venerdì 21 settembre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ PRECRISTIANO (IV): Le Sofferenze del Messia


IL GESÙ PRECRISTIANO

IV

LE SOFFERENZE DEL MESSIA

Nelle religioni più diverse la fede in un Salvatore e Redentore divino si trova associata alla concezione di un Dio che soffre e muore, e quest'idea di un Messia che soffre e muore non fu sconosciuta affatto agli ebrei. Potrebbe essere di nessuna importanza il fatto che nell'Apocalisse di Esdra [1] si parla della morte di Cristo, dal momento che ad opinione di parecchi quest'opera apparve solamente nel primo secolo dopo Cristo; ma anche Deutero-Isaia, durante l'Esilio, descrive l'eletto e messaggero di Dio come il “servo sofferente di Dio”, come colui che era già apparso, sebbene era rimasto sconosciuto e disprezzato, era morto vergognosamente ed era stato sepolto, ma anche come colui che sarebbe risorto di nuovo al fine di realizzare lo splendore della promessa divina. [2] Questo ci richiama alla mente la sofferenza, la morte e la resurrezione degil dèi di Babilonia e di tutto il medioriente; per esempio, Tammuz, Mitra, Attis, Melkart, e Adone, Dioniso, il Zeus cretese, e l'egiziano Osiride. Il profeta Zaccaria, per di più, parla del segreto assassinio di un Dio sul quale gli abitanti di Gerusalemme avrebbero levato il loro lamento “simile al lamento di Adad-Rimmòn (Rammân) nella pianura di Meghìddo”, cioè, come alla morte di Adone, una delle figure principali tra gli dèi in cui credevano i siriani. [3] Anche Ezechiele decrive le donne di Gerusalemme, sedute di fronte alla porta settentrionale della città e in lutto per Tammuz. [4] Anche gli antichi israeliti erano già a conoscenza degli dèi che soffrono e risorgono dei popoli circostanti. Ora, in effetti, è consuetudine che il “servo di Dio” di Isaia sia inteso per un riferimento alle sofferenze presenti e alla gloria futura del popolo ebraico, e non c'è alcun dubbio che il profeta comprese l'immagine in quel senso. Allo stesso tempo Gunkel mantiene giustamene che nel passo riferito di Isaia, la figura di un Dio che muore e risorge di nuovo figura nello sfondo, e il riferimento a Israele significa niente più che una nuova spiegazione simbolica del fato reale di un Dio. [5
Ogni anno le forze della natura si estinguevano per risvegliarsi ad una nuova vita solo dopo un lungo periodo. L'animo di tutti i popoli soleva essere scosso profondamente da quest'accadimento — la morte o della natura nel suo complesso sotto l'influenza del freddo invernale, oppure della crescita della vegetazione sotto i raggi brucianti del sole estivo. Gli uomini vi guardarono come al fato di un giusto giovane Dio la cui morte essi lamentavano profondamente e la cui rinascita o resurrezione salutavano con gioia sfrenata. A causa di questo dall'antichità più remota vi era associata alla celebrazione di questo Dio un mistero imitativo sotto la forma di una rappresentazione ritualistica della sua morte e della sua resurrezione. Nelle fasi primitive del culto, quando i confini tra spirito e natura rimanevano quasi totalmente indistinti, e l'uomo si sentiva ancora interiormente in una relazione fraterna con la natura circostante, si credeva di poter perfino esercitare un'influenza sulla natura oppure di poter aiutarla nella sua oscillazione tra la vita e la morte, e volgere il corso degli eventi al proprio interesse personale. Per questo scopo l'uomo era obbligato a imitarla. “In nessun luogo”, dice Frazer, a cui siamo indebitati per un'indagine di ricerca in tutte le idee e le pratiche ritualistiche a questo proposito, “questi sforzi erano stati resi con maggiore persistenza e sistematicità rispetto all'Asia occidentale. Nella misura in cui i nomi variavano da un posto all'altro, nella sostanza erano tutti uguali. Un uomo, che la frenata immaginazione dei suoi adoratori rivestiva delle vesti e degli attributi di un dio, dava la sua vita per la vita del mondo; dopo aver infuso dal suo corpo una nuova corrente di energia vitale nelle stagnanti vene della natura, fu separato dai vivi prima che la sua forza in declino provocasse un decadimento universale delle forze della natura, e il suo posto veniva preso da un altro che recitava, al pari di tutti i suoi predecessori, il dramma sempre ricorrente della divina resurrezione e morte”. [6] Anche in tempi storici questo veniva praticato di frequente con persone vive. Quelli erano stati in precedenza i re della regione oppure i sacerdoti del Dio in questione, ma il loro posto era preso ora da criminali. In altri casi il sacrificio dell'uomo deificato avveniva soltanto simbolicamente, come con l'egiziano Osiride, il persiano Mitra, il frigio Attis, il siriano Adone, e il Sandan (Sandes) di Tarso (di Cilicia). In quei casi un ritratto del Dio, un'effigie, oppure un tronco d'albero sacro prendeva il posto del “Dio uomo”. Segni sufficienti, comunque, mostrano ancora che in questi casi si trattava solo di una questione di un sostituto sotto forme più miti di rituale al posto della precedente vittima umana. Così, per esempio, il nome del Sommo Sacerdote di Attis, che era anche Attis, cioè, “padre”, la ferita sacrificale auto-inflitta ad occasione della grande festa del Dio (dal 22 al 27 marzo), e l'aspersione del suo sangue sul ritratto del Dio che allora avveniva, ci fa riconoscere ancor più chiaramente un attenuamento successivo di una pratica più remota di auto-immolazione. [7] All'idea di una natura morente che rinasce mediante il sacrificio di un uomo si legò quella del “capro espiatorio”. La vittima non solo rappresentava per il popolo il loro Dio, ma allo stesso tempo figurava per il popolo di fronte a Dio e doveva espiare con la sua morte i misfatti commessi da loro durante l'anno. [8] Per quanto riguarda la maniera della morte, comunque, questa variava in luoghi diversi tra una morte per la sua stessa spada oppure per quella del sacerdote, sulla pira oppure sul patibolo (per impiccagione).
In questa maniera comprendiamo il cinquantatreesimo capitolo di Isaia: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il tormento della sua anima [sofferenze ?] vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Qui ovviamente abbiamo a che fare con un uomo che muore da sacrificio espiatorio per i peccati del suo popolo, e beneficiando attraverso la sua morte le vite degli altri è per quel motivo resuscitato per essere un Dio. In effetti, lo stesso ritratto del giusto sofferente,  interamente innocente com'è, varia tra quello di un essere umano e quello di un essere divino.
E ora entriamo nella condizione dell'anima di un simile essere infelice, che come “Dio uomo” soffre la morte sul patibolo, e comprendiamo le parole del ventidueesimo Salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito! Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione. Eppure tu sei il Santo, siedi circondato dalle lodi d'Israele. I nostri padri confidarono in te; confidarono e tu li liberasti. Gridarono a te, e furon salvati; confidarono in te, e non furono delusi. Ma io sono un verme e non un uomo, l'infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo: «Egli si affida al Signore; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!» ... Grossi tori mi hanno circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato; aprono la loro gola contro di me, come un leone rapace e ruggente. Io sono come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa sono slogate; il mio cuore è come la cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere. ... Mi hanno forato le mani e i piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e mi osservano: spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica. Ma tu, Signore, non allontanarti, tu che sei la mia forza, affrèttati a soccorrermi. ... Salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali. …”.
Quando il poeta dei salmi desiderò descrivere un'impotenza nella sua più atroce radicalità, di fronte ai suoi occhi sopravvenne il ritratto di un uomo che, pendendo dal patibolo, invoca l'aiuto di Dio, mentre attorno a lui la gente gongola per le sue sofferenze, che devono salvarla; e i presenti che avevano preso parte al sacrificio si dividono tra loro le vesti costose con cui il Dio-re era stato adornato.
L'impiego di un simile ritratto presuppone che l'evento descritto non fosse ignoto al poeta e al suo pubblico, se giunse di fronte ai loro occhi da una familiarità con le idee religiose dei loro vicini oppure perchè erano abituati a vederlo nelle loro personali usanze native. Come materia di fatto nell'antico Israele i sacrifici umani non erano affatto insoliti. Questo appare da innumerevoli passi dell'Antico Testamento, ed è stato illustrato esaurientemente da Ghillany nel suo libro “Die Menschenopfer der alten Hebräer” (1842), e da Daumer nel suo “Der Feuer- und Molochdienst der alten Hebräer”. Così leggiamo in 2 Samuele 21:6-9 dei sette figli della Casa di Saul, che furono consegnati da Davide ai Gabaoniti, i quali li impiccarono sul monte di fronte al Signore. Così Dio si placò verso la terra. [9] In Numeri 25:4 Jahvè comandò a Mosè di impiccare i capi del popolo “al sole, perché l'ira ardente del Signore si allontani da Israele”. E secondo il Libro di Giosuè quest'ultimo votò al Signore gli abitanti della città di Ain, e dopo la cattura della città impiccò il loro re ad un albero, [10] mentre nel decimo capitolo (15-26) egli impicca perfino cinque re nello stesso tempo. In effetti, sembra che il sacrificio umano formasse una parte regolare della religione ebraica nel periodo pre-esilico; la qual cosa in effetti ci si doveva aspettare, considerando la relazione tra Jahvè e il fenicio Baal. Lo stesso Jahvè era in origine, per di più, soltanto un'altra forma dell'antico Fuoco e Dio Sole semitico; il Dio re (Moloc o Melec), che era onorato sotto l'immagine di un Toro, era rappresentato a questo tempo come una “fornace fumante” [11] e veniva soddisfatto e propiziato mediante sacrifici umani. [12] Anche durante la cattività babilonese, nonostante le voci legate contro di essi da alcuni profeti negli ultimi anni dello stato ebraico, venivano offerti sacrifici di questo genere dagli ebrei; finchè vennero soppressi sotto il dominio dei persiani, e nel nuovo stato ebraico furono espressamente proibiti. Ma perfino allora continuavano in segreto e si potevano facilmente ripetere ad ogni momento, fintantochè l'eccitazione dell'animo popolare in qualche tempo di grande bisogno sembrava esigere una vittima straordinaria. [13]
Ora la messa a morte di un uomo nel ruolo di un dominatore divino era legata molto spesso nei tempi antichi alla celebrazione dell'anno nuovo. Questo ci viene rammentato anche al giorno presente dalla pratica germanica e slava della “esposizione” della morte al principio di primavera, quando un uomo oppure un ritratto di paglia che simboleggiava l'anno vecchio o l'inverno, è condotto in giro tra scherzi vivaci e viene infine gettato nell'acqua oppure bruciato in maniera cerimoniale, mentre il “Signore di Maggio”, incoronato di fiori, fa il suo ingresso. Di nuovo, i Saturnalia romani, celebrati a dicembre, durante i quali un finto re brandiva il suo scettro su un mondo di gioia e libertà e follia senza freni, e tutte le relazioni erano sottosopra, con i padroni che recitavano la parte degli schiavi e viceversa, nei tempi più remoti solevano tenersi a marzo come una festività primaverile. E anche in questo caso, il re della festività doveva pagare il suo breve regno con la sua vita. Di fatto, gli Atti di San Dasio, pubblicati da Cumont, mostrano che la pratica violenta si osservava ancora presso i soldati romani sulle frontiere dell'Impero nell'anno 303 E.C. [14]
