greco: così, quando si accinge — e lo fa abbondantemente — a rendere conto da sé (da tradizioni e trascrizioni) dell'etimologia di questo o quel termine ebraico, la sua interpretazione è il più delle volte imprecisa, incredibile o approssimativa; colmo dei colmi per un ebreo, ignoranza suprema, non conosce nemmeno, in ebraico, il valore delle quattro lettere di «Jahvè» (YHWH)! — La prima reazione del lettore del passo su Carabas nell'In Flaccum deve dunque — dovrebbe dunque — essere di diffidenza: Filone trascrive così un nome proprio di cui non dice l'origine etimologica, e anche di cui si può essere sicuri che egli non la conosce dal momento che si tratta di un termine tipicamente semita. 

Per questo motivo, ha potuto benissimo scrivere «carabas» dove avrebbe dovuto scrivere «barabas»; ed eccomi rimandato ai Vangeli, al trattamento di Cristo nella Passione, all'eventuale scambio Barabba/Gesù.

E non è tutto. Ricordiamo che Filone è un autore tra i più prolissi: ha scritto migliaia di pagine 

L'ultima edizione francese delle sue opere comprende 35 volumi, di cui la maggior parte sono commentari sulla Bibbia (su argomenti contemporanei, va contato il nostro In Flaccum che si combina alla Legatio ad Gaium, resoconto di un'ambasciata degli ebrei di Alessandria presso Caligola). — Devo aggiungere, non dispiaccia agli autori del libro di testo, che Filone non ha esercitato la minima influenza sulla letteratura giudeo-ebraica successiva: è uno studioso giudeo-greco marginale — per contro, fatto significativo, è letto e usato da vari Padri della Chiesa.

di cui il meno che si possa dire è che sono greche nello stile: Filone è, come è noto, il migliore degli scrittori greco-alessandrini. La sua lingua non conosce, fatto singolare dal momento che si tratta di uno scrittore ebreo

Flavio Giuseppe, suo pressappoco contemporaneo, non è nello stesso suo caso; sa l'ebraico e l'aramaico (è palestinese) e, se i suoi libri sono perfettamente scritti e leggibili in greco, è perché ha avuto cura di farli tradurre in quella lingua da esperti. Cfr. il Prologo della Guerra Giudaica: «Questo è ciò che mi ha fatto decidere di scrivere in greco... ciò che ho scritto in precedenza nella mia lingua madre, per informare le altre nazioni»; cfr. il Prologo alle Antichità Giudaiche: «Ho ragione di credere che i Greci si compiaceranno di quest'opera, perché vi vedranno, tradotta dall'ebraico nella loro lingua, quale fu l'antichità della nostra nazione»; e, nell'Epilogo della stessa opera, questo: «Non ho motivo di rimpiangere il tempo che ho impiegato ad apprendere la lingua greca, anche se non la pronuncio perfettamente, il che ci è molto difficile  perché non ci applichiamo abbastanza, perché presso di noi non godono grandi favori le persone che sanno varie lingue» (lascio quest'ultima parte della frase all'attenzione degli pseudo-studiosi che ancora stanno a domandarsi se gli ebrei di Palestina non avessero prevalentemente il greco per lingua madre nel primo secolo: e no, Flavio lo dice esplicitamente, era malvisto tra questi ebrei, suoi compatrioti, quelli della Palestina, e quindi molto difficile, avete letto bene, apprendere «varie lingue» diverse da quella semita; dedico anche questo passo a coloro che credono ancora in massa che la scrittura originale dei Vangeli, globalmente semitica nella loro sintassi e nel loro stile, fosse stata fatta in greco).

e piuttosto fiero di esserlo, alcun altro semitismo notevole se non quelli che provengono da un riferimento costante alla traduzione greca della Bibbia dei Settanta. 

O, più esattamente: dei Settanta e di altri.

Ci sono quindi tutte le ragioni per pensare che Filone non abbia avuto accesso alla Bibbia se non attraverso le traduzioni; Filone, in ogni caso, non ha avuto rapporti con il testo ebraico: Filone non sapeva l'ebraico.


La lingua originale del passo 

di Filone su Carabas

Ora, precisamente il passo citato — su Carabas — è stranamente in contrasto, dal punto di vista linguistico, con l'insieme dell'opera: la sua sintassi è tale, a prima vista, che si può affermare senza difficoltà: che si tratta di una redazione greca da parte di un autore che pensava il suo testo in ebraico o in aramaico, oppure che si tratta di una traduzione pura e semplice di un originale semitico, grosso modo letterale; in entrambi i casi, si ha a che fare con una fonte non greca, con un modello primitivo semita.

Da quella tesi bisogna escludere le due righe che precisano la natura, benigna e non maligna, della follia di Carabas e la glossa che, alla fine, ruota attorno al significato del titolo Marin, «signore»

HYH ʼYŜ KSYL ŜMW... Così doveva cominciare l'estratto di Filone in ebraico: «Vi era un (uomo) folle dal nome di...» Insomma, sintatticamente parlando, ci sarebbe solo una minima difficoltà a retrovertere il passo, cioè a ritrovare il suo originale, che non abbiamo, a partire dalla sua traduzione (in greco) che sola noi possediamo al presente.

Resta il fatto che è sempre più conveniente retrovertere sintatticamente un testo, in altre parole, far aderire qui un ordine delle parole ebraiche all'ordine delle parole greche, invece di pervenirvi semanticamente: poiché ad una parola greca, qui come altrove, possono corrispondere il più delle volte diverse parole ebraiche; quale scegliere? Quale era, per esempio, nell'originale, l'equivalente ebraico o aramaico di memēnōs, «il folle»? — Il problema è che esistono una buona dozzina di termini semiti, comuni o meno, per indicare la follia!

Quella difficoltà, nel caso che ci interessa, è solo parziale, e si può aggirare, almeno in una certa misura. Ecco perché.


I prestiti

I Talmud — ma più raramente la loro Misnà —, i Targum e i Midrashim, tutti testi post-biblici, possiedono tra altre peculiarità quella di contenere nel loro vocabolario una miriade di parole straniere prese in prestito e trascritte alla meglio, talvolta abilmente, talvolta deplorevolmente, nell'alfabeto ebraico.

Esempio di una trascrizione felice e immediatamente riconoscibile: ʼSTRWLWGYʼ, per astrologia, «l'astrologia», «l'astronomia»; il senso e la grafia sono quasi identici, tranne che per le vocali, in greco e nel prestito. Esempio di trascrizione cacofonica: DYWZWGY, che si pronuncia (?) diyozoughy, è l'equivalente, in prestito, della parola greca diadokhē, con il solo significato di «passaggio di poteri» — per una migliore comprensione di questi prestiti e dei loro meccanismi, rimando a Jastrow, Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literature, The Judaica Press, Brooklyn, n.d., e, nonostante il ridicolo clamore che attirò al momento della sua pubblicazione, all'inevitabile Samuel Krauss, Griechische und Lateinische Lehnwörter im Talmud, Midrash und Targum, ristampa Olms Verlag, Hildesheim, 1964. — Il vocabolario dei Vangeli, e non solo di quelli canonici, e di molti altri testi affini, gnostici o meno, dei primi tempi del cristianesimo, è ricco di termini che figuravano nel lessico ebraico dell'epoca perché sono stati mutuati dal greco (e dal latino: cfr. il Vangelo di Marco) e trascritti nell'alfabeto semita: figurano così, per esempio, i termini che seguono, tutti utilizzati nei Vangeli (e nel Nuovo Testamento in generale, tutti i passi confusi):

argurion, arkhitriklinos, arkhōn, apsinthos, basilikos, gazophulakion, gamos, grammateus, diadokhos, diathēkē, diakonos, epikourios, epimeleia, episkopos, epistolē, senza contare glōssokomon (in cui i traduttori e gli esegeti non si vergognano di vedere «la borsa» — e, perché no? il «portamonete» di Giuda!!!), e altri, decine di altri, rari o no, hapax o no; e questa proliferazione prova, se ce ne fosse bisogno (cioè: se la prova sintattica non fosse decisamente sufficiente), che la lingua originale dei testi fondatori del cristianesimo e della tradizione di cui testimoniano era l'ebraico o l'aramaico o ambedue mescolati: gli antichi traduttori allora, ogni volta che una parola era comune al greco e, per prestito, all'ebraico, hanno scelto quella parola: essi, in quell'occasione, hanno optato per la soluzione più facile, più conveniente — la più letterale. — Questo fenomeno è tanto caratteristico, a mio avviso, dei Vangeli e del corpus neotestamentario tutt'intero, quanto la loro stessa sintassi semitica: e nessuno l'ha mai visto! 

