sabato 16 giugno 2018

Gli Inizi del Cristianesimo Gnostico : La Morte del Cristo (VI) — Il Vangelo di Pietro

(segue da qui)

CAPITOLO VI

LA MORTE DEL CRISTO

2. IL VANGELO DI PIETRO

Lo scrittore degli Atti degli Apostoli fece uso di fonti più antiche, alcune delle quali potrebbero contenere frammenti ancora più antichi. Non si può esser sicuri del fatto che i discorsi più lunghi ricordati nel libro non siano stati espansi; ma in un discorso breve di Pietro (5:30) capita la dichiarazione, “Gesù, che voi uccideste, appendendolo al legno”, rivolta agli ebrei. Qualsiasi cosa si potrebbe leggere in quelle parole a partire da una presupposizione che il processo e la condanna da parte di Pilato siano storici, il loro significato chiaro e naturale è che Gesù fu ucciso e appeso ad un albero da ebrei. Di conseguenza, come minimo, offrono un terreno ragionevole per l'ipotesi che in una prima forma della storia della Passione Gesù fu messo a morte da ebrei senza l'intervento di Pilato. Dev'esserci esistita una volta una letteratura petrina alquanto voluminosa di cui possediamo soltanto dei resti incomprensibili. Compresa in questa letteratura è il Vangelo di Pietro, il quale, ad opinione di un buon numero dei critici migliori, fu utilizzato da Giustino. Questo scrittore, in effetti, sembra essersi riferito ad esso per nome in Dial. 106, dove dice che Gesù cambiò il nome di Pietro e che questo è scritto nelle sue (di Pietro) memorie. Dal momento che in effetti una proporzione davvero ampia delle citazioni di Giustino differiscono più o meno dal testo di Matteo, laddove è noto che alcune di loro furono prese dal Vangelo secondo gli Ebrei, è una conclusione ragionevole che egli utilizzò vangeli apocrifi di più antica data di quelli canonici,  dai quali si può dimostrare che nessuno li avesse citati fino a dopo il suo tempo, e che uno di quelli da lui utilizzati fosse il Vangelo di Pietro. Un confronto dei sinottici l'un con l'altro rende perfettamente certo che essi sono basati su un originale comune, che deve essere stato più breve di ognuno di loro. È stato ritenuto dai critici che questo originale comune, che si potrebbe chiamare il Vangelo Primitivo, sia stato una forma antica di Marco. Ciò potrebbe essere corretto in un certo senso, ma da ciò non segue che il nome di Marco venne associato al Vangelo Primitivo, e non  è probabile che lo sia stato.
Sia Matteo che Marco ottennero la forma presente mediante un processo di sviluppo, e dal momento che è chiaramente certo che i loro titoli esistenti non sono primitivi, devono esserci state forme più antiche del vangelo, note sotto titoli diversi, che furono infine soppiantate, parzialmente perché erano più brevi e così sembravano essere incomplete, e parzialmente perché attraverso lo sviluppo della dottrina erano arrivate ad essere considerate eretiche. Dalle informazioni in nostro possesso riguardanti il Vangelo secondo gli Ebrei difficilmente è possibile dubitare che ci fosse un'affinità molto stretta tra esso e il vangelo di Matteo. E dal momento che nella Sticometria di Niceforo è detto che il vangelo di Matteo ha 2500 versi mentre quello secondo gli Ebrei ha soli 2200 dobbiamo concludere che quest'ultimo rappresenta una fase più antica nello sviluppo del vangelo. Quel vangelo è menzionato anche da antichi scrittori cristiani prima che si senta qualcosa di Matteo. In modo simile dietro Marco ci deve essere stata una forma più antica del vangelo che si declassò in seguito come apocrifa e cadde in disgrazia. Tale fu il fato del Vangelo di Pietro, il quale è più antico di Matteo e perciò di Marco nella sua forma esistente. Come ha mostrato il dottor W. B. Bacon, questo Vangelo possedeva una storia, e vi riconosce almeno tre strati. È facilmente dimostrabile la conclusione di B. Weiss che in un numero di casi dove ci sono passi comuni ad entrambi i vangeli, Matteo ha preservato la forma più originale. C'è una prova interna della priorità del Vangelo di Pietro rispetto ai nostri vangeli canonici — per esempio, il fatto che in esso dopo la crocifissione la cerchia dei dodici apostoli non è sciolta, provando che il vangelo non può aver contenuto la storia del tradimento di Giuda. C'è una dichiarazione interessante da parte di Papia (150 E.C.) sul fatto che Marco scrisse il suo vangelo a partire da informazioni che egli aveva ottenuto da Pietro. I commentatori hanno trovato difficile riconciliare questa dichiarazione con la vera natura del vangelo di Marco. Essa è respinta generalmente; tuttavia sembra probabile che qualche fatto risieda dietro la dichiarazione. Ora Papia non dice che il nome di Marco fosse veramente associato al vangelo in questione, e non c'è nessuna prova esterna dell'esistenza del vangelo di Marco fino ad una data successiva. Papia dice che Marco riportò per iscritto quel che aveva udito da Pietro; da qui non sembra impossibile che il nome di Pietro possa essere stato associato al vangelo, e che una sua forma espansa possa essere stata nominata in seguito “secondo Marco” in conseguenza della dichiarazione di Papia. Ma è evidente dal frammento in nostro possesso che lo stesso Vangelo di Pietro fu elaborato indipendentemente. Senza dubbio esso continuò a venire utilizzato in certe comunità (gnostiche) dopo che i vangeli canonici erano stati composti. [6]
Parecchi commentatori concordano ora che la storia della Passione fu composta indipendentemente. Nei vangeli esistenti essa è molto ingrandita. [7] Probabilmente, perciò, la narrazione originale fu poco più che un resoconto della morte di Gesù ed episodi strettamente legati ad essa; e una sua forma molto più antica di quella che abbiamo nei vangeli canonici è recuperabile dal Vangelo di Pietro. [8] Dietro il resoconto esistente vi risiede una narrazione più antica che è stata ampliata in una maniera nei sinottici e in una maniera diversa in Giovanni. Le discrepanze provano semplicemente che l'influenza determinante in ciascun caso  non fu storica ma dogmatica. E non c'è affatto ragione di preferire una versione particolare perché è stata etichettata “canonica” ad una versione “apocrifa” più antica. “Canonico” non è sinonimo di “vero”, e la canonicità non è il risultato di un'indagine critica, di cui gli antichi Padri della Chiesa furono totalmente incapaci. Gli uomini che scelsero i quattro avevano senza dubbio buone ragioni per la loro scelta, ma la verità storica non fu il criterio. Se lo fosse stato, o i sinottici devono aver escluso il quarto, oppure il contrario. Prima facie, se mai ci fossero stati alcuni fatti storici, è più probabile che la versione più antica sia corretta, perfino se meno completa. È acritico assumere che, perché la narrazione del Vangelo di Pietro differisce considerevolmente da quella degli altri, deve costituire una loro falsificazione. Ci sono buoni motivi critici per una opinione davvero diversa. La più antica dichiarazione precisa nei documenti (Cerinto) riguardante la morte di Gesù esibisce una visione della sua natura che si trova nel Vangelo di Pietro. Questo Vangelo potrebbe essere non più vero degli altri, ma ad ogni misura presenta una forma più antica del credo.
Secondo questo Vangelo, il processo di Gesù fu condotto da Erode, che è etichettato “Erode il re”. [9] Si assume che lo scrittore avesse commesso uno sbaglio nel definirlo così, perché il solo Erode che si adatta alla cronologia accettata è Erode Antipa, tetrarca di Galilea. Ci sono, comunque, tre possibilità. Lo scrittore, sebbene lo chiama re per sbaglio, potrebbe aver saputo che Erode era governante della Galilea. In quel caso dal momento che Erode Antipa aveva la sua residenza a Tiberiade e non possedeva una giurisdizione in Giudea, la scena del processo e della crocifissione dev'essere stata situata in Galilea. Ci sono certi fatti che potrebbero essere spiegati su questa supposizione. Bousset caratterizza come davvero antica e incontrovertibile la tradizione che immediatamente dopo l'arresto di Gesù i discepoli fuggirono in Galilea. [10] La prova nei vangeli canonici di questa “tradizione” si trova nelle dichiarazioni secondo cui i discepoli “fuggirono”, che essi furono “dispersi” e lasciarono solo Gesù, e che il Gesù risorto apparve loro in Galilea. È plausibile il fatto che proprio come il luogo di nascita di Gesù, che nella forma più antica della storia non era Betlemme, fu reso così in seguito, perché si pensò necessario che il Messia dovesse nascere nella città di Davide, così la scena della sua morte, che forse in una versione più antica era stata collocata in Galilea, potrebbe essere stata trasferita in seguito a Gerusalemme, perché Gerusalemme sembrò un luogo più appropriato per lui dove morire. Il credo nel fatto che i discepoli fossero fuggiti, sebbene probabilmente antico, potrebbe non essere stato il più antico. Poiché è sotto il serio sospetto di essere stato motivato da Zaccaria 13:7. La fuga dei discepoli da Gerusalemme alla Galilea avrebbe permesso allora una spiegazione conveniente della loro presenza in Galilea immediatamente dopo la crocifissione.
Nei testi esistenti la “tradizione” è stata oscurata. Essa in realtà è contraddetta per implicazione in Marco 16:7, ed esplicitamente in Luca 24:2. Probabilmente quando lo status dei discepoli era stato elevato da quello di poveri pescatori a quello di guida della prima Chiesa cristiana si ritenne opportuno allontanare da loro il discredito di una fuga. Questo si fece tramite la dichiarazione in Marco 16:7, secondo cui i discepoli furono invitati dal giovane trovato dalle donne nella tomba a recarsi in Galilea. In questo modo era ancora spiegata la loro presenza in Galilea. Ma le donne, si aggiunge, non dissero niente a nessuno; e non c'è nessun accenno al fatto che i discepoli vi si recarono. Se erano fuggiti essi erano già là. Presumibilmente questo messaggio costituiva un'aggiunta. Il “non dire nulla” si riferisce ai versi 5 e 6, e il verso 7 è un'interpolazione. [11] Ci fu senza dubbio un motivo per questa interpolazione, e c'è qualcosa di strano circa l'intero affare. I discepoli sarebbero sicuramente ritornati alle loro case in Galilea senza aver bisogno di essere esortati  da un angelo a far così; e se essi erano rimasti per un po' a Gerusalemme non è facile immaginare una ragione del perché non dovrebbe esser stato detto che Gesù fosse apparso loro là. Nel terzo e nel quarto vangelo egli in realtà appare loro là. Quei fenomeni non sono incoerenti con un sospetto del fatto che la narrazione stava gradualmente conformandosi ad una crocifissione a Gerusalemme.
L'omissione di Marco nel ricordare il trasferimento dei discepoli è resa buona in Matteo; ma il Vangelo di Pietro, che riferisce della visita delle donne alla tomba e del loro incontro col giovane, non sa nulla del suo messaggio ai discepoli. Si potrebbe concludere con fiducia che questo Vangelo fu scritto prima che il verso 16:7 fosse stato interpolato in Marco. In quest'ultimo vangelo si spiega che le donne avevano seguito Gesù dalla Galilea. Nel Vangelo di Pietro quella spiegazione non è data, e l'implicazione naturale della dichiarazione fatta là è che le donne furono residenti abitualmente nella città presso cui era situata la tomba. “Maria Maddalena, discepola del Signore ... prese con sé le amiche e andò alla tomba dove era stato posto”. Un po' più tardi le donne dicono “ci lamenteremo percuotendoci il petto fino a quando ritorneremo a casa nostra”. Inoltre non c'è nessuna chiara allusione al ritorno dei discepoli da Gerusalemme alla Galilea. Nel capitolo 12 è detto dei discepoli che “ognuno, pieno di tristezza per quanto era avvenuto, se ne andò a casa”. L'espressione non è chiara, ma nell'assenza di informazioni corroboranti non si dovrebbe intenderla a significare un viaggio da Gerusalemme alla Galilea.
Certamente come si presenta ora il testo è detto che la crocifissione ha preso luogo a Gerusalemme; ma, come si mostrerà in maggior dettaglio nell'Appendice A, sono state fatte aggiunte alla narrazione; e, in particolare, nel Vangelo originale oppure nella sua fonte non ci fu nessuna menzione di Pilato. Gli atti durante il processo non sono sfortunatamente inclusi nel frammento sopravvissuto, ma al suo epilogo ci viene detto  che “il re Erode, allora, ordinò di condurre via il Signore dicendo loro: `Fate quanto vi ho ordinato di fargli´”. Erode perciò disponeva di piena autorità di giudicare e di condannare. Luca era familiare evidentemente con una fonte nella quale si ricordava un processo da parte di Erode ed egli tentò di riconciliare i due resoconti dicendo che Pilato inviò Gesù da Erode, al quale, egli spiega, capitò di trovarsi a Gerusalemme in quel momento — una storia impossibile! Se Gesù fu crocifisso per ordine di Pilato la condanna dev'essere stata per motivi politici. Ma allora Pilato avrebbe mantenuto l'andamento del processo nelle sue mani e avrebbe mantenuto il controllo del corpo di Gesù fino al sopraggiungere della morte. Nel Vangelo di Pietro Pilato siede con Erode per il processo — un'assurdità più grande della storia di Luca! Talmente grande, in effetti, per essere stata perpetrata dallo scrittore originale, e spiegabile solo per la determinazione di un redattore ad attribuire a Pilato qualche partecipazione nelle procedure. Sull'ipotesi su cui stiamo lavorando al presente era creduto dallo scrittore che l'Erode in questione sia stato Erode Antipa, sebbene per sbaglio nominato re. Lo scrittore deve almeno aver saputo che Pilato non aveva nessuna giurisdizione in Galilea, soprattutto se egli immaginò che Erode sia stato re di quella regione. Non è concepibile che Erode, avendo una giurisdizione nella sua propria tetrarchia, avrebbe invitato il procuratore romano di Giudea a sedere al tribunale con lui. In questo Vangelo, di nuovo, è detto che quando Giuseppe domandò il corpo di Gesù per la sepoltura “Pilato lo mandò da Erode e ne chiese il corpo”. La disposizione del corpo di Gesù dipendeva così da Erode,  il che non potrebbe essere stato il caso se egli fosse stato crocifisso da Pilato. E Giuseppe avrebbe saputo che Erode era la persona appropriata a cui rivolgersi.
Una peculiarità del Vangelo è che Giuseppe chiede il corpo di Gesù prima della crocifissione. Erode, quando la petizione gli è presentata, osserva che egli avrebbe avuto in ogni caso il corpo seppellito quel giorno, “Poiché sta scritto nella legge: ʿNon tramonti il sole sopra un ucciso!ʾ”. Da qui in questa versione della storia Erode sa in anticipo che Gesù sarebbe morto lo stesso giorno; e tuttavia era parecchio improbabile e non da aspettarselo il fatto che la morte sulla croce sarebbe sopraggiunta in così breve tempo come si dichiara. Presumibilmente la richiesta di Giuseppe che nel primo caso è rivolta così stranamente a Pilato, fu presa dalla versione corrente e inserita inavvertitamente in un contesto inappropriato. La ripetizione successiva di quelle parole, “sta scritto nella legge che non tramonti il sole, ecc., suggerisce che il Vangelo non aveva sempre contenuto la richiesta di Pilato e la risposta di Erode. È chiaro che Pilato è stato importato in una narrazione che originariamente non sapeva nulla di lui. L'ipotesi contraria che Erode fosse stato rifilato in una narrazione nella quale Pilato era stato l'attore principale è chiaramente insostenibile. Su nessuna base critica potrebbe essere sostenuta. Erode è intrecciato nella stessa struttura della storia. Pilato non solo è completamente superfluo e un mero soprannumerario; egli è veramente una figura incongruente. Nei vangeli canonici la sostituzione di Pilato al posto di Erode, tranne in Luca, dove affiorano tracce della versione più antica, è stata fatta completamente e coerentemente; ma il risultato è un resoconto che è essenzialmente incredibile.
Le altre spiegazioni possibili del titolo “re” sono o che lo scrittore confuse Erode Agrippa col re Erode il Grande, oppure che si intese veramente re Erode. Quest'ultima ipotesi non è così irragionevole come potrebbe sembrare a prima vista. Nel vangelo di Marco non è fissata nessuna data dell'apparizione di Gesù. Se, com'è probabile, quello era il caso nella forma più antica della storia, allora, prima dell'introduzione di Pilato la morte di Gesù poteva essere stata collocata proprio altrettanto bene nel tempo di Erode il Grande come in quello di Erode Agrippa. Se si accetta una delle ultime due possibilità, Pilato è escluso, dal momento che non è concepibile che lo scrittore non avrebbe saputo che non ci fosse nessun governatore romano in Giudea durante il regno di Erode il re.
Nel Vangelo di Pietro, Erode, dopo aver emesso la condanna su Gesù, lo consegna al popolo, che esegue la scena di incoronazione, derisione, e tortura, che in Matteo e Marco è eseguita dai soldati di Pilato. Si potrebbe asserire con fiducia che un prigioniero condannato formalmente a morte non sarebbe stato trattato spontaneamente così da disciplinati soldati romani. Un ufficiale sarebbe stato responsabile di lui. E i soldati non avrebbero avuto alcun motivo per agire così. Per loro Gesù dev'essere stato solo un prigioniero condannato, al pari di ogni altro. Essi non potevano avergli associato tutte le idee che i cristiani hanno intorno a lui. Prominenti teologi critici moderni in realtà non credono che Gesù affermò mai di essere il Messia, il Figlio di Dio, o il re degli ebrei, nel cui caso non ci sarebbe stato nessun pretesto per i soldati di incoronarlo e sistemarlo in una veste di porpora. È ben risaputo che questa scena è una stretta copiatura di un antico rito praticato in connessione al sacrificio del finto re. [12] Da qui la dichiarazione nel Vangelo di Pietro secondo cui l'attore sulla scena fosse il popolo è da lontano la più probabile ad essere primitiva. Luca, il quale, come sono consapevoli i critici, aveva accesso a qualche fonte o fonti non in uso dagli evangelisti più antichi, ci presenta una fase intermedia nello sviluppo della storia, dichiarando che furono Erode e i suoi soldati, non i soldati di Erode, ad eseguire questa scena. Qui abbiamo una prova aggiuntiva del fatto che in Matteo e in Marco Pilato ha preso il posto che Erode occupava in una versione più antica. Si potrebbe sospettare che Luca avesse qualche conoscenza dell'origine della rappresentazione, poiché egli soppresse i suoi aspetti distintivi.
Se c'è un legame tra Gesù e Giosuè, che era un efraimita piuttosto che un eroe ebreo, c'è una probabilità precedente del fatto che un rito che era stato associato alla sua adorazione era praticato originariamente al di fuori della Giudea.
La narrazione della Crocifissione è un prodotto letterario parecchio incoerente. Un processo che è stato dichiarato non storico da eminenti critici teologici è seguito da un altro che per amore dell'ipotesi storica si trattiene disperatamente, sebbene sia inspiegabile. La Legge mosaica è violata ripetutamente dagli ebrei. Dettagli sono stati attinti dall'Antico Testamento; il tradimento di Giuda e altri episodi importanti sono respinti come finzione da prominenti critici; viene descritta una scena in cui non ci fu nessun testimone; parecchi critici hanno concluso che la sepoltura in un sepolcro roccioso, e di conseguenza tutte le circostanze ivi associate, sono invenzioni; gli evangelisti si contraddicono l'un l'altro quanto al giorno in cui prese luogo la crocifissione, apparentemente per un motivo dogmatico, e perfino intorno alle parole emesse da Gesù nei suoi momenti di agonia; e nessun Golgota presso Gerusalemme è mai stato conosciuto. Quale storico scientifico considererebbe del minimo valore probatorio una narrazione secolare di una natura simile? Perché il processo da parte di Pilato dovrebbe essere accettato come un fatto? Il racconto del Vangelo di Pietro è altrettanto probabile che sia vero. Se, perciò, la questione non fosse una materia di credo religioso quale confidenza si sarebbe potuta nutrire da parte di qualunque persona priva di pregiudizi nella realtà storica di un evento di cui i resoconti trasmessi sono così totalmente incompatibili? Un fatto solo sussiste, e quello non è il fatto della morte di Gesù ma del credo in esso. Alcuni dei più avanzati teologi moderni probabilmente non metterebbero seriamente in discussione le dichiarazioni fatte sopra, ma, col prof. Guignebert, correggerebbero la dichiarazione secondo cui esisteva il credo nella morte di Gesù nella dichiarazione secondo cui esisteva una  conoscenza di quella morte. Ma, se quello fosse stato il caso, sicuramente ci si sarebbe aspettato qualche grado di precisione nei dettagli. Nei documenti più antichi, le epistole, non è apparente nessuna conoscenza, ma solo un credo dogmatico — il credo secondo cui il Cristo era morto volontariamente per la salvezza del mondo. Sembra che i moderni teologi critici non possano trovare soddisfazione più dei vecchi cattolici nelle loro emozioni religiose in un Cristo spirituale; devono averne uno materiale; perché un Cristo spirituale non è sufficientemente “reale”.

NOTE

[6] Serapione (200 E.C. circa) trovò un Vangelo secondo Pietro in uso a Rhossos, ed espresse il suo timore che la dottrina della comunità fosse eretica. 

[7] Bousset, Kyr. Chr., pag. 43.

[8] Una prova a supporto di questa dichiarazione si troverà in Appendice A.

[9] Questo titolo si trova anche in Marco, sebbene non nella storia della Passione.

[10] Kyr. Chr., pag. 44. Schmiedel, The Johannine Writings, pag. 311 e seguenti., approva l'opinione di Bousset.

[11] Wellhausen ha concluso che il verso 7 è stato interpolato.

[12] Si veda Il Ramo d'Oro, edizione riveduta, pag. 6 e 443.


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