In Babilonia la Festa delle Sacee corrispondeva ai Saturnalia romani. Era apparentemente un memoriale dell'intrusione degli Sciti in medioriente, e secondo Frazer era identica alla stessa festa antica dell'anno nuovo dei babilonesi, il Zakmuk. Anche questo era legato ad un capovolgimento di ogni relazione abituale. Un finto re, un criminale condannato a morte, era anche qui la figura centrale — un essere sfortunato, a cui per un po' di giorni si accordava assoluta libertà e ogni genere di piaceri, perfino disporre dell'harem regale, finchè all'ultimo giorno egli veniva dismesso della sua copiata dignità, spogliato nudo, torturato, e poi bruciato. [15] Gli ebrei ottennero una conoscenza di questa festa durante la cattività babilonese, la copiarono dai loro oppressori, e la celebrarono poco prima della loro Pasqua sotto il nome della Festa di Purim, apparentemente, come si preoccupa di sottolineare il Libro di Ester, come un memoriale di un grande pericolo da cui vennero salvati in Persia durante il regno di Assuero (Serse) per opera di Ester e di suo zio Mardocheo. Jensen, comunque, ha sottolineato nella Zeitschrift für die Eunde des Morgenlandes di Vienna [16] che la base del racconto di Ester è un'opposizione tra gli dèi principali di Babilonia e quelli della ostile Elam. Secondo la sua opinione sotto i nomi di Ester e Mardocheo si nascondono i nomi di Istar, la dèa babilonese della fertilità, e di Marduc, suo “figlio” e “prediletto”. A Babilonia durante la Festa delle Sacee, sotto i nomi degli dèi elamiti Vashti e Aman (Humman), essi venivano banditi come rappresentanti della parte vecchia o invernale dell'anno così da poter risorgere di nuovo sotto i loro nomi regali e recare l'anno nuovo oppure la metà estiva dell'anno. [17] Così anche il re babilonese delle Sacee recitava la parte di un Dio e pativa la morte come tale sotto la pira. Ora abbiamo motivi per assumere che la successiva consuetudine ebraica alla Festa di Purim di appendere su un patibolo e bruciare un ritratto oppure un'effigie rappresentante il malvagio Aman, consisteva originariamente, come a Babilonia, nella messa a morte di un uomo reale, qualche criminale condannato a morte. Anche qui, allora si vedeva non solo un rappresentante di Aman, ma anche uno di Mardocheo, un rappresentante del vecchio come pure del nuovo anno, che in essenza era uno e lo stesso essere. Mentre il primo veniva messo a morte alla festa di Purim, il secondo, un criminale estratto a sorte, veniva fornito della sua libertà a questa occasione, rivestito delle insegne regali del morto e onorato come il rappresentante di Mardocheo ricompensato da Assuero per i suoi servizi.     
“Mardocheo”, è detto nel Libro di Ester, “uscì dalla presenza del re con una veste reale viola e bianca, con una grande corona d'oro e un mantello di bisso e di porpora; la città di Susa alzava grida di gioia ed era in festa”. [18] Frazer ha scoperto che in questa descrizione abbiamo di fronte a noi il ritatto di un antico sovrano babilonese delle Sacee, che rappresentava Marduc, al suo ingresso nel villaggio principale dalla campagna, e così introduceva l'anno nuovo. Allo stesso tempo sembra che in realtà la processione del finto re fosse meno seria e solenne di quanto vorrebbe farci credere per vanità nazionale l'autore del Libro di Ester. Così Lagarde ha richiamato l'attenzione ad una antica pratica persiana che soleva venire osservata ogni anno all'inizio della primavera nei primi giorni di marzo, che è nota come “la Cavalcata del Vecchio Senza Barba”. [19] In quest'occasione un senza barba e, quando possibile un villano con un occhio solo, denudato, e accompagnato da una guardia del corpo regale e da una schiera di battistrada, era condotto in pompa solenne per la città in groppa ad un asino, tra le acclamazioni della folla, che recava rami di palma e salutava il finto re. Egli aveva il diritto di raccogliere contributi dalla gente ricca e dai commercianti lungo il percorso che seguiva. Parte di quelli finivano nelle casse del re, parte veniva assegnata al collettore, ed egli avrebbe potuto appropriarsi senza ulteriori indugi della proprietà di un altro nel caso quest'ultimo rifiutasse le sue richieste. Egli doveva finire, comunque, il suo progresso e scomparire entro un tempo strettamente limitato, poichè in mancanza di questo si esponeva al pericolo di venir afferrato dalla folla e di essere bastonato a morte senza pietà. La gente sperava che da questa processione del “Senza Barba” avrebbe conseguito una rapida fine dell'inverno e un buon anno. Da questo sembra che anche qui abbiamo a che fare con una di quelle pratiche primaverili innumerevoli e multiformi, che in ogni tempo e tra le nazioni più diverse servivano ad affrettare l'avvento della stagione migliore. Il persiano “Senza Barba” corrispondeva al re babilonese delle Sacee, e sembra aver rappresentato l'inverno che se ne va. Frazer conclude da questo che anche il criminale che recitava la parte dell'ebreo “Mardocheo” si recava per la città con pompa simile al pari del “Senza Barba”, e doveva acquistare la sua libertà con la distrazione che consentiva al popolo. A questo proposito egli ricorda una dichiarazione di Filone secondo cui, in occasione dell'ingresso del re ebreo Agrippa ad Alessandria, uno spazzino mezzo pazzo era solennemente scelto dalla folla per essere re. Secondo la maniera del “Senza Barba”, rivestito di una veste e recando una corona di carta sul suo capo e un bastone nella sua mano per uno scettro, egli era trattato da una schiera di buontemponi come un vero re. [20] Filone chiama il povero miserabile Karabas. Questo probabilmente è solo una corruzione del nome ebraico Barabbas, che significa “Figlio del Padre”. Di conseguenza non era il nome di un individuo, ma l'appellativo comune di chiunque doveva recitare alla festa di Purim la parte di Mardocheo, il Marduc babilonese, cioè, l'anno nuovo. Questo è in linea coll'originaria natura divina del finto re ebreo. Poichè come “figli” del padre divino tutti gli dèi della vegetazione e fertilità del medioriente pativano la morte, e i rappresentanti umani di quei dèi dovevano offrire la loro vita per il benessere del loro popolo e la crescita rinnovata della natura. [21] Così appare che un tipo di commistione della Festa babilonese delle Sacee e della festa persiana del “Senza Barba” prese luogo tra gli ebrei, dovuta al loro soggiorno a Babilonia sotto la dominazione persiana. Il criminale liberato faceva la sua processione nei panni di Marduc (Mardocheo) il rappresentante della nuova vita che risorge dai morti, ma veniva fatto nel ruolo ridicolo del persiano “Senza Barba” — cioè, del rappresentante dell'anno vecchio — mentre quest'ultimo era a sua volta rappresentato da un altro criminale, che, nei panni di Aman, doveva patire la morte per impiccagione. Nel loro resoconto degli ultimi eventi della vita del Messia, Gesù, la pratica durante la festa ebraica di Purim, già riferita, passò per la mente degli evangelisti. Essi descrissero Gesù come l'Aman dell'anno, descrissero Barabba come il Mardocheo dell'anno, e così facendo, a causa del simbolo dell'agnello del sacrificio, essi fusero la festa di Purim nella festa di Pasqua, celebrata un pò più tardi. Essi, comunque, trasferirono l'ingresso festivo in Gerusalemme del “Senza Barba”, le sue misure ostili contro the mercanti e i cambiavalute, e la sua incoronazione in scherno come “Re dei Giudei”, da Mardocheo-Barabba ad Aman-Gesù, anticipando così simbolicamente gli eventi che avrebbero dovuto essere stati completati soltanto alla resurrezione del Marduc dell'anno nuovo. [22] Secondo un'antica lettura di Matteo 27:18 et seq., che, comunque, è scomparsa dai nostri testi fin da Origene, Barabba, il criminale posto contro il Salvatore, è chiamato “Gesù Barabba” — cioè, “Gesù, il figlio del Padre”. [23] Potrebbe non risiedere qui un indizio del vero stato delle cose, e la figura di Gesù Barabba, il Dio dell'Anno, che corrisponde ad entrambe le metà dell'anno, quelle del corso del sole verso l'alto e verso il basso, non potrebbe essersi separata in due distinte personalità all'occasione della festa dell'anno nuovo?
La Pasqua ebraica costituiva una festa primaverile e l'anno nuovo, alla cui occasione le primizie del raccolto e il primogenito degli uomini e delle bestie venivano offerte al Dio del sole e del cielo. In origine questo era anche legato a sacrifici umani. Anche qui un sacrificio passava, come era universale nell'antichità, per un mezzo di espiazione, espiando per i peccati dell'anno passato e assicurando il favore di Jahvè per il nuovo anno. [24] “In quanto rappresentano tutto  sono offerte a Dio le anime dei primogeniti; esse sono i mezzi di unione tra Jahvè e il suo popolo; quest'ultimo può solo rimanere per sempre il popolo di Javhè a condizione che una nuova generazione offra sempre i suoi primogeniti in sacrificio a Dio. Questo era il dogma principale dell'antico ebraismo; vi si basavano tutte le speranze del popolo; le promesse più di maggiore portata si basavano sulla disponibilità al sacrificio del primogenito”. [25] Più preziosa era questa vittima, più alto il rango che recava in vita, tanto più piacevole era la sua morte per Dio. Per questo motivo essi erano “re”, che, secondo i Libri di Giosuè e di Samuele, erano “consacrati” al Signore. In effetti, nel caso dei sette figli della casa di Saul di cui Davide ordinò l'impiccagione, il legame tra la loro morte e la Pasqua è perfettamente chiaro, quando è detto che morirono “davanti al Signore” al tempo della raccolta dell'orzo (ossia, della Festa della Pasqua). [26] Così non avrebbe potuto esserci nessun sacrificio più efficace di quando un re o un governante offriva il suo primogenito. Fu per questo motivo che, come ci informa Giustino, [27] il bandito generale cartaginese Maleo ordinò che suo figlio Cartalo, addobbato da re e sacerdote, venisse impiccato alla vista di Cartagine mentre stava per essere assediata da lui, scoraggiando in tal modo gli assedianti così tanto da espugnare la città dopo un pò di giorni. Fu per questo motivo che il cartaginese Amilcare durante l'assedio di Agrigento (407 A.E.C.) sacrificò il suo proprio figlio, e che gli israeliti rinunciarono alla conquista di Moab, quando il re di questa regione offrì il suo primogenito agli dèi. [28] Anche qui, la vittima umana sembra essere stata solamente il rappresentante di una vittima divina, come quando, per esempio, i fenici di Tiro fino al tempo dell'assedio di quella città da parte di Alessandro sacrificavano ogni anno, secondo Plinio, un ragazzo a Crono, ossia, Melkart o Moloc (re). [29] Questo Melkart di Tiro, comunque, è lo stesso a cui, come dichiara Porfirio, veniva sacrificato annualmente un criminale a Rodi. Secondo Filone di Biblo il Dio era chiamato “Israele” tra i fenici, e in occasione di una grande pestilenza, al fine di controllare la mortalità, è detto che avesse sacrificato il suo figlio primogenito Ieoud (Giuda), ossia, “l'Unico”, avendolo prima rivestito di abiti regali. [30] Così anche Abramo sacrificò il suo primogenito a Jahvè. Abramo (il “grande padre”) è, comunque, solo un altro nome per Israele, “il Dio possente”. Finchè venne sostituita dal nome Jahvè, questa era la più antica designazione del Dio degli ebrei, che venne impiegata unicamente da qui in avanti come il nome del  popolo a lui appartenente. Il nome del suo figlio Isacco (Jishâk) caratterizza quest'ultimo come “il sorridente”. Questo, comunque, non si riferisce, come pensa Goldzither, [31] al giorno sorridente o alla luce del mattino, ma alle contorsioni facciali della vittima provocate dalle pene da lui sopportate tra le fiamme nell'abbraccio del forno incandescente. Quelle contorsioni erano chiamate anticamente “risata sardonica”, a causa dei sacrifici a Moloc in Sardegna e a Creta. [32] Quando, col progresso della civiltà, i sacrifici umani vennero interrotti in Israele, e con lo svilupo del monoteismo gli antichi dèi vennero trasformati in uomini, la storia di Genesi 22 venne in esistenza con l'intento di giustificare “storicamente” il cambiamento da vittime umane a vittime animali. La pratica antica secondo la quale tra molti popoli dell'antichità, a re, figli di re, e a sacerdoti non si permetteva di morire di una morte naturale, ma, secondo la scadenza di un certo tempo fissato di solito da un oracolo, essi dovevano patire la morte  come vittima sacrificale per il bene del loro popolo, deve di conseguenza essere stata in vigore originariamente pure in Israele. Così anche Mosè e Aronne si offrirono per il loro popolo nella loro capacità di capi e di sommi sacerdoti. [33] Ma dal momento che entrambi, e specialmente Mosè, passavano come tipi del Messia, si diffuse abbastanza naturalmente  l'opinione che l'aspettato grande e potente capo e sommo sacerdote di Israele, nel quale Mosè avrebbe dovuto vivere di nuovo, [34] doveva soffrire la santa morte di Mosè e di Aronne come vittime sacrificali. [35] L'opinione che l'idea di un Messia che soffre e muore fosse sconosciuta agli ebrei non si può di conseguenza mantenere. In effetti, in Daniele 9:26 si fa menzione di un Cristo che muore. Abbiamo vista prima che tra gli ebrei del periodo post-esilico il pensiero del Messia era legato alla personalità di Ciro. Ora di Ciro si racconta che questo potente re persiano patì la morte sotto il patibolo per ordine della regina degli Sciti Tomiri. [36] Ma in Giustino l'ebreo Trifone asserisce che il Messia soffrirà e patirà una morte violenta. [37] In effetti, quel che è più, il Talmud guarda alla morte del Messia (con riferimento a Isaia 53) come ad una morte espiatrice per i peccati del suo popolo. Da questo sembra “che nel secondo secolo dopo Cristo, la gente era familiare, ad ogni caso in certe cerchie dell'ebraismo, con l'idea di un Messia sofferente, che soffriva anche in espiazione per i peccati umani”. [38
I talmudisti separarono più accuratamente due concezioni del Messia. Secondo una, nella natura di un descendente di Davide e di un eroe grande e divino egli doveva liberare gli ebrei dalla servitù, trovare il promesso impero mondiale, e sedersi in giudizio degli uomini. Questa è la concezione ebraica del Messia, di cui re Davide costituì l'ideale. [39] Secondo l'altra egli doveva riunire le dieci tribù di Galilea e condurle contro Gerusalemme, per essere solo sconfitto, comunque, nella battaglia contro Gog e Magog, sotto la guida di Armillo a causa del peccato di Geroboamo — cioè, a causa della secessione degli israeliti dai giudei. Il Talmud descrive l'ultimo Messia menzionato, in distinzione dal primo, come il figlio di Giuseppe o di Efraim. Questo lo si fa in riferimento al fatto che il regno di Israele comprendeva soprattutto le tribù di Efraim e di Manasse, e che quelle facevano risalire la loro origine al mitico Giuseppe. Egli è così il Messia degli israeliti che si erano separati dai giudei, e in particolare, come appare, dei samaritani. Questo Messia, “il figlio di Giuseppe”, è detto, “offrirà sé stesso in sacrificio e consegnerà la sua anima alla morte, e il suo sangue espierà per il popolo di Dio”. Egli stesso salirà al cielo. Poi, comunque, l'altro Messia, “il figlio di Davide”, il Messia degli ebrei in un senso più ristretto, verrà e realizzerà le promesse loro fatte, al cui proposito Zaccaria 12:10 seq. e 14:3 seq. sembrano aver influenzato quest'intera dottrina. [40] Secondo Dalman, [41] la figura del Messia ben Giuseppe apparve prima nel secondo o terzo secolo dopo Cristo. Anche Bousset sembra considerarla una tradizione “successiva” sebbene egli non possa negare che le Apocalissi ebraiche della fine dei primi mille anni dopo Cristo, che sono le prime a fare una menzione estesa della materia, potrebbero aver contenuto tradizioni “molto antiche”. Anche secondo credi persiani, Mitra era il Redentore sofferente e mediatore tra Dio e il mondo, mentre Saoshyant, d'altra parte, era il giudice del mondo ache sarebbe apparso alla fine di tutto il tempo e avrebbe ottenuto la sua vittoria su Arimane (Armillo). Alla stessa maniera il mito greco distingueva dal più antico Dioniso, Zagreo, il figlio di Persefone, il quale patì una morte crudele per le mani dei Titani, un Dio più giovane dallo stesso nome, figlio di Zeus e di Semele, che doveva liberare il mondo dalle catene dell'oscurità. Esiste precisamente la stessa relazione tra Prometeo, il sofferente, ed Eracle, il trionfante liberatore del mondo. Noi quindi ovviamente abbiamo a che fare qui con un mito davvero antico e diffuso, ed è a malapena necessario sottolineare quanto da vicino le due figure del Messia samaritano ed ebraico corrispondano all'Aman e al Mardocheo della festa ebraica di Purim, al fine di provare l'estrema antichità di quest'intera concezione. Il vangelo unì in una sola le due figure del Messia, che erano state originariamente separate. Dal Messia ben Giuseppe fabbricò il Messia umano, nato in Galilea, e che si incammina di là coi suoi seguaci per Gerusalemme, per soccombervi ai suoi avversari. D'altra parte, dal Messia ben Davide esso fabbricò il Messia del ritorno e della resurrezione. Allo stesso tempo elevò e approfondì l'intera idea del Messia al più alto grado confondendo la concezione del Messia che si sacrifica con quella della vittima pasquale, e questa di nuovo con quella del Dio che offre il suo proprio figlio in sacrificio. Assieme agli ebrei considerò Gesù il “figlio” del re Davide, allo stesso tempo, comunque, preservando un ricordo del Messia israelita nel fatto che gli diede Giuseppe come padre; e mente è detto rispetto alla prima idea che egli nacque a Betlemme, la città di Davide, gli assegnò in riferimento alla seconda idea Nazaret di Galilea come suo luogo di nascita, e inventò l'astrusa storia del viaggio dei suoi genitori a Betlemme pur di essere perfettamente imparziale verso entrambe le visioni.
E ora, chi è questo Giuseppe, come il cui figlio il Messia doveva essere una creatura che soffre e muore al pari di ogni uomo comune? Winckler ha sottolineato nella sua “Geschichte Israels” che sotto la figura del Giuseppe dell'Antico Testamento, proprio come sotto quella di Giosuè, si nasconde un antico Dio tribale efraimita. Giuseppe è, come lo esprime Winckler, “la prole eroica di Baal di Garizim, una derivazione del Dio-Sole, a cui allo stesso tempo sono trasferite caratteristiche di Tammuz, il Dio del Sole Primaverile”. [42] Proprio come Tammuz doveva discendere negli inferi, così Giuseppe doveva essere precipitato nel pozzo, in cui, secondo il “Testamento dei Dodici Patriarchi”, [43] egli trascorse tre mesi e cinque giorni. Questo indica i mesi invernali e i cinque giorni aggiuntivi durante cui il sole rimane negli inferi. E di nuovo egli è gettato in prigione; e proprio come Tammuz, dopo il suo ritorno dagli inferi, reca una nuova primavera alla terra, così Giuseppe, dopo la sua liberazione dalla prigionia, itnroduce una stagione di pace e di felicità per l'Egitto. [44] Per questo motivo fu chiamato in Egitto Psontomphanech, cioè, Liberatore del Mondo, in vista della sua natura divina, e successivamente passò tra gli ebrei per un prototipo del Messia. In effetti, appare che gli stessi evangelisti lo considerassero sotto questa luce, poichè la storia dei due compagni di prigionia di Giuseppe, il panettiere e il coppiere del Faraone, uno dei quali, come predisse Giuseppe, fu impiccato, [45] mentre l'altro fu ricevuto di nuovo con favore dal re, fu trasformato da loro nella storia dei due ladroni che furono condannati allo stesso momento di Gesù, dei quali uno derise il Salvatore mentre l'altro gli implorò di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel suo regno celeste. [46]
Ma anche il Giosuè efraimita deve essere stato un tipo di Tammuz o Adone. Il suo nome (Giosuè, siriano, Jeshu), lo caratterizza come salvatore e liberatore. Come tale egli appare anche nell'Antico Testamento, mentre conduce alla fine il popolo di Israele nella terra promessa dopo lunghe privazioni e sofferenze. Secondo il calendario ebraico il principio della sua attività accadde al decimo di Nisan, durante cui veniva scelto l'agnello pasquale, e terminava con la Festa della Pasqua. Mosè introdusse la pratica della circoncisione e la redenzione del primo primogenito maschio, e si suppose che Giosuè l'avesse fatta rivivere. [47] Allo stesso tempo è detto che egli avesse sostituito le vittime infantili, che era stata usanza offrire a Jahvè nei primi giorni, coll'offerta del prepuzio del maschio e in tal modo che avesse stabilito una forma più umana del culto sacrificale. Questo ci riporta alla mente la sostituzione di una vittima animale al posto di una vittima umana nella storia di Isacco (Jishâks). Ci rammenta anche Gesù che offrì il suo proprio sangue in sacrificio durante la Pasqua in sostituzione degli innumerevoli sacrifici di sangue di espiazione delle generazioni precedenti. Di nuovo, secondo un'antica tradizione araba, la madre di Giosuè si chiamava Mirzam (Mariám, Maria), come si chiamava la madre di Gesù, mentre la madre di Adone recava il nome dal suono simile di Mirra, che a sua volta espresse il pianto delle donne in lutto per Adone [48] e caratterizzò la madre del Dio Redentore come “la madre di dolore”. [49]
Ma quel che è soprattutto decisivo è che il figlio dell'“aratore” Iefunne, Caleb (vale a dire, il Cane), figura dal lato di Giosuè come un eroe di pari rango. Il suo nome punta nella stessa maniera al tempo del solstizio d'estate, quando sulle labbra del “leone” sorge la stella della costellazione del Cane (Sirio) sorge, mentre la sua discesa da Nun, il Pesce o Acquario, indica Giosuè come rappresentante del solstizio d'inverno. [50] Proprio come Giosuè apparteneva alla tribù di Efraim, a cui secondo la Benedizione di Giacoppe riferiscono i Pesci dello Zodiaco, [51] così Caleb apparteneva alla tribù di Giuda, che la Benedizione di Giacobbe paragonò ad un leone; [52] e mentre quest'ultimo come Calub (Chelub) ha Shuah per fratello, cioè, il Sole discendente nel regno delle ombre (l'Emisfero Meridionale), [53] in pari maniera Giosuè rappresenta il Sole di Primavera che si eleva dalla notte dell'inverno. Essi sono quindi entrambi legati l'uno all'altro nella stessa maniera in cui lo sono il sorgere e il declino annuali del sole, e come, secondo le idee babilonesi, lo sono Tammuz e Nergal, che in modo simile esemplificano le due metà dell'anno. Quando Giosuè muore a Timnat Heres, il luogo dell'eclisse del Sole (ossia, al tempo del solstizio d'estate, in cui si celebrava la morte del Dio-Sole), [54] egli appare di nuovo come un tipo di Tammuz, mentre il “lamento” del popolo alla sua morte [55] allude forse al lamento per la morte del Dio-Sole. [56]
Non si può negare dopo tutto questo che la concezione di un Messia che soffre e muore era di estrema antichità tra gli israeliti ed era legata al culto più remoto della natura, sebbene in seguito potrebbe in effetti esser diventata ristretta e peculiare a certi circoli esclusivi. [57]
Il rappresentante ebraico di Haman pativa la morte alla Festa di Purim a causa di un crimine, come una punizione meritata che gli era stata compensata. Il Messia Gesù, d'altra parte, secondo le parole di Isaia, prese su di sé la punizione, perchè era “giusto”. Egli era capace di essere una vittima espiatoria per i peccati di tutto il popolo, precisamente perchè egli meno di tutti meritava un simile fato.
Platone aveva già abbozzato nella sua “Repubblica” il ritratto di un “giusto” che passa la sua vita sconosciuto e non-onorato tra sofferenza e persecuzione. La sua giustizia è messa alla prova ed egli raggiunge il più alto grado di virtù, non permettendosi di venir turbato nella sua condotta. “L'uomo giusto sarà flagellato, torturato, imprigionato, accecato; infine, quando ha sopportato tutto questo, egli sarà impalato; poi in esteso imparerà che l'uomo deve mirare a non essere giusto, ma solo ad assumere l'apparenza della giustizia”. In circoli farisaici egli passò come un giusto che per le sue proprie sofferenze immeritate fece ammenda per i peccati degli altri e sistemò le cose per loro di fronte a Dio, come, per esempio, nel Quarto Libro dei Maccabei il sangue dei martiri è rappresentato come l'offerta espiatoria a causa di cui Dio liberò Israele.  L'odio degli ingiusti e dei senza dio verso il giusto, la ricompensa del giusto e la punizione dell'ingiusto, erano temi favoriti per la letteratura sapienziale, e furono trattati pienamente nel Libro della Sapienza, il cui autore alessandrino non era presumibilmente ignaro con il ritratto platonico del giusto. Egli fa apparire i senza dio mentre conversano e tessano trame contro il giusto. “Cerchiamo di insidiare”, gli fa loro dire, “l'uomo giusto perché è un'offesa a noi, e si oppone alle nostre opere, e rimprovera i nostri peccati contro la Legge, e non cessa di rimproverarci per i nostri atti disordinati. Si vanta di possedere la conoscenza di Dio, e chiama sé stesso il figlio di Dio. Certamente egli ha confuso i pensieri dei nostri cuori; ma quando noi guardiamo su di lui lo troviamo un'offesa, perché la sua vita è così diversa dalla vita di tutti gli altri uomini, e la sue vie sono completamente diverse; siamo considerati da lui come moneta di basso conio, e si tiene lontano dai nostri modi come da una corruzione. Ma conta come felice la fine dei giusti, e lui chiama Dio suo padre. Vediamo se le sue parole sono vere, e cerchiamo di provarlo con ciò che accade alla sua dipartita. Infatti, se il Giusto è il Figlio di Dio, allora Dio sicuramente si prenderà cura di lui, e lo salverà dalla mano dei suoi nemici. Con la violenza e la tortura dobbiamo provarlo, così da poter dimostrare la sua mitezza e un giudizio della sua fermezza. Lo dobbiamo condannare ad una morte vergognosa; egli stesso dice che sarà sicuramente protetto”. [58] “Le anime dei giusti, invece”, continua l'autore del Libro della Sapienza, “sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro”. [59] Si poteva facilmente immaginare che quelle parole, che erano comprese dall'autore del Libro della Sapienza come pronunciate dal giusto in generale, si riferissero al giusto par excellence, il Messia, il “figlio” di Dio nel senso più elevato della parola, che offrì la sua vita per i peccati del suo popolo. Una ragione si trovò allo stesso tempo per la vergognosa morte del Messia. Egli morì da oggetto dell'odio degli ingiusti; egli accettò disprezzo e derisione come fecero l'Aman e il Barabba della Festa di Purim, ma solo allo scopo mediante questa profonda umiliazione di poter essere resuscitato da Dio, come è detto del giusto nel Libro della Sapienza: “Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso e che stolti abbiam preso a bersaglio del nostro scherno; giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte disonorevole. Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi?”. [60]
Ora comprendiamo come il ritratto del Messia variava tra gli ebrei tra quello di un essere divino e quello di un essere umano; come egli era “annoverato solo tra i malfattori”; come divenne associata ad un essere umano l'idea che egli fosse un “Figlio di Dio” e allo stesso tempo “Re dei Giudei”; e come avrebbe potuto sorgere l'idea che nella sua morte vergognosa e immeritata Dio l'avesse offerto per l'umanità. Ora possiamo pure comprendere che colui che morì doveva dopo un breve intervallo risorgere di nuovo dai morti, e questo allo scopo di ascendere in cielo nello splendore e nella gloria e riunirsi con Dio il Padre di lassù. Quelle erano idee che molto tempo prima del Gesù dei vangeli erano diffuse tra il popolo ebraico, e in effetti attraverso tutto il medioriente. In certe sette erano accarezzate come dottrine segrete, ed erano la causa principale del fatto che precisamente in questa porzione del mondo antico il cristianesimo si diffuse così presto e con una simile insolita rapidità.  

NOTE

[1] 7:29.

[2] Isaia 3.

[3] 12:10 seq.; si veda Movers, op. cit., 1:196.

[4] 8:14.

[5] Op. cit., 78.

[6] Frazer, “Il Ramo d'Oro”, 1900, 2, 196 seq.

[7] Frazer, “Adone, Attis, Osiride”, 1908, 128 seq.

[8] “Il Ramo d'Oro”, 1, 3, 20, seq.

[9] Verso 14.

[10] Op. cit., 8:24-29.

[11] 1 Genesi 15:17.

[12] Ghillany, op. cit., 148, 195, 279, 299, 318 seq. Si veda specialmente il capitolo “Der alte hebräische Nationalgott Jahve”, 264 seq.

[13] J M. Robertson, “Pagan Christs”, 140-148. Non si può insistere abbastanza sul fatto che fu solamente sotto l'influenza persiana che Jahvè si separò dagli dèi delle altre razze semitiche, da Baal, Melkart, Moloc, Chemosh, ecc., coi quali fino ad allora egli era stato quasi completamente identificato; anche il fatto che fu solo grazie ad un'elaborazione dalla civiltà ellenistica che egli diventò quell'“unico” Dio, a cui di solito pensiamo all'udirne il nome. L'idea di una speciale posizione religiosa del popolo ebraico, la cui espressione fu Jahvè, appartiene soprattutto a quei miti della storia religiosa che uno ripete ad un altro senza pensarci, ma che la scienza dovrebbe finalmente respingere.

[14] “Ramo d'Oro”, 3, 138-146.

[15] Movers, op. cit., 480 seq.

[16] 6:47 seq., 209 seq.

[17] Si veda Gunkel, “Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit”, 1895. 309 sq. E. Schrader, “Die Keilinschriften und das Alte Testament”, 1902, 514-520.

[18] 8:15. Si veda anche 6:8-9.

[19] “Abhandlungen d. Kgl. Ges. d. Wissenschaften zu Göttingen”,34.

[20] Si veda anche P. Wendland, “Ztschr. Hermes”, 33., 1898, 175 seq., and Robertson, op. cit., 138, nota 1.

[21] Allo stesso modo il frigio Attis, il cui nome lo caratterizza a sua volta come il “padre”, era anche nonorato come il “figlio”, prediletto e sposo di Cibele, la dèa madre. Così egli variava tra un Dio Padre, l'alto Re del Cielo, e il Figlio divino di quel Dio.

[22] Frazer, op. cit, 3. 138-200. Si veda anche Robertson, “Pagan Christs”, 136-140.

[23] Keim, “Geschichte Jesu”, 1873, 331 nota.

[24] Ghillany, op. cit., 510 seq.

[25] Id. 505.

[26] 2 Samuele 21:9; si veda Levitico 23:10-14.

[27] “Hist.”, 18:7.

[28] 2 Re 3:27.

[29] “Hist. Nat.”, 34, 4, § 26.

[30] Menzionato in Eusebio, “Praeparatio Evangelica”, 1:10. Si veda Movers, op. cit., 303 seq.

[31] “Der Mythus bei den Hebräern”,  1876, 109-113.

[32] Si veda Ghillany, op. cit., 451 seq.; Daumer, op. cit., 34 seq., 111.

[33] Numeri 22:22 seq., 27:12 seq., 33:37 seq., Deuteronomio 32:48 seq. Si veda Ghillany, op. cit., 709-721.

[34] Deuteronomio 18:15.

[35] Si veda Ebrei 5.

[36] Diodoro Siculo, 2:44.

[37] Giustino, “Dial. cum Tryphone”, capitolo 90.

[38] Schürer, op. cit., 2:555. Si veda anche Wünsche, “Die Leiden des Messias”, 1870.

[39] Si veda sopra, pagina 40 seq.

[40] Si veda Eisenmenger, op. cit., 2. 120 seq. ; Gfrörer, “Das Jahrhundert des Heils”, 1838, 2. 260 seq.; Lützelberger, “Die kirchl. Tradition über den Apostel Johannes u. s. Schriften”, 1840, 224-229; Dalman, “Der leidende und der sterbende Messias der Synagoge im ersten nachchristlichen Jahrtausend”, 1888; Bousset, “Die Religion des Judentums, im neutestamentlichen Zeitalter”, 1903, 218 seq.; Jeremias, op. cit., 40 seq.

[41] Op. cit., 21.

[42] Op. cit., 71 seq.

[43] “Pseudoepigraphen”, 500.

[44] Winckler, op. cit., 67-77. Si veda anche Jeremias, op. cit., 40, e il suo “Das Alte Testament im Lichte des alten Orients”, 1904, 239 seq.

[45] Genesi 40.

[46] Luca 23:39-43; si veda anche Isaia 80:12.

[47] Giosuè 5:2 seq.

[48] Amos 8:10; si veda Movers, op. cit., 243.

[49] Si veda Robertson, “Pagan Christs”, 157.

[50] Numeri 14.

[51] Id. 13:9; Genesi 48:16.

[52] Id. 13:7; Genesi 49:9.

[53] 1 Cronache 4:11.

[54] Giudici 2:9.

[55] Id., 4.

[56] Si veda Nork, “Realwörterbuch”, 1843-5, 2. 301 seq.

[57] Si veda sull'intero soggetto Martin Brückner, “Der sterbende und auferstehende Gottheiland in den orientalischen Religionen und ihr Verhältnis zum Christentum. Religionsgesch. Volksbücher”, 1908.

[58] 2:12-20.

[59] 3:1-8.

[60] 5:3-5.
               

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