mercoledì 19 settembre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ PRECRISTIANO (II): L'Idea Ellenistica di un Mediatore (Filone)


IL GESÙ PRECRISTIANO

II

L'IDEA ELLENISTICA DI UN MEDIATORE (FILONE)

Con la conquista dell'impero persiano da parte di Alessandro anche la Palestina fu trascinata nell'orbita della cultura ellenistica. Al principio era uno stato vassallo dei Tolomei egiziani, e di conseguenza al principio del secondo secolo prima di Cristo giunse sotto la signoria dei Seleucidi siriani. I costumi e la vita intellettuale della Grecia penetrarono nel sereno isolamento dello stato ebraico a guida sacerdotale e non si sarebbero potuti espellere nuovamente, nonostante la reazione nazionale sotto i Maccabei contro le influenze straniere. Soprattutto, comunque, la diaspora degli ebrei contribuì a introdurre un insediamento di vedute opposte. Sin dall'Esilio gli ebrei si erano sparsi su tutte le regioni dell'oriente mediterraneo. Alcuni erano rimasti a Babilonia, altri si insediavano permanentemente in particolare nei porti come commercianti, banchieri e mercanti. Controllavano l'intero mercato monetario e il commercio dell'oriente attraverso la loro assidua industria, la loro astuzia mercantile, la loro mancanza di scrupoli e la tenacia con cui si tenevano assieme, supportati in ciò dalla loro adorazione in comune nella Sinagoga. Nell'atmosfera della filosofia e della moralità greche presero luogo una trasformazione e una purificazione ancora ulteriori di Jahvè. Tutti i comuni tratti umani e materiali furono omessi, ed egli si evolse in un essere spirituale di perfetta bontà, proprio come Platone aveva descritto la Divinità. Qui gli ebrei si ritrovarono faccia a faccia con lo stesso problema che da lungo tempo aveva occupato i filosofi greci. Si trattava della riconciliazione dell'elevatezza soprannaturale e del distacco dal mondo del loro Dio con le esigenze della coscienza religiosa che richiedeva la presenza immediata della Divinità.
Tra le idee dall'ebraismo che furono copiate dalla religione persiana appartennero quelle associate alla “Parola” intermediaria. In quanto la potenza creativa della Divinità, la portatrice di rivelazione e la rappresentante di Dio sulla terra, l'espressione “la parola” era già apparsa nella letteratura sapienziale. Sotto l'influenza greco-egiziana il termine “sapienza” (sophia) era diventata la sua espressione naturalizzata. La “Sapienza” serviva a descrivere le attività in relazione all'uomo del Dio che si teneva in disparte dal mondo. A questo proposito si potrebbe notare che secondo le idee persiane la “Sapienza” sotto il nome di Spenta Armaiti era considerata una delle sei o sette Ameša Spenta (Amshaspand), quelli spiriti che da guardie del corpo figuravano più vicini al trono di Dio e corrispondevano agli arcangeli ebraici. Lei venne considerata dai persiani la figlia o la sposa di Ahura Mazda. Già nella cosiddetta “Sapienza di Salomone”, scritta da un ebreo alessandrino nell'ultimo secolo prima di Cristo, lei fu considerata uno spirito esistente separatamente in stretta relazione a Dio. Sotto le spoglie di un essere metà personale, metà materiale — una potenza che controllava la totalità della natura — lei fu descritta come il principio della rivelazione di Dio nella creazione, nel mantenimento e nel governo del mondo, come il principio comune della vita dall'alto e come l'organo intermediario della salvezza religiosa. Proprio come Platone aveva cercato di superare il dualismo del mondo ideale e del mondo materiale tramite la concezione di un'“anima del mondo”, così la “Sapienza” era intesa a servire da mediatore tra gli opposti, il Dio degli ebrei e la sua creazione. Quelli sforzi furono continuati dall'ebreo alessandrino Filone (dal 30 A.E.C. fino al 50 E.C.), il quale tentò di portare la concezione giudeo-persiana della “Parola” o “Sapienza” in accordo più stretto con le idee della filosofia greca di quanto aveva già fatto l'autore del “Libro della Sapienza”. Anche Filone cominciò con l'opposizione tra un Dio innominabile, inconoscibile, assolutamente elevato al di sopra del mondo, e la creata esistenza materiale. Egli immaginò questa opposizione colmata per mezzo di “poteri” che, come individui, messaggeri, servi e rappresentanti di Dio relativamente auto-esistenti, somigliavano ad un tempo più da vicino agli angeli persiani o ai demoni greci, ad un altro tempo alle “Idee” platoniche, gli originali e i modelli di Dio nella creazione. Essenzialmente, comunque, essi recavano la natura dei cosiddetti “Poteri fruttificanti”, quelle forze creative che infondevano un'anima e plasmavano la materia informe e per cui tramite i filosofi Stoici cercavano di spiegare l'esistenza.  Filone considerò il “Logos” come la prima di quelle forze intermedie, oppure, invero, come l'essenza di tutte loro, la ragione efficace o la parola creativa di Dio. Egli lo chiamò il “figlio primogenito di Dio” o il “secondo Dio”, il rappresentante, interprete, ambasciatore, Arcangelo di Dio, o Principe degli Angeli. Egli lo considerò il Sommo Sacerdote, che faceva intercessione presso Dio per il mondo, i cui affari egli rappresentava di fronte a lui in qualità di paraclito, l'avvocato e consolatore del mondo, che era il canale ad esso delle promesse divine; come lo strumento mediante il quale Dio aveva plasmato il mondo, il suo originale e ideale a cui Dio aveva dato potere nella sua creazione — colui che operava in tutte le cose; in una parola, come l'anima o spirito del mondo, che gli Stoici avevano identificato col loro Dio, ma che Filone distinse dalla Divinità trascendente e a cui guardava come sua rivelazione e manifestazione.
In essenza soltanto un'espressione per la somma totale di tutte le forze e attività divine, il Logos di Filone a volte era anche un principio metafisico  impersonale, semplicemente l'efficacia della Divinità, e a volte una personalità indipendente distinta da Dio. Proprio come gli Stoici avevano personificato la loro ragione del mondo in Ermes, il messaggero degli Dèi, così gli egiziani avevano elevato la magica parola di creazione di Amun Ra ad un essere mediatore personale auto-esistente in Tot la guida delle anime; i babilonesi avevano elevato la parola del fato del grande Dio Marduk nella forma di Nabu; i persiani avevano elevato la parola di Ahura Mazda in Vohu Mano come pure in Spenta Armaiti, il pensiero buono del Dio creatore. E proprio come secondo le idee persiane era ad un tempo il “figlio” divino e mediatore “Mitra”, la collettività di tutte le forze divine, ad un altro tempo l'uomo ideale Saoshyant che apparve come Salvatore e Liberatore del mondo, e proprio come entrambi si fusero in un'unica forma, così anche Filone ad un tempo descrisse la Parola come la collettività di tutte le idee creative, ad un altro tempo solamente come l'idea disincarnata dell'uomo, l'uomo ideale, la diretta immagine divina e il modello immateriale degli esemplari materiali dell'umanità, che è efficace in ciò come l'autore di ogni redenzione religiosa. In effetti, egli lo identificò occasionalmente con l'albero della vita nel Paradiso, dal momento che entrambi erano eterni e “stavano nel mezzo”.
Secondo Filone, l'uomo non è in grado con la sua propria forza di liberarsi dai vincoli dell'esistenza terrena. Ogni liberazione dipende dall'emancipazione dell'anima dal corpo e dai suoi desideri materiali. In conformità alla sua vera natura spirituale e divina, diventare  perfetto tanto quanto Dio, è la virtù più alta e allo stesso tempo la vera felicità. Questa si ricava mediante un avvistamento nella realtà divina delle cose, con una fiducia sincera in Dio, tramite un grato riconoscimento della bontà e dell'amore conferiti da lui, che si manifestano nella devozione verso Dio come pure nella carità e nella giustizia verso gli altri uomini. Ma in aggiunta il Logos stesso deve essere in noi e indurci all'avvistamento della nostra natura divina. Il Logos deve guidarci, venire in soccorso della nostra debolezza umana con la sua forza soprannaturale nelle lotte contro il mondo e il peccato ed elevarci fino a Dio. Così l'apoteosi dell'uomo è lo scopo a cui si mira in ogni attività religiosa. Il Logos, comunque, è il solo mezzo a questo fine, nella misura in cui noi siamo elevati mediante un'unione con lui nella fede e nell'amore alla nostra vera origine e fonte di vita, “la visione di Dio”, e in tal modo avere partecipazione nella sua vita.

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