domenica 21 gennaio 2018

Sull'Antica Storia del Dio Gesù (IX) — L'Ambiente

(continua da qui)

CAPITOLO IX

L'AMBIENTE

Il Mattino dell'Apparizione. — La tradizione afferma che dopo la resurrezione i discepoli stavano vivendo a Gerusalemme, dove convertirono alcuni ebrei, in particolare ebrei di lingua greca. Presto ne derivò una persecuzione, in cui Santo Stefano, uno dei capi di quest'ultimo gruppo, andò incontro alla sua morte. In conseguenza di questo, gli altri si dispersero nella regione di Giudea e Samaria, poi così lontano come in Fenicia, Cipro, e Antiochia, e propagarono la nuova religione, mentre i discepoli rimasero a Gerusalemme. Da questo noi ricaviamo che un messaggio fu veicolato da parte di galilei ad un gruppo di ebrei che vivevano a Gerusalemme, o visitatori di quella città, da noi chiamati ellenisti, e che questo messaggio fu trasferito da quest'ultimi ad altri gruppi di ebrei insediati nella diaspora.
Noi asseriamo che tutti quei gruppi erano gruppi pre-cristiani, e che le
“Buone Nuove” annunciate da quelli di Galilea a quelli di Gerusalemme, che furono trasferite a gruppi della diaspora, furono dall'inizio semplicemente queste: “Il Signore Gesù che voi adorate, come noi lo adoriamo, è apparso a noi”. Gli uomini rappresentati come Apostoli erano i pre-cristiani di Galilea che videro l'apparizione del dio risorto. Gli ellenisti che vivevano oppure in visita a Gerusalemme ai quali loro annunciarono la “Buona Novella” erano essi stessi pre-cristiani.
L'ingresso nel cristianesimo consisterebbe, nel caso dei pre-cristiani di Gerusalemme e di quelli della diaspora, nell'accettazione di questo messaggio. Altri gruppi pre-cristiani furono lenti nell'accettarlo, o addirittura lo respinsero per sempre. Ci furono altri gruppi, in aggiunta al gruppo galileo, che avevano praticato il culto del Signore Gesù con varie divergenze, ma in tutti quei gruppi la concezione essenziale era la stessa — precisamente, quella di un essere divino che era Figlio del Padre, un salvatore di nome Gesù. Il grande studioso americano W. B. Smith ha mostrato [
1] che noi dovremmo riconoscere come pre-cristiane alcune persone a cui gli Atti degli Apostoli alludono come praticanti un cristianesimo incompleto, come per esempio Apollo di Alessandria (Atti 18:24-28), i dodici discepoli di Giovanni di Efeso (19:13-19), i sette figli di Sceva (19:13-19), ed Elima Bar-Gesù (13:6-12), e anche dissidenti simili come il famoso mago Simone e i Naasseni.
In modo simile la maggior parte delle sette definite eretiche dai Padri cacciatori di eresie furono in realtà gruppi che erano rimasti pre-cristiani. Si possono distinguere come pre-cristiani anche i gruppi in certi centri dove si rappresentò Gesù in una maniera che non ha nulla in comune col culto della leggenda galilea o paolina, come per esempio il circolo in cui fu scritta l'Apocalisse. Soltanto così si può spiegare l'opposizione che quei gruppi offrirono ai seguaci di Pietro e Paolo.
Uno studio critico delle epistole ai Corinti e ai Romani fornisce una prova di gruppi pre-cristiani a Corinto e a Roma prima dell'arrivo dell'apostolo in ciascuna di quelle città. Il libro di Atti fornisce una prova simile riguardo ad Efeso. I centri principali del pre-cristianesimo al tempo dell'apparizione sembrano essere stati la Palestina; la regione del Giordano e quella di Haran a sud di Damasco, dove gruppi pre-cristiani descritti da Epifanio erano esistiti a lungo; alcune città di Siria, in particolare, Antiochia e Damasco; in Asia Minore, Efeso e alcuni villaggi di Frigia; in Grecia, Corinto, dove predica San Paolo, non il Signore Gesù, che fu già noto là, ma il Signore Gesù crocifisso e risorto dai morti; Roma, a cui egli trasferisce lo stesso messaggio ad una comunità già semi-cristiana; Alessandria, il centro dello gnosticismo pre-cristiano. Riconosciamo mentre entrano in comunione col gruppo galileo, prima il gruppo di Antiochia, poi quello di Corinto, poi quello di Roma. Il messaggio non fu benvenuto ad Alessandria fino ad una data posteriore; e ci furono gruppi a cui non fu mai recato o da cui esso venne respinto, come quelli di Samaria e Transgiordania, quest'ultima essendo la dimora della famosa setta mandea.

Il “Popolo Ebraico”. — Gli studiosi riconoscono la scarsa ortodossia dei cristiani della diaspora, e la conformità dei galilei fu di natura limitata. Nella Galilea loro appartenevano ufficialmente alla religione ebraica sin dal tempo del suo insediamento in Galilea, e continuavano ad appartenervi quando si insediarono a Gerusalemme. Nella diaspora quelli che nacquero da famiglie ebree rimasero ufficialmente ebrei; quelli che nacquero pagani o furono circoncisi e furono chiamati “proseliti”, oppure si rifiutarono di circoncidersi e furono noti come coloro che “temevano Dio”.
Essere un ebreo comportava essere sia di nazionalità ebraica che di religione ebraica — precisamente, appartenere a ciò che fu conosciuto nell'Impero come il “popolo ebraico”. Così i pre-cristiani e i cristiani formarono parte giuridicamente del “popolo ebraico”, ma quelli noti come gli uomini che “temevano Dio” non vi fecero parte. Gli ebrei di Palestina parlarono aramaico, una lingua che aveva sostituito l'ebraico, che era diventata una lingua sacra; laddove gli ebrei della diaspora parlavano greco, che era la lingua internazionale dell'Impero romano. I primi erano noti come ebrei, i secondi come ellenisti.
Ma gli ebrei galilei non parlavano l'aramaico di Gerusalemme. Essi parlavano in un dialetto che chiaramente li identificava come galilei, come conferma Matteo 26:73, un dialetto che farebbe un galileo coinvolto in dibattito lo zimbello degli uomini di Gerusalemme. Gli ebrei al di fuori della Palestina e della Siria dimenticarono presto l'aramaico, come si mostra dalla traduzione della Bibbia in greco ad Alessandria. Gesù avrebbe potuto essere stato interrogato da Pilato solo tramite un interprete. Il latino non era in uso in alcuna parte del bacino orientale del Mediterraneo, e molto poco nell'occidente. A Roma stessa la lingua corrente tra gli ebrei e i cristiani rimase il greco per qualche tempo. Quando l'imperatore Tiberio succedette ad Augusto, tutta la Palestina era stata per circa un secolo una provincia romana, governata o direttamente dai procuratori, oppure indirettamente dai governanti locali sotto il protettorato di Roma. Così tra il 26 e il 36 E.C. Ponzio Pilato governò in Giudea, con la sua residenza usuale collocata non a Gerusalemme ma a Cesarea, il porto di imbarco per l'Italia e i porti del Mediterraneo orientale, una città abitata da un miscuglio di ebrei e pagani. Le altre parti di Palestina, compresa la Galilea, furono governate dai discendenti di Erode che erano vassalli dell'imperatore. Al nord di Palestina, la Siria formò una grande provincia dominata da un legato imperiale dalla capitale di Antiochia, una città di 500,000 abitanti. Attorno al Mediterraneo orientale risiedeva la provincia di Asia Minore, la cui città principale era Efeso; poi la Macedonia e la Grecia, di cui Corinto fu il porto principale; e infine l'Egitto, dove Alessandria fu la seconda più grande città dell'impero. In Siria, Asia Minore, Macedonia, Grecia, Egitto e anche a Roma, gli ebrei formarono gruppi importanti conosciuti come la Diaspora o
“Dispersione”. Ci furono non meno di 500,000 ebrei nella città di Alessandria e circa 6,000,000 in tutto l'impero su una popolazione di 55,000,000.
Il Governo Romano era solito permettere la più completa indipendenza che fosse possibile alle autorità locali, e questo fu particolarmente così in Giudea e Galilea, dove le autorità ebraiche esercitarono un povere sui loro correligionari che in qualche modo tratteneva il potere imperiale. Al di fuori della Palestina gli ebrei non erano soggetti alla legge delle province nelle quali dimoravano, ma furono considerati dall'impero come persone che formavano una nazionalità e preservavano i loro privilegi. Roma permise loro di vivere secondo
“il costume dei loro antenati”, e impose alle province un rispetto dei loro diritti. Ma mentre in Giudea e Galilea le autorità ebraiche possedevano un potere coercitivo, nella diaspora, al contrario, le sinagoghe dovevano appellarsi al magistrato romano, che poteva sempre trattenere il suo consenso. Il “costume dei loro antenati” sotto cui Roma permise agli ebrei di vivere per tutto l'impero fu naturalmente la legge di Mosè, come scritta nei testi sacri dell'ebraismo. La legge di Mosè è un codice civile e criminale come pure un codice religioso, un codice che non fa distinzione tra ordinanze civili e religiose, poiché tutte erano obbligatorie in egual misura. Il partito dei farisei, di origine recente e incline alle innovazioni, considerò la legge mosaica come la base dell'ebraismo, essendo ispirati da uno spirito di zelo religioso, e non da amore di un vuoto formalismo. Esso è stato grossolanamente diffamato dal cristianesimo. In Giudea e in Galilea i farisei erano potenti e rafforzarono l'ortodossia, ma nella diaspora parecchio dipendeva dall'influenza o meno di quel partito nella sinagoga. Ma le sinagoghe della diaspora non avevano modo di punire ebrei che fossero disobbedienti, e potevano appellarsi solo al magistrato romano, che era spesso incline ad essere indisponente, come si apprende dall'umoristico racconto in Atti 17:12-17: “Mentre era proconsole dell'Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo e lo condussero al tribunale dicendo: «Costui persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge». Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai Giudei: «Se si trattasse di un delitto o di un'azione malvagia, o Giudei, io vi ascolterei, come di ragione. Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende». E li fece cacciare dal tribunale. Allora tutti afferrarono Sòstene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale ma Gallione non si curava affatto di tutto ciò”.  Perciò la posizione degli ebrei, e di conseguenza dei primi cristiani, era che in Giudea e in Galilea la conformità fosse obbligatoria, ma nella diaspora era possibile un'emancipazione, sebbene non senza dispute. Perciò i primi cristiani galilei devono essere stati stretti osservanti della legge mosaica.
Accanto alle osservanze dell'ebraismo c'erano credi. Il dogma centrale dell'ebraismo fu il monoteismo — precisamente, la fede in Jahvè, l'antico dio di Israele, che ora era diventato il supremo e unico dio, al cui cospetto gli altri dèi non solo svanivano ma sono classificati come demoni. A parte questo credo, si può quasi dire che l'ebraismo non aveva nulla se non tradizioni, che erano materia di infinite controversie. Perfino i credi messianici non erano compresi dappertutto nella stessa maniera. Alcuni erano inclini ad ammettere, in aggiunta all'unico dio, un tipo di dio secondario per il quale c'era autorità nelle scritture sacre.
La cultura e la filosofia greche erano ampiamente diffuse; Tarso, la città di Paolo, ed Alessandria, la città di Filone, erano grandi centri di sapere. A tutti gli ebrei dalla loro prima giovinezza veniva insegnato a tenere in abominio il paganesimo, ma in realtà quasi sempre e dovunque essi vissero tra pagani. Infiltrazioni dal paganesimo erano inevitabili in simili circostanze, e si possono far risalire principalmente alle religioni misteriche. Guignebert ha mostrato come perfino le sinagoghe “tendevano a diventare eretiche” e che sette dissidenti abbondavano da ogni lato. [
2] “Le sette”, egli scrisse di recente, “sempre ebraiche nell'intenzione e indiscutibilmente in spirito, ma anche influenzate da idee, spesso assai rimosse da speculazioni, quanto alle loro origini e natura essenziale, dalla vera legge mosaica. Ci si può perfino chiedersi senza paradosso se non fosse da una di quelle sette che emerse Gesù”. [3] Sostituendo “i devoti del dio Gesù” a “Gesù”, noi concordiamo con lui.   
