Il Dio di Coincidenza
Può qualcuno negare che
Una cosa dopo l'altra
In sequenza e logica
Mai vista prima
Non può essere che la
Interferenza di un Dio
Determinata a provare che
Ognuno che pretende
Di conoscere ora
Una cospirazione è
Demente?
(Kent Murphy)
Il libro di cui mi appresto ora a pubblicare la traduzione in italiano, Il Mito di Cristo di Arthur Drews, ha come scopo di provare che il Gesù Cristo del cristianesimo è un arcangelo ebraico e pre-cristiano, di nome Giosuè [=Gesù], che l'autore del primo vangelo (“Marco”) trasformò in un essere umano, rappresentandolo deliberatamente come un profeta vissuto nel primo secolo della nostra era sotto il nome di Gesù, nonostante un “Gesù storico” del genere non fosse mai vissuto.
Allo scopo di provare l'esistenza del culto di questo arcangelo pre-cristiano, Arthur Drews presenta al lettore, specialmente nella prima parte del libro intitolata “Il Gesù pre-cristiano”, un'enorme quantità di informazioni e di dati ricavati dallo studio comparativo delle religioni antiche. Perfino se la metà di quelle informazioni non siano considerate più solida evidenza al giorno d'oggi, l'autore riesce comunque nell'intento di provare l'esistenza di diversissime concezioni pre-cristiane mistiche, ritualistiche, sacrificali, speculative, in una parola mitiche, provenienti da fonti pagane ed ebraiche penetrate in un modo o nell'altro nella formazione dell'idea cristiana di Cristo. Perfino gli storicisti più ostinati devono riconoscere al Drews che l'idea di un dio-salvatore che muore e risorge, il mito di Cristo propriamente detto come distinto dal mito della veracità storica di Gesù, ovvero l'idea del dio che reca vita e immortalità mediante la sua morte, era radicata profondamente nelle molteplici idee pre-cristiane del tipo appena menzionate e costituiva la loro evoluzione più naturale.
Drews mostra che la religione persiana influenzò profondamente l'ebraismo riguardo all'idea del Messia-Salvatore; che perfino la lontanissima India potrebbe aver contribuito con idee vediche e buddhiste; che altre religioni dell'antichità come quella babilonese e quella egizia fornirono la stessa idea, sebbene per vie diverse, del dio che muore e risorge, alla cui base vi era la morte della vegetazione (per il troppo freddo nel Settentrione o per il troppo caldo in Medioriente) e la sua rinascita. Drews mostra anche la stretta connessione tra l'idea del dio che muore e risorge e la pratica del reale sacrificio umano come contributo essenziale alla rivificazione della natura, progressivamente trasformato in una — più civile ma non meno irrazionale — simulazione di un sacrificio, senza reale spargimento di sangue. Drews mostra che gran parte del linguaggio mitico, mistico e astratto del mitraismo, del mandeismo e di altri culti misterici fece il suo ingresso nel linguaggio religioso del cristianesimo circa il suo Cristo e le relazioni tra il Cristo e i suoi seguaci. Drews mostra l'influenza della religione persiana, vedica, buddhista e del pensiero metafisico greco nella formazione delle idee metafisiche cristiane, in particolare dell'idea della sapienza divina, del Logos come mediatore tra un Dio lontanissimo e la sua creazione. Drews mostra che il ritratto cristiano dell'uomo ideale, perfetto, giusto, sofferente, era mutuato parimenti da Platone e da Seneca. Dimostra, dati alla mano, che le idee dell'unione dell'uomo con Dio tramite riti sacri, battesimo, pasti sacri, ecc., erano radicate profondamente nelle pratiche pre-cristiane. In particolare mostra la forte influenza dell'idea pre-cristiana della morte propiziatoria, al punto tale da rendere espiatoria e redentiva per tutto il popolo la stessa morte dei martiri che morivano per la loro religione come i sediziosi Maccabei. In breve Arthur Drews presenta efficacemente un'enorme quantità di materiale prezioso relativo ad un esercito sterminato di idee diversissime penetrate nella formazione del cristianesimo, rendendolo de facto una religione completamente sincretistica.
Dove Drews è attualissimo, ad ogni caso, è nella sua interpretazione di Paolo. “La forma in cui Paolo afferrò il cristianesimo era quella di un'incarnazione di Dio”, scrive a pagina 189. Tuttavia questa forma e questa rappresentazione della religione di Paolo nelle sue lettere non si riferiscono ad un Gesù storico in cui si sarebbe creduto che prendesse luogo questa incarnazione. Tutto sembra indicare che il Gesù di Paolo fosse un semplice spettro. Sebbene le parole sembrano puntare ad un Gesù umano, “umano” non significa “storico” e pensare altrimenti equivale a commettere un grossolano non-sequitur. In realtà, la stessa umanità del Gesù di Paolo è il più forte argomento contro la sua storicità che si può ricavare dalle sole lettere di Paolo.
Arthur Drews |
Non era insolito tra i popoli pagani che un uomo venisse sacrificato, al posto della Deità, come un rappresentante simbolico; nonostante già al tempo di Paolo era consuetudine rappresentare il Dio che si sacrifica solo tramite un'effigie, invece che da un uomo reale. Il punto importante, comunque, non era questo, ma l'idea che risiede al fondamento di questo auto-sacrificio divino. E questo non era influenzato dal fatto che la vittima fosse un criminale, che veniva ucciso nel ruolo dell'uomo innocente e giusto, e dal fatto che la volontarietà della sua morte fosse completamente fittizia. Non poteva anche essere, come affermavano i credenti in Gesù, che il Messia non si dovesse più aspettare, e ciò solo sulla base della giustizia umana; ma che invece egli fosse già apparso, e avesse già realizzato la giustizia irraggiungibile da un singolo essere umano tramite la sua morte vergognosa e la sua resurrezione gloriosa?
Il momento in cui quest'idea balenò nella mente di Paolo era il momento della nascita del cristianesimo come religione di Paolo. La forma in cui egli realizzò quella concezione era quella di un'Incarnazione di Dio; e allo stesso tempo questa forma era tale che egli introdusse con essa un impulso abbastanza nuovo nel vecchio modo di pensare. Secondo la concezione pagana un Dio in effetti si sacrificava per il suo popolo, senza con ciò cessare di essere Dio; e qui l'uomo sacrificato al posto di Dio era considerato semplicemente un rappresentante casuale del Dio che si auto-sacrifica. Secondo l'antica visione della fede ebraica era realmente il “Figlio dell'Uomo”, un essere dalla natura umana, che doveva discendere dal cielo ed effettuare l'opera di redenzione, senza, comunque, essere un uomo reale e senza soffrire e morire in forma umana. Con Paolo, al contrario, l'enfasi risiede proprio su questo, che il Redentore dovesse essere lui stesso realmente un uomo, e che l'uomo sacrificato al posto di Dio dovesse essere a sua volta il Dio che appare in forma umana: l'uomo non era semplicemente una rappresentazione di Dio come un essere celeste e soprannaturale, ma Dio stesso che appare in forma umana. Dio stesso diventa uomo, e in tal modo un uomo è esaltato alla Deità, e, come rappresentante espiatorio del suo popolo, può unire il genere umano con Dio.
(Arthur Drews, Il Mito di Cristo, pag. 188-190)
Con i primi cristiani, con Paolo, non era necessario che un criminale (mettici qui il profeta apocalittico fallito che preferisci) venisse sacrificato al posto della divinità. Non era necessario che un'effigie fatta da mani d'uomo venisse “crocifissa” al posto della divinità. Non era necessario neppure che uno “simile ad un figlio d'uomo” venisse crocifisso al posto della divinità. In tutti quei casi, il sacrificio era ancora insufficiente, perché la distanza tra il crocifisso e la divinità rimaneva ancora troppo paurosamente abissale da poter colmare.
Quello che era veramente necessario, per i primi cristiani e per Paolo, è che il riflesso, lo specchio più fedele della divinità stessa, apparendo come uomo, venisse crocifisso. Questo avrebbe accorciato notevolmente, fin quasi a zero, la distanza tra il crocifisso e la divinità, ma in compenso il sacrificio sarebbe stato il più propiziatorio possibile, e perciò il più redentivo.
Ma c'era un prezzo da pagare per un concetto così elevato, al contempo macabro e sublime: l'evento “crocifissione” a cui i primi cristiani e Paolo si riferivano, cominciò così come un giorno — un giorno vicinissimo a loro giudizio — sarebbe finito…
Nel mistero.
Nel mistero.
E il mistero, e il silenzio che ne deriva quasi naturalmente, veicola lo spirito più autentico del cristianesimo più antico, quale si testimoniò così vividamente nelle lettere di Paolo. Senti, in quelle lettere, che il loro autore era tutto fuorché a conoscenza delle farneticazioni evangeliche intorno al suo “Cristo Gesù”.
Non solo questo: senti che il loro autore, l'uomo chiamato Paolo, chiunque egli fosse e dovunque provenisse, fu l'espressione di una spiritualità straripante, e sicuramente soltanto la punta dell'iceberg di tale spiritualità, visto che non fu Paolo ma Giacomo o Pietro a fondare la religione misterica ebraica nota in seguito come cristianesimo.
E qui, si badi bene, non voglio essere frainteso: per favore, non chiamatemi spirituale, neppure quando apprezzo Paolo come espressione di intensissima spiritualità. Per un ateo come me “spiritualità” è parola vuota se la si giudica “buona” (o addirittura “cattiva”) secondo parametri di una moralità che si crede oggettiva ma alla cui esistenza non credo per nulla (ergo me per il “bene” e il “male” morali sono solo parole vuote che non significano nulla). L'uso che qui si fa del termine “spiritualità” è semplicemente un altro nome per indicare il misticismo. Quel fenomeno drammatico della religione perduto il quale la religione stessa diventa ipso facto sterile di qualsivoglia ispirazione e pronta a contaminarsi e ad insudiciarsi con improbabili personaggi assolutamente mediocri come il folle apologeta cristiano Jerim Pischedda o il folle apologeta cattolico Adriano Virgili, autore, quest'ultimo, di un libro tanto insulso quanto meramente ripetitivo di sedicenti “argomenti” già confutati da un pezzo dagli scettici.
Ribelle per vocazione, preda di allucinazioni, il mistico Paolo giocava, tremando, con il cielo. I bastardi proto-cattolici lo avevano degradato al rango di questuante del soprannaturale affinchè potesse, deplorevolmente bonificato da ogni minimo sospetto di eresia proto-gnostica, servire da “modello” per il demente proto-cattolico medio. Io so, tuttavia, che Paolo l'Apostolo fu, nella vita come negli scritti, un fenomeno della natura, e che la più grande sventura della sua letteratura fu quella di cadere nelle mani di falsari proto-cattolici. È dovere di ogni vero storico degno di questo nome strapparla a quelle mani: solo a questo prezzo per il cristianesimo antico si potrà davvero tentare una seria ricostruzione storica delle sue reali Origini.
Quando chiamo Paolo “fenomeno della natura” non intendo affatto dire che la sua “salute” fosse invulnerabile. Si sa che era malato e che soffriva di allucinazioni di tipo schizotipo. Ma la malattia agiva su di lui come un pungolo, come un fattore di potenziamento. Mediante la malattia mirava ad un genere di vitalità diverso dal nostro. Paolo l'apostolo era rotto a tutte le fatiche, come lui stesso dice.
Non è questo un segno di forza? Egli distruggeva il corpo soltanto per trarne un sovrappiù di potenza. Lo si crede mite: non vi fu in realtà essere più duro. La sua era la virtù dello squilibrio. Avido di ogni sorta di piaghe, ipnotizzato dall'ignoto, Paolo aveva intrapreso la conquista della sola finzione che per lui valeva. Gesù Cristo gli deve tutto: la gloria, il mistero, l'eternità. Paolo infuse esistenza all'inconcepibile, violentò il Gesù mitologico per animarlo: come avrebbe potuto la semplice mitezza compiere una simile impresa?
A differenza del chimerico Gesù evangelico, evanescente e falso, il Gesù celeste di Paolo risplendeva di pienezza, a tal punto costituiva per Paolo un godimento fuori del mondo, un'elevazione estatica e vertiginosa, l'annichilimento luminoso al di là dei confini del pensiero. Soffriva di allucinazioni e della fede necessaria a chiamare “fede” il frutto proibito dell'allucinazione. Inabissarsi in essa per ritrovarsi: per tutto ciò occorse a Paolo, più energia e temerarietà di quante potessero mai richiederne tutti gli altri tra i suoi contemporanei. Quanto all'estasi—stato limite della sensazione, consapevolezza attraverso la rovina della coscienza — ne furono capaci Pietro, Giacomo e Giovanni (i cosiddetti “Pilastri”), lo stesso Paolo, i “500” fratelli, allorchè, avventurandosi fuori da sé stessi, sostituirono all'illusione insignificante, che era il fondamento della loro vita — e non di un fantomatico Gesù storico—, un'altra illusione, suprema, in cui tutto per loro era risolto, tutto era superato. Là, in quell'illusione chiamata “Gesù Cristo”, il loro spirito era sospeso, la loro riflessione abolita, e con essa la logica dello smarrimento. Se solo potessimo, sull'esempio dei primi apostoli cristiani come Paolo, disdegnare le evidenze e il vicolo cieco che ne deriva, se solo potessimo come loro risalire alla visione del vero nulla chiamato “Gesù Cristo”!!?
Con quale avidità mistici come Paolo plagiarono l'arcangelo pre-cristiano Gesù, lo saccheggiarono, gli sottrassero i suoi attributi di cui si munivano per... ricrearlo! Nulla resisteva all'effervescenza della loro follia apocalittica e insieme mistico-allucinatoria, a questa espansione della loro anima sempre in procinto di costruire un altro cielo, un'altra Gerusalemme. Tutto ciò che toccarono sembrava esistere. Poichè avevano compreso l'inconveniente di vedere e lasciare le cose tali e quali, si sforzarono di creare nella loro mente ciò che era impossibile nel mondo reale: un Messia che muore e risorge!
Si trattava, in effetti, di un difetto della loro vista, un vizio ottico al quale felicemente si abbandonavano, in preda ad un mistico delirio, dedicando a tal fine tutte le loro attenzioni. Nessuna traccia di reale, lo sapeva bene Paolo, sussisteva dopo il passaggio, dopo le devastazioni, della chiaroveggenza.
“Non ho veduto io Gesù Cristo?” (1 Corinzi 9:1)
Questa folle pretesa, che fu la stessa dei suoi rivali giudaizzanti, era il suo, il loro, punto di partenza, questa è l'“evidenza” che sono riusciti a ritenere e a credere follemente tale, per giungere all'affermazione: NOI ABBIAMO VISTO GESÙ CRISTO.
Fin tanto che non avremo riconosciuto nell'esperienza dei mistici di ogni tempo — cristiani e non — il medesimo cammino che condusse l'apostolo Paolo e i Pilastri prima di lui ad una così sorprendente conclusione, non potremo mai comprendere le reali origini del mito di Cristo.
Tantomeno potremo avere il diritto di accusare di sfacciata menzogna l'autore o gli autori del Più Antico Vangelo, della prima “biografia” dell'arcangelo Gesù sulla terra.
IL MITO DI CRISTO
Di Arthur Drews
AL
MIO AMICO
WILHELM VON SCHNEHEN
PREFAZIONE ALLA PRIMA E ALLA SECONDA EDIZIONE
Da quando David Frederick Strauss, nella sua “Vita di Gesù”, tentò per la prima volta di far risalire le storie evangeliche e i racconti di miracoli a miti e pie finzioni, i dubbi riguardanti l'esistenza di un Gesù storico non sono mai stati sopiti. Anche Bruno Bauer nella sua “Kritik der evangelischen Geschichte und der Synoptiker” (1841-42, seconda edizione 1846), [1] disputò l'esistenza storica di Gesù; in seguito, nel suo “Christ und die Cäsaren, der Ursprung des Christentums aus dem römischen Greiechentum” (1877), egli tentò di dimostrare che la vita di Gesù fu una pura invenzione del primo evangelista, Marco, e di spiegare l'intera religione cristiana a partire dalla cultura stoica e alessandrina del secondo secolo, attribuendo specialmente a Seneca un'influenza materiale sullo sviluppo del punto di vista cristiano. Ma era riservato al giorno presente, incoraggiato dai risultati essenzialmente negativi della cosiddetta teologia critica, impugnare il soggetto in maniera energica, e in tal modo ricavare risultati ancor più audaci e più sorprendenti.
In Inghilterra John M. Robertson, in “Christianity and Mythology” (1900), in “A Short HIstory of Christianity” (1902), come pure nella sua opera “Pagan Christs: Studies in Comparative Hierology” (1903), ha rintracciato la raffigurazione di Cristo nei vangeli ad un misto di elementi mitologici del paganesimo e dell'ebraismo.
In Francia, già alla fine del diciottesimo secolo, Dupuis (“L'origine de tous les cultes” (1795) e Voltaire (“Les Ruines”, 1791) fece risalire i punti essenziali della storia della redenzione cristiana a miti astrali, mentre Émile Burnouf (“La science des religions”, quarta edizione, 1885) e Hochart (“Études d'histoire religieuse”, 1890) collezionarono del materiale importante per il chiarimento dell'origine del cristianesimo, e coi loro risultati gettarono un dubbio considerevole sull'esistenza di un Cristo storico.
In Italia Milesbo (Emilio Bossi) ha tentato di provare la non-storicità di Gesù nel suo libro “Gesù Cristo non è mai esistito” (1904).
In Olanda il Leyden Professor di Filosofia, Bolland, maneggiò la stessa materia in una serie di opere (“Het hijden en Sterven van Jezus Christus”, 1907; “De Achtergrond der Evangèlien. Eene Bijdrage tot de kennis van de Wording des Christendoms”, 1907; “De evangelische Jozua. Eene poging tot aanwijzing van den oorsprong des Christendoms”, 1907).
In Polonia la natura mitica della storia di Gesù è stata mostrata da Andrzej Niemojewski nel suo libro “Bóg Jezus” (1909), che si basa sulle teorie astrali-mitologiche di Dupuis e della scuola di Winckler.
In Germania il pastore di Brema Kalthoff, nella sua opera, “Das Christusproblem, Grundlinien zu einer Sozialtheologie” (1903), pensò che l'apparizione della religione cristiana si sarebbe potuta spiegare senza l'aiuto di un Gesù storico, semplicemente da un movimento sociale delle classi inferiori sotto l'Impero, tentando successivamente di rimuovere l'unilateralità di questa visione colla sua opera “Die Entstehung des Christentums. Neue Beiträge zum Christusproblem” (1904). (Si veda anche il suo lavoro “Was wissen wir von Jesus ? Eine Abrechnung mit Professor D. Bousset”, 1904.) Un supplemento alle opere di Kalthoff in questione è fornito da Fr. Steudel in “Das Christusproblem und die Zukunft des Protestantismus” (Deutsche Wiedergeburt, 1909).
Infine, l'americano, William Benjamin Smith, nel suo lavoro, “The Pre-Christian Jesus” (1906), ha gettato una luce così chiara su un numero di punti importanti nella nascita del cristianesimo, e ha chiarito così tanti argomenti che ci offrono un avvistamento più profondo nella reale correlazione degli eventi, che noi gradualmente cominciamo a vederci chiaramente a questo proposito.
“È passato il tempo”, dice Jülicher, “quando tra i colti si sarebbe potuta porre la domanda se sia mai esistito un Gesù storico”. [2] La letteratura citata non sembra giustificare questa asserzione. Al contrario, quel tempo sembra solo cominciare. In effetti, un giudice privo di pregiudizi potrebbe trovare che perfino lo stesso saggio di Jülicher, in cui egli trattò del cosiddetto fondatore della religione cristiana nella “Kultur der Gegenwart”, e in cui dichiarò la sua “riluttanza” a guardare ai contenuti dei vangeli come un mito, parla contro piuttosto che a favore della realtà storica di Gesù. Per il resto, la ricerca ufficiale in Germania, e specialmente la teologia, è rimasta, fino al presente, potremmo quasi dire, del tutto indifferente da tutte le pubblicazioni sopra-menzionate. A mio avviso non ha ancora preso una posizione seria riguardante Robertson. Le sue sobrie citazioni del suo “Pagan Christs” non danno l'impressione che ci possa essere qualche messa in discussione del suo possesso di una conoscenza reale delle sue esposizioni. [3]
Inoltre, è passata oltre a Kalthoff con il portamento di una superiorità meglio informata o preferibilmente con un tacito disprezzo, e al presente si è evitato con cura ogni completo esame di Smith. [4] E tuttavia un tale distinto teologo come il professor Paul Schmiedel, di Zurigo, che ha fornito una prefazione all'opera di Smith, impose un esame del genere ai suoi colleghi in quanto un “dovere di tutti i teologi che fanno qualche pretesa ad un temperamento scientifico”, e li ammonì fortemente contro qualunque sotto-valutazione dell'opera altamente scientifica di Smith! “Come si può sostenere con fiducia le proprie opinioni precedenti”, grida Schmiedel ai suoi colleghi teologici, “a meno di non investigare se non siano state confutate in tutto oppure in parte da quelle nuove opinioni? Oppure è semplicemente un problema di qualche materia secondaria, e non piuttosto esattamente di quel che per la maggioranza forma la parte fondamentale della loro convinzione cristiana? Ma se quelle nuove opinioni sono così completamente futili, allora dev'essere una questione facile, in effetti un mero nulla, dimostrare questo”.
Nel frattempo ci sono parecchie voci che parlano contro l'esistenza di un Gesù storico. In vasti circoli il dubbio cresce riguardo la natura storica del ritratto di Cristo offerto nei vangeli. Opere popolari scritte con un obiettivo, come per esempio le inchieste del francese Jacolliot, elaborate da Plange in “Jesus ein Inder” (1898), devono servire ad alleviare questa sete di conoscenza e confondere le opinioni più che chiarirle. In un breve lavoro, “Die Entstehung des Christentums” (1905), Promus ha offerto un breve résumé del materiale più importante relativo all'argomento, senza alcuna sua elaborazione per proprio conto, e attaccò l'esistenza di un Gesù storico. Successivamente Karl Voller, l'orientalista di Jena scomparso prematuramente, nella sua preziosa opera, “Die Weltreligionen in ihrem geschichtlichen Zusammenhange” (1907), espresse il parere “che forti ragioni favoriscono questa radicale interpretazione mitica, e che nessun'argomentazione assolutamente decisiva a favore della storicità della persona di Gesù può essere portata avanti” (op. cit. 1, 163).
Un altro orientalista, P. Jensen, nella sua opera “Das Gilgamesch-Epos in der Weltliteratur” (1906), pensa perfino di poter mostrare che sia le linee principali della storia dell'Antico Testamento che l'intero racconto della vita di Gesù data nei vangeli siano semplicemente variazioni del poema babilonese di Gilgamesh (2000 A.E.C. circa), e di conseguenza un puro mito. [5]
Mentre una critica dei documenti evangelici sta avanzando più arditamente e lasciando in esistenza sempre meno di un Gesù storico, il numero di opere nella letteratura religiosa popolare intesa a glorificare l'uomo Gesù cresce enormemente. Quelle opere tentano di rimediare alla carenza in un certo materiale storico tramite frasi sentimentali e il tono profondo di accusa; in effetti, la retorica che è disseminata con questo proposito [6] sembra trovare più simpatia nella misura in cui opera con meno restrizioni storiche. E tuttavia la ricerca come tale è da lungo tempo giunta al punto in cui il Gesù storico minaccia di scomparire da sotto le sue mani. I risultati più recenti nel campo della mitologia e della religione orientali, i progressi nella storia comparativa della religione, che sono associati in Inghilterra ai nomi di Frazer e specialmente di Robertson, e in Germania a quelli di Wrinkler, Geremia, Gunkel, Jensen, ecc., hanno accresciuto così tanto la nostra conoscenza della prospettiva religiosa del Medioriente nell'ultimo secolo prima di Cristo, che non siamo più obbligati a basarci esclusivamente sui vangeli e sugli altri testi del Nuovo Testamento per la nascita del cristianesimo. [7]
La teologia critica e storica del protestantesimo ha a sua volta gettato una luce così profonda sulle origini della religione cristiana che il problema riguardo l'esistenza storica di Gesù perde ogni paradosso che finora gli potrebbe essere stato associato agli occhi di molti. Così, anche la teologia protestante non ha più alcun motivo di diventare turbata se al problema si risponde in un senso opposto alla sua stessa risposta.
L'autore della presente opera aveva sperato fino a poco tempo fa che uno degli storici del cristianesimo si sarebbe levato e avrebbe estratto i presenti risultati delle critiche del vangelo, che al giorno d'oggi sono chiari. Quelle speranze non sono state realizzate. Al contrario, nelle cerchie teologiche le vedute religiose continuano ad essere derivate tranquillamente dal “fatto” di un Gesù storico, ed egli è considerato il vertice insuperabile nell'evoluzione religiosa dell'essere umano, come se niente è accaduto e l'esistenza di un Gesù del genere fosse solo la cosa stabilita più chiaramente dalle inchieste della teologia critica a questo proposito. Di conseguenza l'autore ha ritenuto di non dover più ritrattare le sue opinioni personali, alle quali era arrivato da parecchio tempo a partire dalle opere degli specialisti, e si è sobbarcato il non facile compito di portare assieme le ragioni che parlano contro l'ipotesi di un Gesù storico.
Chiunque, sebbene non uno specialista, invade il campo di qualche scienza, e si avventura ad esprimere un'opinione opposta ai suoi rappresentanti ufficiali, si deve preparare a venir respinto da loro con ira, a venir accusato di una mancanza di erudizione, di “dilettantismo”, o di “assenza di metodo”, e a venir trattato come un completo ignorante. Questa è stata l'esperienza di tutti coloro fino ad ora che, mentre non teologi, si sono espressi sul soggetto di un Gesù storico. L'esperienza simile non fu risparmiata all'autore dell'opera presente dopo l'apparizione della sua prima edizione. Egli è stato accusato di “assenza di istruzione storica”, di “pregiudizio”, di “incapacità ad ogni reale maniera storica di pensare”, ecc., e si è sostenuto contro di lui che nelle sue inchieste il loro risultato fosse definito in anticipo — come se questo non fosse a dire il vero proprio il caso con i teologi, che scrivono sul soggetto di un Gesù storico, dal momento che è proprio il compito dei teologi difendere e stabilire la verità degli scritti del Nuovo Testamento. Chiunque ha guardato intorno a sé nell'incertezza della scienza sa che in generale ogni collega è abituato a considerare “metodo” quello soltanto che egli stesso utilizza come tale, e che la famosa concezione di un “metodo scientifico” è fin troppo spesso governata da punti di vista puramente casuali e personali. [8]
Così, per esempio, noi osserviamo il teologo Clemen, nella sua inchiesta nel metodo di spiegazione del Nuovo Testamento lungo linee storico-religiose, porsi seriamente il problema se “non fosse possibile trattenersi dal confutare libri del genere che alla fine arrivano all'inautenticità di tutte le epistole paoline e alla non-storicità dell'intera tradizione riguardante Gesù, oppure almeno di quasi tutta; per esempio, non solo quello di Bauer, ma anche quelli di Jensen e Smith”. Questo stesso Clemen avanza il famoso assioma metodologico: “Una spiegazione lungo linee storico-religiose è impossibile se di necessità conduce a conseguenze insostenibili oppure si allontana da tali ipotesi”, [9] ovviamente avendo in mente qui la negazione di un Cristo storico. Per il resto, il “metodo” della “teologia critica” consiste, com'è ben risaputo, nell'applicazione di un ritratto già definito di Gesù ai vangeli e nel sottoporre il filtraggio critico dei loro contenuti secondo questo criterio. Questo ritratto rende il fondatore della religione cristiana semplicemente un pio predicatore di moralità nel senso del liberalismo del giorno presente, il “rappresentante della personalità più nobile”, l'incarnazione dell'ideale moderno della personalità, oppure di qualche altra veduta teologica alla moda. I teologi cominciano con la convinzione che il Gesù storico fosse un tipo di “anticipazione di una coscienza religiosa moderna”. Pensano di discernere il reale importo storico dei vangeli nel loro “nucleo religioso-morale” nella misura in cui questo è buono per ogni tempo, e arrivano in questa maniera alla sua “concezione strettamente scientifica” di Gesù rimuovendo tutti quelli aspetti che non si adattano a questo ritratto, riconoscendo così solamente il “perennemente umano” e il “perennemente moderno” come storico. [10]
Se si tiene questo di fronte ai propri occhi non si sarà particolarmente scossi dalla discussione intorno al “metodo” e alla “perdita di un sistema scientifico”. Ci si domanderebbe al più se dovesse essere proibito ai filosofi in particolare di aver da dire in materie teologiche. Come se la pace che regna al presente tra filosofia e teologia e i loro sforzi reciproci ad una riconciliazione non indicassero chiaramente che su uno dei due campi, oppure su entrambi, qualcosa non può essere in ordine, e che di conseguenza fosse tempo maturo, se nessun altro vi si accinge, perché un filosofo avvisi la teologia pur di terminare la finta pace che è per entrambi i campi così fatale. Infatti cos'è che dice Lessing? “Sia ringraziato Dio per il fatto che si dovesse giungere con l'ortodossia ad una comprensione tollerabile. Tra essa e la filosofia era stata levata una divisione dietro la quale ciascuna avrebbe potuto continuare il suo percorso senza ostacolare l'altra. Ma cosa sta per essere fatto ora? La divisione sta per essere nuovamente demolita, e sotto la pretesa di renderci cristiani ragionevoli noi stiamo sul punto di essere resi filosofi irragionevoli”.
L'autore di questo libro è stato accusato di perseguirvi tendenze semplicemente distruttive. In effetti, un guardiano di Sion, particolarmente infiammato di rabbia, si è perfino espresso con questo risultato, che le ricerche dell'autore non si originano in un serio desiderio di conoscenza, ma solamente in un desiderio di negare. Colui che, come ho fatto io, ha enfatizzato in ogni suo lavoro precedente la natura positiva della vita etica e religiosa contro lo spirito negatore e distruttore dell'epoca, che ha cercato nella sua opera “Die Religion als Sebst-Bewusstein Gottes” (1906) di edificare di nuovo dall'interno il tormentato sguardo religioso sul mondo, che nell'ultimo capitolo della presente opera non ha lasciato rimanere alcun dubbio sul fatto che egli considera il presente declino della coscienza religiosa uno dei fenomeni più importanti della nostra vita spirituale e una disgrazia per la nostra intera civiltà, dovrebbe essere protetto contro tali accuse. In realtà, “Il Mito di Cristo” è stato scritto principalmente negli interessi della religione, dalla convinzione che le sue forme precedenti non siano più sufficienti per gli uomini del giorno d'oggi, che soprattutto il “gesuanesimo” della teologia storica sia irreligiosa nella sua natura più profonda, e che questo stesso “gesuanesimo” formi il maggiore ostacolo ad ogni reale progresso religioso. Io concordo con E. v. Hartmann e W. v. Shnehen nell'opinione che questo cosiddetto cristianesimo dei pastori liberali sia ricolmo in ogni direzione di una contraddizione interna, che sia falso fino in fondo (nel dire così naturalmente nessun rappresentante individuale di questo movimento è accusato di falsità soggettiva). Io riconosco che mediante la sua trascinante retorica e la sua sfacciata apparenza di scientificità sta distruggendo sistematicamente la semplice sincerità intellettuale del nostro popolo; e che per questo motivo questo culto romantico di Gesù deve essere combattutto a tutti i costi, ma che questo non si può fare più efficacemente se non rimuovendo la sua base, nella teoria del Gesù storico, [11] da sotto i suoi piedi.
Quest'opera cerca di provare che più o meno tutte gli aspetti del ritratto del Gesù storico, ad ogni caso tutti quelli di qualche importante significato religioso, recano una natura puramente mitica, e non esiste nessuno spiraglio per cercare una figura storica dietro il mito di Cristo. Non è l'immaginato Gesù storico ma, se mai qualcuno, è Paolo ad essere quella “grande personalità” che portò il cristianesimo in vita come una nuova religione, e tramite il raggio speculativo del suo intelletto e la profondià della sua esperienza morale gli fornì la forza per il suo viaggio, la forza che gli conferì una vittoria sullle altre religioni rivali. Senza Gesù la nascita del cristianesimo può essere compresa piuttosto bene, non così senza Paolo. Se a dispetto di questo qualcuno pensi che oltre a quest'ultimo non si può far a meno di un Gesù, questo naturalmente non può essere contrastato; ma noi non sappiamo nulla di questo Gesù. Perfino nelle rappresentazioni della teologia storica egli è poco più dell'ombra di un'ombra. Di conseguenza è auto-ingannevole rendere la figura di questa “unica” e “potente” personalità, a cui un uomo potebbe credere di doversi attenere per motivi storici, il punto centrale della coscienza religiosa. Gesù Cristo potrebbe essere grande e degno di riverenza come un'idea religiosa, come la personificazione simbolica dell'unità della natura in Dio e nell'uomo, sul cui credo dipende la possibilità della “redenzione”. Come un individuo puramente storico, come lo vede la teologia liberale, egli sprofonda al livello di altre grandi personalità storiche, e dal punto di vista religioso è esattamente tanto non essenziale quanto loro, anzi, più capace di essere eliminato rispetto a loro, poichè a dispetto di ogni retorica egli è nella luce della teologia storica del giorno d'oggi, perfino al meglio solamente “una figura che oscilla oscuramente nelle nebbie della tradizione”. [12]
In Inghilterra John M. Robertson, in “Christianity and Mythology” (1900), in “A Short HIstory of Christianity” (1902), come pure nella sua opera “Pagan Christs: Studies in Comparative Hierology” (1903), ha rintracciato la raffigurazione di Cristo nei vangeli ad un misto di elementi mitologici del paganesimo e dell'ebraismo.
In Francia, già alla fine del diciottesimo secolo, Dupuis (“L'origine de tous les cultes” (1795) e Voltaire (“Les Ruines”, 1791) fece risalire i punti essenziali della storia della redenzione cristiana a miti astrali, mentre Émile Burnouf (“La science des religions”, quarta edizione, 1885) e Hochart (“Études d'histoire religieuse”, 1890) collezionarono del materiale importante per il chiarimento dell'origine del cristianesimo, e coi loro risultati gettarono un dubbio considerevole sull'esistenza di un Cristo storico.
In Italia Milesbo (Emilio Bossi) ha tentato di provare la non-storicità di Gesù nel suo libro “Gesù Cristo non è mai esistito” (1904).
In Olanda il Leyden Professor di Filosofia, Bolland, maneggiò la stessa materia in una serie di opere (“Het hijden en Sterven van Jezus Christus”, 1907; “De Achtergrond der Evangèlien. Eene Bijdrage tot de kennis van de Wording des Christendoms”, 1907; “De evangelische Jozua. Eene poging tot aanwijzing van den oorsprong des Christendoms”, 1907).
In Polonia la natura mitica della storia di Gesù è stata mostrata da Andrzej Niemojewski nel suo libro “Bóg Jezus” (1909), che si basa sulle teorie astrali-mitologiche di Dupuis e della scuola di Winckler.
In Germania il pastore di Brema Kalthoff, nella sua opera, “Das Christusproblem, Grundlinien zu einer Sozialtheologie” (1903), pensò che l'apparizione della religione cristiana si sarebbe potuta spiegare senza l'aiuto di un Gesù storico, semplicemente da un movimento sociale delle classi inferiori sotto l'Impero, tentando successivamente di rimuovere l'unilateralità di questa visione colla sua opera “Die Entstehung des Christentums. Neue Beiträge zum Christusproblem” (1904). (Si veda anche il suo lavoro “Was wissen wir von Jesus ? Eine Abrechnung mit Professor D. Bousset”, 1904.) Un supplemento alle opere di Kalthoff in questione è fornito da Fr. Steudel in “Das Christusproblem und die Zukunft des Protestantismus” (Deutsche Wiedergeburt, 1909).
Infine, l'americano, William Benjamin Smith, nel suo lavoro, “The Pre-Christian Jesus” (1906), ha gettato una luce così chiara su un numero di punti importanti nella nascita del cristianesimo, e ha chiarito così tanti argomenti che ci offrono un avvistamento più profondo nella reale correlazione degli eventi, che noi gradualmente cominciamo a vederci chiaramente a questo proposito.
“È passato il tempo”, dice Jülicher, “quando tra i colti si sarebbe potuta porre la domanda se sia mai esistito un Gesù storico”. [2] La letteratura citata non sembra giustificare questa asserzione. Al contrario, quel tempo sembra solo cominciare. In effetti, un giudice privo di pregiudizi potrebbe trovare che perfino lo stesso saggio di Jülicher, in cui egli trattò del cosiddetto fondatore della religione cristiana nella “Kultur der Gegenwart”, e in cui dichiarò la sua “riluttanza” a guardare ai contenuti dei vangeli come un mito, parla contro piuttosto che a favore della realtà storica di Gesù. Per il resto, la ricerca ufficiale in Germania, e specialmente la teologia, è rimasta, fino al presente, potremmo quasi dire, del tutto indifferente da tutte le pubblicazioni sopra-menzionate. A mio avviso non ha ancora preso una posizione seria riguardante Robertson. Le sue sobrie citazioni del suo “Pagan Christs” non danno l'impressione che ci possa essere qualche messa in discussione del suo possesso di una conoscenza reale delle sue esposizioni. [3]
Inoltre, è passata oltre a Kalthoff con il portamento di una superiorità meglio informata o preferibilmente con un tacito disprezzo, e al presente si è evitato con cura ogni completo esame di Smith. [4] E tuttavia un tale distinto teologo come il professor Paul Schmiedel, di Zurigo, che ha fornito una prefazione all'opera di Smith, impose un esame del genere ai suoi colleghi in quanto un “dovere di tutti i teologi che fanno qualche pretesa ad un temperamento scientifico”, e li ammonì fortemente contro qualunque sotto-valutazione dell'opera altamente scientifica di Smith! “Come si può sostenere con fiducia le proprie opinioni precedenti”, grida Schmiedel ai suoi colleghi teologici, “a meno di non investigare se non siano state confutate in tutto oppure in parte da quelle nuove opinioni? Oppure è semplicemente un problema di qualche materia secondaria, e non piuttosto esattamente di quel che per la maggioranza forma la parte fondamentale della loro convinzione cristiana? Ma se quelle nuove opinioni sono così completamente futili, allora dev'essere una questione facile, in effetti un mero nulla, dimostrare questo”.
Nel frattempo ci sono parecchie voci che parlano contro l'esistenza di un Gesù storico. In vasti circoli il dubbio cresce riguardo la natura storica del ritratto di Cristo offerto nei vangeli. Opere popolari scritte con un obiettivo, come per esempio le inchieste del francese Jacolliot, elaborate da Plange in “Jesus ein Inder” (1898), devono servire ad alleviare questa sete di conoscenza e confondere le opinioni più che chiarirle. In un breve lavoro, “Die Entstehung des Christentums” (1905), Promus ha offerto un breve résumé del materiale più importante relativo all'argomento, senza alcuna sua elaborazione per proprio conto, e attaccò l'esistenza di un Gesù storico. Successivamente Karl Voller, l'orientalista di Jena scomparso prematuramente, nella sua preziosa opera, “Die Weltreligionen in ihrem geschichtlichen Zusammenhange” (1907), espresse il parere “che forti ragioni favoriscono questa radicale interpretazione mitica, e che nessun'argomentazione assolutamente decisiva a favore della storicità della persona di Gesù può essere portata avanti” (op. cit. 1, 163).
Un altro orientalista, P. Jensen, nella sua opera “Das Gilgamesch-Epos in der Weltliteratur” (1906), pensa perfino di poter mostrare che sia le linee principali della storia dell'Antico Testamento che l'intero racconto della vita di Gesù data nei vangeli siano semplicemente variazioni del poema babilonese di Gilgamesh (2000 A.E.C. circa), e di conseguenza un puro mito. [5]
Mentre una critica dei documenti evangelici sta avanzando più arditamente e lasciando in esistenza sempre meno di un Gesù storico, il numero di opere nella letteratura religiosa popolare intesa a glorificare l'uomo Gesù cresce enormemente. Quelle opere tentano di rimediare alla carenza in un certo materiale storico tramite frasi sentimentali e il tono profondo di accusa; in effetti, la retorica che è disseminata con questo proposito [6] sembra trovare più simpatia nella misura in cui opera con meno restrizioni storiche. E tuttavia la ricerca come tale è da lungo tempo giunta al punto in cui il Gesù storico minaccia di scomparire da sotto le sue mani. I risultati più recenti nel campo della mitologia e della religione orientali, i progressi nella storia comparativa della religione, che sono associati in Inghilterra ai nomi di Frazer e specialmente di Robertson, e in Germania a quelli di Wrinkler, Geremia, Gunkel, Jensen, ecc., hanno accresciuto così tanto la nostra conoscenza della prospettiva religiosa del Medioriente nell'ultimo secolo prima di Cristo, che non siamo più obbligati a basarci esclusivamente sui vangeli e sugli altri testi del Nuovo Testamento per la nascita del cristianesimo. [7]
La teologia critica e storica del protestantesimo ha a sua volta gettato una luce così profonda sulle origini della religione cristiana che il problema riguardo l'esistenza storica di Gesù perde ogni paradosso che finora gli potrebbe essere stato associato agli occhi di molti. Così, anche la teologia protestante non ha più alcun motivo di diventare turbata se al problema si risponde in un senso opposto alla sua stessa risposta.
L'autore della presente opera aveva sperato fino a poco tempo fa che uno degli storici del cristianesimo si sarebbe levato e avrebbe estratto i presenti risultati delle critiche del vangelo, che al giorno d'oggi sono chiari. Quelle speranze non sono state realizzate. Al contrario, nelle cerchie teologiche le vedute religiose continuano ad essere derivate tranquillamente dal “fatto” di un Gesù storico, ed egli è considerato il vertice insuperabile nell'evoluzione religiosa dell'essere umano, come se niente è accaduto e l'esistenza di un Gesù del genere fosse solo la cosa stabilita più chiaramente dalle inchieste della teologia critica a questo proposito. Di conseguenza l'autore ha ritenuto di non dover più ritrattare le sue opinioni personali, alle quali era arrivato da parecchio tempo a partire dalle opere degli specialisti, e si è sobbarcato il non facile compito di portare assieme le ragioni che parlano contro l'ipotesi di un Gesù storico.
Chiunque, sebbene non uno specialista, invade il campo di qualche scienza, e si avventura ad esprimere un'opinione opposta ai suoi rappresentanti ufficiali, si deve preparare a venir respinto da loro con ira, a venir accusato di una mancanza di erudizione, di “dilettantismo”, o di “assenza di metodo”, e a venir trattato come un completo ignorante. Questa è stata l'esperienza di tutti coloro fino ad ora che, mentre non teologi, si sono espressi sul soggetto di un Gesù storico. L'esperienza simile non fu risparmiata all'autore dell'opera presente dopo l'apparizione della sua prima edizione. Egli è stato accusato di “assenza di istruzione storica”, di “pregiudizio”, di “incapacità ad ogni reale maniera storica di pensare”, ecc., e si è sostenuto contro di lui che nelle sue inchieste il loro risultato fosse definito in anticipo — come se questo non fosse a dire il vero proprio il caso con i teologi, che scrivono sul soggetto di un Gesù storico, dal momento che è proprio il compito dei teologi difendere e stabilire la verità degli scritti del Nuovo Testamento. Chiunque ha guardato intorno a sé nell'incertezza della scienza sa che in generale ogni collega è abituato a considerare “metodo” quello soltanto che egli stesso utilizza come tale, e che la famosa concezione di un “metodo scientifico” è fin troppo spesso governata da punti di vista puramente casuali e personali. [8]
Così, per esempio, noi osserviamo il teologo Clemen, nella sua inchiesta nel metodo di spiegazione del Nuovo Testamento lungo linee storico-religiose, porsi seriamente il problema se “non fosse possibile trattenersi dal confutare libri del genere che alla fine arrivano all'inautenticità di tutte le epistole paoline e alla non-storicità dell'intera tradizione riguardante Gesù, oppure almeno di quasi tutta; per esempio, non solo quello di Bauer, ma anche quelli di Jensen e Smith”. Questo stesso Clemen avanza il famoso assioma metodologico: “Una spiegazione lungo linee storico-religiose è impossibile se di necessità conduce a conseguenze insostenibili oppure si allontana da tali ipotesi”, [9] ovviamente avendo in mente qui la negazione di un Cristo storico. Per il resto, il “metodo” della “teologia critica” consiste, com'è ben risaputo, nell'applicazione di un ritratto già definito di Gesù ai vangeli e nel sottoporre il filtraggio critico dei loro contenuti secondo questo criterio. Questo ritratto rende il fondatore della religione cristiana semplicemente un pio predicatore di moralità nel senso del liberalismo del giorno presente, il “rappresentante della personalità più nobile”, l'incarnazione dell'ideale moderno della personalità, oppure di qualche altra veduta teologica alla moda. I teologi cominciano con la convinzione che il Gesù storico fosse un tipo di “anticipazione di una coscienza religiosa moderna”. Pensano di discernere il reale importo storico dei vangeli nel loro “nucleo religioso-morale” nella misura in cui questo è buono per ogni tempo, e arrivano in questa maniera alla sua “concezione strettamente scientifica” di Gesù rimuovendo tutti quelli aspetti che non si adattano a questo ritratto, riconoscendo così solamente il “perennemente umano” e il “perennemente moderno” come storico. [10]
Se si tiene questo di fronte ai propri occhi non si sarà particolarmente scossi dalla discussione intorno al “metodo” e alla “perdita di un sistema scientifico”. Ci si domanderebbe al più se dovesse essere proibito ai filosofi in particolare di aver da dire in materie teologiche. Come se la pace che regna al presente tra filosofia e teologia e i loro sforzi reciproci ad una riconciliazione non indicassero chiaramente che su uno dei due campi, oppure su entrambi, qualcosa non può essere in ordine, e che di conseguenza fosse tempo maturo, se nessun altro vi si accinge, perché un filosofo avvisi la teologia pur di terminare la finta pace che è per entrambi i campi così fatale. Infatti cos'è che dice Lessing? “Sia ringraziato Dio per il fatto che si dovesse giungere con l'ortodossia ad una comprensione tollerabile. Tra essa e la filosofia era stata levata una divisione dietro la quale ciascuna avrebbe potuto continuare il suo percorso senza ostacolare l'altra. Ma cosa sta per essere fatto ora? La divisione sta per essere nuovamente demolita, e sotto la pretesa di renderci cristiani ragionevoli noi stiamo sul punto di essere resi filosofi irragionevoli”.
L'autore di questo libro è stato accusato di perseguirvi tendenze semplicemente distruttive. In effetti, un guardiano di Sion, particolarmente infiammato di rabbia, si è perfino espresso con questo risultato, che le ricerche dell'autore non si originano in un serio desiderio di conoscenza, ma solamente in un desiderio di negare. Colui che, come ho fatto io, ha enfatizzato in ogni suo lavoro precedente la natura positiva della vita etica e religiosa contro lo spirito negatore e distruttore dell'epoca, che ha cercato nella sua opera “Die Religion als Sebst-Bewusstein Gottes” (1906) di edificare di nuovo dall'interno il tormentato sguardo religioso sul mondo, che nell'ultimo capitolo della presente opera non ha lasciato rimanere alcun dubbio sul fatto che egli considera il presente declino della coscienza religiosa uno dei fenomeni più importanti della nostra vita spirituale e una disgrazia per la nostra intera civiltà, dovrebbe essere protetto contro tali accuse. In realtà, “Il Mito di Cristo” è stato scritto principalmente negli interessi della religione, dalla convinzione che le sue forme precedenti non siano più sufficienti per gli uomini del giorno d'oggi, che soprattutto il “gesuanesimo” della teologia storica sia irreligiosa nella sua natura più profonda, e che questo stesso “gesuanesimo” formi il maggiore ostacolo ad ogni reale progresso religioso. Io concordo con E. v. Hartmann e W. v. Shnehen nell'opinione che questo cosiddetto cristianesimo dei pastori liberali sia ricolmo in ogni direzione di una contraddizione interna, che sia falso fino in fondo (nel dire così naturalmente nessun rappresentante individuale di questo movimento è accusato di falsità soggettiva). Io riconosco che mediante la sua trascinante retorica e la sua sfacciata apparenza di scientificità sta distruggendo sistematicamente la semplice sincerità intellettuale del nostro popolo; e che per questo motivo questo culto romantico di Gesù deve essere combattutto a tutti i costi, ma che questo non si può fare più efficacemente se non rimuovendo la sua base, nella teoria del Gesù storico, [11] da sotto i suoi piedi.
Quest'opera cerca di provare che più o meno tutte gli aspetti del ritratto del Gesù storico, ad ogni caso tutti quelli di qualche importante significato religioso, recano una natura puramente mitica, e non esiste nessuno spiraglio per cercare una figura storica dietro il mito di Cristo. Non è l'immaginato Gesù storico ma, se mai qualcuno, è Paolo ad essere quella “grande personalità” che portò il cristianesimo in vita come una nuova religione, e tramite il raggio speculativo del suo intelletto e la profondià della sua esperienza morale gli fornì la forza per il suo viaggio, la forza che gli conferì una vittoria sullle altre religioni rivali. Senza Gesù la nascita del cristianesimo può essere compresa piuttosto bene, non così senza Paolo. Se a dispetto di questo qualcuno pensi che oltre a quest'ultimo non si può far a meno di un Gesù, questo naturalmente non può essere contrastato; ma noi non sappiamo nulla di questo Gesù. Perfino nelle rappresentazioni della teologia storica egli è poco più dell'ombra di un'ombra. Di conseguenza è auto-ingannevole rendere la figura di questa “unica” e “potente” personalità, a cui un uomo potebbe credere di doversi attenere per motivi storici, il punto centrale della coscienza religiosa. Gesù Cristo potrebbe essere grande e degno di riverenza come un'idea religiosa, come la personificazione simbolica dell'unità della natura in Dio e nell'uomo, sul cui credo dipende la possibilità della “redenzione”. Come un individuo puramente storico, come lo vede la teologia liberale, egli sprofonda al livello di altre grandi personalità storiche, e dal punto di vista religioso è esattamente tanto non essenziale quanto loro, anzi, più capace di essere eliminato rispetto a loro, poichè a dispetto di ogni retorica egli è nella luce della teologia storica del giorno d'oggi, perfino al meglio solamente “una figura che oscilla oscuramente nelle nebbie della tradizione”. [12]
PROFESSORE DOTTOR ARTHUR DREWS.
KARLSRUHE, Gennaio, 1910.
NOTE
[1] Si veda anche la sua “Kritik der Evangelien”, 2 volumi (1850-51).
[2] Kultur d. Gegenwart: Gesch. d. christl. Religion”, seconda edizione, 1909, 47.
[3] Lo stesso è vero di Clemen, il quale, a giudicare dalle sue “Religionsgeschichtl. Erklärung d. N.T.” (1909), sembra essere a conoscenza del capolavoro di Robertson, “Christianity and Mythology”, solo da un accenno volutamente spiritoso di Réville, e per giunta cita l'autore solo quando egli pensa di poterlo confutare con facilità.
[4] A. Hausrath, nella sua opera “Jesus u. die neutestamentlichen Schriftsteller”, volume 1 (1908), offre un esempio paradossale di come i nostri teologi credano un compito facile rovesciare gli attacchi dei negatori di un Gesù storico. In malapena tre pagine all'inizio della sua opera compendiosa egli respinge la teoria mitica di Bruno Bauer con il ricorso favorito ad un po' di aspetti individuali e storici della tradizione evangelica che non sono intrinsecamente di alcun significato, finendo questa “confutazione” con una citazione temeraria da Weinel che non prova nulla della natura storica di Gesù.
[5] Si veda anche la sua opera “Moses, Jesus, Paulus. Drei sagen varianten des babylonischen Gottmenschen Gilgamesch”, seconda edizione, 1909.
[6] Si veda, per esempio, “Jesus Vier Vorträge, geh. in Frankf.” 1910.
[7] Per altri aspetti il “progresso” nel campo della storia religiosa non è così grande come io ho creduto in precedenza di poter assumere. Vale a dire, basicamente la ricerca moderna a questo proposito ha solo portato i fatti alla luce e dato una nuova attenzione a punti di vista che erano già posseduti (si vedano Dupuis e Volney) per il diciottesimo secolo. Negli anni venti e quaranta del diciannovesimo secolo sono già state raggiunte inchieste, prive di pregiudizi e indipendenti dalla teologia, nel caso di alcuni dei loro rappresentanti, come per esempio Gfrörer, Lützelberger, Ghillany, Nork, ed altri, il cui punto è rappresentato al giorno d'oggi di nuovo dalla ricerca più avanzata. La rivoluzione del 1848 e la conseguente reazione ad essa in materie ecclesiastiche allora represse nuovamente, a causa della loro tendenza radicale, quelle opinioni che erano già state raggiunte. Anche il protestantesimo liberale, che insorse per reazione contro l'ortodossia nel suo sforzo di elaborare il Gesù “storico” come il nucleo del cristianesimo, per parte sua non aveva alcun interesse nel brandire nuovamente i vecchi risultati. In effetti, fa motivo di biasimo per una persona del giorno presente se egli menziona le opere di quei precedenti investigatori, e gli rammenta che la ricerca religiosa non cominciò solamente coi moderni corifei, con Holtzman, Harnack, ecc. Chiunque guardi alle cose da questo punto di vista può concordare più probabilmente con la riflessione melanconica di un recensore della prima edizione di “Il Mito di Cristo”, quando egli dice con riferimento alle “inchieste più recenti”: “Apparentemente l'intera ricerca del diciannovesimo secolo nella misura in cui riguarda inchieste nelle forze motrici e negli stravolgimenti nazionali della civiltà sarà considerata da una ricerca futura un arsenale di errori” (O. Hauser nella Neue Freie Presse, 8 agosto, 1909).
[8] È anche stato considerato una perdita di “metodo” in questo lavoro il fatto che io ho fatto uso spesso di un modo di espressione cauto e pacato, che io ho parlato di mere “supposizioni” e impiegato espressioni come per esempio “sembra”, ecc., quando così è stato per le volte che era impossibile per la scienza o per me stesso fornire un'asserzione di una certezza completa. Questo rimprovero suona strano sulle labbra di proprio quelli si pavoneggiano su un “metodo scientifico”. Infatti io dovrei pensare che fosse in effetti più scientifico nelle date circostanze esprimersi nella maniera scelta da me, piuttosto che mediante una smisurata certezza in asserzioni per gonfiare semplici supposizioni in fatti indubitabili. Io devo lasciare un simile modo di procedere ai teologi storici. Loro operano puramente con delle ipotesi. Tutti i loro tentativi per ricavare un nucleo storico dai vangeli si basano semplicemente su congetture. Su ogni cosa, la loro spiegazione dell'origine del cristianesimo a partire semplicemente da un Gesù storico è, a dispetto della certezza e della fiducia di sé con le quali emerge, una pura ipotesi, e un'ipotesi dal valore davvero dubbio. Infatti che in realtà la nuova religione dovesse essere stata portata in vita dalla “sovrastante influenza della personalità di Gesù” e dai suoi effetti, le visioni e le allucinazioni dei discepoli elaborate in estasi, è così improbabile, e l'intera ricostruzione è psicologicamente così indifendibile, e, per giunta, così futile, che perfino un teologo liberale come Gunkel la dichiara del tutto insufficiente (“Zum religionsgesichtl. Verständnis d. N.T.”, 89 seq.). Con questa spiegazione, comunque, si regge o crolla l'intera religione moderna di Gesù. Poiché non possono dimostrare come si sarebbe potuta sviluppare la cristologia paolina e giovannea dalla semplice esistenza di un Gesù storico, se questo ora forma “il problema dei problemi della ricerca del Nuovo Testamento” (Gunkel, op. cit.), allora la loro intera concezione dell'origine del cristianesimo scompare nell'aria, e non hanno alcun diritto di brandire contro altri che cercano una spiegazione migliore la natura parzialmente ipotetica delle opinioni avanzate da loro.
[9] Op. cit., 10 seq.
[10] Si veda K. Dunkmann, “Der historische Jesus, der mythologische Christus, und Jesus der Christ” (1910). Si veda anche Pfleiderer, “Das Christusbild des urchristlichen Glaubens in religionsgeschichtlicher Beleuchtung” (1903), 6 seq. Anche qui si sottolinea che la teologia scientifica moderna nella sua descrizione della figura di Cristo procede in tutto fuorché in una maniera priva di pregiudizi. A partire dal credo in Cristo come contenuto nel Nuovo Testamento essa “estrae solo ciò che è accettabile ai modi attuali di pensare — tralasciando ogni altra cosa e leggendovi molto di ciò che è suo — pur di costruire un Cristo ideale secondo il gusto moderno”. Pfleiderer dichiara una “una grande illusione” credere che i ritratti di Cristo in opere come quella di Harnack “Wesen des Christentums”, ciascuno derivato in maniera differente secondo le specificità dei loro compositori, ma tutti più o meno nello stile moderno, siano il risultato di una ricerca storica scientifica, e si relazionino alle antiche concezioni di Cristo come la verità all'errore. “Si dovrebbe essere”, dice, “ragionevoli e dignitosi abbastanza da confessare che entrambe le concezioni moderna e antica di Cristo sono ugualmente creazioni del comune spirito religioso dei loro tempi e derivano dal bisogno naturale della fede di fissare il suo principio speciale in una figura tipica e illustrarla. Le differenze tra le due concezioni corrispondono alle differenze dei tempi, la prima un semplice Poema mitico, la seconda un Romanzo sentimentale e consapevole”. Nello stesso senso anche Alb. Schweitzer caratterizza il famoso “metodo” della teologia storica come “una sperimentazione continua secondo ipotesi definite in cui il pensiero prevalente riposa in ultima istanza su un'intuizione” (“Von Reimaru bis Wrede” 1906). In effetti, lo stesso Weinel, che non può accusare contro l'autore con disprezzo sufficiente la sua mancanza di metodo e il suo dilettantismo deve confessare che le stesse imperfezioni che a sua opinione caratterizzano il dilettantismo si devono trovare perfino nei rappresentanti più prominenti della teologia storica, in un Wrede o in un Wellhausen. Egli rimprovera ambedue del fatto che nelle loro ricerche sono presenti “errori seri di una natura generale e nel metodo” (21). Egli consiglia la maggior prudenza rispetto ai Commentari del Vangelo di Wellhausen “a causa delle loro serie imperfezioni generali” (26). Egli obietta a Wrede che per essere coerente egli stesso deve procedere oltre un dilettantismo radicale (22). Egli accusa realmente Schweitzer di dilettantismo e di cieco pregiudizio che fanno sì che ogni considerazione letteraria sia difettosa (25 seq). In effetti, egli si ritrova, a fronte dei “tentativi dilettanti” di negare il Gesù storico, indotto addirittura ad ammettere che la teologia liberale per il futuro “deve imparare ad esprimersi con più cautela e ad esibire con più sicurezza il metodo del confronto storico religioso” (14). Egli incolpa Gunkel di imprudenza nel dichiarare il cristianesimo una religione sincretistica, ed esige che le opere della teologia liberale “dovrebbero essere più chiare nei loro risultati e più convincenti nei loro metodi” (16). Egli dice che il metodo da loro impiegato non è al presente abbastanza chiaro e sicuro dal momento che “se ne è parlato generalmente in termini molto liberi se non fuorvianti”, e confessa: “A quanto pare noi non abbiamo reso il criterio, in base al quale decidiamo cosa sia autentico e cosa non lo sia nella tradizione, così chiaro da poter essere sempre riconosciuto con sicurezza” (29). Ora, se i fatti sono in una posizione simile, noi non-teologi abbiamo bisogno di non prendere in maniera troppo tragica l'accusa di dilettantismo e di mancanza di metodo scientifico, dal momento che sembra fin troppo chiaro che la teologia storica, ad eccezione al più del signor Weinel, non possiede alcun metodo sicuro.
[11] Si veda W. V. Schnehen, “Der moderne Jesuskultus”, seconda edizione, 1907, pag. 41, un'opera con cui perfino un Pfleiderer ha concordato nei punti principali; anche “Fr. Naunann vor dem Bankrott des Christentums” dello stesso autore, 1907.
[12] La digressione su “La Leggenda di San Pietro” che era contenuta nella prima edizione di quest'opera, e là sembra esser stata piuttosto fraintesa, è apparsa (1910) di recente in maniera più strettamente elaborata e ragionata in una forma indipendente nella Neuer Frankfurter Verlag, sotto il titolo “Die Petrus Legende. Ein Beitrag zur Mythologie des Christentums”.
[8] È anche stato considerato una perdita di “metodo” in questo lavoro il fatto che io ho fatto uso spesso di un modo di espressione cauto e pacato, che io ho parlato di mere “supposizioni” e impiegato espressioni come per esempio “sembra”, ecc., quando così è stato per le volte che era impossibile per la scienza o per me stesso fornire un'asserzione di una certezza completa. Questo rimprovero suona strano sulle labbra di proprio quelli si pavoneggiano su un “metodo scientifico”. Infatti io dovrei pensare che fosse in effetti più scientifico nelle date circostanze esprimersi nella maniera scelta da me, piuttosto che mediante una smisurata certezza in asserzioni per gonfiare semplici supposizioni in fatti indubitabili. Io devo lasciare un simile modo di procedere ai teologi storici. Loro operano puramente con delle ipotesi. Tutti i loro tentativi per ricavare un nucleo storico dai vangeli si basano semplicemente su congetture. Su ogni cosa, la loro spiegazione dell'origine del cristianesimo a partire semplicemente da un Gesù storico è, a dispetto della certezza e della fiducia di sé con le quali emerge, una pura ipotesi, e un'ipotesi dal valore davvero dubbio. Infatti che in realtà la nuova religione dovesse essere stata portata in vita dalla “sovrastante influenza della personalità di Gesù” e dai suoi effetti, le visioni e le allucinazioni dei discepoli elaborate in estasi, è così improbabile, e l'intera ricostruzione è psicologicamente così indifendibile, e, per giunta, così futile, che perfino un teologo liberale come Gunkel la dichiara del tutto insufficiente (“Zum religionsgesichtl. Verständnis d. N.T.”, 89 seq.). Con questa spiegazione, comunque, si regge o crolla l'intera religione moderna di Gesù. Poiché non possono dimostrare come si sarebbe potuta sviluppare la cristologia paolina e giovannea dalla semplice esistenza di un Gesù storico, se questo ora forma “il problema dei problemi della ricerca del Nuovo Testamento” (Gunkel, op. cit.), allora la loro intera concezione dell'origine del cristianesimo scompare nell'aria, e non hanno alcun diritto di brandire contro altri che cercano una spiegazione migliore la natura parzialmente ipotetica delle opinioni avanzate da loro.
[9] Op. cit., 10 seq.
[10] Si veda K. Dunkmann, “Der historische Jesus, der mythologische Christus, und Jesus der Christ” (1910). Si veda anche Pfleiderer, “Das Christusbild des urchristlichen Glaubens in religionsgeschichtlicher Beleuchtung” (1903), 6 seq. Anche qui si sottolinea che la teologia scientifica moderna nella sua descrizione della figura di Cristo procede in tutto fuorché in una maniera priva di pregiudizi. A partire dal credo in Cristo come contenuto nel Nuovo Testamento essa “estrae solo ciò che è accettabile ai modi attuali di pensare — tralasciando ogni altra cosa e leggendovi molto di ciò che è suo — pur di costruire un Cristo ideale secondo il gusto moderno”. Pfleiderer dichiara una “una grande illusione” credere che i ritratti di Cristo in opere come quella di Harnack “Wesen des Christentums”, ciascuno derivato in maniera differente secondo le specificità dei loro compositori, ma tutti più o meno nello stile moderno, siano il risultato di una ricerca storica scientifica, e si relazionino alle antiche concezioni di Cristo come la verità all'errore. “Si dovrebbe essere”, dice, “ragionevoli e dignitosi abbastanza da confessare che entrambe le concezioni moderna e antica di Cristo sono ugualmente creazioni del comune spirito religioso dei loro tempi e derivano dal bisogno naturale della fede di fissare il suo principio speciale in una figura tipica e illustrarla. Le differenze tra le due concezioni corrispondono alle differenze dei tempi, la prima un semplice Poema mitico, la seconda un Romanzo sentimentale e consapevole”. Nello stesso senso anche Alb. Schweitzer caratterizza il famoso “metodo” della teologia storica come “una sperimentazione continua secondo ipotesi definite in cui il pensiero prevalente riposa in ultima istanza su un'intuizione” (“Von Reimaru bis Wrede” 1906). In effetti, lo stesso Weinel, che non può accusare contro l'autore con disprezzo sufficiente la sua mancanza di metodo e il suo dilettantismo deve confessare che le stesse imperfezioni che a sua opinione caratterizzano il dilettantismo si devono trovare perfino nei rappresentanti più prominenti della teologia storica, in un Wrede o in un Wellhausen. Egli rimprovera ambedue del fatto che nelle loro ricerche sono presenti “errori seri di una natura generale e nel metodo” (21). Egli consiglia la maggior prudenza rispetto ai Commentari del Vangelo di Wellhausen “a causa delle loro serie imperfezioni generali” (26). Egli obietta a Wrede che per essere coerente egli stesso deve procedere oltre un dilettantismo radicale (22). Egli accusa realmente Schweitzer di dilettantismo e di cieco pregiudizio che fanno sì che ogni considerazione letteraria sia difettosa (25 seq). In effetti, egli si ritrova, a fronte dei “tentativi dilettanti” di negare il Gesù storico, indotto addirittura ad ammettere che la teologia liberale per il futuro “deve imparare ad esprimersi con più cautela e ad esibire con più sicurezza il metodo del confronto storico religioso” (14). Egli incolpa Gunkel di imprudenza nel dichiarare il cristianesimo una religione sincretistica, ed esige che le opere della teologia liberale “dovrebbero essere più chiare nei loro risultati e più convincenti nei loro metodi” (16). Egli dice che il metodo da loro impiegato non è al presente abbastanza chiaro e sicuro dal momento che “se ne è parlato generalmente in termini molto liberi se non fuorvianti”, e confessa: “A quanto pare noi non abbiamo reso il criterio, in base al quale decidiamo cosa sia autentico e cosa non lo sia nella tradizione, così chiaro da poter essere sempre riconosciuto con sicurezza” (29). Ora, se i fatti sono in una posizione simile, noi non-teologi abbiamo bisogno di non prendere in maniera troppo tragica l'accusa di dilettantismo e di mancanza di metodo scientifico, dal momento che sembra fin troppo chiaro che la teologia storica, ad eccezione al più del signor Weinel, non possiede alcun metodo sicuro.
[11] Si veda W. V. Schnehen, “Der moderne Jesuskultus”, seconda edizione, 1907, pag. 41, un'opera con cui perfino un Pfleiderer ha concordato nei punti principali; anche “Fr. Naunann vor dem Bankrott des Christentums” dello stesso autore, 1907.
[12] La digressione su “La Leggenda di San Pietro” che era contenuta nella prima edizione di quest'opera, e là sembra esser stata piuttosto fraintesa, è apparsa (1910) di recente in maniera più strettamente elaborata e ragionata in una forma indipendente nella Neuer Frankfurter Verlag, sotto il titolo “Die Petrus Legende. Ein Beitrag zur Mythologie des Christentums”.
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