martedì 6 dicembre 2022

L'INVENZIONE DI GESÙPietra e figlio in Flavio

 ⟵


2

Pietra e figlio in Flavio


Flavio Giuseppe non è, per chi si interessa alla Palestina del I° secolo, uno scrittore come gli altri: è un riferimento obbligatorio. Giuseppe, unico storico ebreo-palestinese del primo secolo, non solo ci informa sul periodo ritenuto essere quello della redazione del Nuovo Testamento, ma ci informa anche, e molto utilmente, sulla lingua primitiva del corpus.

Ci dice, contro l'opinione unanime dei grecisti, che l'ebraico era una lingua comunemente parlata (parlata!) nella Palestina del I° secolo. E non ce lo dice allusivamente: ci fa sapere la notizia in un modo chiaro, con insistenza. Ma gli studiosi, invece, si attengono al ritornello dell'ebraico lingua morta nel periodo evangelico; questo ritornello serve loro da riflesso: è diventato istintivo per loro.

Metto in scena, qui, un gioco di parole riportato da Flavio e le gesticolazioni di un grecista all'opera: è dunque da un piccolo gioco di parole che uscirà ora, come da un cilindro, la mia ipotesi dell'ebraico lingua originale del Nuovo Testamento.



Anno dopo anno, gli studiosi di turno continuano, non senza successo, a far credere a chiunque che l'ebraico è una lingua morta e sepolta nel I° secolo della nostra era. Per loro, la causa è chiara in anticipo, e non c'è alcun modo di tornarvi indietro; nessun sospetto del contrario è ammesso: non varrebbe che un'alzata di spalle. Ogni palestinese del tempo, secondo loro, ha per esprimersi, oralmente o per iscritto, solo l'aramaico e il greco; per loro, questo è ovvio: io presuppongo quindi che sia vero.

A volte, bisogna ammetterlo, la pillola è un po' difficile da far ingoiare ai creduloni, e si ricorre allora all'umorismo e al ragionamento: ma, come si vedrà qui, solo questi ultimi sono volontari.


Un aneddoto, un gioco di parole

Anno 70 (pieno I° secolo dunque); assedio di Gerusalemme da parte di Tito (in Palestina). Nella città, gli ebrei (galilei e giudei); sui terrapieni, i soldati della X° legione. Flavio Giuseppe descrive, con ammirazione come sempre quando si tratta per lui di evocare la meraviglia della guerra romana, le macchine degli assedianti: ossibeli e litoboli, altrimenti chiamati lanciatori di frecce e catapulte. Le pietre così proiettate, dice, pesano un talento (ossia 36 chili) e percorrono due stadi o più (cioè, come minimo, 350 metri): si sente che per lo storico traditore questo è il massimo delle performance lapidarie...

Fin qui, niente di molto linguistico, ma si legga il seguito (Guerra Giudaica, 5, § 271 s.): 

«I giudei dapprincipio seppero proteggersi dalla pietra (tén petran): perché era bianca (leuké), e perciò non soltanto era preannunciata dal sibilo, ma si scorgeva da lontano per la sua lucentezza. Di conseguenza, le loro sentinelle collocate sulle torri, li avvertivano 

Detto altrimenti: ...avvertirono gli altri assediati (ebrei). 

quando l'ordigno veniva scaricato e partiva la pietra, gridando nella loro lingua materna (té patriō glōssē): Arriva il figlio (o uios erkhetaï) 

E, così avvertiti, gli assediati ebrei (di Palestina) si gettavano a terra e il proiettile bianco non ebbe più alcun effetto su di loro; per rimediare a questo grande inconveniente, Flavio aggiunge che i Romani dipinsero di nero il loro grosso macigno: così diveniva meno visibile.


Una  spiegazione semplice

In greco, «bianco» si dice leukos, «pietra» petra, e «figlio» uios. Il soprannome applicato qui alla pietra («Arriva il figlio!») non funziona per nulla in quella lingua; ecco un dato di fatto.

