IL MITO DI CRISTO
IL GESÙ PRECRISTIANO
“Se vedrai un uomo che non si lascia spaventare dai pericoli, turbare dalle passioni, sereno tra le avversità, calmo in mezzo alla tempesta, che sa guardare agli altri uomini dall'alto, gli dei come suoi pari: non sarai preso verso di lui da un sentimento di venerazione? Non dirai: cotesto essere è troppo grande ed elevato perché possa essere stimato simile al corpicciuolo in cui si trova ? In esso è discesa una forza divina: uno spirito superiore, fermo, che trascura tutte le cose considerandole di troppo poca importanza, si ride di quanto noi temiamo e desideriamo, ed è mosso da una potenza celeste. Non può un essere così grande mantenersi saldo senza il sostegno della divinità: perciò colla più nobile parte di se stesso sta là donde è disceso. Come i raggi del sole raggiungono la terra, ma non si staccano dal loro punto di partenza, così l'anima grande e santa, mandata quaggiù per farci conoscere meglio il divino, sta insieme a noi, ma rimane unita alla sua origine; dipende da essa, a essa guarda e aspira e sta in mezzo a noi come un essere superiore. Qual è, dunque, quest'anima? È l'anima che brilla solo del suo bene. Quello che è proprio all'uomo è l'anima e nell'anima una ragione perfetta. L'uomo è un animale dotato di ragione: il suo bene lo attua appieno, se adempie al fine per cui è nato.”
Con quelle parole il filosofo romano Seneca (4 A.E.C. - 65 E.C.) descrive l'uomo idealmente grande e buono così da essere indotti a imitarlo. [1] “Dobbiamo indirizzare la nostra stima verso un uomo onesto”, egli dice, “e averlo sempre davanti agli occhi per vivere come se lui ci guardasse, e agire sempre come se ci vedesse. Si evitano molti errori, se è presente un testimone quando si sta per commetterli. È bene provare rispetto e riverenza per una persona che possa rendere più puro ogni nostro segreto sentimento con la sua autorevolezza. Beato chi con la sua presenza fisica, o anche solo spirituale, ci aiuta a emendarci! Beato chi rispetta un uomo al punto di correggersi e migliorarsi anche solo ricordandolo! È necessario regolare su qualcuno la nostra condotta: non si possono correggere i difetti senza una norma cui fare riferimento” (Ep. 11). “Mettiti nello stato d'animo di quel grande uomo e lascia un po' da parte i pregiudizi del volgo; cerca di comprendere, come devi, la bellezza e la magnificenza della virtù: non dobbiamo renderle omaggio con incenso e corone, ma con sudore e sangue” (Ep. 67). “Se noi potessimo guardare dentro l'anima di un uomo onesto, che straordinaria bellezza, che sacralità, che fulgore di magnificenza e di serenità vedremmo; vi splenderebbero la giustizia, la fortezza, la temperanza e la saggezza! E oltre a queste, la frugalità, la moderazione, la pazienza, la generosità, l'affabilità e il senso di umanità, bene raro — chi lo crederebbe? — in un uomo, diffonderebbero su di essa la loro luce. Poi la prudenza insieme alla correttezza e alla magnanimità, la più insigne tra queste virtù, quanta bellezza, buon dio, quanta gravità e peso le aggiungerebbero, quanta autorità e quanto credito! Tutti la definirebbero meritevole di amore e insieme di venerazione. Se qualcuno vedesse questa bellezza più vivida e splendente di quanto si è soliti vedere tra le cose umane, non si fermerebbe attonito come se si trovasse di fronte a una divinità e pregherebbe in silenzio: Sia lecita questa visione; poi invitato dall'espressione benevola del volto, non la adorerebbe supplicandola e, dopo averla a lungo contemplata così eminente e alta più della statura delle cose che siamo abituati a vedere, con gli occhi pieni di dolcezza e tuttavia ardenti di un vivido fuoco, preso da sacro rispetto e sbalordito non pronuncerebbe, infine, quel verso del nostro Virgilio: 'Come debbo chiamarti, o vergine? Non hai aspetto mortale e la tua voce non è umana... sii propizia, chiunque tu sia, e allevia i nostri affanni!' Ci assisterà e ci aiuterà se vorremo venerarla. Ma non la si venera sacrificando pingui tori, e nemmeno con doni votivi d'oro e d'argento o con offerte versate al tesoro del tempio, ma con pii e onesti propositi. Tutti, dico, arderemmo d'amore per lei se ci toccasse di vederla; per ora molti sono gli ostacoli che accecano i nostri occhi con l'eccessivo splendore o li impediscono con le tenebre. Ma come con certi medicamenti noi rendiamo più acute e limpide le nostre capacità visive, così se vorremo liberare la vista dell'anima da ogni impedimento, potremo scorgere la virtù anche sotto il peso del corpo, anche se la povertà le fa da schermo, anche attraverso l'umile condizione e il disonore; vedremo, insomma, la sua bellezza anche coperta di cenci” (Ep. 115).
L'attitudine espressa in quelle parole era diffusa in tutto il mondo civilizzato al principio dell'era cristiana. Una percezione dell'incertezza di tutte le cose umane incombeva come un sogno orribile sulla maggior parte degli spiriti. L'angoscia generale del tempo, il collasso degli stati nazione sotto la dura mano dei conquistatori romani, la perdita di indipendenza, l'incertezza delle condizioni politiche e sociali, l'incessante guerriglia e il pesante giro di vite che comportava — tutto questo costringeva gli uomini a ritornare alla loro vita interiore personale, e li induceva a cercare qualche sostegno contro la perdita della felicità esteriore in una filosofia che sollevasse e rinvigorisse l'anima. Ma la filosofia antica si era spenta. La rozza interazione di natura e spirito, quell'ingenua fiducia in una realtà esterna che era stata l'espressione di un vigore giovanile nei popoli mediterranei, ora fu sconvolta. Agli occhi degli uomini di quel tempo la Natura e lo Spirito rimanevano opposti come fatti ostili e irreconciliabili. Tutti gli sforzi per restaurare la sconvolta unità erano frustrati dall'impossibilità di riottenere l'attitudine primitiva. Uno scetticismo sterile che non soddisfaceva alcuno, ma a partire da cui nessuna via era nota, paralizzava tutta la gioia in attività esteriori o interiori, e impediva agli uomini di trarre qualche piacere dalla vita. Perciò tutti gli occhi si volgevano verso un sostegno soprannaturale, una diretta illuminazione divina, una rivelazione; e sorgeva il desiderio di trovare ancora una volta la certezza perduta nell'ordine dell'esistenza tramite una dipendenza su un essere ideale e sovrumano.
Molti videro nella persona esaltata dell'Imperatore l'incarnazione di un simile essere divino. Non si trattava allora sempre di pura adulazione, ma abbastanza spesso dell'espressione di una reale gratitudine verso specifici benefattori imperiali, combinata con un desiderio di una prossimità diretta ad un dio e di una sua presenza visibile, che avrebbe fornito al culto dell'Imperatore il suo grande significato attraverso tutto l'Impero romano.
Un Augusto che aveva posto un termine agli orrori della guerra civile deve essere apparso, a dispetto di tutto, come un principe di pace e un salvatore al limite estremo, che era venuto a rinnovare il mondo e a riportare i bei giorni dell'Età dell'Oro. Egli aveva offerto di nuovo all'umanità un senso nella vita e qualche significato all'esistenza. In qualità di capo della religione dello Stato romano, una persona attraverso le cui mani passavano i fili della politica del mondo intero, come il dominatore di un impero che il mondo non aveva mai visto prima, egli potrebbe ben apparire agli uomini come un Dio, come lo stesso Giove disceso sulla terra, per dimorare tra gli uomini. “Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza”, recita un'iscrizione, apparentemente del nono anno prima di Cristo, trovata a Priene non molto tempo fa, “che segna il limite e il termine del pentimento di essere nati. Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti, non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno di nascita del Dio fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci (Vangeli) a lui collegati”. [2]
Non fu solo la brama dell'umanità di una nuova struttura della società, di pace, giustizia, e felicità sulla terra, a risiedere alla radice del culto degli imperatori. Spiriti più profondi cercavano non solo un miglioramento nelle circostanze politiche e sociali, ma si sentivano tormentati da pensieri della morte e del fato dell'anima dopo la sua dipartita dal suo guscio corporeo. Tremavano all'attesa della prima occorrenza di una catastrofe mondiale, che avrebbe posto una fine terribile ad ogni esistenza. La cornice apocalittica dello spirito era così diffusa al principio dell'era cristiana che perfino un Seneca non avrebbe potuto trattenere i suoi pensieri dal primo arrivo della fine del mondo. Infine, vi crebbe anche una paura superstiziosa di spiriti maligni e demoni, che a malapena possiamo esagerare. E qui nessuna meditazione filosofica avrebbe potuto offrire un supporto a spiriti ansiosi, ma solo la religione. Di rado nella storia dell'umanità il bisogno di religione è stato sentito così fortemente come nell'ultimo secolo prima e il primo secolo dopo Cristo. Ma non fu dalle vecchie religioni nazionali ereditarie che ci si aspettò una liberazione. Fu dalla commistione e dall'unificazione senza freni di tutte le religioni esistenti, da un sincretismo religioso, il quale fu particolarmente approfondito dalla familiarità con le religioni straniere, ma per quella ragione ancor più attraenti, dell'oriente. Già Roma era diventata un Pantheon di quasi tutte le religioni che si sarebbero potute praticare, mentre nel lontano oriente, nel medioriente, quel luogo di allevamento di dèi e di culti antichi, vi stavano continuamente apparendo nuove forme più ardite e segrete di attività religiosa. Pure quelle in breve tempo ottennero il loro posto nella coscienza dell'umanità occidentale. Dove il culto pubblico degli dei riconosciuti non era sufficiente, gli uomini cercarono una soddisfazione più profonda nelle innumerevoli associazioni mistiche di quel tempo, oppure si riunirono con altri di spirito simile in corpi religiosi privati o in pie fratellanze, al fine di nutrire nella quiete di una privata osservanza ritualistica una vita religiosa individuale separata dalla religione ufficiale dello Stato.
Con quelle parole il filosofo romano Seneca (4 A.E.C. - 65 E.C.) descrive l'uomo idealmente grande e buono così da essere indotti a imitarlo. [1] “Dobbiamo indirizzare la nostra stima verso un uomo onesto”, egli dice, “e averlo sempre davanti agli occhi per vivere come se lui ci guardasse, e agire sempre come se ci vedesse. Si evitano molti errori, se è presente un testimone quando si sta per commetterli. È bene provare rispetto e riverenza per una persona che possa rendere più puro ogni nostro segreto sentimento con la sua autorevolezza. Beato chi con la sua presenza fisica, o anche solo spirituale, ci aiuta a emendarci! Beato chi rispetta un uomo al punto di correggersi e migliorarsi anche solo ricordandolo! È necessario regolare su qualcuno la nostra condotta: non si possono correggere i difetti senza una norma cui fare riferimento” (Ep. 11). “Mettiti nello stato d'animo di quel grande uomo e lascia un po' da parte i pregiudizi del volgo; cerca di comprendere, come devi, la bellezza e la magnificenza della virtù: non dobbiamo renderle omaggio con incenso e corone, ma con sudore e sangue” (Ep. 67). “Se noi potessimo guardare dentro l'anima di un uomo onesto, che straordinaria bellezza, che sacralità, che fulgore di magnificenza e di serenità vedremmo; vi splenderebbero la giustizia, la fortezza, la temperanza e la saggezza! E oltre a queste, la frugalità, la moderazione, la pazienza, la generosità, l'affabilità e il senso di umanità, bene raro — chi lo crederebbe? — in un uomo, diffonderebbero su di essa la loro luce. Poi la prudenza insieme alla correttezza e alla magnanimità, la più insigne tra queste virtù, quanta bellezza, buon dio, quanta gravità e peso le aggiungerebbero, quanta autorità e quanto credito! Tutti la definirebbero meritevole di amore e insieme di venerazione. Se qualcuno vedesse questa bellezza più vivida e splendente di quanto si è soliti vedere tra le cose umane, non si fermerebbe attonito come se si trovasse di fronte a una divinità e pregherebbe in silenzio: Sia lecita questa visione; poi invitato dall'espressione benevola del volto, non la adorerebbe supplicandola e, dopo averla a lungo contemplata così eminente e alta più della statura delle cose che siamo abituati a vedere, con gli occhi pieni di dolcezza e tuttavia ardenti di un vivido fuoco, preso da sacro rispetto e sbalordito non pronuncerebbe, infine, quel verso del nostro Virgilio: 'Come debbo chiamarti, o vergine? Non hai aspetto mortale e la tua voce non è umana... sii propizia, chiunque tu sia, e allevia i nostri affanni!' Ci assisterà e ci aiuterà se vorremo venerarla. Ma non la si venera sacrificando pingui tori, e nemmeno con doni votivi d'oro e d'argento o con offerte versate al tesoro del tempio, ma con pii e onesti propositi. Tutti, dico, arderemmo d'amore per lei se ci toccasse di vederla; per ora molti sono gli ostacoli che accecano i nostri occhi con l'eccessivo splendore o li impediscono con le tenebre. Ma come con certi medicamenti noi rendiamo più acute e limpide le nostre capacità visive, così se vorremo liberare la vista dell'anima da ogni impedimento, potremo scorgere la virtù anche sotto il peso del corpo, anche se la povertà le fa da schermo, anche attraverso l'umile condizione e il disonore; vedremo, insomma, la sua bellezza anche coperta di cenci” (Ep. 115).
L'attitudine espressa in quelle parole era diffusa in tutto il mondo civilizzato al principio dell'era cristiana. Una percezione dell'incertezza di tutte le cose umane incombeva come un sogno orribile sulla maggior parte degli spiriti. L'angoscia generale del tempo, il collasso degli stati nazione sotto la dura mano dei conquistatori romani, la perdita di indipendenza, l'incertezza delle condizioni politiche e sociali, l'incessante guerriglia e il pesante giro di vite che comportava — tutto questo costringeva gli uomini a ritornare alla loro vita interiore personale, e li induceva a cercare qualche sostegno contro la perdita della felicità esteriore in una filosofia che sollevasse e rinvigorisse l'anima. Ma la filosofia antica si era spenta. La rozza interazione di natura e spirito, quell'ingenua fiducia in una realtà esterna che era stata l'espressione di un vigore giovanile nei popoli mediterranei, ora fu sconvolta. Agli occhi degli uomini di quel tempo la Natura e lo Spirito rimanevano opposti come fatti ostili e irreconciliabili. Tutti gli sforzi per restaurare la sconvolta unità erano frustrati dall'impossibilità di riottenere l'attitudine primitiva. Uno scetticismo sterile che non soddisfaceva alcuno, ma a partire da cui nessuna via era nota, paralizzava tutta la gioia in attività esteriori o interiori, e impediva agli uomini di trarre qualche piacere dalla vita. Perciò tutti gli occhi si volgevano verso un sostegno soprannaturale, una diretta illuminazione divina, una rivelazione; e sorgeva il desiderio di trovare ancora una volta la certezza perduta nell'ordine dell'esistenza tramite una dipendenza su un essere ideale e sovrumano.
Molti videro nella persona esaltata dell'Imperatore l'incarnazione di un simile essere divino. Non si trattava allora sempre di pura adulazione, ma abbastanza spesso dell'espressione di una reale gratitudine verso specifici benefattori imperiali, combinata con un desiderio di una prossimità diretta ad un dio e di una sua presenza visibile, che avrebbe fornito al culto dell'Imperatore il suo grande significato attraverso tutto l'Impero romano.
Un Augusto che aveva posto un termine agli orrori della guerra civile deve essere apparso, a dispetto di tutto, come un principe di pace e un salvatore al limite estremo, che era venuto a rinnovare il mondo e a riportare i bei giorni dell'Età dell'Oro. Egli aveva offerto di nuovo all'umanità un senso nella vita e qualche significato all'esistenza. In qualità di capo della religione dello Stato romano, una persona attraverso le cui mani passavano i fili della politica del mondo intero, come il dominatore di un impero che il mondo non aveva mai visto prima, egli potrebbe ben apparire agli uomini come un Dio, come lo stesso Giove disceso sulla terra, per dimorare tra gli uomini. “Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza”, recita un'iscrizione, apparentemente del nono anno prima di Cristo, trovata a Priene non molto tempo fa, “che segna il limite e il termine del pentimento di essere nati. Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti, non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno di nascita del Dio fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci (Vangeli) a lui collegati”. [2]
Non fu solo la brama dell'umanità di una nuova struttura della società, di pace, giustizia, e felicità sulla terra, a risiedere alla radice del culto degli imperatori. Spiriti più profondi cercavano non solo un miglioramento nelle circostanze politiche e sociali, ma si sentivano tormentati da pensieri della morte e del fato dell'anima dopo la sua dipartita dal suo guscio corporeo. Tremavano all'attesa della prima occorrenza di una catastrofe mondiale, che avrebbe posto una fine terribile ad ogni esistenza. La cornice apocalittica dello spirito era così diffusa al principio dell'era cristiana che perfino un Seneca non avrebbe potuto trattenere i suoi pensieri dal primo arrivo della fine del mondo. Infine, vi crebbe anche una paura superstiziosa di spiriti maligni e demoni, che a malapena possiamo esagerare. E qui nessuna meditazione filosofica avrebbe potuto offrire un supporto a spiriti ansiosi, ma solo la religione. Di rado nella storia dell'umanità il bisogno di religione è stato sentito così fortemente come nell'ultimo secolo prima e il primo secolo dopo Cristo. Ma non fu dalle vecchie religioni nazionali ereditarie che ci si aspettò una liberazione. Fu dalla commistione e dall'unificazione senza freni di tutte le religioni esistenti, da un sincretismo religioso, il quale fu particolarmente approfondito dalla familiarità con le religioni straniere, ma per quella ragione ancor più attraenti, dell'oriente. Già Roma era diventata un Pantheon di quasi tutte le religioni che si sarebbero potute praticare, mentre nel lontano oriente, nel medioriente, quel luogo di allevamento di dèi e di culti antichi, vi stavano continuamente apparendo nuove forme più ardite e segrete di attività religiosa. Pure quelle in breve tempo ottennero il loro posto nella coscienza dell'umanità occidentale. Dove il culto pubblico degli dei riconosciuti non era sufficiente, gli uomini cercarono una soddisfazione più profonda nelle innumerevoli associazioni mistiche di quel tempo, oppure si riunirono con altri di spirito simile in corpi religiosi privati o in pie fratellanze, al fine di nutrire nella quiete di una privata osservanza ritualistica una vita religiosa individuale separata dalla religione ufficiale dello Stato.
NOTE
[1] Ep. ad Luc. 41.
[2] E. V. Mommsen e Wilamowitz nelle Transactions of the German Archaeological Institute, 23. Parte 3.; “Christl. Welt”, 1899, Numero 57. Confronta la famosa Quarta Ecloga di Virgilio come un'espressione particolarmente caratteristica dell'ansia di redenzione di quel periodo. Anche Jeremias, “Babylonisches im Neuen Testament”, 1905, pag. 57 seq. Lietzmann, “Der Weltheiland”, 1909.
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