lunedì 4 giugno 2018

Gli Inizi del Cristianesimo Gnostico : Le Odi di Salomone: La Loro Dottrina (III) — Il Cristo come Presunto Parlante: Resurrezione

(segue da qui)

CAPITOLO III

LE ODI DI SALOMONE: LA LORO DOTTRINA


5. IL CRISTO COME PRESUNTO PARLANTE: RESURREZIONE

Troviamo nelle Odi riferimenti ad una persecuzione. È stato sottolineato in precedenza che le persone che stavano muovendo guerra all'idolatria dovevano incorrere probabilmente nel risentimento di coloro che avevano acquisito interesse nell'adorazione delle deità pagane, e sarebbero divenuti odiosi anche alla superstizione popolare. È chiaramente certo, pure, che una comunità così anti-giudaica sarebbe stata candidata alla persecuzione ad opera di bigotti ebrei ortodossi. Senza dubbio i racconti di tumulti istigati dagli ebrei contro Paolo hanno un fondamento storico, e leggiamo di un tumulto ebraico a Roma sotto Claudio. Tali tumulti sarebbero stati sporadici e forse non organizzati dai capi ebrei, in particolare non dai farisei. È probabile che un po' delle frasi facciano riferimento ad avversari spirituali, come nell'Ode 5: “Verranno i miei persecutori, ma non mi vedranno”. Ma non si possono tutte spiegare in quella maniera. In alcuni casi la persecuzione sembra essere esistente o recente; in altri casi sembra essere cessata. Un tumulto contro la comunità sarebbe stato senza dubbio represso dalle autorità e sarebbe stato discontinuo. A questa repressione si potrebbe riferire nell'Ode 25 :

Tu impedisti quelli che si levavano contro di me ed essi scomparvero. ... Disprezzato però io fui e rifiutato agli occhi di molti.


Potremmo notare di nuovo quanto persistentemente lo scrittore copia la sua fraseologia dall'Antico Testamento; la seconda clausola è ovviamente una reminiscenza di Isaia 53: “Egli è disprezzato e reietto dagli uomini”. Il servo afflitto di Dio in questo capitolo di Isaia è Israele; applicare l'immagine di Isaia alla sua stessa congregazione era abbastanza in linea con la consueta procedura dell'Odista. Gli scrittori cristiani del secondo secolo applicarono la descrizione al ripudio di Gesù da parte degli ebrei; ma non c'è nessuna prova nelle Odi del fatto che lo scrittore avesse mai udito di Gesù, e non è un profondo metodo critico interpretare quest'opera davvero antica alla luce del successivo dogma cristiano. Una conseguenza di un pregiudizio di quel genere è che certe Odi nelle quali sono riferite le sofferenze della comunità attinsero al linguaggio della Sapienza:


12. Corrotta è la loro coscienza e pervertita la loro comprensione.
La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio. (Sapienza 2:11)

14. E non andai in rovina, perché loro fratello non ero né la mia nascita era come la loro. Vollero la mia morte, ma non riuscirono.
La sua vita è diversa da quella degli altri, e si vanta di aver Dio per padre. (Sapienza 2:16)

Meditano di togliermi la vita. Ma io confido in te, o Signore. (Salmo 31:13)
15. Perché della loro memoria ero più vecchio.

16. Invano mi minacciavano.
Tirano a sorte la mia tunica. (Salmo 22:18)
17. Io però tenevo l’acqua nella mia destra e la loro amarezza sopportai con la mia dolcezza.
Hanno messo fiele nel mio cibo. (Salmo 69:21)
18. Quelli ch’erano dietro a me invano il ricordo di chi era prima di loro cercarono di distruggere. La mente dell’Altissimo non si può prevenire.
Lascerò un ricordo eterno ai miei successori. (Sapienza 8:13)

Si può concludere dai passi paralleli che il tema dell'Ode sia la sofferenza dei giusti. Assumere che, poiché gli scrittori cristiani del secondo secolo applicarono alcuni di quei versi e versi simili a Gesù, l'Odista dev'essere stato ad applicarli al suo Cristo, è abbastanza illogico. L'Ode si deve giudicare sulla sua propria natura senza pregiudizi. Lo scrittore non aveva mai respirato l'atmosfera del Nuovo Testamento. Le sue affinità sono con certi testi dell'Antico. Egli copia la loro fraseologia, ma mai tratta il loro linguaggio come profetico. Alcune delle espressioni utilizzate nell'Ode non sono applicabili alla crocifissione del Cristo. Il verso 14,Vollero la mia morte, ma non riuscirono, poteva venir preso come un riferimento alla Resurrezione solo tramite un'interpretazione davvero forzata. Il chiaro significato delle parole è che colui che parla non morì affatto. La “salvezza” menzionata nel verso 9 è evidentemente la salvezza personale dello scrittore; e il termine “oppressione” non si poteva usare in maniera appropriata a proposito della Crocifissione. La perdita di zelo (verso 9) si può comprendere dalla frase biblica, “lo zelo della tua casa mi divora”. La comunità gnostica non aveva nessun zelo né per il Tempio e né per la Legge; e agli ebrei che credevano che la salvezza potesse giungere solo tramite la Legge, gli uomini che avevano ripudiato la Legge sarebbero sembrati necessariamente tra i “perduti”. L'Odista, detentore dell'opinione gnostica che il corpo è semplicemente il rivestimento effimero dell'anima e che il reale Sé fosse lo spirito immortale che aveva ricevuto da “la Vita”, avrebbe dichiarato naturalmente che la sua nascita non era simile alla nascita dei suoi persecutori e si sarebbe gloriato del fatto che Dio era suo padre. Uno scrittore per il quale il “Pensiero” di Dio era un tipo di sostanza spirituale — di fatto equivalente al Nous degli scritti ermetici — avrebbe immaginato la sua preesistenza nel Pensiero di Dio come un'esistenza reale. Quello è il punto delle sue dichiarazioni di essere “della loro memoria più vecchio”, “la mente dell’Altissimo non si può prevenire”. Potremmo paragonare una “parola del Signore” riguardante gli eletti nell'Ode 8: “Prima che fossero, li ho esaminati attentamente”. La fede nella preesistenza dell'anima si trova in scritti gnostici successivi ad esempio, nell'Inno dell'Anima. L'idea che i santi siano di una razza diversa dagli uomini comuni era prevalente anche tra gli gnostici. Basilide nominò gli eletti del mondo “stranieri” in quanto appartenenti per natura al mondo di sopra. [12] Valentino scrisse della “razza superiore” degli gnostici, i quali, diceva, erano discesi dall'alto nel mondo per l'annichilimento della morte. [13] Secondo i Marcosiani l'anima ascendente, la cui razza era stata derivata dal Dio preesistente, ritorna alla sua propria natura. [14] Nella letteratura ermetica leggiamo di nuovo: “Gli gnostici appaiono come pazzi alla moltitudine e sono ridicolizzati, odiati, disprezzati, e perfino uccisi”. [15]
L'acqua trasportata nella mano destra potrebbe simboleggiare la Gnosi, l'acqua della vita. Chiunque trasportava l'acqua deve necessariamente essere amabile. A quale grado i membri della comunità fossero capaci di attenersi al livello etico del loro capo non si può dire naturalmente. Egli ad ogni conto credeva che fosse sbagliato restituire male per male e odio per odio. Sarebbe davvero irragionevole supporre che nessuno se non un Cristo divino avrebbe potuto avere pensieri simili. I pagani avrebbero potuto accarezzarli, come sappiamo. Di nuovo troviamo nell'Ode 41 l'idea che gli eletti siano di una nascita differente — cioè di una nascita spirituale — rispetto all'uomo carnale:
1. Lodino il Signore tutti i suoi figli ... e presso di lui i suoi figli saranno riconosciuti. 3 Noi viviamo nel Signore per il suo favore e per il suo Cristo vita riceviamo. ... 8 Quanti mi scorgono rimarranno stupiti, perché ad altra razza appartengo. 9 Il Padre della verità invero di me si è ricordato, quegli che dall’inizio mi ha avuto. 10 È la: sua ricchezza che mi ha generato e il pensiero del suo cuore. 11 E la sua Parola è con noi per tutto il cammino.

Non c'è nessuna giustificazione per la supposizione che il Cristo comincia rapidamente a parlare col verso 8 e altrettanto rapidamente cessa di fare così al verso 11, nonostante il cambiamento nel numero del pronome personale. Il cambiamento è piuttosto facile da comprendere quando ci raffiguriamo l'intera congregazione mentre cantava assieme l'inno. Ciascun membro poteva parlare per sé separatamente al singolare oppure per il corpo unito al plurale. C'è, comunque, un'altra spiegazione possibile del cambiamento di numero. Filone dice che al termine del pasto comune dei Terapeuti un inno veniva cantato, e che il capo della comunità e i membri cantavano a turno. Potremmo supporre che in questa e altre delle Odi accadeva la stessa cosa, in questo caso coi membri che cantavano i versi da 1 a 7 e i versi 11 e successivi, e il capo che cantava i versi da 8 a 10 per sé. [16] Il verso 8 è spiegato a sufficienza dal verso 1. Persone che si credevano di essere in maniera speciale i figli del Signore devono naturalmente aver preteso di essere di una razza diversa da quelli che non erano considerati da loro figli del Signore. Il verso 9 si applica davvero bene al cantante o allo scrittore dell'Ode, ma non bene al Cristo. Ed è solo necessario leggere consecutivamente i versi 10 e 11 per constatare quanto sia estremamente improbabile che la Parola, che è il soggetto del verso 11, debba essere stata chi parla nel verso 10. L'idea che i figli del Signore debbano in qualche maniera differire nell'apparenza rispetto agli altri uomini non era un'idea innaturale dei giorni dell'Odista, o perfino un'idea per la cui esistenza non ci sia nessuna prova indipendente. Si trova di nuovo nell'Ode 17:

Ma io sono stato coronato col mio Dio e la mia corona è viva! ... Mi sono liberato dalle vanità. ...   Per mano di lui furono recisi i miei lacci. Viso e somiglianza di nuova persona ho ricevuto; Quanti mi videro, furono stupiti; come straniero sembrai loro. Quegli che conosceva e mi crebbe è l’Altissimo.

C'è una prova contemporanea del fatto che gli gnostici fossero ritenuti matti da alcune persone. La Parola è pronunciata; non può perciò essere parlante. È il pronunciamento di Dio; personificato, è vero. Comunque si può ricevere e pronunciare da coloro che sono qualificati a riceverla. Da qui è possibile trovare nelle Odi un'“espressione della Parola”, ma in tal caso non è la Parola che “esprime”; essa è “espressa”, come la Parola di Dio. La concezione di un pronunciamento divinamente ispirato in una maniera assai più letterale rispetto a come penserebbe in merito un moderno, era greca e pre-cristiana. Il termine tecnico per lo stato mentale che produceva era entusiasmo. Troviamo la concezione sviluppata pienamente in Filone — ad esempio, “nessun uomo malvagio è ispirato da Dio, ma solo al sapiente questo conviene, in quanto lui solo è strumento sonoro di Dio, suonato e sollecitato in modo invisibile da Dio”; e di nuovo: “In realtà, il profeta, anche quando sembra parlare, in verità tace, perché un Altro si serve, per rivelare le cose che vuole, degli organi della voce del profeta, della bocca e della lingua”. Potremmo vedere dall'Ode 6 che questa era precisamente la visione dell'Odista:

Come la mano si muove sulla cetra e le corde parlano, così parla nelle mie membra lo Spirito del Signore ed io parlo nel suo amore.

Da qui un apparente pronunciamento della Parola in ogni Ode non è il pronunciamento di un Cristo individuale, ma il pronunciamento ispirato dello scrittore. Apprendiamo questo anche da alcuni versi dell'Ode 10 citati in precedenza, che io cito di nuovo perchè contribuiscono materialmente alla comprensione della stessa importante Ode 42:

Guidato ha il Signore la mia bocca  e mi ha concesso di raccontare il frutto della sua pace, Per convertire le anime di chi vuole a lui recarsi ... Popoli sparsi insieme si sono raccolti ...  si avanzarono nella mia vita e furono redenti, son divenuti mio popolo nei secoli eterni.

In quei versi il tema dell'Ode 42 è anticipato. In questo caso io colloco di nuovo in una colonna parallela le fonti della fraseologia dello scrittore.  

 
1. Stesi le mie mani e mi accostai al mio Signore. Lo spiegamento delle mie mani è il segno di lui.
Io t'invoco ogni giorno, Signore, e tendo verso di te le mie mani. (Salmo 88:9)

Tu però, se ben disponi il cuore, e tendi verso Dio le mani. (Giobbe 11:13)
2. Ed il mio stare eretto, il legno steso che fu levato sul sentiero del retto.
Se il giusto è Figlio di Dio, egli l'assisterà. ... Condanniamolo a una morte infame. (Sapienza 2:18, 20)
3. Fui inutile per i miei conoscenti, ché nascondermi dovetti a coloro che non mi possedevano. Io però sarò con quelli che mi amano.
Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a quanti lo hanno oppresso e a quanti han disprezzato le sue sofferenze. Noi stolti giudicammo la sua vita una pazzia. (Sapienza 5:1, 4)
4. Tutti i miei persecutori son morti e mi cercaron quelli che su me ponevan la loro speranza perché son vivo.

5. Mi levai, son con loro e parlerò per loro bocca.
Così anche noi [i malvagi], appena nati, siamo già scomparsi. La speranza dell'empio è come pula portata dal vento. I giusti al contrario vivono per sempre. (Sapienza 5:13-15)
6. Essi invero sprezzarono chi li perseguitava.
Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a quanti lo hanno oppresso. (Sapienza 5:1)
7. Ed io ho posto su loro il giogo del mio amore. Come il braccio dello sposo sulla sposa, così è posto il mio giogo su chi mi conosce.
Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini. (Sapienza 12:19)

13. Benché lo sembrassi, non fui rigettato né perii; eppure lo pensarono a mio riguardo.
Le folle vedranno la fine del saggio, ma non capiranno ciò che Dio ha deciso a suo riguardo. (Sapienza 4:17)

Agli occhi degli stolti parve che [i giusti] morissero. Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. (Sapienza 3:1-4)
14. Lo Sheol mi vide e fu prostrato; la Morte mi vomitò fuori e con me molti.
Né gli inferi regnano sulla terra. (Sapienza 1:14)

Conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire. (Sapienza 16:13)

Tu non lascerai l'anima mia nello Sheol e non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. (Salmo 16:10)
15. Aceto e fiele fui per lui.
Gli inferi di sotto si agitano per te [Israele], per venirti incontro al tuo arrivo. (Isaia 14:9, LXX)  
17. Tra i suoi morti un’assemblea di vivi ho formato; perché la mia parola non fosse vana.
Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato. (Ezechiele 37:10)
19. I morti corsero verso di me; gridarono, dicendo: Pietà di noi, Figlio di Dio.

20. Facci uscire dalle catene dell’oscurità. Aprici la porta, per cui usciamo da te. Scorgiamo difatti che la nostra morte non ti tocca.
21. Con te noi pure siamo salvi, poiché il nostro salvatore tu sei.

22. Intesi la loro voce. Sul loro capo posi il mio nome, poiché liberi figli miei essi sono e a me appartengono.
Diventeranno un cadavere spregevole. Costoro vedendolo [il giusto] saranno presi da stupore per la sua salvezza inattesa. Pentiti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato: Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi? Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità; la luce della giustizia non è brillata per noi.(Sapienza 4:18-5:6)
L'Ode è considerata da tutti i commentatori una descrizione della discesa del Cristo nell'Inferno. Ci sono, comunque, alcune pressanti ragioni per dubitare se quell'opinione sia corretta. Un motivo di cautela è che non c'è nessun supporto a suo favore nella Sapienza di Salomone. La concezione della Sapienza in quel testo è incompatibile con la supposizione che fosse discesa nell'Ade per risvegliare ciascuno dei morti; e così lo è la dottrina generale dello scrittore. Ma quella dottrina, con la sostituzione della Parola al posto della Sapienza, era sostanzialmente la dottrina dell'Odista, e la discesa della Parola nell'Ade è parimenti difficile da riconciliare con essa. La dottrina della Sapienza, chiara ed esplicita, è che i giusti vivono per sempre; quelli che credono nel Signore sono assicurati alla vita eterna, e non si sarebbero mai affatto ritrovati nell'Ade. I senza dio, che non credono nel Signore, “diventeranno un cadavere spregevole”. Non c'è nessun possibile ritorno dall'Ade per loro. La “morte” e la “vita”, sia in questa dottrina che in quella dell'Odista, sono la morte e la vita spirituali. In Sapienza 5:13, citata sopra, ai malvagi si da dire: “così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi”. Essi sono spiritualmente “morti” dal primo istante delle loro vite. Presumibilmente c'è per loro speranza nella misura in cui sono fisicamente vivi; ma quando il loro corpo è diventato un cadavere spregevole, essi sono irrevocabilmente morti. Come è scritto in 3:10 e 11 :

“Ma gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo. Vana la loro speranza e le loro fatiche senza frutto”.

I giusti d'altra parte sono spiritualmente vivi e rimangono vivi, qualunque possa essere il fato del corpo. Agli occhi dei folli “parve che morissero” (Sapienza 3:2). La morte del corpo, perciò, non è realmente la morte alla maniera in cui lo scrittore comprende la parola; cosicchè non è necessario per un essere divino discendere nello Sheol per la salvezza dei giusti. Leggiamo di nuovo: “Né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale”, Sapienza 1:14. Di conseguenza la dottrina cristiana che la morte doveva essere “conquistata” da Cristo non ha applicazione. La dottrina della discesa della Sapienza, o della Parola, nell'Ade implica la morte temporanea di tutti gli uomini con una resurrezione futura dei giusti; e quel credo è tanto estraneo alle Odi quanto lo è alla Sapienza di Salomone. E neppure si adatta del tutto bene con la concezione della Parola che ha l'Odista. L'Ode 15 sembra essere conclusiva su questo punto:

Col suo nome ho rivestito l’immortalità; grazie alla sua grazia mi sono spogliato della corruzione. La morte è scomparsa dinanzi al mio volto; lo Sheol è stato messo fuori con la sua Parola.

Non può esserci nessun dubbio in questo caso su chi sia chi parla, e il significato è chiaro. Colui che ha ricevuto la “grazia” è immortale. Per lui lo Sheol è stato abolito, dal momento che egli ha ricevuto dalla “Vita” uno spirito immortale che non sprofonderà mai nello Sheol. Il corpo perisce senza speranza di resurrezione. Coloro che non hanno ricevuto lo spirito divino devono perire eternamente; la “corruzione” è la loro fine inevitabile; se non hanno ricevuto la “grazia” prima della loro morte non possono immaginarsi di riceverla in seguito; lo Sheol non è stato abolito per loro. La dottrina dello scrittore da questa prospettiva è essenzialmente gnostica.
È evidente che nei versi 1 e 2 dell'Ode 42 colui che parla è lo stesso scrittore, o forse piuttosto il cantante dei versi. Ora i versi 2 e 3 sono accoppiati dalla congiunzione “e”. È davvero improbabile che i verbi in quei due versi debbano avere un diverso soggetto grammaticale. Nel verso 13 si ripetono espressioni che sono state trovate in un altro contesto dove lo scrittore stava parlando di sè. Il tenore è del tutto spiegabile dai passi paralleli della Sapienza il cui soggetto è l'esperienza dell'uomo giusto.
Come allora, ci si potrebbe chiedere, lo scrittore poteva dire che “lo Sheol mi vide e fu prostrato” ? Quella domanda deve ora essere considerata. La spiegazione generalmente accettata dell'Ode assume che per “vita” lo scrittore intese la vita mortale, per “morte” la morte del corpo, e per Sheol un luogo reale. Ma, considerando il suo impiego abituale di espressioni figurate, non può essere giusto prendere letteralmente ogni sua descrizione come una materia di fatto; in particolare quando una descrizione presa letteralmente non si può portare in armonia con la sua dottrina fondamentale. Il verso 1 dell'Ode è una sintesi del salmo 88:6. Nello stesso salmo troviamo la seguente espressione:  “Tu mi hai messo nella fossa più profonda [=Sheol], in luoghi tenebrosi, negli abissi”. Se il salmista poteva scrivere di sé come metaforicamente morto, l'Odista poteva scrivere dei senza dio come metaforicamente morti. E sarebbero morti nel suo senso della parola.
Facciamo allora l'ipotesi che il linguaggio della descrizione sia simbolico, e che “io” in quest'Ode significhi lo scrittore della congregazione che rappresenta, e vediamo se interpretata così la descrizione sia coerente con la dottrina dello scrittore, e probabile e comprensibile nei suoi dettagli. “Mi cercarono”, egli scrive, “quelli che su me ponevano la loro speranza perché sono vivo. Ciò sarebbe stata una cosa abbastanza probabile da dire da parte sua riguardo a proseliti che sono diventati convinti che a lui e alla sua congregazione siano stati rivelati i mezzi per assicurarsi la vita eterna. Senza dubbio egli avrebbe avuto in mente il pensiero che la fonte della sua esistenza fosse la Parola interiore e che coloro che cercavano lui cercassero la Parola tramite lui. Egli “vive” perché ha ricevuto da “la Vita” lo “Spirito del Signore” che è dentro di lui (Ode 28). Per implicazione coloro che non hanno ricevuto lo Spirito del Signore non vivono; essi sono “morti”. Nella visione di Ezechiele, che lo scrittore aveva certamente in mente, le ossa secche simboleggiano l'errante e dispersa “casa di Israele” morta spiritualmente. Il soffio di Dio rende le persone che erano metaforicamente morte e nei loro sepolcri (verso 12) — in altre parole, nello Sheol — un esercito dei viventi. Così la congregazione degli eletti, ricevendo proseliti pagani e abilitandoli ad essere vivificati dallo Spirito del Signore (il soffio di Dio) avrebbe potuto fare di uomini annientati dalla Morte una congregazione di uomini viventi. Quei proseliti sarebbe stato il popolo che “tutto ereditò e prese”. La spiegazione della dichiarazione “né perii; eppure lo pensarono a mio riguardo” è data nel verso parallelo della Sapienza, “agli occhi degli stolti parve che morissero”. Lo scrittore non sta parlando di sé in senso individuale, ma come un tipo dei giusti in generale. Il membro della congregazione che cantava le parole “lo Sheol mi vide ... e la Morte mi vomitò fuori” le avrebbe applicate alla sua conversione personale in linea con la concezione gnostica dell'ignoranza di Dio come morte spirituale. Nell'Ode 21 leggiamo: 
Le mie braccia ho innalzato verso l’alto, verso la pietà del Signore. Egli ha gettato via da me le mie catene. ... Mi sono tolta l’oscurità ed ho rivestito la luce.
Dobbiamo prendere questo a significare che un Cristo individuale avesse rimosso catene materiali dallo scrittore e lo avesse portato fuori dall'oscurità fisica? Portarlo fuori dall'oscurità nella luce è una diversa metafora per indicare il portarlo fuori dallo Sheol. Se una è una figura retorica, così lo è l'altra. Un simile utilizzo metaforico delle “catene” si trova nella Preghiera di Manasse: “per la moltitudine delle mie iniquità sono piegato sotto  pesanti catene di ferro, così da non poter sollevare la testa”.
L'Ode sotto considerazione si può considerare un'espansione del pensiero dell'Ode 10. Là lo scrittore dichiara di essere stato incaricato di convertire le anime che erano desiderose di arrivare alla Parola; il che significa naturalmente diventare membri della sua congregazione; ed egli gioisce — probabilmente in larga misura in anticipo — per coloro che camminavano nella sua vita ed erano salvati. E, dal momento che essere salvati è equivalente a divenir partecipi della vita eterna che la comunità si era assicurata tramite la Parola, è in un senso davvero importante una resurrezione dai morti. Questa concezione della “resurrezione” era caratteristica degli gnostici, increduli com'erano in una resurrezione del corpo. Secondo Tertulliano i discepoli di Basilide ritenevano che la morte non sia la separazione del corpo e dell'anima, ma ignoranza di Dio, e che i credenti fossero già risorti dai morti. Questa dev'essere stata anche la dottrina dell'Odista, perchè nell'Ode 41 egli parla del “Signore che dà la vita”. Non c'è nessuna differenza tra “dare la vita” e resuscitare dai morti. Nell'Ode 34 di nuovo leggiamo: “La grazia s’è manifestato per la vostra salvezza. Credete, vivete e siate redenti!” — il che implica che coloro che non credono non vivono; essi sono “morti”. Ireneo (2, 31:2) dice che gli gnostici intesero per resurrezione dai morti la conoscenza di quel che è chiamata da loro la verità. E Filone in parecchi passi identifica l'“Ade” con l'esistenza dei senza dio qui sulla terra. C'è ragione per pensare che in uno almeno dei passi (De Somn. 1:151) egli potrebbe star riproducendo un'opinione già corrente al suo tempo. Ognuno che teneva quell'opinione poteva dire, naturalmente, che la conversione dei senza dio stava portandoli fuori dall'Ade. Da qui non siamo obbligati a supporre che colui che parla sia il Cristo oppure che una discesa letterale negli Inferi sia in vista. Il Salvatore è, senza dubbio, la Parola; ma se dovessimo interpretare il passo in conformità con lo spirito e la dottrina delle Odi dobbiamo concludere che la Parola opera tramite la comunità, il Cristo visibile, e che la “resurrezione” è una resurrezione spirituale e metaforica.
Tertulliano [17] lamenta che gli eretici ingannano la gente usando espressioni che, quando intese letteralmente, suonano ortodosse, mentre associano a loro nei loro pensieri personali un significato particolare. “Confessano” egli dice,che la resurrezione deve essere nella carne; ma tacitamente il loro significato è che ognuno, mentre è nella carne, deve aver appreso le dottrine segrete eretiche, poiché questo è ciò che intendono per resurrezione. In maniera simile l'Odista mentre sembra dire una cosa intendeva dire qualcosa di differente. Non, comunque, con qualche intenzione di ingannare, ma perchè un'espressione metaforica gli era naturale. I suoi propri lettori non sarebbero stati ingannati, ma lo sono stati i commentatori moderni.
I versi da 18 a 22 sembrano essere stati scritti con in vista i versi corrispondenti della Sapienza; ma l'appello dei morti al Figlio di Dio è stato associato a quei versi, ed è implicato abbastanza chiaramente che tutti i morti sono portati dal Figlio di Dio al di fuori dello Sheol. È impossibile che quest'idea possa essere stata nel pensiero dello scrittore originale. È incoerente con la dichiarazione nel verso 17 che Tra i suoi morti un’assemblea di vivi ho formato”. Ovviamente tuti gli uomini carnali non sarebbero supposti capaci di rendersi spirituali, e neppure si poteva supporre che ogni uomo malvagio che fosse disceso nello Sheol per i suoi peccati vi sarebbe stato portato fuori da là. Forse lo scrittore di questi versi stava pensando a un giorno futuro in cui ognuno sarebbe stato spirituale o quando i malvagi sarebbero stati sufficientemente puniti; ma nessuna delle due possibilità era nel pensiero dello scrittore del verso 17. Inoltre, è probabile, o perfino possibile, che lo scrittore, dopo aver ricordato il suo risveglio dai morti nei versi da 14 al 17, e dopo aver sigillato il suo ricordo con la frase di chiusura finale “perché la mia parola non fosse vana”, avrebbe ritenuto necessario cominciare tutto da capo e descrivere una seconda redenzione — questa volta una redenzione indiscriminata — degli uomini morti? E quando osserviamo che la seconda descrizione si conclude col solo verso dell'intero paragrafo che si può attribuire più naturalmente al Cristo invece che allo scrittore, siamo indotti a sospettare che i versi furono aggiunti da un cristiano il cui Figlio di Dio fu più di una persona reale di quanto lo fosse la Parola dell'Odista, e che aveva in mente il successivo dogma cristiano cattolico della discesa letterale di Gesù nell'Inferno.
 Non c'è nessuna ragione, a parte la conoscenza che il dogma letto in esso esisteva nel secondo secolo, per prendere quest'Ode come significava alla lettera. Il motivo principale per la formulazione del dogma era il pensiero che la salvezza si dovesse offrire al giusto che era morto prima della venuta di Cristo. Ma non c'è nessun indizio nelle Odi che questo pensiero fosse occorso allo scrittore; e non c'è nessun riferimento al dogma nella più antica letteratura cristiana. Giustino (Dial., 46) dice che tutti coloro che vissero giustamente e compiacquero Dio prima della venuta di Cristo saranno salvati; che anche la morte sarà “distrutta” alla sua seconda venuta. Tra gli gnostici c'era un credo che il Logos fosse apparso a uomini santi prima di diventare conosciuto generalmente. La traccia più antica del dogma si trova in un frammento siriano dell'Apologia di Aristide (125 E.C.): “Quando nostro Signore resuscitò dai morti e pose la morte sotto i suoi piedi e la conquistò, per quanto potente fosse, e liberò l'uomo”. Questa dichiarazione, comunque, non implica che Cristo, quando egli resuscitò, portò su le anime fuori dall'Inferno con lui. La dottrina non è gnostica. Bousset [18] fa risalire il credo al mito davvero ampiamente diffuso di un combattimento tra il principe della vita e i principi e le potenze del sottomondo. Senza dubbio, come egli osserva, parecchi miti del genere furono assorbiti e furono particolarmente correnti nelle comunità prima di fare la loro comparsa nella letteratura. I capi, egli suppone, sarebbero stati propensi a ridefinire la loro mitologia popolare. In particolare gli gnostici interpretarono ciò in maniera simbolica. La dottrina in questione poteva essersi originata più facilmente nei circoli ebraici in cui c'era un credo in una resurrezione del corpo. Di fatto, nell'Apocalisse di Giovanni, un Gesù che è irriconoscibile come il Gesù dei vangeli proclama: “Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell'Ades”.
Una dimostrazione che l'interpretazione simbolica dell'Ode 42 è corretta si trova nell'Ode 29, dove il contesto ammette senza dubbio che il membro della congregazione che canta l'Ode stia parlando di sé:

Il Signore dagli abissi degli inferi [Sheol] mi ha fatto salire e mi ha strappato dalle fauci della morte. Ho umiliato i miei nemici e lui mi ha fatto trionfare nella sua bontà. Ho creduto difatti nel Cristo del Signore.

Dal momento che colui che credeva nel Cristo del Signore non era certamente il Cristo, e il cantante non può esser stato letteralmente estratto fuori dallo Sheol, è dimostrata la necessità di una interpretazione simbolica. Vediamo anche che “il Signore”, a dispetto del'attribuzione di gentilezza, è Dio. Il significato della liberazione dalle fauci della morte dev'essere lo stesso della liberazione dalle “catene” che sono catene di errore spirituale. I “nemici” in quest'Ode sono avversari spirituali dell'anima. La dichiarazione che “il Signore dagli abissi degli inferi mi ha fatto salire” illumina l'Ode 22, nella quale colui che parla è stato ritenuto il Cristo:

1. Quegli che mi fa scendere dall’alto e mi fa salire dalle regioni inferiori; 2. Quegli che raduna ciò che è nel mezzo è anche colui che mi ha gettato giù [Copto: quegli che rimosse coloro che erano nel mezzo ha ammaestrato me riguardo loro.] 3. Quegli che disperde i miei nemici e i miei avversari; 4. Quegli che mi diede potere sulle catene per scioglierle; 5. Quegli che abbatté con le mie mani il drago dalle sette teste; e tu mi ponesti sulle sue radici perché annientassi il suo seme; 6. Tu fosti là e mi aiutasti; dovunque il tuo nome fu un bastione per me. 7. La tua destra ha distrutto il suo veleno cattivo; la tua mano ha appianato la via per quelli che credono in te. 8. Tu li raccogliesti dalle tombe e li rivestisti di corpi. 9. Essi non si muovevano ed hai concesso ad essi energia vitale. 10. Immortale era la tua via e il tuo volto. 11. Tu portasti il tuo mondo alla rovina; perché ogni cosa fosse sciolta e si rinnovasse, 12. perché fondamento di ogni cosa fosse la tua roccia. In essa il tuo regno tu costruisti ed esso divenne dimora dei santi.

I versi 1, 2 e 6 sono sufficienti a mostrare chi sia presunto essere colui che parla. Il Cristo potrebbe aver detto che Dio lo aveva “fatto scendere” — sebbene “inviato” sarebbe stato più appropriato — ma non si può immaginare che avesse detto che Dio lo aveva “gettato giù”. Il verso è oscuro e forse corrotto, ma la discesa dev'essere stata nella regione inferiore da dove colui che canta era stato “fatto salire”. Il responsabile sarebbe stato un avversario spirituale — forse il drago menzionato successivamente. E neppure, se accettiamo la lettura copta — nonostante che non è probabile che sia originale — il Cristo ebbe bisogno di essere “ammaestrato” riguardo coloro che erano nel mezzo — ossia, le malvagie potenze planetarie. E sicuramente deve essere stato lo scrittore, oppure colui che canta, a necessitare il nome di Dio come un “bastione”. Non c'è nulla nell'Ode di incoerente con questa supposizione. Abbiamo osservato in un'altra Ode il credo dello scrittore che in quanto uno spirito immortale egli era stato in esistenza prima della sua nascita fisica. Quella fu un'idea gnostica di cui abbiamo una prova nell'Inno dell'Anima
Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre .... i miei genitori mi mandarono dall'oriente, nostra patria, con le provviste per il viaggio. Delle ricchezze della nostra casa fecero un carico per me: esso era grande, eppure leggero, in modo che potessi portarlo da solo... formato da  diamante che spezza il ferro in mille frammenti.
L'inno è un resoconto allegorico del viaggio dell'anima dal Cielo alla terra alla ricerca di una perla (la Gnosi). Infine l'anima, avendo trovata e assicurata la perla, ritorna al Cielo. La fede nella preesistenza dell'anima umana era corrente al tempo di Filone; poiché egli in parecchi passi esprime l'opinione che l'anima avesse abbandonato il Cielo e stesse soggiornando temporaneamente quaggiù in una terra straniera. [19]
La seconda metà del verso 1 può essere compresa a partire dall'Ode 29, citata in precedenza, in cui è lo stesso cantante a dire di essere stato “fatto salire”. In nessuna di quelle Odi e neppure in 42 si intende che un'anima che è discesa letteralmente nello Sheol fosse in seguito liberata. È per detenere la loro opinione errata che i commentatori letteralizzanti immaginano che colui che parla in quest'Ode sia il Cristo; ma l'Ode nel suo complesso non richiede quell'assunzione.
Il verso 4 dell'Ode 22 — “quegli che mi diede potere sulle catene per scioglierle” — si deve comprendere come una re-dichiarazione metaforica di qualche verso nell'Ode 10, citato in precedenza, che afferma la missione divina dello scrittore di convertire i gentili. E quella missione si poteva considerare un rovesciamento del drago, un'espressione simbolica per indicare “il Distruttore”. Le sette teste potrebbero simboleggiare i sette peccati che nella successiva dottrina gnostica erano associati ai sette Arconti planetari. Il drago è probabilmente il drago di Apocalisse 12:9; ma naturalmente la concezione è molto più antica di quel libro. I nemici e gli avversari del verso 3 sono senza dubbio, al pari degli avversari dell'ode 29, avversari spirituali dell'anima. Dal momento che i versi 8 e 9 si basano sulla visione di Ezechiele non può esservi alcuna ragione per dubitare che il verso 17 dell'Ode 42 sia basato su quella visione, e sarebbe una perversità non riconoscere il fatto che in entrambi quei passi, come in Ezechiele, la resurrezione dei morti significa il portare gli uomini fuori dalle tenebre dell'errore e del peccato nella luce della verità.Quelli che credono in te(verso 7) non possono essere persone che erano state letteralmente “raccolti dalle tombe”. L'Ode è perfettamente comprensibile sull'ipotesi che lo stesso scrittore sia dappertutto colui che parla. I versi 11 e 12 sono chiaramente rivolti a Dio dallo scrittore o dal cantante dell'Ode.
Il “diamante” dell'Inno dell'Anima che aveva il potere di tagliare perfino il ferro illumina il riferimento alle “catene” nell'Ode 22, e anche una frase nell'Ode 17, fornendo così un indizio alla comprensione del tutto. Le catene sono catene dell'errore religioso, “catene dell'oscurità”, che si potevano immaginare di ferro in senso figurato. Di fatto nel verso citato in precedenza dalla Preghiera di Manasse le catene del peccato sono definite “catene di ferro”. Ancor prima nell'Ode lo scrittore prepara alla comprensione del suo linguaggio figurato dicendo che le sue stesse catene sono state tagliate dalle mani di Dio. Essendo stato così lui stesso liberato dalle catene dell'errore, egli era in una posizione di liberare altri:

8. Io aprii le porte che erano serrate. 9. Le sbarre di ferro io infransi. Il mio ferro divampò e si sciolse dinanzi a me. 10. Nulla m’apparve più chiuso, perché la porta di ogni cosa io ero diventato. 11. E mi recai da tutti i miei prigionieri per liberarli: nessuno dovevo lasciar legato o che legasse. 12. La mia Gnosi elargii senza risparmio e la mia intercessione nel mio amore. 13. Nei cuori ho seminato i miei frutti e li ho trasformati in me stesso;  [20] essi hanno ricevuto la mia benedizione ed ebbero la vita; 14. si raccolsero accanto a me e furono redenti; 15. Essi invero membra a me sono divenuti ed io, loro capo. 16. Lode a te, nostro capo, Signore Cristo!

Il tema è lo stesso come nell'Ode 22 e 42 — cioè, la conversione dei pagani e il loro accoglimento nella comunità. “Si raccolsero accanto a me e furono redenti”. Lo scrittore senza dubbio potrebbe essere stato a pensare di sé come il rappresentante della congregazione che era il corpo visibile del Cristo. La congregazione di santi era “la porta di ogni cosa”, perché un'iniziazione in essa e nei suoi misteri era la condizione dell'unione con la Parola e della ricezione della gnosi, che garantiva la vita eterna. Osserviamo di nuovo nel verso 13 la concezione dello scrittore dell'errore religioso come la morte e dell'ingresso nella congregazione come il diventare vivi. Egli era un ebreo e la congregazione deve essere stata composta originariamente di ebrei; ma egli non aveva nessun pregiudizio razziale, il suo amore era per tutti coloro che l'avrebbero accettato, e i pagani convertiti erano per lui come le sue “membra”. È stato dedotto dalla natura dell'Ode 9 che lo scrittore fosse il capo della sua congregazione. La deduzione chiariva una possibile ambiguità nel verso 15 e 16. La comunità avrebbe avuto due capi: il capo ufficiale, visibile, e l'invisibile capo spirituale.
Il pensiero che la Parola sarebbe stata il capo spirituale della comunità non è incompatibile con la dottrina delle Odi, ma l'originalità dell'espressione “Signore Cristo” potrebbe adeguatamente essere posta in dubbio perché capita solo qui e in un'altra Ode. Rendel Harris, in effetti, rende la prima riga dell'Ode 24: “La colomba volò sul capo del Signore Messia”; ma il dottor Bernard, con miglior giudizio, omette la parola “Signore”. La parola non deve trovarsi qui in uno dei manoscritti (H), ed è più probabile che sia stata inserita da un copista cristiano invece di essere stata omessa. I traduttori tedeschi Ungnad e Staerk a loro volta non considerarono l'espressione “Signore Cristo” originale in quell'Ode. La sola altra Ode in cui si trova l'espressione è l'Ode 39, il cui fatto perciò invita ad un esame critico:

Fiumi impetuosi sono le forze del Signore. ... Quelli però che con fede li attraversano, non saranno scossi. Il Signore con la sua Parola ha gettato un ponte su essi; camminò e li attraversò a piedi. Le sue impronte rimanevano nell’acqua e non si guastarono; erano come legno, fissato per bene. Di qua e di là si alzavano le onde, le orme però di nostro Signore Cristo rimanevano e non erano cancellate né guastate.

La fraseologia è altamente metaforica, e il significato non particolarmente chiaro. Ma per il nostro presente obiettivo il punto importante è che le orme della Parola sono immaginate risiedere sulla superficie dell'acqua al pari di un solido legno che i fedeli possono attraversare. Poi in maniera superflua segue un'idea interamente incoerente, senza dubbio suggerita dal passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso. Ora si potrebbe supporre che il fedele attraversa il fiume tramite il ponte a cui in una metafora davvero forte si paragonano le impronte della Parola, o alternativamente si potrebbe supporre che attraversa il letto lasciato asciutto del fiume lasciato da parte del ritrarsi delle onde. Ma un metodo di attraversamento esclude l'altro. Inoltre la ripetizione osservabile nella frase E non erano cancellate né guastate è goffa e inappropriata. Nel primo caso è importante che le impronte sulla superficie dell'acqua dovrebbero rimanere, dal momento che agiscono come un legno per l'attraversamento. Ma se l'acqua si è ritratta, lasciando il letto asciutto, le impronte diventano inutili. 
C'è, come minimo, un motivo davvero forte per il sospetto che la seconda similitudine sia stata aggiunta da un copista cristiano. Poi di nuovo il passo si conclude con le parole “un sentiero fu posto ... per chi col passo della sua fede conviene”. Un credente non poteva avere fede nella Parola; ma l'espressione “fede della Parola” (la sua fede) non può essere stata scritta dall'Odista. La frase “chi col passo della sua fede conviene” non è affatto nel suo stile. Dal momento che perciò il titolo “il Signore Cristo” fu inserito in tutta probabilità in due punti delle Odi, dell'originalità del terzo si potrebbe ben dubitare. Si potrebbe concludere che la riga “Lode a te, nostro capo, Signore Cristo!” con la quale termina l'Ode 17, sia un'aggiunta successiva all'Ode.
Un'altra Ode in cui si pensa che chi parla sia il Cristo è l'Ode 31. È stato dimostrato precedentemente che quest'Ode ha probabilmente sofferto un'interpolazione. L'eccezionale individualizzazione della Parola nei versi interpolati ha contribuito all'opinione che egli sia colui che parla di coloro che seguono. Ma la ragione principale dell'opinione è l'affinità tra la fraseologia dell'Ode e alcune frasi del racconto evangelico della Passione. Quelle frasi, tuttavia, come hanno riconosciuto i critici del Nuovo Testamento, furono attinte dal Salmo ventiduesimo e dal capitolo cinquantatreesimo di Isaia. È certo che la fonte della fraseologia dell'Odista fosse la stessa. I due capitoli citati dipingono poeticamente e simbolicamente le sofferenze di Israele. Perché, allora, l'Odista non dovrebbe aver impiegato la loro fraseologia per esprimere le sofferenze della sua propria congregazione? Abbiamo visto che in alcune delle Odi  lo scrittore si lamenta di persecuzioni, probabilmente principalmente da parte di ebrei ortodossi. A chiunque abbia apprezzato la concezione dello scrittore della Parola deve sembrare impossibile che egli possa averla rappresentata mentre parla nei termini qui trovati:

L’errore si smarrì e a causa di lui andò in rovina. La follia fu incapace di procedere e fu sommersa dalla verità del Signore. Essi mi incolparono come un criminale quando mi levai, eppure ero senza colpa. Divisero il mio bottino, benché io non fossi loro debitore.  Io però pazientai, tacqui e rimasi tranquillo, come uno da loro non provocato.  Me ne stetti piuttosto immobile come roccia ferma, dall’onde sferzata e costante.  La loro amarezza con umiltà sopportai, volendo il mio popolo redimere e farlo erede.

Nei vangeli Gesù non è denunciato come “un criminale”: né sono gli accusatori a spartirsi le sue vesti. Nessuno ha il diritto di dire che in quest'Ode “bottino” significa “vesti”. È molto improbabile. L'Odista sta dipendendo senza dubbio direttamente dal Salmo ed è una conclusione ragionevole che abbia deliberatamente sostituito “bottino” al posto di “vesti” perché quest'ultima parola non era applicabile al suo caso. Egli non aveva mai visto un vangelo; e dal momento che, ad opinione dei migliori critici, la spartizione delle vesti di Gesù fu un'invenzione suggerita dalla presunta profezia e mai realmente accaduta, l'Odista non può aver saputo niente a riguardo. Il verso conclusivo è comprensibile se i persecutori fossero ebrei e lo scrittore, in quanto ebreo egli stesso, desiderasse la loro conversione; ma il suo anti-giudaismo universalista gli avrebbe certamente impedito di permettere al Cristo di parlare degli ebrei come “mio popolo”. Il suo Cristo non aveva nessuna nazionalità. [21]
Nell'Ode 8 abbiamo un'“espressione della Parola” nel senso spiegato in precedenza. I profeti che introdussero i loro proclami con la frase “Così dice il Signore” potrebbero ugualmente aver detto “Ascoltate la Parola del Signore” e quello è ciò che fa l'Odista. Se si potrebbe immaginare che la Parola fosse chi parla, essa sta parlando per bocca dello scrittore, e il pronunciamento è in realtà “la parola di Dio”.


8. Ascoltate la Parola della verità e riceverete la conoscenza dell’Altissimo. 9. La vostra carne non deve sapere nulla di ciò che vi dico né il vostro abito cosa alcuna di ciò che vi mostro. ... 14. Io non storno il mio volto da chi è mio, perché li conosco. E, prima che fossero, li ho esaminati attentamente, sul loro viso ho impresso il mio sigillo. 16. Io ho preparato le loro membra e i miei seni ho loro apprestato, perché bevessero il mio latte santo e così avessero la vita. 17. Mia fattura sono essi e l’esecuzione potente dei miei pensieri. ...  19. Io mente e cuore volli e formai; miei sono essi. 20. Alla mia destra ho posto i miei eletti. Dinanzi a loro va la mia giustizia. 24. Dimorate sempre più diletti nel Diletto, coloro che sono custoditi in colui che è vivente e redenti in colui che è stato redento!

L'Odista, con la sua concezione dell'Altissimo, non poteva permettergli di parlare di persona, ma dovrebbe essere ovvio che l'espressione in quest'Ode è l'espressione di Dio. Abbiamo visto in un'Ode citata in precedenza che i “seni” e il “latte” sono i seni e il latte di Dio. Con il verso 14 potremmo confrontare “Presso di lui i suoi figli saranno riconosciuti” dell'Ode 41, e con “eletti” nel verso 20, “la grazia appartiene agli eletti” (Ode 23) confrontata con “la grazia e la misericordia sono per i suoi [di Dio] eletti” (Sapienza 4:15). Ed è certamente Dio che “mente e cuore formò” e apporta il proprio sigillo sui volti dei suoi eletti. Nel verso 24 l'Odista parla nella sua stessa persona. Nel verso 9 sta esprimendo parimenti il proprio disprezzo per la carne. Dio in quelle Odi come in Giobbe e nei salmi canonici è “Salvatore” e “Redentore”. Da qui il manoscritto che recita “colui che è stato salvato” nel verso 24 è quasi certamente sbagliato. La clausola 3 riassume la clausola 2. Dio “salva” perché egli “vive” ed è quindi la causa della vita per coloro che “dimorano in lui”. Il “Diletto”, come altrove in quelle Odi, è Dio. Col verso 20 possiamo confrontare Isaia 58:8: “la tua giustizia ti precederà”.
Nella parte più antica dell'Ode 8 c'è un riferimento ad una persecuzione che, quando l'Ode fu scritta, era cessata:

Sorgete e state ritti, voi che già eravate depressi. Voi che foste nel silenzio, parlate, perché la vostra bocca è stata aperta. Voi che foste disprezzati, ora sollevatevi ché è stata sollevata la vostra giustizia. ... Per voi pace è stata preparata, prima ancora che scoppiasse la vostra guerra.

Potremmo vedere da questi versi quanto sia avventata l'ipotesi che quando l'Odista, scrivendo dei suoi persecutori, dice di aver tenuto il silenzio davanti a loro, o di essere stato disprezzato senza ragione, doveva aver ricordato un'espressione del Cristo. Anche Harris, che ardentemente fa l'ipotesi ogni volta che crede di poterla fare, ammette che in quest'Ode “i santi sono passati attraverso una varietà di conflitti. Evidentemente è trascorsa una lotta che non è coperta dal conflitto individuale per l'illuminazione e la libertà interiori”. Ma se in quest'Ode, perché non in altre?


NOTE


[12] Clemente Alessandrino, Stromata 4, 26:165.


[13] Ib., 4, 13:89.


[14] Ireneo, I, 21:5.

[15] Corp. Herm., 9:4.

[16] Dal momento che un cambiamento simile di numero si trova in alcuni dei salmi canonici non si può dedurre nessuna conclusione certa da ciò. Paragona i salmi 44, 66, 74, 108.

[17] De Carn. Res., 19. Hoc denique ingenio etiam in conloquiis saepe nostros decipere consuerunt, quasi et ipsi resurrectionem carnis admittant. “Vae”, inquiunt, “qui non in hac carne resurrexerit : ... Tacite autem secundum conscientiam suam hoc sentiunt : Vae, qui non, dum in hac carne est, cognoverit arcana haeretica; hoc est enim apud illos resurrectio”.

[18] Kyr. Chr., pag. 34.


[19] Specialmente De Somn., 1, § 181.

[20] Confronta la formula marcosiana citata in precedenza: “Ricevi dapprima da me e per me la Grazia, affinché tu sia ciò che sono io, e io ciò che sei tu”.

[21] Dal momento che è stato mostrato in precedenza (pag. 66) che i due versi immediatamente seguenti sono stati interpolati, la possibilità che questa riga sia parte dell'interpolazione non può essere esclusa.

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