È anche una delle caratteristiche proprie del tardo ebraico quella di essere affezionato, spesso in modo peggiorativo comunque quanto al senso trattenuto, a tali prestiti dal greco (e dal latino, dal siriaco, ecc.). Ora si dà il caso, come se fosse un fatto deliberato, che il brano di Filone su Carabas, ad esclusione di ogni altro testo (greco, quindi) dello stesso autore, condivide quella vivida caratteristica, ma questa volta in senso inverso: esso è pieno di parole (greche) che il tardo ebraico (= post-biblico), nella sua stessa economia, ha mutuato dal greco mentre le trascriveva.


Esempi di prestiti nel

brano di Filone su Carabas

Ecco alcuni esempi, tra quelli che ho saputo individuare a colpo sicuro, di tali termini:

Nell'inciso esplicativo dell'esordio, è detto che Carabas non è un pazzo furioso ma un semplice idiota innocuo per chi lo circonda. Il traduttore di Filone si scontra con la parola askēptos che in greco è un hapax.

Hapax: termine che ricorre solo una volta in una determinata letteratura, in una determinata lingua.

Colson, nella sua traduzione inglese, propone di sostituirlo 

La mania di sostituzione tra gli studiosi e gli editori di testi antichi ed esotici meriterebbe di essere oggetto di uno studio patologico approfondito...

con askepastos: in questo caso, la follia sarebbe «non finta»; nel precedente, sarebbe «pericolosa». Cosa scegliere? I traduttori moderni avrebbero dovuto — invece di lasciarsi tentare da una manomissione del testo — fare appello all'ebraico tardo, perché in quella lingua esiste in effetti un prestito dal greco, ʼSQPSTY, trascrizione che ricopre solo il termine skepastos

L'aleph (ʼ) nella trascrizione di questa parola non è affatto una a privativa: si tratta di un effetto fonico; cfr. la differenza tra il francese station e lo spagnolo estación; gli ebrei trascrivono il greco, quando comincia con una consonante che vi si presta, come farebbero gli spagnoli: aggiungono all'inizio della parola una falsa vocale e, nella pronuncia, una i, una o oppure una é (cfr. anche la prefazione del dizionario di Jastrow, che fornisce una spiegazione meglio sviluppata di questo fenomeno). 

Pertanto, nell'inciso di Filone, askepastos non è affatto un hapax; è lì per rappresentare il prestito ʼSQPSTY dal greco skepastos

con il solo significato di «riparato», «coperto», «ricoperto». La frase quindi non significa per nulla «la follia furiosa è pericolosa per per coloro che ne soffrono e per coloro che li avvicinano», come credono Pelletier e Colson, ma piuttosto, attraverso l'ebraico: la follia furiosa è una protezione, un rifugio, di cui beneficiano coloro che ne sono parzialmente o totalmente afflitti; i pazzi furiosi, insomma, non si possono trattare come il povero Carabas: infatti si vedrebbe così, nel bel mezzo del Carnevale, il falso re preso da trance demoniache, irresistibili, e che salta alla gola dei presenti?

Ma veniamo ora agli attori del dramma. Lo schernito è preso di mira da bambini, da adolescenti oziosi, sfaccendati, in greco skholazontōn; ed è folle: in aramaico SKLʼ, pronunciato sakla

Cfr. pure, per esempio, l'ebraico KSYL, anagramma di questa parola e recante lo stesso significato. Ogni scrittore semitico è bramoso di usare anagrammi: la sua lingua gli permette questi giochi; si direbbe che lo invita a farlo, lo costringe a farlo (il che non è affatto il caso del greco e, più in generale, delle lingue indoeuropee).

significa «folle», e ʼSKWLʼ, pronunciato iskoly, ricalca non l'oziosità, ma la scuola, in greco skholē: i giovani di cui parla qui Filone sono scolari, studenti — non si potrebbe capire altrimenti la minuzia e l'intelligenza, la raffinatezza, del rito carnevalesco al quale sottopongono il sempliciotto; questo non può essere un branco di ragazzini analfabeti! Qui l'ebraico ci aiuta a ripristinare, sotto il greco, il senso (originale) del brano, e non solo a illustrarlo.

Avendolo spinto nel ginnasio, 

È laddove sono le scuole, nel mondo greco-romano.

i giovani mettono Carabas in piena vista del pubblico, e gli conferiscono una falsa corona. Poi, dice Filone, a guisa di una clamide coprono il resto del suo corpo con un tappeto (?). Clamide e tappeto (?) sono due parole che il tardo ebraico conosceva per averle mutuate dal greco. Khlamus, «la clamide», vi è trascritto KLMWS, pronunciato klamos, e indica allora la veste dell'ufficiale, in opposizione al prestito SGWN (greco sagos, latino sagus o sagum) che indica invece l'uniforme del soldato semplice.

Quanto a khamaïstrōtos, che Pelletier traduce con «il tappeto», in greco è solo un aggettivo, peraltro rarissimo, e non un sostantivo, che significa «steso per terra»; questo termine, ingiustificabile qui in greco, può comprendersi solo col ricorso all'ebraico: la sua trascrizione vi figura, infatti, sotto la forma ḤYMWṢṬʼ e vi denota, in quanto sostantivo, l'abito color porpora dei grandi personaggi romani, l'abito da parata dei potenti del paganesimo. Come nel corso della Passione il Cristo, si è rivestito Carabas non di un aggettivo, e non di un tappeto — non dispiaccia a Pelletier e alla sua avversione per l'ebraico — ma di una toga di porpora.

Passo su papuros, «il papiro», che, prestato al tardo ebraico, diventa PPYYR (pronunciato papyar) e significa allora: «il papiro» (la pianta), ma anche «il tessuto fatto di papiro». Il diadema messo sulla testa del folle era quindi proprio in tessuto vegetale.

La «corona di spine» di Gesù (se la retroversione verso l'originale ebraico permette di conservare questo utensile) è egualmente vegetale.

Il rito si svolge come al teatro nei mimi: ōs en theatrikoïs mimoïs. Qui di nuovo due termini 

Due termini su quattro, gli altri due essendo non mutuabili in quanto avverbio e preposizione! 

figurano nel vocabolario mutuato in ebraico dal greco. Uno è MWMWS (pronunciato momos o moumos) e indica il mimo o l'attore mimo. L'altro è molto più interessante per il nostro soggetto: «il teatro», theatron, produce, nella trascrizione ebraica, più di una dozzina di approssimazioni grafiche e fonetiche: ʼSTRYʼ, ʼSTRYHʼ, ʼSTRYʼ, ʼYSTRYʼ, ʼṢTRYʼ, ʼYṢTRYʼ, ecc. tutte queste parole indicano il teatro, ma anche più generalmente l'arena, il ginnasio, i combattimenti dei gladiatori, le corse, il circo, l'anfiteatro, e, in ogni occasione, in senso peggiorativo rispetto alla stretta tradizione e ideologia ebraica, l'insieme degli spettacoli e dei riti pagani: tanto che ʼṢTRYʼ finisce per voler dire «luogo di fornicazione», «lupanare»; si trovano nella letteratura ebraica dell'epoca frasi come questa (Tosephta Avoda Zara 2:7): «Chiunque frequenta il teatro (ʼSTRYN) è un assassino».

D'altra parte, curiosamente, la trascrizione del termine theatron, ʼSTRYʼ («il teatro», ecc.), e quella del termine stratia («l'esercito»), 

In Matteo 27:27 (ma cfr. i paralleli in Marco e Giovanni), si legge questo: «Allora i soldati (oi stratiōtaï) del governatore (tou ēgemonos) condussero Gesù nel pretorio (to praitōrion)...» Ora, «soldato», «governatore» e «pretorio» (sic!) sono parole che il tardo ebraico prende dal greco: ʼSTRTYWT, per stratiōtēs, «il soldato», «l'ufficiale romano», «il messaggero» (si noti, qui come altrove, lo spostamento semantico che avviene tra il vocabolo originale e il prestito ebraico!); HGMWN, per ēgemōn, «il generale» (termine che suona perfettamente come l'ebraico ʼGMWN, «la canna», mentre quella assonanza non esiste in greco — da qui il valore narrativo della canna che si dà a Gesù per deriderlo; con ʼRGMWN, «la veste di porpora», mentre quella assonanza, di nuovo, non esiste in greco — da cui il mantello con cui lo si ricopre; così come con il verbo ʼRG, che significa «intrecciare», assonanza assente dal greco — da cui l'intreccio della corona di spine); infine PLTRYN, PLTYRYN o PLTWRYN, con, in tutti i casi, una L e non una R, per praitōrion, «il quartier generale», «il palazzo», «la residenza o la sede regionale del governatore pagano» — e non «il pretorio»! (termine che suona, per esempio, come PLTWS o PYLTWS, «Pilato», da cui l'importanza narrativa di questo personaggio nel corso della Passione evangelica). — Ne consegue che il testo riguardante il trattamento carnevalesco di Gesù nei Vangeli corrisponde alle stesse caratteristiche sintattiche e semantiche (natura semitica delle parole prese in prestito) del brano di Filone su Carabas. Convergenza interessante. Convergenza che, per venti secoli, nessuno ha notato — o voluto notare! 

sono, tranne che per una lettera, le stesse: ed è d'altronde per questo che, nella frase che ho appena citato, si identificano gli spettatori del circo ad assassini, ai soldati romani — vituperati. È anche per mezzo di queste parole, per quella affinità di parole, che avviene il confronto Gesù/Carabas: uno è maltrattato dai soldati, l'altro dai teatranti — stessa eco fonetica e ideologica, all'orecchio di un ebreo che si esprimeva in ebraico: nessun accenno di relazione nel greco.


Intervento del Libro di Ester

Noto egualmente — ma questo dovrebbe essere oggetto di uno studio speciale — che il libro per eccellenza dove, nella Bibbia, si parla di un'impiccagione, di una sospensione al legno, detto altrimenti, per la tradizione a venire, di una crocifissione, 

Non c'è una parola ebraico-biblica per designare la croce; si dice semplicemente il legno (o l'albero, ʿṢ, come quello del Bene e del Male...): questa è la parola utilizzata dai Vangeli, in greco stauros. Quella impossibilità di variare i termini non è greca o latina, è ebraica: è normale per un semita. E la domanda rimane allora: crocifissione o impiccagione? — Ma quella povertà semantica non vale che per l'ebraico biblico; nel tardo ebraico è un po' diverso. Oltre a ṢLB, «la croce», l'ebraico dei Talmud possiede prestiti, come per esempio ʼLKSWN, ricalcato sul greco loxos, «diagonale», «obliquo», da cui «losco», «ambiguo», e che significa, come avverbio, «in croce», «in diagonale», e, come sostantivo, «la diagonale», «il diametro» (termine utilizzato in questo senso nel Sepher Yetzira). Ora, per caso, si trova che questa parola, graficamente e foneticamente, suona quasi interamente come ʼLKSNDRWS, ʼLKSNDRY e ʼLKSNDRYʼ, detto altrimenti con «Alessandro», «alessandrino» e «Alessandria», cosicché ʼKSNDRYʼ viene a significare sia «un mercante di Alessandria» sia, con humour o disprezzo, «una croce», «un alto albero», «una forca»: ed è questa parola, pronunciata aksanddrya, che figura per intero nella frase seguente (Targ. II su Ester 7:10): «Il figlio di Ammedata (cioè Aman, qui identificato con Pilato!) vuole appendere all'albero il figlio di Pandira (ossia Gesù)». Non è sorprendente, in queste condizioni, che Gesù sia crocifisso mentre il suo doppio, Carabas, serva da scherno agli alessandrini: il vocabolario implica, un giorno o l'altro, purché si tratti di tardo ebraico (ed è proprio quello che ci interessa), che un crocifisso, non appena vi si mescoli del commentario, abbia qualcosa a che vedere con Alessandria. Ora, chiunque abbia familiarità con le narrazioni e i commentari talmudici sa che è a giochi narrativi di questo tipo che conduce l'economia della lingua ebraica — l'economia della lingua: non la Storia! 

è il Libro di Ester: 

Si sa, inoltre, che il Libro di Ester è all'origine della festa ebraica di Purim, cioè degli incantesimi, detto altrimenti, del Carnevale degli ebrei. A mio avviso, lo scheletro dei Vangeli originali — come racconti, non come raccolte di parabole — è ispirato a questo libro.

Aman, che ha voluto crocifiggere (appendere?) l'ebreo Mardocheo, si ritrova infine appeso al legno con i suoi figli. 

Sempre questo effetto di inversione, la grande tradizione, in effetti, di carnevali, di soprusi, di rituali di compensazione; e, nella realtà questa volta, l'improvviso capovolgimento del destino di Agrippa, capovolgimento deriso, ridicolizzato, dalla folla di greci di Alessandria: il capovolgimento del capovolgimento.

Ora «Ester» si dice in ebraico ʼSṬR, parola che ha una parentela immediata con quella che indica, tramite prestito e tardivamente, il teatro e la soldatesca: 

Sempre quella espressione STR/SṬR come perno: è la radice di Ester, la radice che serve da modello in occasione del prestito ebraico dalle parole greche stratia, stratēgos, stratiōtēs, «la soldatesca», ed è la radice del termine theatron, «il teatro», allorché esso è prestato, ed è, per coronare il tutto, la radice del legno, della croce, di Gesù-Giosué: stauros, nei Vangeli! Quale cascata di coincidenze...

si capisce perché Gesù è crocifisso dai soldati e perché Carabas, sempre più il suo doppio, viene messo alla gogna in un anfiteatro. Tutto ciò concorda perfettamente e si adatta felicemente.

Concorda e si adatta in ebraico: non in greco.


Ancora dei prestiti

Ma continuo l'esame dei prestiti. Si rimettono a Carabas le insegne, le insegne distintive, della regalità (greco parasēma). Esiste una parola ebraica, non mutuata (?) questa volta, che suona da subito come la parola greca utilizzata qui: PRSM, termine che indica la divulgazione, l'esposizione, la messa in pubblico, la pubblicazione: l'ebraico e il greco sono d'accordo, per caso (?), senza prestito (?), sulla grafia e sul senso.

Si danno in seguito a Carabas gli ornamenti (?) propri del re; Pelletier traduce: «quando fu acconciato da re», kai diekekosmeto eis basilea. Ma diakosmein non è mai attestato nella letteratura greca con questo senso: significa solo «mettere in ordine un corteo» (mentre qui si tratta di un individuo), «organizzare», «regolare», «prendersi cura di». Anche qui, solo il passaggio per l'ebraico può e deve informarci: QWZMYN, trascrizione di kosmos (che dà, in francese, «cosmetico»), vuol dire, in quanto prestito, «i gioielli», «i monili», «il set di ornamenti», e, più cacofonico del termine greco impiegato qui, QWZMYDYʼ, per kosmidia, reca lo stesso senso. Detto altrimenti, l'autore (il traduttore?) ha utilizzato qui un termine greco per nulla affatto nel suo senso greco ma in quello che aveva per gli ebrei ebraizzanti che lo avevano trascritto nella loro lingua e nel loro sistema grafico.

I giovani si collocano a ciascun lato di Carabas e gli fanno da scorta; fanno i lancieri e le guardie del corpo: anti logkhophorōn... mimoumenoi doruphorous. LWNKY, per il greco logkhē, «la lancia», «il palo», «il giavellotto», è un prestito nel tardo ebraico.

È quella lancia che figura in Matteo 27:49 e in Giovanni 19:34 (logkhē in entrambi i casi): ancora un parallelo tra la Passione di Gesù e quella di Carabas.

Quanto ai portatori di lancia, essi sono LWPRYN, termine ricalcato cacofonicamente, con abbreviazione, su logkhophoroï, per indicare in effetti «i portatori di picche» (pastori, o soldati in armi). Prestito simile per doruphoroï «le guardie del corpo», con il duplicato approssimativo DRBWNYN, stesso senso del greco.


Conseguenze

Ecco dunque, riportate molto rapidamente, alcune caratteristiche del vocabolario del testo di Filone riguardante Carabas. Noto che molti termini, insolitamente numerosi qui, sono parole che figurano nel tardo vocabolario ebraico dei Talmud, dei Targum e dei Midrashim (e del loro aramaico) a titolo di trascrizioni a partire dal greco. E quella oggettiva constatazione mi porta abbastanza naturalmente alla seguente ipotesi: l'aneddoto riguardante Carabas non è affatto di origine greca; la sua fonte è linguisticamente semita, ebraica o aramaica. Pertanto, o Filone ha utilizzato quella fonte e l'ha tradotta lui stesso in greco, abbastanza letteralmente peraltro da tradire il punto di partenza (vocabolario e sintassi) di quella traduzione — ma come immaginare che questo autore, ignorante, come abbiamo detto, delle lingue semite, abbia potuto procedere in persona ad un tale lavoro? — oppure allora, tesi molto più probabile, la fonte semita è stata tradotta in greco e inserita a posteriori nel corso del libro di Filone: ma, in questo caso, va riesaminata la cronologia di questo racconto: è davvero nel 38, ad Alessandria, in occasione della visita di Agrippa in quella città, che un sempliciotto o presunto tale si è fatto maltrattare da una folla?

Quella questione prende tutto il suo peso non appena si nota questo: i giovani che perseguitano Carabas sono giovani greci; senza questo la scena non ha più la minima verosimiglianza. È altamente improbabile che questi giovani conoscano le lingue semite.

Gli stessi ebrei di Alessandria sono ritenuti non saper parlare, leggere e scrivere l'ebraico.

Ora, la folla presente allo spettacolo pronuncia effettivamente una parola semita: «Poi dalla folla riunita tutta intorno, si alzò uno strano grido, 

Greco atopos, «bizzarro», «assurdo», «strano» — per Filone, l'aramaico e l'ebraico suonano dunque come barbarismi! 

il nome di Marin — è, si dice, il titolo che si dà al sovrano in Siria —, poiché essi sapevano che Agrippa...» La folla che pronuncia una parola semitica sarebbe dunque ebrea? Sarebbero gli ebrei di Alessandria che se la ridono del re idumeo della Palestina? Perché, ripeto, la folla che pronuncia una tale parola non si può dire che sia greca: i greci di Alessandria non hanno certamente saputo, come folla, che Mar voglia dire «signore», «padrone», in semitico!

Così, ho grandi difficoltà a credere: o che Carabas sia stato maltrattato dai greci; o, più seriamente, che sia stato maltrattato dagli alessandrini, ebrei o greci. — La fine del brano è peraltro molto confusa: lo scrittore, o meglio il traduttore grecizzante, deve spiegarsi il termine Marin (termine semita, non greco — e la cui traslitterazione pare, per di più, difettosa) come se non ne capisca lui stesso il significato: si dice che in Siria è così che si chiama... Se si rivolge agli alessandrini, e più precisamente ai greci di quella città, è così che spiega alla folla che ha pronunciato la parola il senso stesso della parola che essa ha pronunciato: questo è assurdo. Se, per contro, si rivolge agli ebrei, è perché li considera ignoranti della loro stessa lingua: in entrambi i casi arriviamo, a riguardo dell'origine aramaica o ebraica del brano, ad un puro e semplice impasse.

MR (pronunciato mar) significa in ebraico «il signore», «il padrone». Il femminile del termine è MRṬʼ (martha) in aramaico, «la padrona». Ma MR significa anche «lo scambio», «la sostituzione»: B-MR D vuol dire allora «al posto di», «in vece di» — in vece del re Agrippa, ci si deride di Carabas; in vece di Barabba, si impicca o si crocifigge Gesù dopo averlo maltrattato; e, in Perrault, il gatto fa assumere al suo giovane padrone il ruolo, fittizio, del proprietario e del finto-affogato. E poi MR vuol dire «l'aspro», «l'amaro»: ci si rammenta del fiele o dell'aceto, offerto a Gesù sulla croce. E MRʼH significa «l'apparenza», «la (falsa) sembianza»: i doceti, ideologi dei primi tempi del cristianesimo, pensavano che Gesù fosse morto solo falsamente sul legno; secondo loro, lo si era sostituito surrettiziamente all'ultimo momento (da Simone di Cirene, per esempio). — E, poiché MR designa «lo scambio», «la sostituzione», aggiungo questo, che può in un certo senso spiegare l'origine e la portata dello scambio tra Barabba/Carabas e Gesù: in quasi ciascuna delle loro apparizioni nella Bibbia ebraica, più volte nel Primo Libro dei Re (6:29, 32 e 35, così come 7:36) e nel Libro di Ezechiele (41:18, 20 e 25), i Cherubini (stessa radice di «Carabas») sono associati alle palme; ora «palma» si dice in ebraico ṬMRH, una parola che, associata alla radice MR, significa pure «lo scambio»: cosicché l'espressione WṬMRH BYN-KRWB LKRWB di Ezechiele 41:18 si legge sia «una palma tra due Cherubini» sia «uno scambio tra due Cherubini» (o, più esattamente, «tra KRwB e KRwB»).


Risultati dell'inchiesta su Carabas

Ora riassumo i risultati ottenuti: abbiamo Il Gatto con gli stivali, che, come la maggior parte degli altri racconti di Perrault, descrive l'improvvisa e progressiva rivalsa di un disgraziato sul suo destino; — e abbiamo la vita di Agrippa I, traiettoria che va anch'essa dal peggio al meglio; — e poi, come in un riflesso simmetrico-invertito di questi due racconti, abbiamo Gesù e Carabas, entrambi scherniti, uno al posto degli uomini e per il loro riscatto (?), l'altro al posto di un re. Poi, di rimando, abbiamo il gatto che ad ogni istante prende il posto del suo padrone: è lui il bisognoso, l'astuto, l'attivo: l'attore; è colui che decide tutto e porta tutto, atti e parole, al suo buon fine. Allo stesso modo, se Agrippa riconquista il suo regno dopo tanti insuccessi, è solo grazie all'aiuto di Caligola: senza il suo provvidenziale amico imperatore, non sarebbe che un debitore, un prigioniero, un vagabondo; senza di lui, non avrebbe mai spodestato i suoi reucci rivali di Palestina: senza di lui, non si sarebbe mai messo al loro posto; Caligola è il gatto di Agrippa.

E Perrault gioca con tutte queste allusioni procurando loro la massima resa. Perché ricordo, per complicare il gioco di parole, che «caligula» è un soprannome conferito a Gaio dai soldati, soprannome che significa «il sandaletto», «lo stivaletto»: Caligola non è dunque che il gatto di Agrippa, è il suo gatto con gli stivali

E infine, linguisticamente, il meccanismo di sostituzione è lo stesso: al posto del testo originale, semita, che descrive la povera sorte del povero Carabas e il suo calvario di Carnevale, possediamo ora solo una narrazione greca che, nella sua sintassi come nel suo vocabolario, osa appena affermarsi come tale, 

Si può e si deve dire altrettanto dei Vangeli, testi letteralmente riversati dal semitico nell'indoeuropeo.

nel mezzo di un libro dove figura solo, senza dubbio, come un oggetto riportato: un surrogato. I pezzi del dossier, che all'inizio erano solo isolati (Gesù-Barabba, Perrault-Carabas, Filone-Carabas, Carabas-Agrippa, Carabas-Barabba), ora si incastrano come in un puzzle, e pertanto si può essere sicuri che Perrault, o per le sue letture, o per le informazioni raccolte da suo fratello teologo o dai suoi amici giansenisti, conoscesse la chiave vera e autentica meglio di quanto lo si sia sospettato finora.

E, alla cortese e premurosa lettera di M. Soriano, rispondo quindi, nel modo più cordiale possibile, che Charles era stato, di sicuro, ben informato da Nicolas.


APPENDICE A CARABAS

Per tutto questo studio ho insistito fortemente sul fatto che la maggior parte dei termini chiave che figurano nella narrazione di Filone su Carabas e nei paralleli di Matteo, Marco e Giovanni, figurano anche in modo prominente nel vocabolario dei Talmud (Misnà e Gemara), dei Targum e dei Midrashim come prestiti espliciti dal greco (e dal latino tramite il greco). Per precisare ulteriormente (ad uso degli esegeti ciechi — da venti secoli), fornisco qui la lista di questi termini, esaminando i testi in questione uno per uno.

1. Filone, In Flaccum, paragrafi 37-39.

1/ anti

In questa lista, fornisco le parole greche nella forma, nelle persone e nei tempi che hanno nei testi considerati nel momento in cui occorrono (senza, d'altra parte, la minima considerazione per gli accenti e gli spiriti).

«a guisa di», figura come prefisso nel prestito ebraico sotto la forma ʼNTY.

2/ tē kephalē, «la testa», vi figura nelle forme QPLWT, «il porro dalla testa (porrum

capitatum e QPLTYN, «la parrucca», «il copricapo».

3/ khamaïstrōtō, «steso per terra», impossibile qui come aggettivo, è infatti un sostantivo quando il tardo ebraico lo prende nella forma ḤYMWṢṬʼ

Forse sembrerà difficile allo specialista credere che questo termine possa essere prestato al tardo ebraico come un duplicato del greco khamaïstrotos; per contro, la coincidenza grafica e fonica tra le due parole è impressionante e inconfondibile — senza contare che il senso di ḤYMWṢṬʼ, «la veste di porpora che porta l'ufficiale pagano», è abbastanza appropriato qui al significato (sostantivo e non aggettivo) e, inoltre, si accorda con le narrazioni evangeliche.

«la veste di porpora», «l'uniforme scarlatta dell'ufficiale».

4/ khlamudos, «la clamide», diventa

Con «diventa» intendo: ...diventa quando il tardo ebraico lo prende e lo introduce nello stampo del proprio alfabeto. — Questo «diventa» pone un serio problema a livello del corpus neotestamentario: infatti come si devono tradurre i prestiti che vi abbondano — ricorrendo solo al lessico greco (come hanno fatto per secoli, e fanno ancora oggi, tutti gli specialisti), oppure ricorrendo al lessico ebraico derivato? Serio problema, in effetti, poiché i termini prestati, come lo si vede dal catalogo che sto compilando qui, sono spesso inadeguati al significato che hanno, o avevano, in puro greco; nel passare dal greco all'ebraico, spesso perdono alcune delle loro accezioni originali, ne guadagnano altre, ecc. Come mai di tutto ciò i traduttori europei del Nuovo Testamento — e le Chiese — non ne tengono mai conto?

KLYNDYN, «il mantello cerimoniale», o, più letteralmente, KLMWS, «la clamide», «l'uniforme color porpora dell'ufficiale».

5/ papurou, «il papiro», diventa PPYYR, «il papiro»

Bublos, impiegato anche da Filone, non è, almeno a mia conoscenza, prestato al tardo ebraico.

ma anche: «il tessuto di papiro», «la trama del papiro».

6/ tēs egkhōriou, «il paese», non è prestato come tale, ma khōrion, della stessa famiglia, lo è sotto le forme PRʼKWRYN (= parakhōrion), «il distretto», e PRYKWRYN (= perikhōrion), «il territorio», «il vicinato».

7/ theatrikoïs, altrimenti detto theatron, «il teatro», diventa — ne ho parlato a lungo — ʼSTRYʼ, o anche ṬYʼTRWN, così come una dozzina di altre grafie, 

Altre grafie che vanno dalle più letterali alle più cacofoniche. Il fatto che i prestiti del tardo ebraico (post-biblico) dal greco passino attraverso ogni sorta di cacofonie, dovute sia alla distanza tra i due alfabeti che al carattere fonico e grafico di ciascuna delle due lingue, rafforza la parentela, di cui ho già parlato più sopra, tra ʼSTRYʼ, «il teatro», e ʼSTRTYʼ, «la soldatesca», e allo stesso tempo rafforza, ben al di là della considerazione, pertanto necessariamente superficiale, del greco, la già sorprendente somiglianza tra il racconto di Filone su Carabas e quelli di Matteo, di Marco e di Giovanni, sulle derisioni con cui si opprime Gesù-Giosué.

tutte significanti «il teatro», «l'anfiteatro», «il circo», «i giochi del circo», «gli spettacoli e i luoghi di spettacoli pagani», «la fornicazione»

La fornicazione è un tema comune negli apocrifi del Nuovo Testamento. Così, per esempio, negli Atti di Pilato (versione copta), gli ebrei affermano ripetutamente che Gesù «è nato da fornicazione (hn oupornia — cfr. Graffin e Nau, ed., Patrologia Orientalis, vol. IX, fasc. 2, «Les Apocryphes Coptes II», Parigi, ristampa 1957, pag. 76 s. E. Revillout traduce pornia con «il libertinaggio», bell'eufemismo, perché pornē significa, in greco oltre che prestito nel tardo ebraico, «la puttana», «l'adultera»: la grafia è allora PWRNY, forma che ricopre peraltro anche un prestito dal latino furnus e dal greco phournos, «il forno del pane»: si capirebbe allora perché si parla tanto di pane nel Nuovo Testamento? (cfr. anche, nei Vangeli, l'episodio cosiddetto «della donna adultera») — cfr. anche il luogo di nascita «davidico» (?) di Gesù-Giosuè, Betlemme, vale a dire BYṬLḤM, letteralmente «la casa del pane»: e giustamente, negli Atti di Pilato già citati, si mischiano le informazioni, confronto narrativo che non ha alcun senso, alcun fondamento, in copto o in greco, ma che ne detiene uno, e molto chiaro, allorché ci si riferisce (per retroversione) all'ebraico sottostante, prestito o no. Perché così scorre il testo: «Noi sappiamo che tu sei nato da fornicazione; in secondo luogo, noi sappiamo che la tua nascita ha avuto luogo a Betlemme e che in quella occasione ci fu una strage di bambini» (e, anche qui, interviene un gioco di parole incomprensibile al di fuori del ricorso all'ebraico, LḤM significandovi in effetti, nella Bibbia come altrove, «il pane» e «il massacro»). — Aggiungerei, ma questo richiederebbe uno studio speciale che non è mai stato fatto, che, proprio come il cosiddetto Nuovo Testamento «canonico», gli apocrifi (sic) copti pullulano di parole non egiziane ma propriamente greche, parole che figurano in abbondanza nel lessico dei termini presi dal greco (e dal latino tramite il greco) dal tardo ebraico — per non parlare di tutte le parole ebraiche, non studiate fino a questo giorno per sé stesse, che si incontrano allo stato di pure e semplici trascrizioni nei testi gnostici e affini.

«i luoghi di fornicazione».

8/ mimoïs, «i mimi», diventa MYMWS o MWMWS, «il mimo» o «l'attore mimo».

Curiosamente, ci sarebbe un'ottima assonanza, invisibile in greco, tra il «come per i mimi» di Filone e la «clamide» di Filone e degli evangelisti, cioè KLMWMWS da una parte e KLMWS dall'altra (per l'assonanza tra la canna e la clamide, ancora invisibile in greco, cfr. infra, § 2, punto 11).

9/ parasēma, «il segno esteriore», «il segno (della regalità)», senza essere, per quanto ne so, prestato all'ebraico, suona pienamente come PRSM, «divulgare», «rendere ostensibile», «rendere pubblico».

10/ basileias come basileus, «il re», figurano nel prestito ebraico sotto le forme BSYLYʼWS o BSYLYWS, stesso senso,

11/ diekekosmēto, «disporre», «mettere in corteo», incomprensibile qui da e nel greco, corrisponde infatti al prestito ebraico QWZMYN, «i monili», «i gioielli», «il set di gioielli»

La somiglianza delle grafie tra kosmos/«il mondo» (divenuto nel prestito ebraico uno dei componenti, per esempio, di QWZMWQRTWR, greco kosmokratōr, o di QWZMYQWN, greco kosmikos — termini, sia detto di passaggio, ovviamente presenti nel Nuovo Testamento) e kosmos/«l'ornamento» (divenuto  per prestito QWZMYN) è stato sfruttato molto giudiziosamente dai traduttori ansiosi di attingere pienamente dal lessico ebraico mutuato: è così, per dare solo un'illustrazione di quel trucco, che si legge nel detto 110 del Vangelo (copto per quello che ci rimane, a parte qualche frammento in greco) di Tommaso: «Chi ha trovato il gioiello (kosmos) ed è diventato ricco, rinunci al mondo (kosmos)!» — ma, in The Gospel according to Thomas, Leiden, Brill, 1976, gli editori e traduttori inglesi vengono ingannati nel rendere i due kosmos nel passo con «il mondo (the world)», rovinando così il gioco di parole che non riescono a vedere a causa del loro mancato riferimento alle particolarità dei prestiti del tardo ebraico (si noti che questi stessi editori e traduttori ritengono questo vangelo originariamente scritto in greco, «con dei semitismi» — si vede, tristemente, dove li conduce la loro convinzione!).

si ricopre Carabas di gioielli falsi per dargli l'aspetto e lo sfarzo di un finto re.

12/ logkhophorōn, «i lancieri», diventa, grazie a una bella scorciatoia, LWPR (o LYPWR), «la guardia del corpo» (cfr. anche LWNKY, per il greco logkhē, «la lancia», a sua volta un termine prestato).

13/ doruphorous, «le guardie in armi» (si veda il francese «doryphore»), ha prestato per controparte, stranamente, DRBNʼH, stesso senso.

14/ dikasomenoï, «ricevere giustizia», «perorare», produce il prestito DYQY (= greco dikē, «la giustizia»), «il diritto», «il castigo», «la giusta soddisfazione».

15/ koïnōn, «comune», produce il prestito QYNWNYʼ (= greco koïnonia), «la comunanza di interessi», «la complicità», «la connivenza».

I lettori che hanno una familiarità anche moderata con il lessico del Nuovo Testamento faranno qui, tutto il tempo, i confronti necessari; l'intero corpus cristiano, senza che la più piccola pagina vi faccia eccezione, esibisce agli occhi di chi vuole vederli — detto altrimenti: di chi sa leggere sotto il greco — decine e decine di prestiti (nel senso in cui io lo intendo qui): e gli esegeti e i traduttori moderni non vedono che fuoco! — Ora, come ho sottolineato più sopra, e come lo si può constatare esaminando il mio catalogo, ricordiamoci che tutti questi termini portano in sé, a distanza dal puro lessico greco da cui sono originari, il rischio di uno spostamento di significato a volte considerevole.

16/ pragmatōn, «gli affari», diventa per prestito PRGMTʼ, senso equivalente.

17/ Elimino ovviamente, dal brano di Filone, Marin, «signore», che è un termine semitico (peraltro mal traslitterato), e passo ad apokalountōn, «chiamare», «nominare», che corrisponde al prestito ebraico QLWN, «io proclamo» (nonché a KLY, che è invece un puro verbo semitico che vuol dire «chiamare», «riunire», «produrre un segnale»: in questo caso, abbiamo, come per caso, un'assonanza tra il greco e l'ebraico).

18/ kurion, «il signore», diventa QYRWS, stesso senso.

19/ para, «presso», diventa PRʼ, sia prefisso che preposizione (come in greco), stesso senso.

Elimino, alla fine del testo, tutto ciò che riguarda Agrippa, la Siria (la Palestina) e i siriani: tutte queste parole sono ovviamente semitiche.

E così noto, grazie a questa facile e, spero, completa rassegna, che nel brano di Filone, che eppure è lungo solo una decina di righe (quando si scartano le glosse), appaiono una ventina di parole presenti nel tardo ebraico in veste di prestiti ricavati dal greco.

Senza ulteriori commenti per il momento, procedo allo stesso modo con i paralleli del Nuovo Testamento. Anche lì il materiale è abbondante.


2. Matteo 27:27-31.

1/ stratiōtaï, «i soldati», diventa nella sua forma letterale ʼSTRTYWT, «il soldato», ma anche «l'ufficiale romano», «la guardia», «il corriere».

2/ ēgemonos, «il governatore», «la guida», «il capo», diventa HGMWN o ʼGMWN, «il generale».

Infatti si faccia ben attenzione: accade spesso che traslitterandolo in ebraico il termine greco cambi radicalmente di senso, o adotti un senso più ampio, o più ristretto, a seconda dei casi, del suo modello indoeuropeo. E i traduttori del Nuovo Testamento, tutti come sono così ciecamente attenti al greco, al cosiddetto greco originale del corpus, non hanno la minima idea di questo tipo di problema! (Che il mio lettore si prenda, per contro, la briga di riferirsi a una traduzione corrente del passo di Matteo che esamino qui, e di constatarvi, parola per parola, le discrepanze esistenti tra le frasi che ha sotto gli occhi e quelle che avrebbe dovuto produrre un ricorso al lessico mutuato: constatando queste discrepanze, constaterà allo stesso tempo di quali errori si compiacciono i cosiddetti specialisti — un errore, qui, in piena Passione del Cristo, del dizionario: niente di meno).

3/ praïtōrion, «il pretorio», diventa PLTWRYN, «il quartier generale», «il palazzo».  

Perché, ancora, si legge qui che «i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio»? Perché «il governatore» e non «il generale»? Perché «il pretorio» e non «il palazzo» o «il quartier generale»?

4/ olōn, «tutto», diventa ʼWLW, stesso senso, come prefisso o aggettivo.

5/ speiran, «la coorte», diventa ŞPYRH, «le guardie del corpo quando sono disposte in cerchio» (si ricordi che, in Filone, la folla è effettivamente disposta in cerchio, en kuklo, attorno a Carabas — e si noti la differenza tra una coorte e le guardie del corpo); nella Bibbia, ṢPYRH significa «il diadema» (cfr. Isaia 28:5): legame dunque qui, nell'ebraico, non nel greco, tra le guardie e la corona.

6/ khlamuda, «la clamide», diventa KLMWS, «l'uniforme dell'ufficiale (pagano)».

7/ kokkinēn, «porpora», diventa KKLʼ o KKLN, «la porpora», «la veste color porpora» (entrambi sostantivi).

8/ stephanon, «la corona», suona come l'ebraico biblico MṢNPṬ, «il diadema (del re)»«la tiara (del sommo sacerdote)»;  ora, io noto che Ezechiele parlando, in 21:31, di «togliere la tiara (sottinteso: del sommo sacerdote)» impiega l'espressione HSYR H MṢNPṬ; ora, HSYR«togliere», significa egualmente in ebraico «la spina» (ma passo oltre, perché un tale esame — quello dell'utilizzo, da parte degli scrittori ebrei e dei traduttori dei Vangeli primitivi, di ogni sorta di giochi di parole impliciti o espliciti nell'Antico Testamento — mi porterebbe troppo lontano).

9/ akanthōn, «le spine», «l'acacia (d'Egitto, mimosa Nilotica L.)», «il cardo», a mia conoscenza, non è prestato al tardo ebraico. In compenso, diversi prestiti suonano completamente come esso: così, per esempio, DYQYNṬYN (= greco uakinthos), «il giacinto» (perla o pietra preziosa) — si ritroverebbero qui gli effetti dei gioielli incontrati nel racconto di Filone su Carabas.

10/ kephalēs, «la testa»: per questa parola rimando al punto 2 della lista dei prestiti in Filone.

11/ kalamon, «il calamo», «la canna», diventa QLMWS, stesso senso.

12/ dexia, «la destra», «la mano destra», è prestato, nella composizione, nei termini come ʼPDKSYS e PRDWKSWS, che designano la destrezza.

13/ khaïre, «salute!», diventa KYRY, stessa interiezione, stesso senso.

14/ basileu(s), «il re», già incontrato in Filone: cfr. il punto 10 della sua lista.

15/ Sorvolo su Ioudaïōn, «gli ebrei», «i giudei», copia dell'ebraico YHWDYMstessi suoni, stesso senso.

16/ Nel verso 30, sono ripetute le parole kalamon, «la canna», e kephalēn, «la testa» (si vedano, più sopra, le osservazioni che le riguardano).

17/ Ricorrenza, nel verso 31, della parola khlamuda, già citata.

18/ imatia, «le vesti», «il mantello», diventa ʼYMTYʼ o ʼNTYTYH, «il tappeto da bagno», «la vestaglia»; ancora un forte spostamento di significato che, fino ad ora, è totalmente sfuggito alla sagacia degli esegeti.

In altre parole, il brano del Secondo-Matteo (27:27-31) comprende, in un arco di soli quattro versi, almeno una ventina di termini presi dal greco dal tardo ebraico (post-biblico). Questo brano è dunque ancora più marcato, dal punto di vista del suo lessico mutuato, di quello di Filone. Se si eliminano i verbi, 

Si può in effetti eliminarli da questo esame: i verbi greci sono prestati poco al tardo ebraico.

si può dire che l'insieme dei 4 versi considerati è scritto nel prestito ebraico al livello del greco che ci resta: è prestito ebraico in caratteri greci! E tutti questi esegeti che non l'hanno mai notato! Per loro, che sberleffo per così tanti secoli... Così, e sempre dal punto di vista che mi interessa, lo studio dei passi paralleli in Marco e in Giovanni non è altro che un gioco da ragazzi:


3. Marco 15:16-20.

Come in Matteo, e negli stessi termini, si trovano in Marco: i soldati, il palazzo, tutta la coorte, la corona e le spine, il saluto al re degli ebrei (o dei giudei — ci tengo a quella distinzione imperativa), la testa, la canna e le vesti.

Tutte queste parole sono prestiti!

Non mi resta altro che:

porphuran, «la porpora» (al posto, qui, di kokkinēn), 

Il fatto che abbiamo qua e là due termini, secondo le versioni, per designare «la porpora», prova (non indica, e non suggerisce: prova) che l'originale era un termine semitico puro, e non un prestito: di fronte a questo originale unico, i traduttori hanno esitato tra i due prestiti che figurano nel loro lessico (e nel loro cervello). Senza dubbio c'era ʼRGMWN nel testo originale, come lo mostrerò più tardi.

che, nel tardo ebraico, diventa PWRPWRʼ, «la porpora», «la veste di porpora» (sostantivo) — termine che suona piacevolmente come il prestito ebraico PPYYR (già incontrato), «il papiro» (ancora un legame con il racconto di Filone).


4. Giovanni 19:2-3.

Come in Matteo e Marco, si trovano in Giovanni, negli stessi termini, i soldati, la corona e le sue spine, la testa, la veste, la porpora, e il saluto al re degli ebrei (giudei) — tutti questi prestiti in due versi!

E non mi resta che:

rapismata, «i colpi (al viso)», parola che, senza alcun prestito, suona subito come la pura radice semitica RPS, stessa connotazione, radice che, stranamente, forma un anagramma, sia in greco che tramite l'ebraico, con i parasēma («le insegne») del testo di Filone!

Stessa conclusione di prima, stessa pletora di prestiti in Marco e Giovanni come in Matteo. Stesso insulto agli esegeti in carica e alla loro tesi di una redazione greca dei Vangeli prodotta da semianalfabeti, e soprattutto alla sciocca teoria secondo la quale questi Vangeli sarebbero stati scritti in koïné, in greco ellenistico e popolare: una koïné semita!... non esitano davanti a nulla, i nostri dotti teologi.

E tutto questo mentre i nostri passi, essenziali nel cristianesimo, 

Non si tratta di una piccola parabola nascosta in un angolo dell'edificio, ma della «Passione del Cristo», non è vero?

sono semitici da cima a fondo in quanto narrazioni:

— sintatticamente, come l'estrema maggioranza dei versi dei Vangeli, delle Epistole e dell'Apocalisse (cosiddetta di Giovanni), a causa dell'ordine delle parole che vi si esibisce, della poca complessità delle proposizioni, del loro legame uniforme tramite la congiunzione «e» (greco kaï che traduce l'ebraico W), ecc., al punto che tradurre (non dico: retrovertere) il loro greco in ebraico sembra, nel complesso, grammaticalmente molto facile;

— e semanticamente, per il fatto che i loro sostantivi appartengono massicciamente al vocabolario in prestito dei monumenti più imprescindibili del giudaismo (Targum, Talmud, Midrashim) —  punto di vista esaustivo (perché cosa c'è in un testo, linguisticamente, a parte la sintassi e il vocabolario?) che elimina ogni ricorso, appunto, alla koïné: si è visto un Polibio, esperto, si dice, della suddetta koïné, ricalcare il suo greco sull'ebraico e usare un vocabolario prestato dagli ebrei a scapito, come qui, di ogni altro?

