martedì 11 settembre 2018

La Leggenda di San Pietro : Pietro a Roma

Pietro e Mitra
IV

PIETRO A ROMA

Schierata contro la tesi qui presentata, comunque, è la storiografia della Chiesa Cattolica Romana. Tramite ricorso alla tradizione ecclesiastica, essa tenta di provare che l'Apostolo Pietro — il discepolo a cui si presume che Gesù avesse dato il “potere delle chiavi” — giunse a Roma durante il regno dell'imperatore Claudio (41—54 E.C.), vi operò là con l'Apostolo Paolo, fondò la Chiesa romana, e servì per venticinque anni in quella città nella funzione del suo primo vescovo, e poi soffrì la morte di un martire durante la persecuzione sotto Nerone (64 E.C.).
Qual è la natura di questa tradizione? Gli scritti del Nuovo Testamento non sanno nulla di alcuna residenza di Pietro a Roma. Gli Atti degli Apostoli riportano nel capitolo 12 l'arresto e la liberazione miracolosa di Pietro. Gli permettono di fare un rapporto di questo ai fratelli cristiani, e a quel punto riportano semplicemente: “Poi [Pietro] uscì e s'incamminò verso un altro luogo”. [102] Da allora in poi la storia non ritorna più a Pietro. È a dir poco fantastico, come qualcuno possa concludere da questa breve dichiarazione — come si è solito fare dal lato ecclesiastico — che “un altro luogo” debba significare Roma! L'epistola ai Galati assume la presenza di Pietro a Gerusalemme e menziona la sua successiva permanenza ad Antiochia. [103]
Che Paolo e Pietro operassero assieme a Roma sembra altamente improbabile, considerando le parole conclusive di Atti, che dichiarano: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. [104]
In tal caso — dal momento che, come è stato già notato, nel libro di Atti le attività di Paolo sono semplicemente modellate su quelle di Pietro e c'è un parallelismo nelle carriere dei due apostoli — Atti certamente non avrebbe fallito di menzionare l'attività di Pietro accanto a quella di Paolo se una cosa del genere fosse realmente accaduta. Da parte della Chiesa, naturalmente,  si potrebbe replicare citando la cosiddetta Prima Epistola di Pietro, che è datata da “Babilonia”, e allude al fatto che nei tempi successivi Roma di solito era intesa col termine Babilonia. Comunque, Harnack ha dimostrato in maniera conclusiva [105] che il destinatario e la firma di questa lettera non sono quelle dell'autore dell'epistola, ma piuttosto sono l'opera dell'autore molto più tardo della Seconda Epistola di Pietro.
Presumibilmente il rapporto extrabiblico più antico e più importante della residenza e del martirio dei due apostoli a Roma si deve trovare nella cosiddetta Prima Epistola di Clemente ai Romani, che si suppone fosse stata scritta attorno all'anno 95 E.C. Nel quinto capitolo dice:

Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne [della Chiesa] furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l'ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell'oriente e nell'occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell'occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. [106]

Dove, ora, in quelle parole c'è qualcosa che ci faccia pensare che Pietro fosse stato assieme a Paolo a Roma? I difensori della tradizione si appellano al fatto che entrambi gli apostoli sono menzionati immediatamente uno dopo l'altro e che la permanenza di Paolo a Roma è fermamente stabilita. Così l'autore dell'epistola deve anche aver presupposto la presenza di Pietro a Roma (!). Ora giusto dopo le parole citate, sembrerebbe che sia riferita la persecuzione sotto Nerone, in cui si presume che Paolo (secondo la tradizione!) sia giunto ad una fine. [107] Così, si dovrebbe supporre che anche Pietro morì in quest'occasione! Ma dove nel passo citato dell'Epistola di Clemente si dice mai qualcosa circa Pietro che soffre la morte a causa del suo seguire Gesù? L'allusione al “martirio” di Pietro non si può usare a sostegno di quest'asserzione. Infatti la parola greca martyros nei primi giorni del cristianesimo esprime, come ha provato completamente Hochart, [108] semplicemente la testimonianza di una persona. Martire è identico a testis, confessor. Questo significa qualcuno che rende testimonianza a Cristo — che sia sulla base di una relazione personale con Gesù di Nazaret (come con i discepoli di Gesù), che sia sulla base di una visione del Gesù Risorto (tramite cui si afferma la verità dei vangeli), oppure che sia semplicemente sulla base di un talento nel pronunciare profezie (e così fornire una dimostrazione dell'attività dello Spirito Santo nella Chiesa cristiana).
Martire era così un rango o un grado, un titolo all'interno della chiesa, e ognuno poteva essere chiamato un martire senza aver dovuto soffrire per la sua fede cristiana; e viceversa, uno potrebbe aver sofferto senza essere visto come un martire. Così, Stefano (un'altra figura mitica!), che si suppose fosse morto per la sua fede, è chiamato un martire (testimone); ma egli è chiamato così non perchè si suppone che fosse morto per la sua fede. Egli è chiamato martire perchè aveva visto Cristo e gli aveva recato testimonianza — ed egli sarebbe stato chiamato martire perfino se non fosse stato lapidato dagli ebrei. [109] Solo in seguito, al tempo della persecuzione dei cristiani ordinata dallo stato, durante le lotte competitive con le altre religioni e filosofie ostili, quando i cristiani cercavano di testimoniare la superiore verità della loro fede tramite la loro risolutezza e la loro forza nella sofferenza, i due concetti testimonianza e testimonianza di sangue si fusero per dare a martire il suo significato comune. Poi diventò solo naturale per la gente pensare che coloro nei primi tempi che avevano recato testimonianza di Cristo dovevano anche aver segnato la loro testimonianza con la loro morte.
È altamente dubbio se l'autore della Prima Epistola di Clemente intese una testimonianza di sangue quando si riferiva a Pietro come ad un martire. Infatti sebbene egli parli anche di persecuzioni a cui l'apostolo sarebbe stato esposto e nota che loro “lottarono sino alla morte”, egli non sta dicendo che patirono la morte a causa del loro credo. Soffrire la morte di un martire e combattere fino alla morte sono due cose diversissime. Assumendo che la lettera fosse stata scritta nel complesso attorno al 95 E.C., è abbastanza possibile che solamente ad un tempo assai più tardo la “morte da martire” dell'Apostolo venisse letta in quelle parole.  
Ma chi è questo Clemente di Roma ad ogni modo, che si presume avesse composto l'epistola in questione? Le testimonianze a suo riguardo sono piuttosto confuse. Secondo i cosiddetti Ritrovamenti pseudo-clementini, si suppone che fosse stato il figlio di un notabile romano, il quale, pur di apprendere la sapienza cristiana (!), viaggiò in Palestina e studiò il cristianesimo sotto Pietro. Secondo la lettera parimenti falsa di Clemente all'Apostolo Giacomo, si suppone che Pietro lo avesse scelto come suo successore sul trono del vescovo di Roma. A volte si suppone che avesse veramente esercitato questa funzione, a volte egli è semplicemente il segretario di Pietro a Roma, ecc. Gli scritti rimanenti che recano il suo nome — epistole, sermoni, ecc., — sono parzialmente fabbricati e parzialmente così interpolati che perfino i teologi non prestano loro nessuna attenzione.
Quanto pertiene all'epistola sotto discussione, comunque, si suppone che Clemente l'avesse scritto in occasione di una disputa che era esplosa nella chiesa di Corinto, al fine di esortarli, nel nome dei loro fratelli romani, a far pace. Questo sembra ora in realtà molto improbabile. Infatti è abbastanza fuor di questione che la Chiesa romana alla fine del primo secolo avrebbe già potuto possedere tanta autorità da poter dare ordini ai Corinzi per mezzo di un'enciclica ufficiale composta nel suo nome e inviare loro un consiglio amorevole e amichevole su come comportarsi. La Chiesa romana dei secoli successivi sta parlando qui, e famosi teologi come Volkmar, Hausrath, et al., hanno dichiarato falsa la Prima Epistola di Clemente. La lettera ovviamente è scritta per il solo fine di retro-datare l'autorità della Chiesa romana ad una data più antica possibile.
Non molto diverso dal caso della Prima Epistola di Clemente sembra essere il caso con l'Epistola di Ignazio ai Romani, che si suppone sia stata scritta attorno al 107 E.C., poco prima della morte del suo autore. La lettera è considerata falsa, al pari delle lettere rimanenti di Ignazio,  da tutti gli studiosi privi di pregiudizi. Nella sua forma presente è, ad ogni conto, così grandemente interpolata che il suo scopo — perfino se fosse autentica — è impossibile da discernere. Ma cosa dice il caro Ignazio ad ogni modo? “Non vi comando come Pietro e Paolo”. [110] E questo si suppone che provi la presenza reciproca dei due apostoli a Roma! I nostri teologi sono molto acritici. 
Riguardo ai rimanenti testimoni della residenza e della morte di Pietro, nessuno di loro risale a prima della seconda metà del secondo secolo, cioè, ad un tempo in cui la Chiesa romana aveva già cominciato a farsi strada alla supremazia nel controllo della Chiesa — un tempo in cui la tradizione riguardante le vite dei vari apostoli aveva già assunta una forma definita. Inoltre, la maggior parte di loro sono racconti di terza mano, e quindi in parte così dimostrabilmente falsi e così ovviamente sbucati dal nulla, da non poter essere addotti come prova di alcunché. Secondo lo storico della chiesa Eusebio [111] (morto nel 340 E.C. circa), un rapporto che si presume fosse stato scritto dal vescovo Dionisio di Corinto (170 E.C. circa!) diceva che Pietro e Paolo fondarono e istruirono la Chiesa di Corinto (!) [112] e giunsero assieme in Italia, dove diffusero il vangelo e patirono il martirio allo stesso tempo. Di valore non molto più grande è la nota in Ireneo secondo cui la Chiesa romana fu fondata da Pietro e Paolo, [113] oppure quella di Tertulliano [114] secondo cui Pietro e Paolo avevano lasciato in eredità il vangelo ai Romani segnato con il loro stesso sangue; ma Tertulliano è un informatore talmente credulone e inaffidabile che le sue dichiarazioni rilevanti possono essere accettate soltanto con estrema cautela. [115]
Clemente di Alessandria a sua volta, secondo la cui asserzione il vangelo di Marco è ritenuto basato sulla predicazione di Pietro a Roma, viene presentato come un testimone dell'affermazione che Pietro proclamò la Parola di Dio a Roma. Sfortunatamente, anche la sua testimonianza è preservata solo da Eusebio, [116] il quale scriveva al servizio della chiesa del quarto secolo, e così non si può dimostrare su questa base più che da tutto il resto ciò che Eusebio sostiene riguardo la residenza di Pietro a Roma e la sua fine relativa — per esempio la testimonianza del Presbitero Gaio (210 E.C. circa) il quale si suppone avesse detto: “Io ti posso mostrare i tropaia degli apostoli. Se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense, vi troverai i tropaia dei fondatori della Chiesa”. [117] Questa nota è interpretata a significare che Paolo fu martirizzato sulla via per Ostia e che Pietro fu ucciso sul Colle Vaticano.
Ora la prima descrizione dettagliata della morte dei due apostoli si trova nei cosiddetti Atti di Pietro e Paolo, che l'edizione sopra citata di The New Testament Apocrypha collocano alla fine del secondo secolo, sebbene siano probabilmente di molto più tardi, poichè sembrano essere dipendenti da leggende del secondo e del terzo secolo. Secondo questo racconto, si suppone che Paolo fosse stato decapitato per ordine di Nerone. Secondo una tradizione, si suppone che questo sia accaduto sulla strada per Ostia. Pietro, comunque, poichè egli sconfigge Simon Mago  nel contesto disposto dall'imperatore, approssimò la sua stessa morte. Perchè la sua predicazione sulla castità irritò le concubine del prefetto di Nerone Agrippa, esse aizzarono Agrippa (e in effetti fu su richiesta personale di Pietro) a farlo crocifiggere a testa in giù — sul Colle Gianicolo!
Implicito in questo è il fatto che negli Atti di Pietro non si sa nulla di alcuna persecuzione generale di cristiani sotto Nerone. Ad essere sicuri, l'imperatore all'inizio intende distruggere tutti i discepoli di Pietro, ma una visione notturna lo dissuase, cosicchè i discepoli al momento in cui Pietro perse la sua vita “di comune accordo rimasero insieme, si rallegrarono ed esultarono nel Signore e vissero indisturbati le loro vite”. [118]
Ad essere precisi, gli Atti di Paolo riportano [119] che parecchi cristiani che furono presi prigionieri con l'apostolo patirono la morte contemporaneamente sul rogo, e che il loro numero fosse così grande che a causa delle uccisioni perfino gli stessi Romani desistettero per timore di perdere la forza della nazione! Il passo è degno di nota non solo a causa della sua grottesca esagerazione e implausibilità: si ritrova in totale disordine, e si può vedere chiaramente come l'autore abbia elaborato assieme due tradizioni separate al suo interno. Secondo una di loro, Paolo soltanto fu condannato in un'organizzata procedura legale, nell'altra, si suppone che avesse perso la sua vita da vittima della persecuzione neroniana dei cristiani. [120] Ora fino a Tertulliano (160-220 E.C.), nessun autore cristiano menziona alcunchè circa una persecuzione generale di cristiani sotto Nerone. E perfino Tertulliano nel suo Apologeticum [121] si esprime così vagamente che è impossibile dalle sue parole ricavare il presunto evento con certezza. Inoltre, autori successivi come per esempio Lattanzio [122] ed Eusebio, a loro volta non hanno da riportare nulla più del fatto che Pietro e Paolo patirono il martirio sotto Nerone.
È per prima nella manifestamente fabbricata Corrispondenza Tra Seneca E Paolo (che probabilmente appartiene al quarto secolo), che troviamo qualche allusione da parte cristiana al fatto che gli incendi frequenti di Roma furono provocati da Nerone e che gli ebrei come pure i cristiani erano ritenuti loro responsabili e condannati sebbene innocenti (Epistola 12). Solo nella Cronaca di Sulpicio Severo, il discepolo e amico del vescovo Martino di Tours, nel quinto secolo E.C., vi appare improvvisamente la storia della persecuzione neroniana con una menzione dei dettagli intorno cui sappiamo dal Libro 25 degli Annali di Tacito. Nessun zelante scrittore cristiano l'aveva mai menzionata prima. Nessuno storico greco o romano sembra prima di allora aver saputo qualcosa circa ciò. Sul fatto che il passo corrispondente nella Vita di Nerone di Svetonio (Capitolo 16) sia niente più che una falsificazione cristiana, studiosi imparziali sono stati a lungo d'accordo. [123] Perfino Flavio Giuseppe, un ebreo, che certamente aveva un sacco di opportunità per menzionare gli atti criminali di Nerone, è silente riguardo questo atto orribile contro la sua razza. Da questo segue che anche il rapporto citato in Tacito è la falsificazione di un copista cristiano di questo autore (probabilmente durante il quinto secolo e apparentemente per la glorificazione della chiesa) il quale abbellì il testo con aspetti leggendari — una procedura che era abbastanza in voga a quel tempo tra i cristiani.
Tutto è stato così completamente esaminato nel citato studio di Hochart che nessuna parola in più dovrebbe essere sprecata sul soggetto — e non sarebbe sprecata sul soggetto se non fosse il caso che certi ambienti invocano Tacito come un testimone della storia del cristianesimo. Dopotutto è Tacito che trasferisce il martirio dei cristiani nel giardino di Nerone. Il giardino di Nerone, comunque, era localizzato sul Colle Vaticano, dove la leggenda vuole che fosse stato sepolto il cadavere di Pietro. Così sembrerebbe che il più grande santuario del cristianesimo cattolico romano, la Chiesa di San Pietro, “per una meravigliosa concatenazione di circostanze” è localizzato sul luogo esatto che i cristiani (compreso Pietro) del periodo neroniano fertilizzarono col loro sangue, in tal modo santificandolo per tutto il tempo. Hinc illae lacrimae! 
In realtà, la persecuzione neroniana non era mai accaduta. È un'invenzione della Chiesa, inventata per la sua maggior gloria. Ma a dispetto di tutto, i teologi ancora vi si aggrappano e dipingono le sofferenze dei poveri martiri nei colori più vividi. [124] Mentre drammaturghi e romanzieri potrebbero sfruttare la storiella come materiale accettabile per creare scene interessanti ed eventi toccanti, gli storici dovrebbero levarsi e proclamare inequivocabilmente che essi, dalla loro prospettiva, non possono difendere l'intera raccapricciante storia, come la riporta Tacito. La supposizione che la Prima Epistola di Clemente alluda realmente a questa persecuzione (per la precisione, in una maniera del tutto goffa) e che vi si possa trovare una conferma del fatto che Pietro cadde vittima dell'ira di Nerone in quella circostanza, è vista ora completamente insostenibile — confermando contemporaneamente così l'inautenticità dell'Epistola di Clemente.
Cosa rimane, allora, della residenza e della morte di Pietro a Roma? Nessuna testimonianza dal primo secolo fino all'ultimo terzo del secondo secolo sa qualcosa intorno al soggetto. Ad essere sicuri, oltre ad Eusebio, anche il padre della chiesa Girolamo [125] (331—420) vorrebbe farci credere che Pietro fosse giunto a Roma già nel secondo anno del regno di Claudio (43 E.C.), come pure il primo a detenervi la carica di vescovo e che come tale presiedette per vent'anni sulla Chiesa romana. Ma questo non è attestato da nessuna informazione certa e contraddice, inoltre, non solo le asserzioni esplicite  di Atti e delle epistole paoline, [126] ma anche Ireneo e un altro rapporto di Eusebio [127] secondo cui l'elenco di pontefici della Chiesa romana comincia non con Pietro, ma con un certo Lino; Ireneo ed Eusebio sono considerati autorità degne di fede dai partigiani della Chiesa — ma naturalmente soltanto quando ciò che dicono è confacente alla Chiesa. [128] L'intero fenomeno dei riferimenti al “Principe degli Apostoli” a Roma emerge proprio al tempo in cui l'autorità ecclesiastica vi sviluppò un interesse nel sfruttarli per rivendicare priorità di fronte ai suoi rivali. [129]
Non ci si può attendere nel nostro esame di quelli argomenti che andassimo più a fondo nelle cosiddette “prove locali” che sono state addotte per provare la residenza di Pietro a Roma e le leggende ivi associate. C'è, naturalmente, la cosiddetta sella gestatoria, “la cattedra di Pietro”, che si suppone abbia utilizzato quando era il primo vescovo. Venne esibita pubblicamente per un po' negli anni sessanta dell'ultimo secolo, ma poi prudentemente fu ritirata di nuovo dallo sguardo della folla profana. Che non avesse alcuna relazione con Pietro era soltanto troppo evidente. C'è in aggiunta il luogo della condanna a morte sul Colle Vaticano e la Prigione Mamertina, in cui si suppone che l'apostolo avesse languito a causa della sua fede. C'è la chiesa di Santa Pudenziana sul sito della casa di Paolo, il senatore che accolse Pietro per un po' e che si fece battezzare con la sua intera famiglia da Pietro. Vi hanno perfino la tavola lignea sulla quale l'apostolo celebrò il santo sacrificio della messa per l'occasione! C'è anche la Cappella del Domine Quo Vadis (“Signore, dove vai?”) sul sito dove si suppone che un'apparizione di Cristo avesse indotto Pietro a tornare indietro quando egli stava fuggendo dalla prigione. In San Pietro In Vincoli si possono trovare le catene con cui fu legato in prigione. Soprattutto, c'è la Chiesa di San Pietro proprio in cima alla “tomba dell'Apostolo”!  
 È chiaro che quelli elementi sono tanto una dimostrazione di Pietro a Roma quanto la tunica senza cuciture a Treviri lo è della storicità di Gesù — oppure quanto l'impronta dello zoccolo di un cavallo sulla roccia della Rosstrappe, nello Harz lo sia dell'esistenza di un diavolo corporeo. Che peccato, che la nobile Roma sa così bene come convertire la sua religione in monete luccicanti.  Che peccato che quelle cose instillino tanto timore reverenziale in veri credenti. Quelle dimostrazioni locali e le leggende loro associate sono diventate ancor più venerabili a causa della loro età e della rozza devozione che per secoli così tanta gente ha conferito su di loro. Comprendiamo a nostra volta che i fedeli sostenitori del Cattolicesimo romano che cercano associazioni storiche e prove letterarie per la prominenza della loro chiesa si arrampicheranno sugli specchi per mancanza di qualcosa di meglio. Ma quando gli studiosi al servizio della Chiesa rappresentano quelli specchi come solidi appoggi, e quando pensano di poter presentarli in dimostrazioni “scientifiche” come “prove” della residenza romana di Pietro, e sulla base delle menzionate “prove” letterarie della residenza pensano di poter parlare dell'attività apostolica e della morte di Pietro a Roma come di un “eminente fatto storico” — è semplicemente ridicolo. E spregevole. [130]


NOTE

[102] Atti 12:17.

[103] Galati 2:11.

[104] Atti 28:30s.

[105] Adolf von Harnack, Chronologie der altchristlichen Litteratur, pag. 450.

[106] Edgar Hennecke, Neutestamentliche Apokryphen in deutscher Übersetzung, 1904, pagina 91.

[107] “Oltre gli antichi esempi propone loro quello dei santi principi degli Apostoli [Pietro e Paolo], i quali per invidia furono in molte maniere perseguitati, e ottennero finalmente la corona del martirio; quello di un gran numero di eletti, i quali furono altresì partecipi delle medesime persecuzioni e della stessa corona; e quello finalmente di due illustri matrone, Danaide e Dirce, le quali nonostante i gravi supplizi che avevano costantemente sofferti, non si erano dipartite dal sentiero della fede, e benchédeboli di corpo, avevano conseguito il premio di una gloriosa vittoria”. [Ibidem]

[108] Hochart, Études au sujet de la persécution des chrétiens sous Néron, 1885, pag. 287s.

[109] Hochart, loc. cit., pag. 296.

[110] Ignazio, Epistola ai Romani, capitolo 4.

[111] Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, Libro 2, Capitolo 25.

[112] Si veda per il contrario, 1 Corinzi 3:5s.

[113] Ireneo, Adversus Haereses, Libro 3, Capitolo 1.

[114] De Praescriptione Haereticorum, Capitolo 36 e Adversus Marcionem 4:5.

[115] Si veda Hochart, loc. cit., pag. 66s., 91s.

[116] Eusebio, loc. cit., Libro 2, Capitoli 4, 6, 14.

[117] Eusebio, loc. cit., Libro 2, Capitolo 25, $ 6.

[118] Edgar Hennecke, Neutestamentliche Apocryphen in deutscher Übersetzung, pag. 423.

[119] Atti di Paolo, Capitoli 2s.

[120] Edgar Hennecke, loc. cit., pag. 365.

[121] Tertulliano, Apologeticum, Capitoli 5 e 21.

[122] Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, capitolo 2.

[123] Si veda Hochart, loc. cit., pag. 259s.

[124] Perfino un autore come Adolf Hausrath, nella sua vasta opera Jesus und die neutestamentlichen Schriftsteller (1909) ripete la tendenziosa invenzione della persecuzione neroniana come un fatto storico e deriva ulteriori inferenze da esso. In effetti, egli accetta come autentica la presunta corrispondenza tra Plinio e Traiano (Volume 2, pag. 214s.) — che va solo a mostrare quanto sia urgente che le falsificazioni cristiane dei primi secoli siano esposte ancora una volta per quello che sono. Si veda Hochart, loc. cit., pag. 79-143.

[125] Girolamo, De Viris Illustribus, Capitolo 1.

[126] Secondo questo, Pietro, come è stato detto, nell'anno 53 E.C. era a Gerusalemme durante il concilio apostolico e successivamente ad Antiochia. Nell'epistola ai Romani, che si presume essere stata scritta nel 59 E.C., Pietro non è menzionato tra i parecchi saluti inviati a Roma, e nè è Pietro mai menzionato nelle cosiddette epistole di prigionia, che si suppone Paolo avesse scritto da Roma. I difensori della tradizione ritengono necessario, per questa ragione, assumere più visite a e da Roma, senza avere più giustificazione di quanta ne avessero i tardi storici della chiesa e venditori di leggende, estremamente inaffidabili e confusi.

[127] Eusebio, loc. cit., Libro 3, Capitolo 2.

[128] Il credo nel martirio di Pietro si appoggia su Giovanni 21:18, dove Gesù dice a Pietro: “quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. (Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.)”. Il tendere le mani qui è interpretato dai difensori della tradizione come un'allusione alla crocifissione del discepolo. Ma, come ha notato abbastanza correttamente Hausrath, “la profezia di Gesù menziona il tendere le mani non come l'ultimo atto di martirio, come sarebbe il caso con una morte per crocifissione, ma piuttosto come il primo. Non è inteso che Pietro si stenderà su una croce, piuttosto che egli tenderà le mani in cerca di aiuto, mentre i carnefici lo trascinano, lo incatenano e lo mettono dove egli non vuole andare — ossia, in prigione oppure in un luogo di esecuzione”. È evidente che solo la fiorente fantasia di scrittori leali alla Chiesa può vedere la crocifissione di Pietro in questo passo. “Quando fu scritta l'appendice al Quarto Vangelo, Pietro era considerato un martire [testimone]. Al di là di questo, nulla più si può derivare dal passo” — neppure che patì un “martirio”, dal momento che Giovanni 21:18 sta parlando solo circa una prigionia di Pietro. Inoltre, poichè il passo risale al secondo secolo, ad ogni caso è di poco valore probatorio (si veda Hausrath, loc. cit., pag. 29).

[129] Si veda a questo proposito Lipsius, Die Quellen der römischen Petrussage (1872); anche Zeller, Vorträge und Abhandlungen (1877) 2, 213s.; W. Soltau, Petrus und die päpstliche Primat. Sammig. gemeinverst. wissenshaftliche Vorträge (19009; G. J. P. I. Bolland, Petrus en Rome (Leiden , 1899); come pure la più recente esposizione del soggetto da parte di Hausrath, loc. cit., pag. 26-43.

[130] Da esempio caratteristico di come tali cose tendono ad essere maneggiate nella cerchia di studiosi cattolici romani, i lettori potrebbero consultare l'importante articolo, “Pietro il Principe degli Apostoli”, in Wetze und Weltes grosses Kirchenlexikon.

Nessun commento: