lunedì 5 dicembre 2022

L'INVENZIONE DI GESÙL'ebraico del Nuovo Testamento

 

1

L'ebraico del Nuovo Testamento


Il problema del Nuovo Testamento è innanzitutto un problema di lingua: tutti gli studiosi concordano nel credere che quella lingua sia il greco. Propongo, contro di loro, l'ipotesi di una scrittura originariamente ebraica del corpus. Si tratta proprio di un'ipotesi, poiché i manoscritti più antichi che ci restano del Nuovo Testamento sono greci e tutte le versioni non greche del Nuovo Testamento sono derivate, per via di traduzione, dalle antiche versioni greche.

Quali sono gli argomenti dei grecisti? Quali sono le buone ragioni per negare loro la parola, d'ora in poi?

Che ne è delle peculiarità del greco del Nuovo Testamento?

Le Chiese, da quasi venti secoli, leggono i loro testi fondatori in un idioma che non è quello della loro redazione primitiva: quale idioma? idioma fino a che punto?



 In un libro riguardante le lingue parlate e scritte in Palestina e nella Diaspora al tempo presunto essere quello di Cristo,

Do You Know Greek? How Much Greek Could the First Jewish Christians Have Known ?, Leyde, Brill, 1968.

Sevenster approda alla conclusione (pag. 176) che ogni giudeo o galileo del 1° secolo conosceva, parlava o scriveva in aramaico, greco o ebraico, e che alcuni — senza che si possa precisare chi — possedevano due di questi idiomi o tutti e tre alla volta. 


La mia ipotesi

In un articolo su Giuda l'Iscariota,

«Un coup de vasistas sur Judas», apparso in POESIE n° 17, Parigi, E. Belin, 1981, pag. 95-122.

 io ho avanzato l'ipotesi di una redazione originale ebraica della maggior parte del Nuovo Testamento e, in particolare, dei Vangeli, sinottici o no, canonici o no.

Per quel che è dei vangeli apocrifi, io parlo qui, beninteso, dei più antichi, e non dei falsi medievali.

Ora, ogni ipotesi richiede subito due tipi di prove: in primo luogo, importa stabilire la sua non-impossibilità; in secondo luogo, bisogna produrre le ragioni della sua necessità — ciò che gli anglosassoni definiscono la sua «evidenza».


Indizi e prove

Le scoperte del Mar Morto, manoscritti settari cosiddetti esseni (?), le lettere e gli archivi di Bar Kochba, e altre, mostrano che l'ebraico era letto, parlato e scritto, che era quindi una lingua autenticamente viva, all'epoca considerata. Senza queste scoperte, forse continueremmo ancora a credere, per esempio con Guignebert,

Jésus, Parigi, ristampato nel 1969, pag. 136.

 che il Cristo 

«Giovane villico che vede il mondo attraverso il prisma della sua ingenuità» (sic), secondo Renan citato da Guignebert nella stessa pagina.

«parlava aramaico», e resteremmo là. Con loro, noi indoviniamo, senza neppure esulare dalla lettera dei Vangeli, non solo che non parlava solo aramaico, ma che, messo in scena come interlocutore, senza interprete, di Pilato o di una Samaritana, aveva, in quanto personaggio del corpus, una conoscenza almeno discreta di altre lingue o dialetti in uso da lui e attorno a lui. Se i Vangeli ci parlano proprio di un messia di discendenza davidica, è fuor di dubbio che questo messia conoscesse l'ebraico.

Non è neanche impossibile che i Vangeli, canonici e altri, siano stati originariamente scritti e pensati non in greco o aramaico, ma proprio in ebraico — l'ebraico dei testi di Qumran non reca alcuna traccia di ellenismi — 

Sevenster, op. cit. pag. 153: «Nei testi ebraici e aramaici di Qumran, non si è riscontrato finora alcun termine che possa essere identificato con certezza come un prestito dal greco». Quella osservazione è importante, ed è in effetti un truismo.

e che siano stati in seguito, in condizioni che restano da definire, tradotti in greco, poi in copto, in siriaco, ecc.

Come credere che molti o la maggior parte dei testi copti di Nag Hammadi, Vangelo della Verità, Vangelo di Tommaso e altri, non derivino da un nucleo ebraico e non greco?

