martedì 25 settembre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ PRECRISTIANO (VI): L'Offerta di Sé del Messia. La Cena.

IL GESÙ PRECRISTIANO

VI

L'OFFERTA DI SÉ DEL MESSIA. LA CENA

Al pari del Battesimo, il sacramento della “Cena”, la condivisione dell'ostia sacra e del vino (al cui posto si ritrova l'acqua tra certe sette), ha il suo precedente nella più antica adorazione del fuoco. Quando il fuoco sacro era stato acceso sull'altare, i fedeli erano soliti, come mostra il Rigveda, a sedersi così da condividere la focaccia sacra preparata da pane e burro, il simbolo di ogni cibo solido, e il calice di Soma, il simbolo di ogni nutrimento liquido. Si pensava che Agni dimorasse invisibile entro quelle sostanze: nel pane come se nel calore concentrato del sole, nel Soma, dal momento che attingere della sua natura ardente e dal suo potere rigenerante dischiudesse la natura del Dio del Fuoco e della Vita. La condivisione di ciò apriva alla comunione fedele con Agni. In tal modo erano accomunati col Dio. Si sentivano trasformati in lui, elevati al di sopra della realtà di ogni giorno, e come membri di un corpo comune, come se di un unico cuore e di un'unica anima, infiammati dallo stesso sentimento di interdipendenza e di fratellanza. Poi un qualche inno del genere come segue si sarebbe levato verso il cielo dalle loro labbra traboccante di gratitudine:
 “Oh grande Agni, sincero
Tu davvero unisci tutto.
Acceso sul luogo di culto
Portaci tutto ciò che è buono.
Unitamente venite,  unitamente parlate,
E lasciate che i vostri cuori siano uno solo,
Proprio come gli antichi Dèi
per parte loro sono di una sola mente.
Come sono uniti loro disegni, come è unita la loro assemblea,
Come è unita la loro disposizione, uniti i loro pensieri.
Così, prego anche a te con la stessa preghiera,
E sacrifico a te con un simile sacrificio.
Il piano simile avete davvero,
E i vostri cuori sono uniti.
Lasciate che i vostri pensieri siano all'unisono,
Che possiate essere felicemente uniti assieme.”
[1
Mentre i fedeli colla condivisione della focaccia sacra e del calice caldo di Soma si ricongiungevano col Dio e si ricolmavano del suo “spirito”, i doni sacrificali che gli erano stati offerti bruciavano sugli altari. Quelli consistevano a loro volta di Soma e di Focaccia Sacra, e facevano sì che il banchetto sacro fosse di tale genere da venir condiviso assieme da Agni e dagli uomini. il Dio era sempre presente nel banchetto dedicatogli. Egli consumava i doni, li trasformava in fiamma, e nel fumo fragrante li recava con sè al cielo. Qui erano condivisi dagli altri esseri divini e infine dallo stesso Padre del Cielo. Così Agni diveniva non solo un agente al sacrificio, un mistico sacerdote sacrificale, ma, dal momento che i doni sacrificali lo contenevano semplicemente in una forma materiale, un sacrificatore, che offriva il suo stesso corpo in sacrificio. [2] Mentre l'uomo sacrificava a Dio, Dio allo stesso tempo sacrificava sé stesso. In effetti, questo sacrificio era uno in cui Dio era non solo il soggetto ma anche l'oggetto, sia sacrificatore che sacrificato. “Era un comune modo di pensare tra gli indiani”, dice Max Müller, “guardare al fuoco sull'altare come allo stesso tempo il soggetto e l'oggetto del sacrificio. Il fuoco bruciava l'offerta ed era di conseguenza come se ne fosse il sacerdote. Il fuoco recava l'offerta agli Dèi ed era di conseguenza un mediatore tra Dio e gli uomini. Ma il fuoco rappresentava anche qualcosa di divino. Era un Dio, e se si prestava omaggio a questo Dio, il fuoco era al contempo soggetto e oggetto del sacrificio. A partire da questo emerse la prima idea, che Agni sacrificava a sé stesso, cioè, che egli recava la sua propria offerta a sè stesso, poi, che egli recava sé stesso come una vittima — a partire da cui crebbero le leggende successive”. [3] Il sacrificio del Dio è un'azione sacrificale del Dio. Il genitivo in questa frase si deve comprendere in un caso in un senso oggettivo, nell'altro caso in un senso soggettivo. In altre parole, il sacrificio che l'uomo offre al Dio è un sacrificio che il Dio reca, e questo sacrificio del Dio è allo stesso tempo uno in cui il Dio offre sé stesso come vittima.