E poi — e soprattutto — si è mai visto, cari amici teologi, dei praticanti di koïné produrre giochi di parole che non si comprendono e non si apprezzano, come qui, se non mediante un imperativo ripiegamento (retroversione) verso l'ebraico?

Se ne giudichi piuttosto:

Matteo (27:27) dice che gli attori della scena sono i soldati del generale, dell'ēgemōn. Ho già notato che questo termine, ad eccezione di ogni altro, è prestato dal tardo ebraico sotto le forme ʼGMWN e HGMWN con il senso di «generale di un esercito»

A proposito, Pilato era quindi un generale?

Gesù è condotto al praïtōrion, vale a dire, sia a dispetto delle attuali traduzioni e tradizioni europee ed ecclesiastiche, sia per via del prestito PLTWRYN, al palazzo (questa è anche la versione di Marco: esō tēs aulēs, «all'interno del palazzo» — e non «della corte» poiché la glossa, per ricorso al prestito, elimina questo senso). Ora, una delle parole ebraiche più comuni per indicare il palazzo è HRMWN (altra grafia: ʼRMWN),  parola che ha, in entrambi i casi, quattro lettere su cinque, nell'ordine, identiche a quelle del «generale», e che subisce la stessa fluttuazione grafica (tra H e ʼ) di quella.

Si ricopre Gesù/Giosué/Dio-salvatore di una veste di porpora. Un termine ebraico per indicare la porpora: ʼRGMN, parola che ha quattro lettere su cinque, nell'ordine, in comune con «il generale» e con «il palazzo».

 E nessuno l'ha mai visto! — E non è ancora finita:

Si dà a Gesù un calamo, una canna. La canna si dice in ebraico QNH, o... ʼGMWN, quest'ultima parola avendo, nell'ordine, cinque lettere su cinque in comune con «il generale» e, ancora nell'ordine, quattro lettere su cinque in comune con «la porpora» e con «il palazzo».

Questi giochi di parole, assolutamente invisibili — impredicibili! — nel greco che ci rimane 

Quella osservazione non vale ovviamente solo per i passi qui considerati e studiati (quelli della Passione): il Nuovo Testamento e una parte importantissima della letteratura apocrifa (o cosiddetta tale), greca, copta, ecc., esibiscono lo stesso tipo di giochi di parole sottostanti, vale a dire: non funzionanti né in greco né in copto, ecc. ma unicamente grazie ad un necessario ricorso ad una retroversione verso  ebraico (il loro ebraico d'origine). Il più delle volte, i traduttori di questi testi, pur conservando al meglio la sintassi del loro originale, hanno perso, a livello del vocabolario, della scelta delle parole nelle loro traduzioni, il sapore e il senso delle assonanze, dei sottintesi, degli anagrammi e dei giochi di parole primitivi — assonanze, sottintesi, anagrammi e giochi di parole di cui sono così singolarmente ricchi i testi della letteratura ebraica, biblica e non.

(ēgemon, praïtōrion, kokkinos/porphura e kalamos non producono assonanze), sono efficaci solo in virtù di un necessario ricorso all'ebraico d'origine: Insomma, solo l'ipotesi di un originale semitico, tradotto in seguito in greco molto letteralmente (il greco, solo, ci rimane), può rendere conto di queste cascate di assonanze e di giochi di parole —  malattia incurabile, secondo alcuni, e meraviglia delle meraviglie, secondo altri, della letteratura ebraica tradizionale, una delle sue caratteristiche essenziali in ogni caso.

E in quella ipotesi, l'unica possibile, posso mettermi per un momento nella mente degli antichi traduttori. Nell'originale di Matteo 27:27, hanno a che fare o con ʼGMWN (o, altra grafia, HGMWN), nel qual caso non hanno nessuno sforzo da fare per trovargli un equivalente greco: basta loro ricostruire ēgemōn, originale stesso di questo prestito — oppure con un termine propriamente e puramente semitico, ŜR, o NGYD, o altro, detto altrimenti con un puro termine ebraico che designa un capo, un principe, una guida, un generale: in questo secondo caso, quale termine greco sceglieranno? Tutto li spinge ad optare per ēgemōn, e solo per esso: in primo luogo il fatto che questa parola ha un senso affine al termine semitico da tradurre; in secondo luogo, il fatto che questo termine, ed esso solo con questo senso, figura nella loro mente (nel loro lessico) come un termine assimilato in ebraico a titolo di prestito 

Anche qui si può e si deve senza paura allargare il problema e uscire, per un momento, dai soli passi studiati qui. Ho notato nel dizionario di Jastrow e nel Lehnwörter di Krauss dozzine e dozzine di termini prestati (al tardo ebraico dal greco) che occupano una buona o buonissima posizione nel lessico del Nuovo Testamento. Essi occorrono in massa, e nessuno ha mai studiato le caratteristiche e soprattutto le implicazioni di quell'occorrenza. Ora, che vi si pensi ancora, alcune di queste parole sono prese dal greco pur conservando come prestiti, sotto l'alfabeto ebraico, il loro significato-connotazione greca originale, ma altre — in grandissimo numero — o perdono una parte importante del senso greco primitivo, oppure lo perdono del tutto: in quest'ultimo caso, il senso del prestito non ha più nulla a che vedere con quello del termine prestato; ma allora il lettore del Nuovo Testamento che inciampa — ad ogni passo! — su queste parole, su parole di questo tipo, deve leggerle non con il loro significato greco (puro) ma con quello che possiedono come prestiti — ed ecco, di colpo, rimessa in discussione la comprensione di intere parti del corpus canonico! il che vuol dire, ancora più concretamente: che bisogna diffidare delle traduzioni francesi, inglesi, tedesche e altre, di questo corpus (sia delle traduzioni fedeli che di quelle infedeli, poiché tutte si riferiscono erroneamente solo al dizionario greco puro), e, d'altra parte, che vanno gettate nel dimenticatoio migliaia e migliaia di pagine e di volumi di commentari su questo stesso Nuovo Testamento, commentari prodotti a partire dall'esame del solo greco sulla base della sola semantica greca: ciò promette qualche bel autodafé, salutare questa volta, e qualche bel risparmio... 

manifesto dal greco; e infine, il fatto che il resto del passo da tradurre contiene termini, questi unicamente puri semitici, proprio là sotto i loro occhi, che suonano perfettamente come questo prestito, ossia, come ho mostrato più sopra, «il palazzo», «la porpora», e «la canna».

I traduttori antichi hanno quindi semplicemente optato per la soluzione più diretta, più letterale e soprattutto più comoda — la più accessibile. E tutto ciò contribuisce a condannare l'assurda tesi di una scrittura originale greca dei passi considerati.

E tutto questo apre finalmente la domanda essenziale, l'unica domanda interessante: cosa ne era del testo semitico originale? Che ne era di quella particolare narrazione? — Si dovrà davvero mettersi gli stivali delle sette leghe per raggiungerlo o, più modestamente, per avvicinarlo?

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