Accade lo stesso nel Nuovo Testamento: i giochi di parole sono innumerevoli, ma non in greco: sotto il greco, nell'ebraico d'origine. 

Ora qualsiasi principiante in ebraico sa che ʼBN significa «la pietra», BN «il figlio», e LBN «bianco» (questo è il vocabolario comune, che si apprende la prima settimana). Il nostro principiante, che i deliri esegetici non hanno ancora colpito, coglie immediatamente qui e senza che glielo si dica, che gli assediati ebrei-palestinesi del 70, di fronte alle macchine, si sono rincuorati contro la cattiva sorte in ebraico.

 E non in aramaico, dove «figlio» si dice BR

Ebbene, per niente.


Le torture dell'esegesi

A. Pelletier, che senza dubbio non è principiante né in greco né in semitico, traduttore de La Guerra Giudaica, nel volume III dell'edizione bilingue delle Belles Lettres-Budé (1982), adorna il passo in esame con un'intera appendice, 

VI, «Soprannome di un Proiettile», pag. 205. 

di cui il minimo che si possa dire è che avrebbe fatto meglio a tenerlo nei suoi tiretti.

Lo si giudichi:

«Si è pensato soprattutto», scrive, «ad un gioco di parole tra l'ebraico ha'èbèn, pietra, e habbèn, figlio (Reland, Thackeray).

Si noti che non si dice nulla di LBN, «bianco», mentre il gioco di parole qui è triplo e non doppio — ma passiamo oltre. 

Soltanto, nella frase 272, patriō glōssē 

«Lingua materna», letteralmente «paterna»

indica certamente l'aramaico, dove “figlio” si dice bar, il che non permette più il gioco di parole con il termine ebraico per pietra».

Ecco di colpo il mio principiante ben battuto!

Infatti vedete la logica del ragionamento che gli è assestata:

1. in ebraico, esiste una connessione che va da sé tra pietra, bianco e figlio (ossia: ʼBN, LBN e BN);

2. ora, presupposto basilare e ricorrente, gli assediati, essendo ebrei del I° secolo, «certamente» non parlano l'ebraico ma l'aramaico;

Da dove Pelletier ricava quella pseudo-certezza non è indicato; si riferisce solo all'enorme equivoco di cui parlavo nel capitolo precedente: l'idea secondo la quale l'ebraico sia una lingua morta nel I° secolo. 

2 bis. ora questi stessi assediati hanno prodotto un gioco di parole sulle tre parole suddette;

3. quindi... il loro gioco di parole non funziona.

C.D.D. — comprenda Pelletier chi potrà.

Ma, siccome questo gioco-di-parole-che-non-funziona-in-ebraico-pur-funzionando-solo-in-ebraico è stato effettivamente pronunciato e possiede lo stesso l'aspetto di un gioco di parole che ha funzionato, se ne cercano altrove le ragioni; e Pelletier, senza ridere, vi si accinge:

«È possibile», suggerisce, «che i soldati abbiano fatto un doppio senso giocando sui due significati della parola aramaica bar (sostantivo) “figlio” e (aggettivo) “chiaro”, per allusione alla lucentezza della pietra...»

E la parola «pietra» in tutto ciò? E poi come riportare «bianco» a «chiaro»?

Se ho capito bene, i combattenti-resistenti ebrei attaccati dai legionari hanno (alla svelta?) sfogliato un dizionario aramaico per scoprirvi, confrontandolo con l'ebraico, che bar, in quella lingua «il figlio», fa un ottimo gioco di parole con l'ebraico ʼBN, «la pietra»! — E «bianco», in tutto ciò??? — Questi soldati erano «certamente» umoristi approssimativi...

Ma poiché non siamo alle fantasmagorie tristi, Pelletier, nella sua nota, fa bene a citare il caso di Michel; questo studioso, nota, ha semplicemente cambiato il testo di Giuseppe (!), leggendo e facendo leggere, al posto di uios, «il figlio», ios, «il veleno». È incredibile!