Ogni esegeta sa che, salvo rarissime eccezioni, il greco del Nuovo Testamento è una lingua contorta, un greco spesso scadente, la cui sintassi (e il vocabolario?) non ha nulla della bellezza dei monumenti ellenistici contemporanei. Perfino Flavio Giuseppe, che traduce, dice lui, le sue opere dal semitico al greco, fa in modo di respingere ogni traccia di aramaico o di ebraico: salvo i punti ritoccati, talvolta esplicitamente mutilati, dai monaci copisti, Flavio Giuseppe è un autore eccellente; per lo meno è leggibile. — Ma chi pretenderà che l'Apocalisse di Giovanni sia leggibile? Né Filone Giudeo né Giuseppe — dei contemporanei, o quasi — avrebbero osato presentare al loro pubblico delle narrazioni così mal predisposte.

Da ciò, i commentatori eruditi traggono l'idea che il Nuovo Testamento, per farla breve, sia stato scritto da analfabeti, da gente semplice, poco versata in ellenismi: in pratica, da ignoranti. E subito aggiungono che la testimonianza dei suddetti analfabeti sia tanto meglio per questo — come se, tra parentesi, ogni analfabetismo eroicamente superato avesse il valore di una testimonianza...

Tutte queste sottigliezze e false prove sono in realtà di poco peso, e l'argomentazione prende talvolta altri aspetti.

Per esempio, c'è anzitutto il famoso passo

Ed è inoltre l'unico, poiché più o meno tutti i Padri della Chiesa dei secoli successivi lo ricopiano. — Per ciò che è delle concezioni moderne, si veda la sintesi data in Cullmann, Le Nouveau Testament, Paris, PUF, 1976, passim; tutte queste concezioni si basano su Ireneo.

 di Contro le eresie

O, più esattamente: «Contro le opinioni» — già tutto un programma!

di Ireneo di Lione:

III, I, I, Ireneo di Lione è della fine del II° secolo se si crede alla tradizione; il suo nome, che significa «la pace», è senza dubbio l'equivalente greco di Salomone. — Seguo qui la traduzione Rousseau-Doutreleau, non senza qualche riserva: si sanno i problemi di critica testuale che pone l'opera di Ireneo.

«Così Matteo pubblicò tra gli Ebrei, nella loro stessa lingua, una forma scritta del Vangelo, al tempo in cui Pietro e Paolo evangelizzavano Roma 

Nelle sue Antichità Giudaiche (20, 5, 2), Giuseppe ci dice: «Fu in questo periodo che una sorte contraria toccò ai figli di Giuda il Galileo, che avevano incitato i Giudei alla rivolta contro i Romani durante il censimento della Giudea sotto Quirinio, come abbiamo raccontato più sopra. Questi due erano Giacobbe (= Giacomo) e Simone, e Alessandro diede ordine che fossero messi in croce». Non si vede come Simon-Pietro-Cefa, crocifisso con suo fratello Giacomo in Palestina, abbia potuto in seguito recarsi a Roma e diffondervi il suo vangelo, a meno che, beninteso, questi figli di Giuda di Gamala (personaggio menzionato, peraltro con un equivoco cronologico, in Atti 5:37) non abbiano nulla a che vedere con i fratelli e i parenti del Gesù della narrazione evangelica.

e vi fondavano la Chiesa».

Letteralmente, «la comunità» o, se si segue solo il latino, «una comunità».

Ireneo dice in seguito che a questo Vangelo si aggiunsero quelli di Marco, «discepolo e interprete di Pietro», e di Luca, «compagno di Paolo», e che Giovanni scrisse infine il suo «mentre dimorava ad Efeso in Asia». Non dice da nessuna parte in quali lingue furono scritti questi ultimi tre Vangeli: non dice che sono stati scritti in greco.

Ora gli esegeti, che tengono decisamente al loro greco e manifestano una curiosa avversione per l'ebraico, leggono questo passo nella seguente maniera: il Secondo Matteo è stato originariamente scritto in aramaico, come se «tra gli Ebrei, nella loro stessa lingua» significasse necessariamente «in aramaico»; poi, siccome Ireneo non precisa, tutti suppongono (o piuttosto: affermano) che Marco abbia scritto in greco un Vangelo ad uso dei romani evangelizzati da Pietro, 

Questo stesso Pietro di cui gli Atti degli Apostoli dicono (12:17) che «uscì e se ne andò in un altro luogo», vale a dire... che morì!

maestro di Marco;

 A sostegno di quella tesi, i commentatori sottolineano i «numerosi latinismi» del Secondo Marco, come se questi latinismi (che in realtà riguardano solo il vocabolario) non potessero essere quelli di un traduttore e non dello stesso scrittore primitivo — vi ritorneremo.

poi, essendo il Secondo Luca scritto in un greco migliore (relativamente migliore) dei suoi concorrenti, vi vedono il nec plus ultra delle prove di una redazione originale greca, come se Giuseppe, tradotto in ottimo greco da lui stesso e dai suoi abili collaboratori, non avesse prima scritto in semitico; quanto a Giovanni, anziano ed esule, egli verrebbe per ultimo: Il suo Vangelo è ritenuto gnostico e a volte tendenzioso; importa quindi renderlo il più tardivo possibile, perfino se si ha di che sorprendersi del fatto che un vecchio vissuto da così lungo tempo in ambiente ellenistico scriva in un linguaggio così difettoso.

Il greco del Secondo Giovanni è una meraviglia rispetto a quello dell'Apocalisse, ma di per sé una autentica catastrofe. Il più cabalista ed esoterico degli scrittori, detto altrimenti il più «intellettuale», sarebbe allora il più raffinato adepto del gergo incomprensibile; e ciò non disturba affatto i commentatori autorizzati! 
E poi vedete i giochi di prestigio: perché si suppone sempre che un ebreo residente a Efeso, nella Diaspora, ignori necessariamente l'ebraico? 

D'altronde, ho torto a parlare di prove e di controprove. Gli esegeti non mettono mai in discussione o discutono ciò che la tradizione presuppone riguardo la lingua originale dei Vangeli: per loro, globalmente, la questione non si pone nemmeno. E se, per caso, se la pongono, si affrettano subito a dimenticarla: non saltano mai dal greco all'ebraico primitivo del corpus.

Si veda  il capitolo «I documenti di base» in Cullmann, op. cit. pag. 7 s. e passim; si veda anche il lavoro di Matthew Black, che cito più sotto.

Se si aggiunge a ciò che i manoscritti greci completi che possediamo (Sinaiticus, Alexandrinus, Vaticanus, Codex Bezae, ecc.) non sono mai anteriori al IV° e V° secolo, 

Si veda la recensione in Aland, Synopsis of the Four Gospels, 3° edizione, 1979, pag. XVII per esempio. — I manoscritti che cito qui erano originariamente completi; in seguito hanno perso dei fogli.

si misura, in contrasto a quella magnifica unanimità, la difficoltà che hanno avuto le versioni greche ad imporsi. Esse furono imposte grazie a Costantino, primo Cesare filo-cristiano, 

O meglio: favorevole, per calcolo, a uno dei cristianesimi rivali, con quanta voltafaccia. 

e a Eusebio di Cesarea, suo copista, capo scriba e censore autorizzato, nella cui officina scrittoria, precisamente, furono redatte cinquanta copie calligrafate, «ben leggibili e portabili», dei testi canonici di allora. 

Si veda De Vita Constantini di Eusebio, 4:36. Senza dubbio l'imperatore diede la caccia alle altre copie, che si è d'accordo al presente di ritenere «perdute». È necessario, perché si instauri un canone di scritti, un despota forte e uno scriba al suo soldo, quest'ultimo possibilmente l'imperatore stesso: così, in Cina, Ts'in Che-houang-ti, esperto in muraglie e autodafé. — Quando si sa come il nostro Eusebio, primo storico ecclesiastico, abbia rielaborato la sua biografia di Costantino a seconda degli eventi e delle fluttuazioni del suo desiderio di compiacerlo e di servirlo, cancellando nomi, manipolando fatti e trafficando in essi, si indovina allo stesso tempo quanta fiducia gli va accordata in quanto narratore e cronista dei primi tempi del cristianesimo. Eppure, nei manuali, ancora oggi, il lavoro di questo poligrafo, serio precursore di Jdanov, è ritenuto «globalmente positivo» dagli specialisti... 

Da allora, la scoperta di apocrifi antichissimi, come il Vangelo di Tommaso

Mi riferisco al vangelo gnostico (?) classificato sotto questo titolo, quello di Nag-Hammadi.

è tanto più preziosa in quanto ci fornisce informazioni sul Cristo che erano sfuggite alla sagacia dei monaci e degli scribi che avevano lavorato al servizio di Eusebio, informazioni non scritte in greco stavolta.

Del Vangelo ebraico di Matteo, pur segnalato da più autori, non resta per ora alcuna riga, sfortunatamente, o perché è stato perso nel corso delle diverse insurrezioni ebraiche del I° e II° secolo, o perché è stato distrutto dai fautori officiali del cristianesimo ufficiale dell'Impero.

Svilupperò altre eventualità più tardi.

Quando si esaminano i tagli praticati in Flavio Giuseppe, 

Cfr. i suoi «come ho detto più sopra» che non rinviano più a nulla.

in Petronio, 

Il suo Satiricon non è altro che un relitto minuscolo.

in Tacito, in Ammiano Marcellino, tra gli altri, e le correzioni, le censure, le interpolazioni, di cui hanno beneficiato, si propenderebbe piuttosto per la seconda ipotesi. Tutto è stato fatto probabilmente perché non rimanesse nessuna autentica vestigia del nucleo semitico dei Vangeli e dei testi adiacenti, anche in lingua ebraica — senza però che si possa definire a priori e molto precisamente la vera ragione o le vere ragioni di tale distruzione (l'antisemitismo e le lotte settarie vi ebbero la loro parte, questo è certo). 

Per riassumermi, dirò che non nulla si oppone da subito all'idea di una redazione ebraica primitiva della maggior parte dei testi del Nuovo Testamento e, più particolarmente, dei Vangeli. L'ebraico era una lingua viva nella Palestina del I° secolo: quella lingua si parlava, si leggeva e si scriveva. Per le sue stesse aberrazioni, il greco dei Vangeli tende a rivelarsi di seconda mano. Da tutto ciò, deduco che è necessario, almeno a titolo di prova, praticare finalmente una retroversione seria e paziente dal greco del Nuovo Testamento verso l'ebraico; infatti non è forse possibile, grazie a un esame scrupoloso dei manoscritti che abbiamo e delle versioni che contengono, parola per parola, frase per frase, ottenere, se non l'originale semitico, almeno una nozione plausibile di questo originale?


Cos'è una retroversione

Una tale impresa, già tentata per altri testi e in altre condizioni, 

Penso qui alla bella retroversione copto-greca del Vangelo della Verità di J.-E. Ménard, Parigi, 1962, di cui faccio mia la modestia («Sarebbe», dice, «ovviamente nel contempo puerile e completamente falso da un punto di vista metodologico parlare qui di una ricostruzione di un testo probabilmente perduto per sempre e di cui non possediamo nessun testo parallelo conosciuto», pag. 24), ma non l'idea di partenza, che è anche la sua conclusione: «il traduttore copto lavorava su un originale greco». Per Menard, nessun originale semitico è concepibile, anche se il copto è una lingua camito-semitica e molti testi gnostici cristiani copti si comprendono solo sulla base delle procedure di codifica della Cabala ebraica — curioso, non è vero? 

si imbatte fin dall'inizio in notevoli difficoltà. Innanzitutto, tra le centinaia di manoscritti (greci) del Nuovo Testamento, quale o quali scegliere? Di quale o quali fidarsi? L'apparato critico della più recente edizione corrente Nestle-Aland, che elenca sia i presunti frammenti di papiro del II° secolo che i magnifici codici dell'XI° secolo, brulica di lezioni contraddittorie o, almeno, divergenti.

A quella difficoltà, i traduttori europei del Nuovo Testamento rispondono con scelte molto approssimative.

Forse la palma, in questo campo, va a A Textual Commentary on the Greek New Testament, Londra-New York, 1971: quest'opera, che contrassegna centinaia di passi «difficili» del corpus, opta per tale versione a scapito di tal'altra per via democratica; il «comitato» riunito dalle United Bible Societies è detto «preferire» qui o là «a maggioranza» questo termine, rifiutare allo stesso modo quell'altro,  escludere qui questa lezione a favore di quella lezione; e scorrono i voti... In tutto il libro, in ogni pagina, si leggono frasi che cominciano così: «A majority of the Committee preferred to adopt the reading...», oppure: «In the opinion of the majority of the Committee...». — ma mai questo comitato di decisori è detto aver organizzato un referendum sull'interesse che avrebbe, su tutti i passi così messi ai voti, nel ricorrere al testo ebraico sottostante.

Infatti si è tentati, malgrado tutto, di scegliere, ossia quando, per esempio, si intende rendere il testo in francese, di preferire per chissà quale ragione quella lezione a quest'altra — secondo l'umore, il gusto, la tradizione, il caso, o gli imperativi di questa o quella interpretazione tacita del testo. Si perviene, culmine di letteratura, d'umore, o di entrambi, a fare dell'Apocalisse di Giovanni un libro grammaticalmente adeguato!

Scelta... Preferenze tacite... È una cosa seria?

I commentatori concordano inoltre nel dare ampiamente la preferenza ai manoscritti antichi completi, o cosiddetti tali, quelli che non superano il V° secolo. Ma anche qui abbondano le divergenze, e abbondano i duelli degli studiosi, gli uni campioni del Codex Bezae, gli altri del Sinaiticus, quando, come Nestle-Aland, non producono un miscuglio informe del tutto, miscuglio che ha, da parte sua, il vantaggio e lo svantaggio (molto democratico, quello!) di non essere stato l'opera di alcun autore o traduttore! Rifuggendo il plurale (perché non lo si sa giustificare e perché fa paura), si opta allora per il fittizio...


Primo ostacolo e suoi vantaggi

Paradossalmente, queste divergenze del greco — nel greco — sono in realtà un'opportunità per chi vuole procedere ad una retroversione. Se, infatti, dessi un testo ebraico a più traduttori greci indipendenti, otterrei necessariamente risultati divergenti.

Si sa che i Settanta, invece, indipendenti com'erano, produssero per miracolo un unico testo greco a partire dalla Bibbia ebraica, ma questa è una leggenda: si veda la Lettera di Aristeo a Filocrate, trad. Pelletier, Parigi, 1962.

Se, in seguito a qualche catastrofe, l'originale venisse distrutto o perso, e se non mi restasse più che una sola traduzione tra tutte quelle che ho comandato, avrei tutta la fatica del mondo per ripristinare quell'originale: diciamo che la partita è persa per me in anticipo. Se invece mi restassero diverse traduzioni indipendenti, allora le loro stesse divergenze mi metterebbero sulla via di un ritorno al testo-modello primitivo. Ancora meglio: più traduzioni indipendenti mi resteranno, e più avrò buone possibilità di ricostruire plausibilmente l'ebraico. — Questo è il caso, nella mia ipotesi, per le versioni greche del Nuovo Testamento. Laddove i manoscritti mi propongono vari termini concorrenti, dovrò trovare il termine ebraico che copre questi vari termini, ossia il termine ebraico che avrebbe potuto produrre tutti questi equivalenti greci; 

E così procederò con le locuzioni, proposizioni, frasi e porzioni di frasi, non appena si presenteranno in forme alternative.

ma laddove i manoscritti non mi daranno che una sola versione, avrò senza dubbio più difficoltà, salvo eccezioni, 

Allorché si tratta, per esempio, di idiotismi (semitismi) ovvi e comuni.

nell'optare per un solo testo semitico (primitivo).

Stessa osservazione per ciò che riguarda i tempi dei verbi, l'ortografia, l'ordine delle parole, ecc. — il che non vuol dire che molte divergenze tra i manoscritti (greci) non siano dovute anche agli errori, volontari o meno, dei copisti. 

La prima difficoltà può così volgersi a vantaggio del dilettante di retroversioni pericolose.


Il secondo ostacolo e suoi vantaggi

Il secondo ostacolo risiede nella natura delle due lingue in oggetto. È il fatto che la sintassi greca non ha niente a che fare, o quasi, con quella dell'ebraico. O, più precisamente: la buona sintassi greca ha poco a che vedere con quella dell'ebraico. Sarebbe ben pretenzioso colui che tenterebbe di retrovertere questo o quel passo di Giuseppe in semitico: il suo greco è fin troppo puro.

Ma, come ho detto, la sintassi del Nuovo Testamento è così contorta e così ricca di ogni sorta di semitismi che si può azzardare l'ipotesi, non solo di una traduzione dell'ebraico, ma di una traduzione globalmente letterale. Detto altrimenti, la maggior parte di questi testi sono stati, secondo me, originariamente scritti in ebraico e poi grecizzati, in periodi diversi che non superano (forse) il IV° e V° secolo, da vari traduttori le cui versioni, quantunque ovviamente divergenti, tuttavia concordano principalmente su un punto: tutte tentano, spesso fino al punto di un idioma incomprensibile, di rendere l'originale il più letteralmente possibile. Beninteso, se il greco e l'ebraico fossero lingue grammaticalmente simili, queste traduzioni avrebbero ottenuto, in aggiunta a quella letteralità, una certa grazia, una parvenza di bellezza letteraria — una certa leggibilità; ma ciò non è affatto il caso: essendo l'ebraico e il greco per natura grammaticalmente dissimili, il risultato di ciascuna traduzione fu e può essere solo, a causa dell'intenzione letterale, un miscuglio, una successione ebraica di parole greche.

L'ebraico, avaro di proposizioni congiuntive subordinate, procede il più delle volte per semplice giustapposizione di frasi principali, legate marcatamente dalla congiunzione W, «e». Questa giustapposizione è la regola nel Nuovo Testamento, qualunque sia il passo scelto: i kai («e» in greco) vi abbondano. Le proposizioni, come nella Bibbia ebraica, sono brevi (irrisoriamente brevi rispetto a quelle che si incontrano nei testi greci di ogni periodo); le frasi sintatticamente complesse sono rare (risultano, il più delle volte, da glosse o da aggiunte: così, per esempio, l'inizio stesso del Vangelo di Luca). Tutto ciò mi sembra costituire un indizio più che evidente dell'origine ebraica (o aramaica, per il momento) del testo.

D'altra parte, una tipica frase ebraica si costruisce sulla sequenza seguente: «e» + verbo + soggetto + complemento, 

E, quando interviene un relativo (Ŝ o ʼŜR), il suo antecedente viene ripetuto (come pronome) nella relativa stessa — cosa che non è il caso nella sintassi greca.

seguita da un'altra sequenza dello stesso tipo, legata o meno alla precedente dalla congiunzione W. Ebbene, la maggior parte delle frasi del Nuovo Testamento, e in particolare dei Vangeli, sinottici o no, ricalcano questo ordine semitico, mentre nessun autore greco dell'epoca, o di qualsiasi epoca, anche scadente, scrive in quella maniera. — Ancora un altro indizio dell'impronta ebraico-greca prodotta dai vari traduttori.

Non solo nessun autore greco di qualsiasi periodo manifesta queste due tendenze sintattiche del Nuovo Testamento, ma i Settanta stessi, qualche decennio prima della nostra era, nel tradurre (in greco) la Bibbia ebraica, pur conservando una grande quantità di semitismi, non hanno mai spinto la loro preoccupazione per il letterale fino all'aberrazione di cui fa prova il Nuovo Testamento nel suo insieme. Uno studente che apprenderebbe il greco antico dal Cantico dei Cantici o dal Levitico raggiungerebbe una conoscenza passabile della lingua: ma a quello stesso studente non consiglierei mai di prendere il Nuovo Testamento per riferimento: sarebbe un suicidio pedagogico.


Per un ritorno all'originale

Aggiungerei questo: Se il Nuovo Testamento, globalmente, è incoerente riguardo alla sua lingua, ciò è vero solo dal punto di vista del greco. Riguardo alla grammatica ebraica, il più delle volte esso è abbastanza logico e, diciamolo, normale: perché sostituendo ciascuna parola greca, senza spostarla, con una parola ebraica di significato uguale o equivalente, si può raggiungere, il più delle volte, una frase semitica sensatissima. Ciascun elemento greco rientra perfettamente, senza violenza, nello schema sintattico semitico, di cui il greco stesso imita (stranamente per un lettore grecizzante, normalmente per un lettore ebraizzante) il più chiaramente possibile i contorni strutturali. Schematizzando appena, si deve affermare che il Nuovo Testamento sembra, nel complesso, scritto in ebraico con l'aiuto di parole greche: si tratta di una traduzione letterale, nel contempo un cambio di vocabolario ed una massima identità dal punto di vista sintattico. — Quando traduco letteralmente una strofa come quella di Coleridge:

It is an ancient Mariner

And he stoppeth one of three.

«By thy long grey beard and glittering eye,

Now wherefore stopp'st thou me?»

The Rime of the Ancient Mariner, in Seven Parts, I° parte, inizio.

io ottengo, non:

È un vecchio marinaio

e ferma uno dei tre.

"Per la tua barba grigia e l'occhio scintillante,

perché mi hai tu fermato?


C'est un marin très vieux;

Avisant trois passants, il arrête l'un d'eux:

«Par la longue barbe grise et ton oeil brillant,

Dis-moi, pourquoi viens-tu m'arrêter maintenant?»

Versione francese di Henri Parisot, in S. T. Coleridge, Poèmes, Parigi, 1975.

È un vecchio marinaio,

e ferma uno dei tre.

«Per la grigia barba e l’occhio scintillante,

perché tu mi trattieni?»

Versione italiana di Tommaso Pisanti, in S. T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio e altre poesie, Newton Compton Editori, 2013.

versione elegante che non mi permette affatto di ritrovare sotto di essa l'originale, ma, assai meno felicemente:

C'est un ancien Marinier

Et il arrête un de trois.

«Par tes longue grise barbe et brillant oeil,

Maintenant pourquoi arrêtes-tu moi ?» 


[È un vecchio marinaio,

E arresta uno dei tre.

«Per la tua lunga barba grigia e l’occhio brillante,

Ora perché arresti me?»]


traduzione che non ha, è il meno che si possa dire, alcun merito letterario, se non quello di rivelarmi sotto di essa, parola per parola, il suo riferimento inglese, cosa che la resa elegante non permetteva.

Questo esempio può essere sfruttato in un altro modo. In effetti, il greco del Nuovo Testamento assomiglia di più alla mia seconda versione della poesia di Coleridge che alla prima (quella di H. Parisot); molto meglio: mi sembra che i traduttori del Nuovo Testamento abbiano cercato, per qualche ragione a prima vista misteriosa,

Ragione che riguarda, in ogni caso, il fatto che essi ritenevano sacro il testo che avevano sotto gli occhi: i Settanta, qualunque fosse il risultato della loro impresa, avevano anch'essi per scopo di tradurre letteralmente; anche loro, al loro tempo, avevano un testo sacro da trasferire da una lingua in un'altra. E, in un caso come nell'altro, accade come se l'esigenza della traduzione letterale rispondesse all'esigenza di conservare al massimo la sacralità del testo originale.

di tradurre il testo ebraico quanto più vicino possibile affinché ogni lettore del greco possa, senza difficoltà e a condizione di essere, anche moderatamente, bilingue, ritrovarvi l'originale o le sue grandi linee con una sufficiente approssimazione. Si direbbe che abbiano deliberatamente massacrato il loro Coleridge, non per chissà quale sadismo, ma al fine di non avere che poche possibilità di perderlo per sempre, al fine di averlo, anche se mascherato, sempre sotto mano.


Debolezza radicale dell'esegesi

In ogni caso, mi stupisco che nessun esegeta del Nuovo Testamento, a mia conoscenza, 

Salvo, forse, Matthew Black, già menzionato. Ma il titolo stesso dell'opera che ha scritto su quella questione (An Aramaic Approach to the Gospels and Acts, 3° edizione, Oxford, 1977) mostra che si è sbagliato di grosso: non solo continua a credere, malgrado tuttavia alcuni dubbi di dettaglio, liquidati troppo rapidamente, che il greco del Nuovo Testamento sia originale, ma opta per un esame dell'aramaico — e non dell'ebraico — come possibile fonte sporadica (solo sporadica, e solo possibile!) Nondimeno questo libro — come gli articoli di J. T. Marshall pubblicati all'inizio del secolo — ha il vantaggio di dare un'idea del nucleo semitico dei Vangeli e degli Atti (perché anche gli Atti, quelli cosiddetti di Luca, sono stati secondo me originariamente e prevalentemente scritti in ebraico).

abbia mai intravisto, anche solo intravisto, l'ipotesi di buon senso che tento di avanzare qui. Tutti hanno davanti a loro un pessimo greco, e tutti se ne accontentano: vi si adeguano! e tutti si affrettano a tradurlo (in lingue europee e in altre lingue) nella maniera più letteraria possibile — e la maggior parte non esitano a trarne conclusioni, una più definitiva dell'altra, sulle origini del cristianesimo. E migliaia di libri di commentari si accumulano nel corso degli anni a proposito di una narrazione di seconda mano,

La maggior parte degli studiosi pretendono che la lingua del Nuovo Testamento sia la koinè, la lingua greca parlata, la lingua del popolo e dei mercanti, ma nessuno di loro è capace di nominare un'opera, una sola, delle dimensioni del corpus neotestamentario, scritta in koinè, se non... il Nuovo Testamento stesso! Bel serpente che ben si morde la coda... (A volte si fa appello alla cosiddetta koinè di Polibio lo storico: ma chi dirà che Polibio scrive un greco semitico?)

 la cui sintassi non regge. 


(Testo pubblicato in Tel Quel, Parigi, Le Seuil, 1982).

Nessun commento: