giovedì 5 aprile 2018

Sull'origine e antico significato del cristianesimo (3) L'Apostolo Paolo.

(giunge da qui)

3. L'APOSTOLO PAOLO.

Dove c'è qualche autentico documento della vita o delle idee di Paolo?
Si è soliti andare alle cosiddette “epistole di Paolo”, oppure almeno alle quattro che Baur concesse come autentiche, cioè, 1 e 2 Corinzi, Galati e Romani. Ma ora non è del tutto certo che Paolo scrisse qualcuna di quelle. Forse alcuni frammenti dell'Apostolo sono stati preservati incorporati in quelle epistole, ad esempio, Romani 16 è un elenco di nomi che sembra provenire da una lettera ad Efeso, dove vivevano Aquila e Priscilla. Sarebbe di poco interesse se composta dopo la morte delle persone nominate: e potrebbe essere perciò di Paolo. Ci sono sei ragioni per respingere la paternità paolina delle epistole attribuitegli di solito.
(a) La consuetudine per gli scrittori di religione consisteva nel celare i loro nomi: si vedano il Libro di Enoc, i Salmi di Salomone, i Testamenti dei Dodici Patriarchi, il Libro di Daniele, tutti composti negli ultimi due secoli A.E.C.
Ora è riconosciuto da parecchi studiosi che la prima epistola di Pietro non era di Pietro, e tutti negano l'autenticità di 2 Pietro. Così quelle epistole provenivano probabilmente da una Scuola petrina. Lo stesso è vero delle epistole di Giovanni che provenivano da una Scuola giovannea molto tempo dopo la morte di Giovanni. Così è probabile che le epistole paoline provenivano da una Scuola di Paolo, che scriveva attorno all'80-90 E.C. Altri libri come gli Atti di Paolo e Tecla, il vangelo di Pietro, gli Atti di Giovanni erano composti in seguito, e parecchi altri di questi lo furono, dato che nessuno di loro era delle persone nominate.
(b) Le “epistole di Paolo” non erano generalmente conosciute fino a Ireneo (180 E.C.). Nelle sue parole troviamo le prime chiare citazioni di 2 Corinzi, Galati, Romani, Filippesi, 1 e 2 Tessalonicesi. La prima epistola ai Corinzi ha una testimonianza di poco migliore. È citata chiaramente dallo scrittore di un'epistola ai Corinzi, attribuita a Clemente di Roma. Ma quando Clemente scriveva (90 E.C. oppure 110 E.C.) non si sa, e se egli fosse l'autore di quell'epistola non lo si può provare. Perfino se egli visse nel 90 E.C., e avesse visto una copia dell'“epistola di Paolo”, la sua attribuizione di essa a Paolo potrebbe solo essere un riferimento alle parole d'apertura di 1 Corinzi.
Ignazio (120 E.C.?) cita 1 Corinzi nella sua epistola agli Efesini, e Giustino Martire (150 E.C.) lo fa nel suo Dialogo con Trifone Giudeo, ma nessuno dei due la attribuiscono a Paolo l'Apostolo.
Tutto quel che si può concludere è che 1 Corinzi era in esistenza per il 120 E.C.
(c) Il linguaggio concernente Paolo in quelle epistole è un linguaggio auto-celebrativo. Un elenco delle sue sofferenze viene dato in 2 Corinzi. Un elenco dei suoi viaggi si ricorda in Galati, dove egli è anche lodato in opposizione a Pietro e Giacomo e Giovanni. È detto che egli non ha “ricevuto nulla” da loro. In 1 Corinzi egli è riferito come se fosse nel passato: “Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma è Dio che ha fatto crescere”; mentre in 2 Corinzi occorrono quelle parole: “Ora io stimo di non essere stato in nulla da meno di cotesti sommi apostoli”. Sembra chiaro che una Scuola di Paolo scrisse così del loro antico eroe, ponendo le epistole come se provenissero dalla sua penna, come Deuteronomio era stato scritto come se provenisse da Mosè, e i Proverbi e l'Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici come se provenissero da Salomone.
(d) Paolo fu un severo ebreo degli ebrei, un fariseo dei farisei, istruito ai piedi di Gamaliele, uno che si atteneva la legge in modo irreprensibile, e non disse nulla contro di essa, secondo i più tardi capitoli di Atti, che sono chiaramente autentici grazie all'utilizzo del Diario di Luca. Ma le “epistole di Paolo” presentano proprio uno scenario diverso. Paolo là è un ebreo ellenistico. Tutte le sue citazioni dell'Antico Testamento provengono dalla versione greca della Septuaginta, che gli ebrei ortodossi disprezzavano, perché fatta da “pagani”.
Le epistole sono ricolme di riferimenti alle Religioni Misteriche e allo gnosticismo, come nei termini pleroma (pienezza), teleios (iniziato o perfetto), la lunghezza, profondità, altezza e soffio, mistero, l'ektroma e molte parole del genere. La Legge è posta in opposizione alla grazia, una cosa che nessun ebreo rabbinico avrebbe potuto fare. Se Paolo fu dapprima un fariseo rabbinico, e poi un cristiano, ma non scrisse le epistole, tutto è chiaro.
(e) Quelle “epistole di Paolo” non sono veramente lettere a chiese, ma trattati ecclesiastici su questioni di teologia o di etica, decreti ecclesiastici sulla Dottrina stesi nella forma di lettere: proprio come Seneca e altri di quel tempo scrivevano trattati morali nella forma di lettere.
(f) Le epistole attribuite a Paolo possiedono una varietà che indica che alcune sono di un autore diverso da altre. Se ciò è così, tutte potrebbero essere di membri di una Scuola di Paolo, poiché allora era chiaramente una consuetudine scrivere epistole (brevi trattati) sotto il nome di Paolo. Le epistole ai Colossesi e agli Efesini erano di un unico scrittore, un uomo diverso dallo scrittore che compose 1 e 2 Tessalonicesi, poiché lo stile del pensiero è molto originale. L'epistola ai Romani è una collezione di trattati, dato che i capitoli 1-8 costituiscono un unico trattato, e i capitoli 9-11 un altro trattato distinto. Per di più, Paolo non era stato a Roma quando è detto che egli la scrisse (intorno al 58 E.C.). In quell'epistola si suppone che la fede della Chiesa a Roma sia nota “in tutto il mondo”, ossia, attorno al Mare Mediterraneo in ogni caso. La Chiesa dev'essere esistita da lungo tempo. La paternità paolina delle epistole pastorali è ora respinta generalmente, se non per un po' di versi, ma quelle epistole sono altrettanto chiaramente attribuite a Paolo al pari delle altre. Il loro linguaggio è davvero diverso, e anche le loro idee, e una successiva Scuola paolina deve averle composte nel secondo secolo. L'epistola agli Ebrei non è attribuita a Paolo. È l'opera di un erudito maestro alessandrino, in un adorno stile greco.
Così è impossibile andare alle “epistole di Paolo” per ricavare una testimonianza autentica dell'Apostolo.
L'ultima metà del libro degli Atti, ad eccezione dei discorsi composti in essa, è molto più affidabile.
L'inclusione di passi in quel punto dal Diario di Luca mostra che il compilatore aveva accesso ad alcune fedeli testimonianze di Paolo. Il Diario è prodotto nelle “sezioni-noi” dove il “noi” è utilizzato al posto di “essi”, cioè, Atti 16:9-17; 20:5-15; 21:1-18; 27:1-28, 16. Quelle parti provengono da un diario di un compagno di Paolo, cioè Luca, e sono fatte davvero accuratamente, dato che la topografia del capitolo 27 è eccezionalmente accurata. In quei versi possediamo la porzione più antica del Nuovo Testamento, e storicamente la più corretta.
Non si deve prestar fede ai discorsi nella totalità del libro degli Atti. L'ignoto compilatore, scrivendo attorno al 110 E.C., compose i discorsi per adattarli alla circostanze, e fu così accurato da fornire tre resoconti davvero differenti della conversione di Paolo all'interno di un unico libro! In un resoconto egli pone sulle labbra di Gesù nel cielo una citazione da poeti greci riguardo all'essere duro per Paolo “ricalcitrare contro il pungolo”. Che Paolo ebbe un'esperienza quando fu sulla via per Damasco è senza dubbio una Storia accurata, e che egli divenne allora un cristiano è vero. Ma esattamente che cosa accadde noi probabilmente non lo sapremo mai. Egli accettò Gesù Cristo il Signore del nuovo culto, essendo stato a lungo nel suo spirito orientato in quella direzione, anche quando più furiosamente perseguitava i cristiani: tale è la natura umana. Egli rimase un buon ebreo, mantenne i suoi giuramenti, si recava al tempio di Gerusalemme quando se ne offriva l'occasione, e si attenne alle sue idee farisaiche attorno ad una resurrezione fisica. Fu solo ai gentili che Paolo insegnò che la circoncisione non era necessaria, come oggi parecchi ebrei insegnano riguardo i gentili adulti.
Ma Gesù (nel cielo) diventò “Signore” per Paolo. L'unico riferimento nelle “sezioni-noi” a Gesù è dove Paolo dice: “Io sono pronto a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù”. La parola “Signore” ad un ebreo significava almeno un titolo divino. Paolo ora credeva in un divino Veniente, il Cristo. La conversione di Paolo significò che egli credeva che Cristo fosse già esistente in cielo, e stava giungendo presto al giudizio (così dichiarò il Libro di Enoc) e gli uomini perciò dovrebbero tutti pentirsi e prepararsi per questo Cristo. La presenza di Cristo si sentiva anche nel culto di Cristo, i gruppi di uomini mistici che si riunivano per meditare e vedere che sorta di esistenze dovevano vivere. Paolo si unì a loro, e predicò il Cristo Veniente, e la resurrezione generale e il giudizio morale che allora avrebbero preso luogo.
È detto nel libro degli Atti che “il pentimento verso Dio e la fede nel nostro Signore Gesù” sintetizza la dottrina di Paolo. Era chiaramente in forma escatologica, una dottrina delle cose ultime. Ma gli ebrei respinsero il nuovo messaggio, perché in esso il “Cristo” era un secondo essere divino, che così minacciava l'Unità di Dio (la cui idea era, come è ancora, il principale dogma ebraico), e la volontà, o presenza di Cristo era una interiore giustizia di amore, che minacciava l'esteriorità delle regole cerimoniali ebraiche. Questo era il primo messaggio cristiano che anche Paolo predicò, un messaggio che significò sempre più la separazione degli uomini dall'ebraismo. Paolo non aveva alcuna idea di un uomo Gesù che fu crocifisso. Quella giunse dopo il 70 E.C. I cristiani più antichi, e perfino gli scrittori del Nuovo Testamento, non realizzarono pienamente tutto quello che comportava per loro questo Interiore Cristo Mistico (la cui volontà era amore).
Essi realizzarono che Dio fosse un Essere diverso, dal momento che Egli era “disceso”, come questo “Cristo”, nelle loro vite e nei loro cuori, ma tenevano ancora che Dio fosse uno Spettatore in cielo, al di fuori — anche se vicino — della Natura e dell'Uomo. Essi non realizzarono che la loro esperienza di “Cristo nel mezzo” significava che Dio Stesso si era limitato nella creazione, e si era imprigionato nelle anime! Come materia di fatto, non esiste nessun “Cristo” seconda Persona. Cristo era un aspetto di Dio, Dio come disceso, incarnato nelle vite umane come Amore. Inoltre, essi non compresero che questo Ideale cambiò la “condizione” degli schiavi, delle donne, dei cittadini, e dei poveri. Invece di schiavi, tutti dovrebbero essere liberi e (almeno, possibili) figli di Dio: le donne non dovrebbero essere subordinate agli uomini, ma eguali, sebbene diverse; i cittadini dovrebbero essere fratelli a tutti quelli delle altre nazioni, e i poveri dovrebbero diventare cittadini, non mercenari per il profitto di una minoranza, ma collaboratori nell'opera della vita. I primi cristiani cominciarono solo ad avvistare quelle cose, e dissero che “in Cristo non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è maschio e femmina”. Ma anch'essi mancarono di criticare direttamente la schiavitù. Essi ancora dicevano che la moglie doveva obbedire al marito “in ogni cosa” e lo Stato fu a malapena tollerato o considerato come anti-Cristo, come pure potrebbe esserlo stato allora. Non ha neppure rinunciato ancora ai metodi non-cristiani di vendetta nella sua legge criminale, e alla crudeltà della guerra.
Ma l'essenza del cristianesimo era l'esperienza della giustizia interiore dell'Amore, come insegnata dallo Spirito Divino interiore chiamato “Cristo”, sentito nel gruppo della Chiesa, e così recando sulla terra l'autentico Regno di Dio, che si aspettava che Cristo avrebbe stabilito pienamente mediante la Sua visibile Venuta al giudizio.
Questo era il cristianesimo essenziale, e prima del 70 E.C. non ci fu nessuna predicazione di Gesù come un uomo che fu crocifisso. Egli era predicato come un essere divino in “cielo”, percepito nella comunità cristiana, che offriva una legge interiore di Amore, e che sarebbe presto venuto visibilmente al giudizio.

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Una nuova era per il cristianesimo
sopravvenne con la distruzione di Gerusalemme dai romani nel 70 E.C. I cristiani furono dispersi. Molti fuggirono a Pella, o altrove. Dieci anni forse passarono prima che i gruppi della Chiesa si formassero di nuovo — ad Alessandria, Antiochia e in altri luoghi. Poi venne l'esigenza di qualche resoconto scritto dei decreti ecclesiastici. Quelli sono dati nelle “epistole di Paolo”. La vita mistica di “Gesù” era richiesta, e la Chiesa produsse, forse ad Alessandria, i vangeli sinottici. I “Logia” vennero prima, raccogliendo insegnamenti correnti nelle chiese, e poi il vangelo di Marco che riporta storie mistiche del “Cristo” (che era vissuto nella Chiesa, il Suo Corpo).
L'ordine di libri prodotti era probabilmente in qualche maniera come segue:
80-90 E.C. Le principali epistole “paoline”.
90. I Logia (utilizzati da tutti i sinottici).
95-110. I vangeli sinottici in quest'ordine: Marco, Matteo, Luca.
110. Il libro degli Atti, da parte del compilatore del vangelo di Luca (si veda Atti 1:1).
120. Il vangelo e le epistole della Scuola giovannea.
La ragione per quest'ordine è che le epistole “paoline” non utilizzavano i Logia, ma Marco gli utilizzò. Ci sono molti punti nelle epistole paoline dove l'argomento avrebbe potuto essere stato rafforzato da un appello ai Logia, l'Insegnamento di Gesù, se i compilatori avessero saputo di esso. Le epistole non sanno di nessuna “Vita” di Gesù, di nessuna parabola o miracolo. I Logia e Marco non erano compilati quando le principali “epistole di Paolo” vennero inviate. Dove lo scrittore di un'epistola parla del Signore come di colui che “insegna”, egli intende la Parola della Chiesa come più grande della sua propria (dello scrittore) visione personale di una questione. “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore, ecc.”.
Un decreto ecclesiastico segue questo, sulle mogli che non lasciano i loro mariti. “Ho ricevuto dal Signore” significava che lo scrittore paolino era stato istruito, cioè, sulla Cena del Signore, da parte della Chiesa (il Corpo di Cristo). Per “i comandamenti del Signore” (1 Corinzi 14:37) si intende la dottrina della Chiesa, su tali materie come il fatto che le donne dovrebbero “tacere nelle chiese” (verso 34). Ma tali decreti non erano stati apparentemente collezionati nei “Logia” o Oracoli del Signore di cui scriveva Papia di Ierapoli in Frigia (intorno al 140 E.C.). Non si fa alcun riferimento ad un libro del genere nelle “epistole di Paolo”. I “Logia” probabilmente contenevano alcuni “episodi” della presunta esistenza di Cristo sulla terra, come pure dei Suoi “Oracoli”.
Matteo e Luca utilizzano questa Fonte o Libro, chiamato (da Papia) i “Logia del Signore”, poiché essi offrono evidentemente due versioni della stessa collezione di “detti” — si vedano le Beatitudini, e le Parabole del lievito e del granello di senape, e i loro differenti resoconti delle scene della tentazione.
Anche Marco utilizzò i “Logia”, poiché in quel vangelo c'è il passo sul prendere la croce e seguire Cristo. Questo passo proviene dai Logia, dal momento che Matteo lo dà due volte, una volta dove il primo vangelo segue Marco (cioè, Matteo 16:24-25), e una volta in un altro punto (Matteo 10:38-39), dove è seguito il Logion. Marco probabilmente utilizzò i Logia nella Parabola del Seminatore, e in altri punti. Marco ha molte idee paoline, ad esempio Cristo come “un riscatto per molti”. Così Marco è posteriore rispetto alle epistole paoline. Sembra chiaro che i Logia, allora, vengono dopo le epistole paoline e prima di Marco, Matteo e Luca. È questo fatto che è decisivo in relazione all'ordine dei libri, come dichiarato sopra.

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