martedì 18 settembre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ PRECRISTIANO (I): L'Influenza del Parsismo sul Credo in un Messia


IL GESÙ PRECRISTIANO

I

L'INFLUENZA DEL PARSISMO SUL CREDO IN UN MESSIA

Tra nessun popolo la brama di redenzione fu così vivo e l'attesa di una fine imminente del mondo così forte come tra gli ebrei. Sin dalla cattività babilonese (586-536 A.E.C.) il precedente sguardo ebraico sul mondo aveva subito un gran cambiamento. Cinquant'anni erano stati trascorsi dagli israeliti nella terra dello straniero. Per duecento anni dopo il loro ritorno alla loro propria terra furono sotto la dominazione persiana. Come conseguenza di questo furono a stretto contatto politicamente ed economicamente con l'impero achemenide, e questo non cessò quando Alessandro travolse la potenza persiana e portò l'intero mondo orientale sotto l'influenza greca. Durante questo lungo periodo i modi di pensiero persiani e le visioni religiose persiane avevano influenzato in parecchi modi le antiche opinioni ebraiche, e avevano introdotto un gran numero di nuove idee. Prima di tutto l'estremo dualismo dei persiani aveva impresso una natura particolarmente duale al monoteismo ebraico. Dio e il mondo, che nelle vecchie idee si erano spesso intrecciati l'un con l'altro, furono separati e fatti rimanere in opposizione l'uno all'altro. Seguendo la stessa catena di pensiero, l'antico dio nazionale Jahvè, in imitazione del persiano Ahura Mazda (Ormuz), si era evoluto da un Dio di fuoco, di luce e del cielo in un Dio di purezza e di santità soprannaturali. Circondato da luce e intronizzato nell'Aldilà, al pari di Ahura Mazda, la sorgente di ogni esistenza, il Dio vivente teneva una relazione con le sue creature sulla terra solo tramite l'intermediazione di una corte di angeli. Quei messaggeri di Dio o entità intermedie si muovevano in quantità innumerevoli tra il cielo e la terra al suo servizio. E proprio come Angra Mainyu (Arimane), il maligno, era opposto ad Ahura Mazda, il buono, e la lotta tra oscurità e luce, verità e falsità, vita e morte, era riprodotta, secondo idee persiane, nel corso di eventi terreni, così anche gli ebrei attribuirono a Satana il ruolo di un avversario di Dio, di corruttore della creazione divina, e gli fecero misurare la sua forza, come Principe di questo mondo e capo delle forze infernali, col Re del Cielo. [1]
Nella lotta di due mondi opposti, secondo idee persiane, Mitra figurava in primo piano, lo spirito di luce, verità e giustizia, l'“amico” divino degli uomini, il “mediatore”, “liberatore” e “salvatore” del mondo. Egli condivideva il suo ruolo con Honover, la Parola di Ahura Mazda di creazione e di rivelazione; e in effetti in più cose i loro attributi erano mischiati. Un'incarnazione del fuoco o del sole, soprattutto della luce combattente, sofferente, trionfante, che preme vittoriosamente attraverso notte e oscurità, Mitra era associato anche a morte e ad immortalità, e passava per guida delle anime e giudice negli inferi. Egli era il “figlio divino”, di cui era detto che Ahura Mazda lo avesse plasmato tanto grande e degno di riverenza come il suo stesso sé. In effetti, egli era in essenza lo stesso Ahura Mazda, che procedeva dalla sua luce soprannaturale, e provvisto di una personalità concretà. Come co-artefice nella creazione e “protettore” del mondo egli teneva in piedi l'universo nella sua lotta contro i suoi nemici. Alla testa dell'esercito angelico egli combatteva per Dio, e con la sua spada infuocata egli cacciava i demoni dell'oscurità in preda al terrore nelle ombre. Partecipare in questo combattimento a fianco di Dio, edificare il futuro regno di Dio con l'opera di una civilizzazione portatrice di vita, rendendo fruttiferi rifiuti sterili, mediante l'estinzione di animali nocivi, e tramite una educazione morale di sè, sembrava lo scopo appropriato dell'esistenza umana.  Ma quando il tempo sarebbe dovuto essere realizzato e l'epoca presente sarebbe giunta a una fine, secondo il credo persiano, Ahura Mazda allora doveva levarsi dal seme di Zoroastro, il fondatore di questa religione, il “figlio della vergine”, Saoshyant (Sraosha, Sosiosch, che significa il Salvatore), oppure, come si diceva secondo un'altra leggenda, Mitra stesso sarebbe dovuto discendere sulla terra e in un ultimo aspro combattimento avrebbe dovuto travolgere Angra Mainyu e i suoi eserciti, e precipitarli negli inferi. Egli allora avrebbe resuscitato i morti in una forma fisica, e dopo un Giudizio Universale del mondo intero, in cui i malvagi sarebbero stati condannati alle punizioni dell'inferno e i buoni resuscitati alla gloria celeste, avrebbe stabilito il “Regno di Pace millenario”. L'inferno stesso non doveva durare per sempre, poichè una grande riconciliazione doveva essere tenuta alla fine perfino con i dannati. Anche Angra Mainyu avrebbe fatto pace con Ahura Mazda, e su una nuova terra al di sotto di un nuovo cielo tutti dovevano essere uniti l'un l'altro in una beatitudine eterna.
Quelle idee penetrarono nella cerchia del pensiero ebraico e vi recarono una trasformazione completa del credo precedente in un messia.
Il messia — cioè, l'Unto (in greco, Christos) — significava originariamene il re come rappresentante di Jahvè di fronte al popolo e del popolo di fronte a Jahvè. Secondo 2 Samuele 7:13 seq., egli fu collocato nella stessa relazione di un “figlio” obbediente con suo “padre”, nella quale l'intero popolo era conscio di figurare. [2] Poi l'opposizione tra la santa dignità dell'“Unto” di Dio e la personalità umanamente imperfetta dei sovrani ebrei condusse all'ideale del Messia che fu trasferito al futuro e alla realizzazione completa del dominio di Jahvè sul suo popolo che venne aspettato solamente allora. In questo senso gli antichi profeti avevano già celebrato il Messia come un Sovrano ideale del futuro, che avrebbe esperito nel senso più pieno le assicurazioni elevate del favore di Jahvè, di cui Davide era stato ritenuto degno, dal momento che egli sarebbe stato completamente degno di loro. Essi lo descrissero come l'Eroe, che sarebbe stato più di Mosè e di Giosuè, che avrebbe stabilito la gloria promessa di Israele, disposto di nuovo il popolo, e recato la religione di Jahvè anche ai pagani. [3] Essi lo avevano glorificato in quanto avrebbe attraversato il cielo di nuovo, avrebbe stabilito una nuova terra e avrebbe reso Israele Signore su tutte le nazioni. [4] In questo essi avevano compreso il Messia all'inizio solamente come un essere umano, come un nuovo Davide oppure del suo seme — un re teocratico, principe di pace col favore divino e giusto governatore del suo popolo, proprio come il persiano Saoshyant doveva essere un uomo del seme di Zoroastro. In questo senso un Ciro, il liberatore del popolo dalla cattività babilonese, il liberatore e signore di Israele, era stato acclamato Messia. [5] Ma proprio come Saoshyant era stato trasfigurato inconsapevolmente nella fantasia del popolo in un essere divino e reso identico alla figura di Mitra, [6] così anche tra i profeti doveva essere assegnata al Messia sempre più la parte di un re divino. Egli fu chiamato “eroe divino”, “Padre dell'Eternità”, e il profeta Isaia indugiò in una descrizione del suo regno di pace, in cui il lupo si sarebbe posato accanto all'agnello, gli uomini non sarebbero più morti prima del loro tempo, e avrebbero goduto il frutto dei loro campi senza bisogno di una decima, mentre il diritto e la giustizia avrebbero regnato sulla terra sotto questo re di un'età d'oro come non aveva mai fatto prima. [7] Segreta e soprannaturale, com'era la sua natura, così sarebbe dovuta essere la nascita del Messia. Sebbene un bambino divino, egli doveva nascere in uno stato umile. [8] La personalità del Messia si fuse con quella di Jahvè stesso, come se fosse Dio stesso della cui ascesa al trono e viaggio verso il cielo cantano i salmisti.
Quelle alternanze del Messia tra una natura umana e una natura divina appaiono ancor più chiaramente nell'apocalittica ebraica dell'ultimo secolo prima e del primo secolo dopo Cristo. Così l'Apocalisse di Daniele (nel 165 A.E.C. circa), parla di colui che come Figlio dell'Uomo discenderà sulle nubi del cielo e sarà portato di fronte all'“Antico dei Giorni”. L'intero tono del passo non lascia alcun dubbio che il Figlio dell'Uomo (barnasa) è un essere sovrumano che rappresenta la Divinità. Per lui la maestà e il regno di Dio sono stati riservati così da dover discendere, alla fine dell'epoca esistente, sulle nubi del cielo, circondato da una schiera di angeli, e così da stabilire un potere eterno, un Regno dei Cieli. Nel linguaggio pittoresco di Enoc (nell'ultimo decennio prima di Cristo) il Messia, l'“Eletto”, il “Figlio dell'Uomo” appare come un'entità soprannaturale pre-esistente, che fu nascosto in Dio prima che venisse creato il mondo, la cui gloria continua da eternità ad eternità e la sua potenza da generazione in generazione, in cui dimora lo spirito di sapienza e di potere, che giudica cose nascoste, punisce i malvagi, ma salverà i santi e i giusti. [9] In effetti, l'Apocalisse di Esdra (il cosiddetto quarto Libro di Esdra) combatte espressamente l'opinione secondo cui il giudizio del mondo giungerà attraverso un altro anzichè Dio, e parimenti descrive il Messia come un tipo di “secondo Dio”, come il “Figlio di Dio”, come l'incarnazione umana della Divinità. [10]
In tutto questo l'influenza delle credenze persiane è inequivocabile, se quelle fossero sorte direttamente nello stesso Iran, oppure se l'idea di un re costituito da Dio e liberatore del mondo fosse copiata dai persiani dalla cerchia di idee babilonesi. Qui questa concezione aveva preso una radice profonda e fu applicata in momenti diversi ora a questo ora a quel re. [11] Proprio come nella religione persiana, il ritratto del Messia oscillava tra un re umano della stirpe di Davide e un essere soprannaturale di natura divina disceso dal cielo. E proprio come nella rappresentazione persiana della venuta di Saoshyant e della vittoria finale del Regno della Luce, ci sarebbe stato un periodo precedente durante cui segni minacciosi sarebbero apparsi nei cieli, l'intera natura si sarebbe ritrovata sconvolta e l'umanità sarebbe stata afflitta da piaghe terribili, così anche l'Apocalisse ebraica parla dei “guai” del Messia e descrive un periodo di terrore che avrebbe preceduto la venuta del Messia. La venuta della potenza di Dio fu guardata come una catastrofe miracolosa che avrebbe fatto irruzione improvvisamente dall'alto, come una conflagrazione del mondo seguita da una nuova creazione. La visione ebraica concordava con la visione persiana anche in questo, nel fatto che fece seguire un regno celeste di perenne felicità “nella luce della vita eterna e nella somiglianza degli angeli” all'impero terreno universale del Messia. Questo lo immaginarono lungo esattamente le stesse linee del Paradiso persiano. Là i santi avrebbero bevuto dell'“Acqua della Vita” e si sarebbero nutriti del frutto che pendeva sull'“Albero della Vita”. I malvagi, d'altra parte, sarebbero stati gettati nell'inferno e avrebbero sofferto in tormenti terribili la giusta punizione dei loro peccati. [12]
La concezione di una resurrezione dei morti e di un giudizio finale era stata strana finora per gli ebrei. Nei giorni pre-esilici essi consentivano al corpo di morire e all'anima di discendere dopo la morte come un'ombra priva di percezione nell'Ade (Sheol), senza disturbarsi ulteriormente circa il suo fato. Ora, comunque, con la dottrina della distruzione del mondo col fuoco e il giudizio universale, l'idea di un'immortalità personale penetrò nel mondo del pensiero ebraico. Così è detto da Daniele che nel giorno del giudizio i morti risorgeranno, alcuni risvegliandosi alla vita eterna, altri ad eterna perdizione. “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno”. [13] Con l'accettazione di una personalità immortale l'intero tono del pensiero religioso si approfondì e si arricchì nella direzione di pensiero per il singolo essere umano. La precedente moralità ebraica era stata essenzialmente di un genere collettivo. Non fu così tanto l'individuo quanto il popolo visto collettivamente a cui si guardava come oggetto di sollecitudine divina. A questo punto fu stabilita definitivamente la posizione, la cui strada era già stata preparata dai profeti, per cui l'individuo sperava per una salvezza religiosa personale e di conseguenza si sentiva in diretta relazione personale con Jahvè. Dio in effetti rimase, come i persiani avevano insegnato loro a comprenderlo, il signore sovrumano del cielo intronizzato nella pura luce, la fonte di ogni esistenza, il Dio vivente. Le sue qualità metafisiche, comunque, la sua gloria abbagliante e la sua potenza invincibile erano sempre più oscurate dai suoi attributi morali: bontà, grazia, e pietà apparvero come gli aspetti più prominenti nella natura di Jahvè. Dio sembrava un padre amorevole che conduce i suoi figli attravero la vita con cura generosa, e senza il cui consenso non un capello di una delle sue creature si sarebbe potuto toccare. La forte tendenza all'interno dell'ebraismo, rappresentata dalle correnti superiori del rabbinismo farisaico, stringeva continuamente i confini nazionali, e si preoccupava ancor più ansiosamente di una osservanza penosamente stretta della lettera della legge e di una coscienziosa osservanza di ordinanze ritualistiche. L'etica minacciava di estinguersi sotto un sistema di regole convenzionali di una natura essenzialmente giuridica. Tuttavia nel frattempo una moralità più umana e naturale stava sorgendo, una pietà interiore, calorosa, popolare, e profonda, che fece irruzione attraverso gli stretti limiti del nazionalismo ebraico, ed emanò una corrente d'aria fresca nella pesante atmosfera del legalismo ufficiale. Fu allora che la base della successiva etica cristiana fu posta nella moralità purificata dei salmi, negli aforismi, e in altri testi edificanti di un Giobbe, di un Baruc, di un Gesù figlio di Siracide, ecc. Fu allora che il monoteismo ebraico si accinse ad estendere la sua influenza al di là dei limiti della sua stessa terra e ad entrare in competizione con le altre religioni dell'antichità, da cui doveva ritirarsi sconfitto solo di fronte ad un cristianesimo maturo.

NOTE

[1] È certo che l'antico Jahvè israelita ricavò soltanto quella natura spiritualizzata, per la quale egli è decantato al giorno d'oggi, sotto l'influenza dell'adorazione persiana priva di immagini di Dio. Sono inutili tutti gli sforzi per costruire, a dispetto di questa ammissione, una differenza “qualitativa” tra Jahvè e Ahura Mazda, come fa, per esempio, Stave nella sua opera (“Der Einfluss des Parsismus auf das Judentum”, 1898, 122 seq.). Secondo Stave, la concezione del bene e del male non è afferrata nel mazdeismo in tutta la sua purezza e verità, ma “è stata confusa con la concezione naturale”. Ma quella distinzione è “afferrata in tutta la sua purezza” nell'ebraismo con il suo legalismo ritualistico? In effetti, è giunta ad una realizzazione veramente pura anche nel cristianesimo, in cui la devozione e l'attaccamento alla Chiesa passano così spesso per idee identiche? Diamo a ciascuna religione il suo dovuto, e finiamola di essere sottili nella derivazione di simili distinzioni artificiali a favore della nostra propria — distinzioni che si riducono al nulla di fronte ad ogni considerazione priva di pregiudizi.

[2] Esodo 4:22; Deuteronomio 32:6; Osea 11:1.

[3] Isaia 49:6, 8.

[4] Id. 51:16.

[5] Isaia 44:28, 45:1 seq.

[6] Cumont, “Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra”, 1899, volume 1. 188.

[7] Isaia 11:65, 17 seq.

[8] Isaia 9:6; Michea 5:1.

[9] Capitoli 45-51.

[10] Capitolo 6:1 seq.

[11] Si veda Gunkel, “Zum religionsgesch. Verständnis des Neuen Testaments”, 1903, pag. 23, nota 4.

[12] Apocalisse 23; si veda Pfleiderer, “Das Urchristentum. Seine Schriften und seine Lehren”, seconda edizione, 1902, volume 2, 54 seq.

[13] Daniele 12:3.

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