Nel Rigveda Agni, come Dio dei Sacerdoti e dei Sacrifici, reca anche il nome di Viçvakaran, ossia, “Consumatore di Tutto”. L'Inno 10:81 lo descrive anche come il creatore del mondo, che portò il mondo in esistenza, e facendo così dava il suo stesso corpo in sacrificio. Da qui, allora, il mondo, secondo 10:82, non rappresenta niente di esistente al di fuori di lui, ma la stessa manifestazione di Viçvakarman, in cui alla creazione egli apparve com'era. D'altra parte, Purusha, il primo uomo, è rappresentato come colui dal cui corpo si formò il mondo. [4] Ma Purusha è, come abbiamo visto, il prototipo del “figlio dell'uomo” mandeo e apocalittico. Qui risiede la conferma del fatto che il “figlio dell'uomo” è nient'altri che Agni, il più umano degli Dèi vedici. Nella religione del mazdeismo i primi mortali erano chiamati Meshia e Meshiane, gli antenati di un'umanità decaduta, che attendevano la loro redenzione per opera di un altro Meshia. Questo significato della parola Messia non era strano neanche agli ebrei, quando essi collocarono quest'ultimo come il “nuovo Adamo” nel mezzo delle età.  Adamo, comunque, significa anche uomo. [5] Coerentemente il Messia, come il nuovo Adamo, era anche per loro solo una rinascita del primo uomo in una forma più elevata e migliore. Quest'idea, che l'umanità avesse bisogno di essere rinnovata da un altro tipico rappresentante di sé stessa, risale in ultima istanza all'India, dove, dopo lo smembramento di Purusha, si levò un uomo nella persona di Manu o Manus. Egli doveva essere il re giusto, il primo legislatore e fondatore della civiltà, che discese dopo la sua morte per regnare e giudicare negli inferi (si veda il Minosse cretese). Ma Manu, il cui nome significava di nuovo niente più che uomo o essere umano (Manusha), passava per figlio di Agni. In effetti, egli fu perfino identificato completamente con lui, dal momento che la vita, lo spirito, e il fuoco sono idee interscambiabili per la mente dell'uomo primitivo, sebbene è spirito e intelligenza che si esprimono sotto il nome di Manu (Man = misurare, esaminare). [6] Noi otteniamo così anche una nuova ragione del fatto che il Redentore divino è un essere umano. Comprendiamo anche non solo perchè il “figlio primogenito di Dio” era, secondo le idee di tutto il sincretismo mediorientale, il principio della creazione del mondo, ma anche perchè la redenzione che egli recava all'uomo si sarebbe potuta guardare per questa ragione come un divino sacrificio di sè. [7]
il sacrificio del Dio a beneficio dell'umanità è un sacrificio del Dio stesso — è solo mediante questi mezzi che la comunione tra Dio e uomo era completata. Il Dio offre un sacrificio per l'uomo, mentre l'uomo offre un sacrificio per Dio. In effetti, più di questo, egli offre sé stesso per l'umanità, egli offre il suo proprio corpo così che l'uomo possa raccogliere il frutto del suo sacrificio. Il “figlio” divino offre sé stesso come una vittima. Inviato dal “padre” sulla terra nella forma di luce e calore, egli penetra negli uomini come lo “spirito vivificante e datore di vita” sotto l'apparenza del pane e del vino. Egli si consuma nel fuoco e unisce l'uomo col padre di lassù, dato che per la rinuncia della sua propria personalità egli rimuove la separazione e la differenza tra loro. Così Agni estingue l'ostilità tra Dio e l'uomo, così egli consuma i loro peccati nello splendore della sua natura ardente, spiritualizzandoli e illuminandoli interiormente. Attraverso il potere rigenerante dell'“acqua di fuoco” egli solleva gli uomini al di sopra della realtà di ogni giorno fino alla fonte della loro esistenza e col suo proprio sacrificio ricava per loro una vita di beatitudine in cielo. Anche nel sacrificio Dio e uomo si identificano. Quello è il pensiero comune che aveva già trovato espressione nel Rigveda, che formò successivamente il “mistero” speciale dei culti segreti e delle unioni religiose del medioriente, che risiede alla radice del sacramento della “Cena”, che garantiva all'uomo la certezza di una vita benedetta nell'aldilà, e lo riconciliava al pensiero della morte fisica. [8] Agni è coerentemente nient'altro che il calore fisico negli individui, e come tale il soggetto dei loro moti e pensieri, il principio della vita, la loro anima. Quando il corpo si raffredda nelal morte il calore della vita lo lascia, gli occhi del morto salgono al sole, il suo respiro nel vento, la sua anima, comunque, ascende verso il cielo dove dimorano i “padri”, nel regno della luce e della vita perenni. [9]  In effetti, così grande è il potere di Agni, il medico divino e salvatore dell'anima, [10] che egli, come il Dio di ogni potere creativo, ponendoli semplicemente nelle sue mani, richiama alla vita perfino i morti. [11]
Anche nell'Antico Testamento incontriamo l'idea di un pasto sacramentale. Questo è sottolineato in Genesi 15:18 seq., quando Melchisedec, il principe della pace (“Re di Salem”), il sacerdote del “Dio Altissimo”, prepara per Abramo un pasto di pane e di vino, e durante esso impartisce su di lui la benedizione del Signore Dio. Per Melchisedec, il sovrano di Salem, la città della pace, “il Re di Giustizia”, come è chiamato nell'epistola agli Ebrei, è descritto chiaramente anche in questo testo come un Dio antico: “È senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio. Questo Melchisedec rimane sacerdote in eterno”. [12] Così anche il Profeta Geremia parla di feste sacre, che consistevano di pane e di vino, di sacrifici notturni di olocausti e bevande, che erano offerti alla Regina del Cielo (ossia, la Luna), e ad altre Divinità. [13] Anche Isaia è indignato contro coloro che preparano un banchetto per Dio e realizzano offerte in bevande a Meni. [14] Ora Meni non è nient'altro che Men, il Dio della Luna dell'Asia Minore, e come tale è identico a Selene-Mēne, la Dèa della Luna negli inni orfici. Al pari di lei è un essere dal sesso duale, nello stesso tempo Regina e Sovrano del Cielo. Di conseguenza una bevanda in sacrificio sembra essere stato offerto da tutto il popolo del Medioriente in onore della Luna. Come Dio della Luna (Deus Lunus) e come associato a Meni, nel cui culto pure recita il ruolo principale un culto sacramentale, Agni appare nei Veda sotto il nome di Manu, Manus, o Soma. Pure lui è un essere dal sesso duale. Di questo ci si rammenta di nuovo che Platone, la speculazione rabbinica della Kabbala, come pure gli gnostici attribuiscono al primo uomo (Adam Kadmon) due volti e la forma di un uomo e di una donna, finchè Dio separò i due sessi l'uno dall'altro. [15] Coerentemente a questo dovremmo probabilmente guardare anche all'adorazione del fuoco in Asia Minore come all'origine del pasto sacramentale.
Ovviamente abbiamo a che fare con un pasto di questo genere nell'esposizione del cosiddetto pane dell'offerta. Ogni sabato dodici focacce erano poste dai sacerdoti “sulla pura tavola dinanzi al Signore”, “I pani apparterranno ad Aaronne e ai suoi figli ed essi li mangeranno in luogo santo; poiché saranno per loro cosa santissima tra i sacrifici consumati dal fuoco per il Signore. È una legge perenne”. [16]
Sembra, allora, che questo pasto, presieduto dal Sommo Sacerdote in qualità di rappresentante di Aronne, era condiviso da dodici altri sacerdoti, e Robertson osserva giustamente qui il prototipo ebraico della Cena cristiana e del numero di apostoli — i Dodici — ivi presenti. Ma il Sommo Sacerdote Aronne è una personificazione dell'Arca dell'Alleanza ebraica, cioè, dell'espressione visibile del Patto tra Dio e l'uomo, uno dei prototipi principali del Messia. E se il sacrificio di sé del Messia, come abbiamo visto sopra (pag. 78), ha il suo precedente nel sacrificio di sé di Aronne, così anche la grande solennità del pasto sacrificale di Aronne non sarebbe stato mancante nella storia del Redentore cristiano.
Come è ben risaputo, pure Giosuè, il Gesù dell'Antico Testamento, che abbiamo imparato a riconoscere come un antico Dio efraimita del Sole e dell'Abbondanza, era accompagnato nel suo passaggio del Giordano da dodici assistenti, uno per ciascuna tribù. Ed è detto che dopo la circoncisione del popolo egil abbia celebrato la Festa della Pasqua sull'altra riva. [17] Da qui, prendendo in considerazione ciò che è stato detto riguardante Giosuè, siamo probabilmente giustificati nel trarre la conclusione che il suo nome fosse permanentemente associato alla condivisione dell'agnello pasquale. [18] In ciascun caso la cosiddetta “Cena” del cristianesimo non solo prese il suo posto più tardi come il punto centrale dell'attività religiosa, ma fin dal principio tenne la sua posizione centrale nei culti di quelle sette da cui si sviluppò il cristianesimo. Era il punto di cristallizzazione, il punto più alto, degli altri atti ritualistici, in qualche maniera la cellula germinale da cui  in associazione all'idea della morte e della resurrezione del Dio Redentore è cresciuta la prospettiva cristiana sul mondo. Proprio come nel culto vedico di Agni il sacrificio offerto dagli uomini al loro Dio era un sacrificio di sé di questo Dio tanto in un senso soggettivo quanto in un senso oggettivo; proprio come la partecipazione in comune dei doni sacrificali serviva allo scopo di rendere il sacrificio in un senso interiore il loro stesso proprio sacrificio, e in tal modo rendendoli partecipi immediati nella sua efficacia, così, anche, il cristiano partecipa nel pane del corpo del suo Dio e nel vino beve il suo sangue allo scopo di diventare come se fosse lui stesso Dio. Gli evangelisti fanno coincidere la Cena con la Festa della Pasqua, perchè originariamente un uomo era immolato in quest'occasione; ed egli, in quanto il primogenito e il più prezioso dei doni sacrificali, prendeva il posto del Dio che offriva sé stesso in sacrificio. [19]
La celebrazione delle feste sacramentali era diffusissima per tutta l'antichità. Erano tra gli atti più importanti del culto nelle religioni misteriche, sopratutto in associazione con l'idea del Salvatore (Soter) e del Dio di Sacrifici, che dava la sua vita per il mondo. Così è detto che Mitra, il persiano Agni, aveva celebrato in un ultimo pasto con Helios e gli altri compagni delle sue fatiche la fine della loro lotta comune. Anche quelli iniziati nei Misteri di Mitra celebravano quest'occorrenza tramite feste comuni in cui tendevano ad unirsi in una maniera mistica con il Dio. Saos (Saon o Samon), il figlio di Zeus o Ermes, il Dio della Guarigione, e di una ninfa, ci rammenta il nome di Mitra, ringiovanito e risorto di nuovo, di Saoshyant o Sosiosh. È detto che abbia fondato i Misteri di Samotracia, e sembra essere identico al mitico Sabus, del quale si suppose che aveva dato il suo nome ai Sabini, che aveva fondato la civiltà italica, e che aveva inventato la vite. [20] Il suo nome lo caratterizza come il “sacrificatore” (in sanscrito Savana, sacrificio); e sembra essere una forma occidentale di Agni, il Dio dei Sacrifici e preparatore del Soma, dal  momento che anche Dioniso recò il soprannome di Saos o Saotes e di cui si immaginò che, come distributore del vino, avesse versato il suo sangue per la salvezza del mondo, che fosse morto e fosse risorto di nuovo, e così possiede un prototipo nell'Agni vedico. Con Saos sono associati Iasios (Giasone), il figlio e diletto di Demetra o Afrodite (Maia), e di Zeus o dell'“artigiano” divino Efesto (Tvashtar). Proprio come Saos stabilì il culto dei Cabiri, è detto che Iasios avesse stabilito il culto di Demetra a Samotracia. In questa relazione egli è identificato ad Ermes-Cadmo, il sacerdote sacrificale divino (Kadmilos, ossia, Servo di Dio) della religione di Samotracia (si veda Adam-Kadmon della Kabbala e degli gnostici, che è associato sia ad Agni-Manus che a Gesù). Secondo Usener il suo nome è associato al greco “iasthein”, curare, e di conseguenza caratterizza il suo portatore come “salvatore”. Ma questo è anche il significato reale del nome Giasone, il cui portatore, una forma del patrono dei medici, Asclepio (Helios), peregrina come un medico, esorcista di demoni e fondatore di riti sacri, ed era venerato come Dio della Guarigione in tutto il Medioriente e in Grecia. [21] Il mito lo associa anche alla costituzione del culto dei dodici Dèi. [22]
Ora, Iasios (Giasone) è soltanto una forma greca del nome Giosuè (Gesù). Proprio come Giosuè attraversò il Giordano con dodici assistenti e celebrò la Pasqua (agnello) sull'altra riva, proprio come Gesù nella sua capacità di medico divino e operatore di miracoli peregrina per la Galilea (il distretto di Galil!) con dodici apostoli, e si reca a Gerusalemme per la Pasqua così da consumarvi l'agnello pasquale con i Dodici, così Giasone si accinse dodici compagni ad estrarre il vello d'oro dell'agnello dalla Colchide. [23] E proprio come Giasone, dopo aver superato innumerevoli pericoli, conduce con successo i suoi compagni al loro obiettivo e di ritorno di nuovo alle case a cui agognavano, così Giosuè conduce il popolo di Israele nella terra promessa “dove scorre latte e miele”, e così Gesù mostra ai suoi seguaci la via per la loro vera casa, il regno dei cieli, la terra dei loro “padri”, da cui proveniva originariamente l'anima e dove ritorna dopo il completamento del suo viaggio attraverso l'esistenza. A malapena si può dubitare che in tutti quei casi abbiamo a che fare con  lo stesso mito — il mito del Sole Salvifico e Benefattore dei popoli, come era diffuso tra tutti i popoli dell'antichità, ma specialmente nel Medioriente. A malapena possiamo dubitare del fatto che le storie in questione originariamente si riferivano al viaggio annuale del sole attraverso i dodici segni dello Zodiaco. Perfino i nomi (Iasios, Giasone, Giosuè, Gesù; si veda anche Vishnu Jesudu, si veda sopra) concordano, e la loro radice comune è contenuta anche nel nome Jao (Jahvé), da cui è derivato Giosuè. Jao o Jehu, comunque, era un nome mistico di Dioniso tra i greci, ed egli, al pari di Vishnu Jesudu (Krishna), Giosuè, e Gesù, girovagava nella sua funzione di medico itinerante e redentore del mondo. [24] Di tutti quei Guaritori, Medici e Liberatori itineranti, è vero che venivano onorati nei Misteri mediante pasti sacramentali e che offrivano ai fedeli sia il calice della guarigione corporea e spirituale che il “pane della vita”.     

NOTE

[1] Rigveda 10:191; si veda 1:72, 5.


[2] Id. 3:28, 4:11.


[3] Max Müller, “Einleitung in die vergl. Religionswissenschaft”, nota a pag. 219.


[4] Rigveda 10:90.


[5] Il Rigveda descrive Purusha come un essere gigantesco (si veda l'eddico Ymir) che copre la terra da ogni lato e tende dieci dita al di là. Anche il Talmud (Chagiga, 12:1) attribuisce al primo uomo Adamo una misura gigantesca, raggiungendo come faceva il cielo con la sua testa e coi suoi piedi l'estremità del mondo. In effetti, secondo Epifanio (“Haeres” 19:4), anche gli esseni resero la misura di Cristo, il “secondo Adamo”, di una distanza incommensurabile.


[6] In ebraico Messia significa “l'unto”. Ma anche Agni come Dio dei Sacrifici reca il nome dell'unto, akta (vedi sopra, pag. 99). In effetti, sembra come se il greco Cristo, in quanto una traduzione di Messia, figuri in relazione ad Agni. Poiché il Dio a cui alla nascita veniva versato latte oppure il sacro calice di Soma e burro sacrificale, recava il soprannome di Hari tra i membri del culto. La parola significava in origine la lucentezza prodotta dall'unzione con grasso e olio. Appare nel greco Charis, un epiteto di Afrodite, ed è contenuta nel verbo chrio, ungere, di cui Christos è la forma al participio (si veda Cox, “Mythology of the Aryan Nations”, 1903, 27, 254).


[7] Il Bhagavadgîta mostra che l'idea di un sacrificio di sé era associato anche a Krishna, che abbiamo già imparato a riconoscere come una forma di Agni, e che il suo diventare uomo fu considerato come tale un sacrificio. Recita (2:16): “Io sono l'atto di sacrificio, il sacrificio di Dio e dell'uomo. Io sono la linfa della pianta, le parole, il burro e il fuoco sacrificali, e allo stesso tempo la vittima.” E in 8:4 Krishna dice di sé: “La mia presenza in natura è il mio essere transitorio, la mia presenza negli Dèi è Pursuha (ossia, la mia esistenza come Purusha), la mia presenza nei sacrifici è me stesso incorporato in questo corpo”. Ma anche Mitra offre sé stesso all'umanità. Infatti il toro la cui morte per opera del Dio occupa la posizione centrale in tutte le rappresentazioni di Mitra era originariamente nient'altro che il Dio stesso — il sole nella costellazione del Toro, all'equinozio di primavera — dato che il sacrificio del toro coerentemente è anche un simbolo del dio che dà la sua propria vita, così da recare con la sua morte una nuova più ricca e migliore vita. Anche Mitra esegue questo sacrificio di sé, sebbene il suo cuore combatte contro di esso, al comando del Dio del Cielo, che è recato da lui da un corvo, il messaggero del Dio degli Dèi. (si veda Cumont, op. cit., 98 seq.) E proprio come secondo idee vediche, Purusha fu fatto a pezzi dagli Dèi e dai Demoni e il mondo si creò dalle sue parti, così anche secondo concezioni persiane si suppone che il Toro del Mondo Abudad oppure l'Uomo del Toro Gayomart al principio della creazione avesse versato il suo sangue per il mondo, per dare vita di nuovo come Mitra (Sepp., op. cit, 1:330, 2:6 seq.).


[8] Cumont, “Myst. de Mithra”, 101.


[9] Rigveda 10:16.


[10] Id. 10:16, 6.


[11] Id. 60; si veda anche Burnouf, op. cit., 176 seq.


[12] Op. cit., 7:3. Egli è Jahvè, il Re della stessa Gerusalemme (Flavio Giuseppe, Ant., 10:2), e corrisponde al fenicio Moloc (Melech) Sidyk, che offrì il suo unico figlio, Ieud, al popolo come espiazione. Si veda sopra, pag. 77.


[13] Op. cit., 19:13, 32:29, 44:17, 18:25.


[14] Op. cit., 65:11.


[15] Come è ben risaputo, il primo uomo germanico, Manno, secondo Tacito, era un figlio dell'ermafrodito Tuisto.


[16] Levitico 24:5-9.


[17] Giosuè 4:1 seq.; capitolo 5.


[18] Così anche Helios, il Dio greco del Sole, il medico e salvatore celeste, preparava annualmente la “Tavola del Sole” nella natura, inducendo il frutto a maturare, le erbe guaritrici a crescere, e invitando i mortali alla festa datrice di vita. “Questa Tavola del Sole era sempre diffusa nella terra degli Etiopi felici e longevi; perfino i dodici Dèi viaggiavano laggiù ogni anno con Zeus per dodici anni, ossia, nell'ultimo Ottavo del vecchio e nuovo anno, come se fossero alla festa di Agape” (Sepp., op. cit., 1:275.). Per il resto il numero dodici possedeva un significato tipico per tutta l'antichità in associazione a tali feste cerimoniali. Per esempio, tra gli ateniesi, le cui comuni feste religiose si celebravano annualmente ad occasione dei sacrifici di primavera; anche tra gli ebrei almeno dodici persone dovevano riunirsi attorno alla tavola dell'Agnello Pasquale (Sepp., op. cit., 2:313 seq.).
 

[19] Ghillary, op. cit., 510 seq.

[20] Preller, “Griech. Mythol.”, pag. 398, 850, e il suo “Röm. Mythol.”, pag. 275.


[21] Strabone, 11:2; Giustino, 42:3.


[22] Preller, “Griech. Mytholog.”, pag. 110.


[23] È degno di nota intanto osservare che il Sommo Sacerdote Giosuè ritornò a Gerusalemme alla testa di dodici anziani (Esdra 2:2; Neemia 7:7. Si veda Stade, “Gesch. d. V. Israel”, 2:102).


[24] Si veda Movers, op. cit., pag. 539 seq.; Sepp., “Heidentum”, 271, 421.


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