Galilea (Gelil Haggoyin). — Gelil Haggoyin significa in ebraico “cerchio dei pagani”, e così è chiamata la Galilea in tempi biblici (Isaia 8:23). Abbiamo mostrato come i galilei avevano sopportato il terrore armato dei soldati maccabei e l'oppressione successiva dello zelo dei farisei. Un popolo su cui era stata imposta una nuova religione con la forza inevitabilmente avrebbe trattenuto parecchi dei suoi credi antichi, e continuato a praticare i loro antichi riti in segreto, combinandoli con quelli che erano stati imposti dagli invasori.
Guignebert nella sua opera più tarda [
4] dichiara che “al principio dell'era cristiana una grande parte della popolazione ebraica di Galilea era composta da convertiti recenti, antichi abitanti della regione, costretti con la forza alla circoncisione e portati sotto la legge mosaica”. I primi cristiani erano perciò discendenti di uomini che furono stati giudaizzati per costrizione, e che preservarono in segreto le loro antiche pratiche e credenze. Questo “doppio credo” è un fenomeno ben noto e avrebbe permesso ad un'antica religione pre-cananea, successivamente contaminata da elementi cananei, israeliti, siriani e infine ebraici, di esistere entro la cornice dell'ebraismo. Così i primi cristiani furono allo stesso tempo sia non conformisti, nel fatto che praticavano in segreto un'antica religione misterica, che conformisti, nel fatto che obbedivano alla legge mosaica. Poiché essi accettavano il dio di Israele come il dio-padre della loro antica setta, essi non avevano motivo di rifiutarsi di obbedire alle sue leggi. Così i galilei quando si insediarono a Gerusalemme continuarono a combinare il culto di Gesù con il codice mosaico.
La Speranza Messianica. — Dal momento che i galilei si affidarono alla speranza mistica della loro religione misterica piuttosto che alla speranza messianica dell'ebraismo, essi non furono buoni ebrei. Nel messianismo ci fu in origine un'aspettativa di liberazione e di dominio universale, e successivamente dell'apparizione di un liberatore commissionato dal dio nazionale.
L'aspettativa, non solo di liberazione, ma anche di dominio universale fu di lunga durata tra gli ebrei. Nelle porzioni più antiche della Bibbia la promessa divina non si estende al di là dei confini di Palestina; ma nella porzione jahvista di Genesi 22:18 vediamo Jahvè promettere ad Abramo che
“tutte le nazioni della terra” saranno benedette nella sua posterità, una promessa che fu il preludio al folle imperialismo dei profeti e dei salmi, che assicurò agli ebrei “la terra per loro eredità”.
Secondo i profeti, Dio stesso si sarebbe manifestato in persona per eseguire le sue promesse; ma questo compito fu presto passato ad una persona scelta da lui, che fu rappresentato a lungo come un re
“unto con olio”, e chiaramente della casa di Davide.
Il messianismo fu un'aspirazione nazionalista e imperialista che assunse una forma religiosa, e incarnò l'ambizione di una razza che odiava la dominazione straniera. Si potrebbe ricavare che, nel cessare di affidarsi ai suoi propri sforzi e a credere nel suo dio per realizzare il suo sogno, la razza ebraica avesse perso parecchio della sua antica fiducia in sé. Questo sarebbe un errore, poiché il dio di un popolo è la personificazione dell'anima della comunità — il simbolo sotto il quale esso si concepisce. Il messianismo perciò è solo l'impiego di un simbolo religioso dove noi dovremmo usare ai nostri giorni un simbolo laico.
Competenti studiosi ebrei ammettono che il Regno di Dio della speranza messianica doveva essere realizzato sulla terra, e che era mirato ad imporre su tutta l'umanità, non solo la religione di Jahvé, ma anche il dominio del popolo ebraico.
L'imperialismo messianico differiva dall'imperialismo romano solo nel metodo della sua presentazione. Tra i membri benestanti dell'aristocrazia ebraica che erano in amicizia coi romani si nutrì poco interesse nella materia, poiché essi non avevano nulla da guadagnare da uno stravolgimento rivoluzionario. Anche in certi circoli impregnati di filosofia greca gli uomini persero gradualmente interesse nell'antica speranza. Non c'è nessuna traccia, per esempio, di messianismo nel libro della Sapienza, dal momento che il libro della Sapienza non riflette l'anima del popolo ebraico, ma piuttosto la tendenza anti-nazionale di spiriti influenzati da correnti di pensiero straniero. Tali casi, comunque, erano semplicemente eccezioni alla regola generale: la maggioranza degli ebrei di Giudea e della diaspora trattennero la loro fede nelle promesse dei loro testi santi. Questa fede era stata abbracciata anche dai pagani che erano stati convertiti all'ebraismo, di solito nella speranza di meritare un posto al banchetto dei figli di Israele.
Ma il messianismo non ebbe nessuna presa del genere sul popolo che era stato convertito con la forza, poiché un unico secolo era insufficiente a far adottare ad una razza conquistata così completamente le speranze dei suoi padroni. L'ebraismo poteva imporre le osservanze della sua religione sui galilei, ma non poteva imporre su di loro il suo folle sogno di dominio universale. È vero che i galilei parteciparono alle ribellioni ebraiche contro la dominazione di Roma, ma questo non implicava necessariamente un credo messianico. Esso mostra solo che molti galilei furono esasperati dalle esazioni e insolenza dei romani e furono propensi ad unirsi in un
“fronte comune” contro Roma. Se è improbabile che gli ebrei avessero tentato di permeare la massa della popolazione di Galilea colle loro ambizioni imperialistiche, è ancor più difficile credere che essi potessero aver imposto la loro speranza su coloro tra i galilei che accarezzavano una speranza rivale loro propria.
Come abbiamo già affermato, il termine
“Messia” significò in origine l'“unto con olio”. Esso fu utilizzato anche da uomini che parlavano greco come un nome proprio “Cristo” in preferenza al nome Gesù; e infine esso fu utilizzato a significare il liberatore promesso ad Israele. Nei vangeli, in Atti, e altri scritti del secondo o terzo-secolo, la parola “Cristo” è spesso usata indiscutibilmente nell'ultimo senso citato. Nell'Apocalisse l'espressione Gesù Cristo si usa spesso, e Cristo è un nome proprio, come pure quando usato da solo. Due volte — 11:15 e 12:10 — Gesù è chiamato il Cristo di Dio nel senso evidente di “l'unto di Dio”.
Nelle antiche porzioni di Atti, non solo Gesù è sempre “il Signore” e mai il Messia, ma si guarda invano là per la più pallida allusione al messianismo. Le epistole sono ancor più illuminanti. San Paolo oppone realmente la speranza messianica alla speranza mistica, quando egli spiega che la promessa che Dio offrì ad Abramo non è quella (secondo la carne) di una Gerusalemme terrena, ma quella (secondo lo spirito) di una “Gerusalemme di lassù” — precisamente, il regno soprannaturale e post-mortale della religione di Gesù. [5]
Nelle epistole la parola Christos è sempre un nome proprio. Gesù per San Paolo non è mai il Messia ebraico: il Gesù che lui predica è colui che, in virtù della sua morte e resurrezione, guadagna la salvezza per i suoi seguaci associandoli colla sua resurrezione, non il Messia che sta venendo per stabilire sulla terra l'impero di Israele. I tre significati della parola ebraica Messia e il suo equivalente greco Christos confondevano gli ignoranti e permisero alla Chiesa in anni successivi di trasformare un dio misterico in un Messia ebraico.
La Chiesa fu costretta perciò a rappresentare il messianismo ebraico come risalente al punto di origine della religione, e fanno in modo che i vangeli rappresentino gli apostoli come intrisi di speranza ebraica, e Gesù come il suo realizzatore. Il vangelo secondo Matteo fu scritto con questo espresso fine in vista. Davvero diverso fu l'intento dei primi cristiani di Galilea e della diaspora, e di San Paolo.

La Speranza Mistica. — Questo è il nome che diamo alla speranza che le religioni misteriche recarono ai loro seguaci. Tra la speranza ebraica e la speranza mistica ci furono non solo differenze ma un antagonismo su tutti i punti salienti. Le religioni ufficiali dell'antichità avevano come loro fine la perpetuazione della vitalità della nazione. Le religioni misteriche erano indifferenti al destino della nazione e furono interessate solamente al fato dei loro aderenti. Così la speranza messianica fu nazionalista, e la speranza mistica tendeva ad opporre a questo nazionalismo un particolarismo internazionale. Dove il credo religioso era in decadenza, il sentimento nazionale avrebbe dato spazio ad un ignobile individualismo, preparando così la via ad un rigenerato raggruppamento sociale.
Poiché erano chiaramente incapaci di assicurare la felicità dei loro seguaci nell'aldiquà, le religioni misteriche collocarono al di là della tomba la realizzazione delle loro promesse; di fatto, il fine principale di quelle religioni era di procurare ai loro seguaci una vita nuova e felice dopo la morte. Esse si potrebbero chiamare religioni di salvezza ed immortalità. La speranza messianica fu una speranza che stava per realizzarsi sulla terra, sebbene i mezzi impiegati per ottenerla dovevano essere di natura soprannaturale. L'idea di una vita futura introdotta nell'ebraismo dai farisei non modificò l'antica concezione su questo punto. Come risultato, tra il presente e l'agognato futuro le religioni misteriche posero la necessità di passare attraverso la tomba, e l'ebraismo non lo fece.
Le due speranze, comunque, possedevano un tratto in comune. Entrambe si affidavano per la realizzazione della loro speranza ad un intervento di natura soprannaturale; ma, appena cambiavano le speranze, così cambiarono i mezzi per ottenere il risultato promesso. Nell'ebraismo la speranza fu la liberazione di Israele e l'insediamento della sua dominazione sulla terra, che doveva realizzarsi mediante una vittoria napoleonica che non avrebbe permesso a nessun nemico potente di sopravvivere. Gli adepti delle religioni misteriche dovevano ottenere nell'aldilà la loro benedetta immortalità, e questo fu ottenuto seguendo il dio nella sua morte e resurrezione — precisamente, partecipandovi per mezzo dei riti del culto. Questo è l'esatto opposto del ricorso messianico alla forza. Agli aspetti della speranza mistica, la speranza cristiana ne aggiunse uno di grande importanza che contribuì a collegarla con la speranza ebraica. Gli antichi cristiani credettero in una resurrezione collettiva, quando tutti i fedeli sarebbero resuscitati assieme, e questo giorno di resurrezione aveva qualche analogia col giorno quando il popolo ebraico doveva giungere in possesso del suo impero. In realtà i due eventi non avevano niente in comune, ma entrambi erano eventi precisi tramite cui il fato del mondo si sarebbe deciso in ciò che fu per entrambi il
“Gran Giorno”. Entrambi saranno chiamati parimenti il “Giorno del Signore”.
 Tuttavia in verità la parola “Signore” non si riferisce in entrambi alla stessa persona, il “Signore” del messianismo è Jahvè il dio di Israele; il “Signore” della speranza cristiana è Gesù. Ma due eventi che hanno aspetti comuni e che portano lo stesso nome hanno ogni possibilità di venir assimilati quando questo corso appare essere vantaggioso.
Sappiamo che il cristianesimo fu influenzato dai testi sacri dell'ebraismo, e senza dubbio attinse da loro il nome
“Giorno del Signore”, ma non doveva a loro l'idea stessa del “Gran Giorno”. L'idea fu implicata in quella della resurrezione collettiva, e fu derivata da una religione misterica primitiva. Le conseguenze furono di importo decisivo. Questa resurrezione generale diventò presto non solo la scomparsa di tutti i fedeli dalla terra, ma la scomparsa del globo stesso.
La formula della primitiva speranza cristiana si trova nelle epistole paoline, in particolare in 1 Corinzi 15:14-56, dove troviamo la dottrina delle religioni misteriche della virtù della morte e resurrezione del dio e la garanzia di promesse ai suoi adepti che saranno realizzate dopo la morte in un altro mondo. Troviamo anche le idee speciali della speranza cristiana: la concentrazione di tutte le resurrezioni in una al
“Gran Giorno”, dopo la distruzione del mondo terrestre. Non c'è nulla, comunque, che rassomigli perfino pallidamente alla promessa al popolo ebraico del possesso della terra.
Dopo la distruzione di Gerusalemme nell'anno 70, nella speranza di recuperare l'eredità dell'ebraismo, la Chiesa tentò di riconciliare la promessa cristiana di salvezza e la promessa messianica. La speranza cristiana fu sostituita come l'incarnazione della speranza ebraica, unificando così nell'antico dio Gesù gli aspetti contradditori del Messia ebraico e di un dio misterico ucciso e risorto. Che tale antitesi potesse aver successo, o perfino venir considerata, prova solamente che le cose umane e divine sono un mucchio di contraddizioni. Quest'assorbimento del messianismo nel cristianesimo che i cristiani hanno accettato per diciotto secoli, gli ebrei, con buona ragione, hanno sempre respinto, poiché tra la speranza messianica e la speranza cristiana le differenze sono irriducibili. Ebrei acculturati potevano soltanto protestare contro questa blasfemia dell'offerta ai pagani di una benedizione in un altro mondo, e contro la caricatura del loro Messia regale e vittorioso come un debole dio che doveva soffrire i terrori di una Passione.

La Speranza Rivoluzionaria. — I mezzi tramite cui i primi cristiani aspettarono di ottenere la rigenerazione della società non differirono, comunque, fondamentalmente dai mezzi che contemplò il messianismo — precisamente, quelli di violenza. I primi erano interessati soprattutto all'arrivo del “Regno di Dio” e la venuta del regno per il quale pregarono significò per San Paolo la distruzione di “ogni principato, ogni potestà e ogni potenza” (1 Corinzi 15:24). Tutti i regni della terra dovevano essere distrutti.
L'Apocalisse contempla in particolare la distruzione dell'Impero romano e l'incendio di Roma. Fu nel mezzo di questo sterminio universale che i fedeli dovevano risorgere per entrare nel loro altro mondo benedetto. Tali erano i mezzi mediante cui il
“Regno di Dio” doveva essere imposto; mezzi che sono paragonabili a quelli tramite cui i rivoluzionari moderni propongono di stabilire una nuova società. Una rivoluzione opera solo con la violenza — se è davvero una rivoluzione — vale a dire, la sostituzione di una società decadente con una società ringiovanita. Il Signore non apparve nelle nubi, e la speranza dei cristiani del primo secolo non fu realizzata.
Come nel caso dell'ebraismo, il potere da cui i primi cristiani aspettarono aiuto fu solo la rappresentazione simbolica dello scopo della comunità stessa. Nel collocare le sue ricompense nell'aldilà, a prima vista la speranza cristiana sembra essere opposta alla speranza rivoluzionaria; in realtà ciò che chiamavano il
“Regno di Dio” e collocarono nell'aldilà fu solo il simbolo di una società rigenerata che si sarebbe realizzata con l'insediamento del cristianesimo. Come il “Regno di Dio” fu la rappresentazione simbolica che lo spirito subconscio dei primi cristiani fece del mondo rigenerato a cui aspiravano, così la società futura che i rivoluzionari moderni cercano di realizzare è la rappresentazione simbolica dei loro scopi. La differenza essenziale tra la speranza cristiana e la speranza messianica era che la prima fu rivoluzionaria e la seconda imperialista. Perfino i comunisti hanno sociologicamente il loro dio. Quel dio è il simbolo sotto il quale essi si concepiscono come un gruppo, che lo si chiami il partito oppure la causa. Quando i primi cristiani predissero che il Signore avrebbe distrutto la grande città di Roma col fuoco, non predissero che essi avrebbero fatto bene a preparare le torce? Una cosa almeno è certa — che, al pari di tutti gli autentici rivoluzionari, essi sapevano che erano loro stessi che avrebbero “giudicato il mondo” (1 Corinzi 6:2-3).

NOTE

[1] Il Gesù Pre-Cristiano.

[2] Probléme de Jésus, pag. 110 et seq.

[3] Jésus, 1933, pag. 10.

[4] Le Mond juif vers le temps de Jésus, pag. 203.

[5] Galati 4:21-26. Si veda anche Galati 3:6-19 e Romani 4-10 e 15:8-12.

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