Notate questa ostinazione: per assassinare l'ebraico del I° secolo, si è pronti a tutto; e se si è pronti a tutto, è perché non si vuole che si ponga la questione di una redazione originariamente ebraica del Nuovo Testamento. Perché là sta il nocciolo della questione.

Invece di impiegare tutte queste stupidaggini — la parola non è troppo forte —, sarebbe stato meglio seguire la prima e buona intuizione del nostro principiante di poco fa: «bianco», «figlio» e «pietra», sono termini immediatamente assonanti in ebraico, e solo in ebraico — non in greco, non in aramaico; gli ebrei palestinesi assediati hanno fatto, senza forzature, un gioco di parole (facile, non erudito) su queste tre parole; parlavano dunque ebraico: durante l'assedio di Gerusalemme, nel 70, gli ebrei (non importa quali ebrei, i combattenti non essendo selezionati tra i letterati, per quanto ne so!) conoscevano l'ebraico, parlavano l'ebraico, e lo parlavano correntemente, al punto da saper costruirci dei giochi di parole.


Un secondo fine

Quanto alla ragione per la quale gli studiosi, nel loro insieme e in barba ai testi e alla loro interpretazione letterale, vogliano costringere gli ebrei contemporanei agli inizi del cristianesimo a non esprimersi in ebraico, la lascio indovinare al lettore. Questo punto è da collocare tra numerosi altri luoghi comuni altrettanto falsi e altrettanto diffusi, come per esempio l'idea di una redazione originale dei Vangeli in greco comune (o koiné). Se si afferma 

Ricordatevi del pietoso «certamente» della nota di Pelletier. 

che gli ebrei del I° secolo, in Palestina, non conoscevano più l'ebraico, non lo parlavano né lo scrivevano (non lo leggevano?), ciò non è solo per finta o reale ignoranza della letteratura ebraica, ben viva tuttavia, di quel secolo, dei precedenti e dei successivi; è soprattutto allo scopo, sempre tacito ma sempre ripetuto, di rovinare — ancor prima che sia formulata — ogni ipotesi di una redazione originariamente non greca (e, sussidiariamente, non aramaica) dei Vangeli e degli altri testi del Nuovo Testamento, come pure di tanti (antichi) apocrifi  

Per quel che è degli apocrifi dell'Antico Testamento, di cui ora abbiamo solo traduzioni, si veda il paragrafo intitolato «Original Language» in ciascuna delle prefazioni ai testi recensiti in J. H. Charlesworth (ed.), The Old Testament Pseudepigrapha, Londra, 1983-1985; il ragionamento utilizzato dagli autori di alcune di queste prefazioni per dedurre dai semitismi presenti nei testi non ebraici che la loro lingua originale era l'ebraico corrisponde esattamente a quello che impiego qui.

mentre quella ipotesi appare subito di elementare buon senso in vista della sintassi e, direi, della mentalità, di questi testi e di ogni retroversione verso l'ebraico alla quale si può e si deve sottoporli.

Bar Kochba, intorno al 135 E.C. scriveva le sue lettere in ebraico, lettere giornaliere, non pezzi di retorica; i rabbini di Giudea e di Galilea si esprimevano in ebraico, dottamente o banalmente, sia prima che dopo il 70 E.C., come testimoniano in continuazione tante pagine e tanti volumi 

Ma ancora è necessario leggerli, queste pagine e questi volumi... e interpretarli correttamente!

di apocrifi dell'Antico Testamento, che ora possediamo solo in traduzione, ma che mostrano, nelle locuzioni, nello stile e nella grammatica delle lingue alle quali sono giunti, la loro origine evidentemente ebraica; come lo testimoniano ancor più direttamente la Misnà, il Talmud occidentale, il Midrash Rabba, l'Avoth di Rabbi Nathan, ecc. — Quale prova di più vogliono dunque quelli che, pur essendo rinomati specialisti, non sanno nemmeno riconoscere in quale lingua (di uso comune, pertanto) è stato fabbricato un gioco di parole rintracciabile da subito?


(Testo pubblicato in PO&SIE, Parigi, Belin, 1982).

Nessun commento: