sabato 30 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (VII) — Il Culto di Gesù

(prosegue da qui)
CAPITOLO VII

IL CULTO DI GESÙ

1. Il Dio-Salvatore

Durante gli ultimi due secoli A.E.C., principalmente sotto l'influenza della filosofia greca, l'idea di Dio stava diventando meno antropomorfica, più elevata, pura e astratta. Colti greci e romani avevano cominciato a spiegare i loro dèi e dèe come aspetti del dio supremo Zeus o Giove, e a considerare questo dio non più un tipo di monarca davvero potente, il cui principale vantaggio rispetto agli uomini fosse quello di poter soddisfare tutti i suoi desideri. Mentre il potere, senza dubbio, era ancora un elemento importante nella concezione di Dio, con questo elemento stavano per essere uniti sapienza e bontà, e Dio stava al contempo per essere dematerializzato. Gli gnostici nella loro maniera simbolica descrissero questo sviluppo dicendo che il Logos, la divina Parola o Ragione, aveva rivelato agli uomini il vero Dio e la sua vera natura. Per persone rozze e incolte, comunque, la cui mente non poteva rischiarare quelle idee più elevate, nella misura in cui Dio divenne più astratto e meno umano egli diventò anche più remoto e inaccessibile. Avendo poca capacità di pensiero astratto, essi non potevano raffigurare Dio altrimenti che come un tipo di monarca terreno, solo più magnificente, più inavvicinabile; e così sembrò loro che gli interessi di questa gente miserabile e insignificante come la maggior parte di loro non potessero essere di interesse immediato per lui. Di conseguenza essi furono indotti a rivolgersi a qualche dio che potesse agire come un mediatore tra loro e l'essere supremo — uno che avesse caratteristiche più umane, specialmente uno che fosse ritenuto aver sofferto egli stesso, e così avrebbe compreso le loro sofferenze e le avrebbe commiserate. Coerentemente, i culti degli dèi-salvatori erano diventati diffusi e popolari all'alba dell'era cristiana. Quei culti erano per lo più di origine orientale, ma rapidamente penetrarono in Grecia e in Italia. Questi furono i culti di Adone, Attis, Osiride, Dioniso, Mitra, e Gesù. Quei culti avevano parecchi aspetti in comune. In quasi tutti loro il dio del culto era il figlio di un dio, in alcuni casi del Dio Supremo; essi tutti morirono e resuscitarono dai morti. Alcuni di loro erano dèi della vegetazione, altri erano dèi solari. La morte e la resurrezione degli dèi della vegetazione originariamente rappresentavano la morte della vegetazione in autunno e la sua rinascita in primavera. La morte del dio Sole rappresentava il declino del Sole nelle regioni inferiori della sfera celeste in autunno, e la sua resurrezione il riattraversamento dell'equatore nella semisfera superiore in primavera. In certi casi, se non in tutti ad una certa misura, le due idee furono congiunte. Adone, Attis, Osiride, e Dioniso, comunque, erano principalmente dèi della vegetazione;
Le caratteristiche di Mitra e di Gesù erano quelle degli dèi solari. Nel caso di Gesù è probabile che quest'aspetto non fosse originale, ma giunse da Babilonia. Connessi al culto di quelle deità erano riti durante i quali veniva proclamata la morte del dio. Quei riti originarono da una pratica di sacrificio umano, in cui la vittima rappresentava il dio stesso. Sir James Frazer spiega così la loro origine: “L'uomo, ora, attribuiva il ciclo annuale dei mutamenti ad analoghi mutamenti nei suoi dèi; ma continuava a credere che, celebrando particolari riti magici, fosse possibile aiutare quel dio, principio della vita, nella lotta contro il suo antagonista, il principio della morte. Immaginò di potergli rendere le sue energie in declino e perfino di richiamarlo in vita. Le cerimonie celebrate a questo scopo erano, in realtà, rappresentazioni sceniche di quei processi naturali che l'uomo desiderava agevolare; è infatti dottrina comune della magia che sia possibile produrre un qualsiasi effetto desiderato semplicemente imitandolo.” Conformemente a ciò, gli uomini in tempi molto antichi proclamavano la morte del dio e quindi rappresentavano la sua resurrezione in una rinnovata vita e vigore. Con questi riti si si sarebbero potuti fondere nel corso del tempo elementi che avevano un'origine diversa. Frazer ha dimostrato che tra i popoli primitivi il sacrificio del re, che era spesso anche sacerdote, era consuetudine. Successivamente in alcuni casi il figlio del re fu sostituito. Questo è noto essere accaduto tra i popoli semitici. Oltre all'esempio di Abramo e Isacco, c'è anche il mito fenicio di Ieud, l'unico figlio di Re Crono, il cui nome fenicio era Israele. Questo Ieud è detto essere stato sacrificato da suo padre in un momento di pericolo nazionale, dopo che fu vestito di abiti regali. Nel tempo i re diventarono forti abbastanza da passare questo obbligo a un sostituto. Il sostituto prendeva il posto del re o del figlio del re e, dopo essere vestito in abiti regali, era sacrificato al suo posto. Poteva essere un criminale, oppure poteva essere stato acquistato. Per un certo numero di giorni gli era concessa piena licenza, o addirittura il potere regale, come se fosse veramente re, e alla fine del tempo veniva messo a morte. Ancora più tardi, venne sostituito un animale nel rito sacrificale; e più tardi ancora l'immagine di un animale o di un uomo, che poteva essere fatta di pane. Ci sono prove che in alcune regioni, quando il re o il figlio del re era sacrificato, egli prendeva il posto della vittima nell'uccisione rituale del dio; così le idee connesse ai due tipi di sacrificio si fusero e, oltre al suo significato originale, il sacrificio del dio assunse anche quello di espiazione. In ogni caso, però, al di là se questa fusione fosse avvenuta o meno, il sacrificio possedeva un carattere redentivo; perché si immaginò che il dio, con la sua discesa al regno della morte e la sua successiva resurrezione, avesse conquistato la morte e reso possibile la resurrezione per tutti i partecipanti nei suoi riti religiosi. A tal fine era necessario per l'adoratore diventare “uno con il dio”, fusione che in qualche maniera simbolica si effettuò nei misteri. Ogni morto egiziano era identificato con Osiride e recava il suo nome. Nel rituale della resurrezione di Attis il sacerdote ungeva di olio le labbra degli adoratori, dicendo loro: “Abbiate conforto, siate pii, perché il dio è salvato; così anche voi siete salvati nell'ora del vostro bisogno”. Nel caso del culto di Gesù, il battesimo diventò il simbolo che rappresenta l'unione con il dio, sebbene ci potrebbe anche essere stato un qualche atto simbolico nei misteri, come tendere le braccia in una posizione crocifissa, la quale è indicata nelle Odi di Salomone. L'immersione nell'atto del battesimo era intesa a simboleggiare la sepoltura; e si credeva che questa sepoltura con Cristo assicurasse resurrezione con lui. Così leggiamo in Romani 6:4 e 8: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte......Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”. Il credente era allora detto essere “in Cristo”. E così si venne a pensare che l'intero gruppo di adoratori formasse simbolicamente il “corpo di Cristo”, del cui corpo ciascuno ne era membro. Originariamente, l'idea connessa al sacrificio della vittima nel culto di Gesù era senza dubbio semplicemente quella dell'espiazione. La nozione che mediante la morte e la resurrezione del dio la resurrezione dei credenti fosse assicurata penetrò probabilmente nel culto da un'altra fonte. Il rito del battesimo è relativamente tardivo. È possibile che questo rito entrò nella pratica cristiana dagli Esseni— un fatto di cui il riportato battesimo di Gesù da Giovanni potrebbe essere una rappresentazione simbolica.
 Un altro costume molto importante fu connesso con questi riti. Tra le razze selvagge e le popolazioni primitive esiste il credo che chi mangia la carne di un uomo ucciso acquista una parte delle qualità che possedeva. Da tali idee si originò la pratica di “mangiare il dio”. Gli antichi sacrifici umani furono cannibalistici. Coloro che erano presenti al rito divoravano una parte della vittima, che rappresentava il Dio ucciso, nella convinzione che venivano così a partecipare degli attributi e delle virtù del dio. Quando l'abitudine di sacrificare, prima uomini e successivamente animali, si estinse, fu naturale sostituire qualcosa che si potesse considerare particolarmente adatto a rappresentare il dio. Poiché la maggior parte di quei dèi erano dèi della vegetazione, il  grano e il frutto della vite erano ovviamente candidati; e così in tempi più tardi il corpo del dio veniva mangiato sotto forma di pane o focacce fatte di grano, e il suo sangue veniva bevuto sotto forma di vino. I misteri, allora, in cui veniva solennizzata la morte seguita dalla resurrezione di quei dèi-salvatori consisteva di una   rappresentazione drammatica della morte del dio e di un pasto sacramentale nel quale il suo corpo veniva simbolicamente mangiato e il suo sangue veniva bevuto.

2. Prove del Culto Pre-Cristiano di Gesù

Nel caso del culto di Gesù, la rappresentazione drammatica, come ha provato il signor Robertson, fu messa per iscritto e appare nei nostri vangeli come il racconto del processo e della crocifissione, [1] mentre il pasto sacramentale è sopravvissuto fino ad oggi. Sembra che ci sia un riferimento al primo nella lettera ai Galati, dove lo scrittore dice: “O folli Galati! Chi vi ha stregato, davanti a quali occhi Gesù Cristo fu pubblicamente raffigurato come crocifisso?”. Nei riti di alcuni di quelle divinità i sacerdoti, e anche gli adoratori, si ferivano con coltelli oppure facevano incisioni nei loro corpi, e le cicatrici così ottenute furono chiamate “stimmate”. Potrebbe esserci stato qualcosa di questo tipo nel rito di Gesù, perché nella lettera ai Galati lo scrittore dice: “Io porto i segni di Gesù nel mio corpo”; La cui interpretazione naturale è che quei segni fossero stimmate. Non c'è nessuna ragione al mondo per separare il culto di Gesù dagli altri; e se qualcuno dice che la sua origine fosse di natura diversa dalla loro, l'onere della prova ricade su di lui. Il fatto che solo  il cristianesimo è sopravvissuto non è una dimostrazione di questo, perché, per quanto la natura del culto potesse essere influenzata dalla natura della sua origine, essi erano tutti allo stesso livello sul piano intellettuale ed etico. Il cristianesimo sopravvisse, non perché ebbe un diverso tipo di origine, ma come risultato della natura e dell'organizzazione che acquisì nel corso del suo sviluppo, come verrà mostrato in seguito. Qualunque di quei culti potrebbe aver copiato, e alcuni di loro probabilmente copiarono, dettagli da alcuni degli altri; ma il dogma centrale e il rito, come Sir James Frazer ha abbondantemente dimostrato, furono un prodotto naturale dello spirito umano primitivo.
Attendersi molte prove dirette dell'esistenza del culto di Gesù nei tempi pre-cristiani sarebbe irragionevole. Qualche prova che Giosuè, o Gesù, fosse un nome divino in Palestina in quei tempi è già stata fornita. Abbiamo visto che la politica dei sacerdoti di un periodo antico consistette nel sopprimere le prove che Giosuè era stato un essere divino.. Nei giorni dopo l'Esilio il culto fu, senza dubbio, oscuro e praticato solo in pochi luoghi, forse in Samaria. E la Chiesa cattolica distrusse vigorosamente ogni prova di un culto pre-cristiano di Gesù che poteva trovare. Tuttavia, alcuni indizi della pratica del culto sono sopravvissuti.
È un grande errore supporre, come fanno alcuni scrittori, che nel periodo dopo l'Esilio tutti gli abitanti della Palestina, o perfino tutti gli ebrei, fossero adoratori monoteisti di Jahvè. Che culti privati esistettero tra gli ebrei è stato dimostrato dalle ricerche di Robertson Smith e di altri. Ora è stato stabilito che il Deuteronomio è post-esilico, anche se i teologi in generale non accettano ancora quel risultato. I fatti stabiliti ottengono spesso un'accettazione ma lentamente, soprattutto in materie teologiche. Anche i teologi, tuttavia, stanno cominciando a cedere alle prove. I professori Hölscher e Kennett, tra gli altri, sono giunti alla conclusione che il Deuteronomio appartiene al periodo dell'Esilio oppure al primo periodo ad esso posteriore. L'alternativa precedente non è probabile che sia mantenuta a lungo; infatti perché il codice dovrebbe essere redatto per uno stato che non esisteva? Ma la conclusione che il Deuteronomio è post-esilico comporta alcune altre importanti conclusioni, una che l'idolatria esisteva nel periodo post-esilico. Poiché la veemenza del divieto di pratiche idolatriche in quel libro è una prova che tali pratiche si verificavano alla sua stesura. Le leggi non sono fatte per vietare atti che le persone non hanno nessuna inclinazione a commettere. Prima dell'Esilio gli ebrei erano idolatri, e non è affatto certo che, nel loro complesso, essi erano monoteisti. Essi adoravano Jahvè nella forma di un'immagine. A Babilonia erano in mezzo a idolatri e politeisti. Un puro monoteismo e una libertà dall'idolatria in Giudea subito dopo il Ritorno sono molto improbabili. La probabilità è che circa settant'anni dopo quell'evento alcuni sacerdoti, rappresentati da Esdra (potrebbe essere sotto l'influenza di idee persiane), avevano adottato la concezione di un culto senza immagini e avevano deciso di imporre tale tipo di culto ai loro connazionali. Ma la pratica dell'idolatria e la dipendenza dai culti stranieri non vengono sradicati da una nazione in una generazione o due; e il fatto veramente sorprendente sarebbe non l'esistenza di idolatri e culti stranieri nell'ebraismo post-esilico, ma il loro sradicamento nel corso di alcuni anni dopo la promulgazione della cosiddetta legislazione mosaica. Ci sono, in effetti, prove sufficienti della pratica di culti stranieri in Palestina dopo il Ritorno; e che queste prove finora sono state così poco apprezzate è dovuto al fatto che non è ancora generalmente ammesso che i profeti che scrissero sotto i nomi di Ezechiele e di Geremia fossero posteriori all'Esilio; ma è certo che la forza degli argomenti di Vernes e Dujardin sarà riconosciuta nel breve tempo. Le prove aggiuntive a quelle presentate da loro sono la prevalenza delle credenze e delle pratiche religiose babilonesi all'epoca in cui furono scritti i libri di Ezechiele e di Geremia [2]. L'adorazione di Tammuz, una divinità babilonese, citata da Ezechiele, è già stata menzionata. Lo stesso scrittore dice anche di aver visto uomini che adorano il Sole alla porta orientale del tempio. Non c'è alcuna prova che il Sole fosse adorato in Giudea prima dell'Esilio. Questo culto potrebbe essere giunto dalla Persia per via di Babilonia. Ora, Girolamo dice che anche al suo giorno Tammuz era adorato alla grotta di Betlemme, dove è detto che Gesù era nato. La conclusione naturale è che questo culto fosse perdurato continuamente nel periodo intermedio. Il primo Isaia scrisse (2:8): “Il loro paese è pieno di idoli”, riferendosi agli ebrei; e ancora: “Come mai è diventata una prostituta la città fedele?”. Dal momento che “prostituzione” è il termine utilizzato generalmente dagli scrittori profetici per stigmatizzare il culto dei falsi dèi, questo passo indica che anche a Gerusalemme gli abitanti non erano fedeli a Jahvè. Il passo appena citato si riferisce probabilmente a credenze e osservanze ellenistiche, che furono tollerate dall'aristocrazia dominante nei giorni dello scrittore di Isaia, nel III secolo A.E.C.; e quelle osservanze potrebbero perfino aver incluso il culto di Zeus. Per molti anni dopo il Ritorno l'autorità del sommo sacerdote si estendeva solo sul territorio di una piccola area circostante Gerusalemme. L'ordine in Palestina generalmente era mantenuto dal governatore siriano o egiziano, che certamente non avrebbe interferito con alcun culto ivi esistente. I sacerdoti di Gerusalemme estesero gradualmente il raggio della loro autorità, ma non fu fino al tempo dei Maccabei che le pratiche idolatriche in Palestina potevano essere schiacciate effettivamente. E senza dubbio alcuni culti oscuri avrebbero continuato ad essere praticati privatamente. Nel capitolo 65:3, del libro di Isaia, che è considerato post-esilico dai migliori critici, leggiamo: “un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini, offrivano incenso sui mattoni”; e nel capitolo successivo: “Coloro che si consacrano e purificano nei giardini, seguendo uno che sta in mezzo, che mangiano carne suina, cose abominevoli e topi”. Qui nella prima citazione abbiamo un riferimento inconfondibile ad un culto straniero. Il consumo di carne di maiale menzionato nella seconda, preso assieme ai dettagli che l'accompagnano, descrive chiaramente un rito religioso in cui il maiale veniva mangiato come un animale sacro, il che significa che rappresentava il dio del culto. Questo rito deve, quindi, avere avuto origine in tempi molto antichi, e persistette in alcuni ambienti ebraici fino a dopo il ritorno da Babilonia.. Nel capitolo 27, che è ammesso essere post-esilico anche da critici tradizionalisti, troviamo: “In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte, il Leviatàn serpente guizzante, il Leviatàn serpente tortuoso e ucciderà il drago che sta nel mare”. Ora, Bel, il supremo dio dei Caldei, fu adorato sotto forma di serpente; un drago dal mare è anche una figura prominente della mitologia babilonese. Così che il verso sopra citato offre una prova che le credenze religiose babilonesi erano state introdotte in Palestina dopo l'Esilio. Questo è confermato da un riferimento a questo stesso drago nel libro dell'Apocalisse, dove è detto che il grande drago fu gettato fuori, quel serpente antico chiamato il diavolo; e questo drago, ci viene detto, proveniva dal mare. Il fatto che questo drago figura in modo così prominente nel libro dell'Apocalisse indica che quando quel libro fu scritto le idee religiose babilonesi esistevano ancora in Palestina e vi erano esistite continuamente fin dall'Esilio. Ho ritenuto necessario trattare a lungo questa questione, perché un certo numero di teologi prospettano la possibilità che il culto di una divinità antica, come Giosuè, avrebbe potuto continuare in Palestina per tutto il periodo post-esilico. Era anche necessario dimostrare che gli ebrei a quel tempo furono ancora facilmente influenzati da culti stranieri, e che è abbastanza ragionevole supporre che il culto di Giosuè venisse modificato dal contatto con la teologia babilonese. In considerazione di quanto è stato affermato, la probabilità è che tale cambiamento si verificò effettivamente. Per i babilonesi Marduc fu un dio-salvatore. Egli recava i nomi “Signore della Vita”, il “Compassionevole”“Appassionato”, il “Sacerdote dell'Espiazione”. Si credeva che fosse stato mandato fino alla terra da suo padre Ea, che ebbe pietà per le sofferenze degli uomini, per offrire loro soccorso nella malattia e nell'angoscia. Egli fu ucciso e resuscitò di nuovo. Ora, se ci fossero stati degli ebrei che adoravano Giosuè come colui il cui nome significava aiuto oppure salvezza, e di cui si aspettava la venuta dal paradiso alla terra per la riscossa degli ebrei, essi non avrebbero mancato di vedere la rassomiglianza tra Marduc e Giosuè; e il credo che Marduc fosse il figlio di Ea avrebbe portato a suggerire che Giosuè fosse il figlio di Jahve — se quel credo non fosse esistito in precedenza, cosa che potrebbe aver fatto. Ad ogni caso, Giosuè non era il figlio di un uomo. È detto che sia stato il figlio di Nun, e la parola ebraica “nun” è equivalente a “pesce”. Tertulliano chiama Gesù il pesce divino. Ora, il pesce è un elemento importante in alcune mitologie, essendo legato al segno zodiacale dei Pesci; e questo segno, essendo il dodicesimo ossia l'ultimo, è legato alla fine del mondo. La qual cosa rappresenta qualche indizio che Giosuè era una persona mitica, e forse che egli avrebbe dovuto apparire come Messia alla fine del mondo. Nel Talmud leggiamo: “Prima della creazione del mondo, il nome del Messia esisteva già, poiché è detto nel Salmo 72:17, il Suo nome è eterno. Prima della creazione del Sole il suo nome era Inon”. Ora, il nome ebraico Inon contiene la radice nun, e possiede lo stesso significato; quindi abbiamo un collegamento tra il nome del Messia ebraico e Giosuè figlio di Nun. Giosuè è dichiarato anche nel Talmud della progenie di Giuseppe; e quando ricordiamo che tra i Samaritani il Messia era figlio di Giuseppe, e che Giosuè fu particolarmente venerato da loro, siamo indotti fortemente al credo che per loro Giosuè fosse il nome del Messia, e che potrebbe essere stato così anche per alcuni ebrei. C'è però ragione di credere che originariamente il pesce rappresentasse la madre di Giosuè, e fosse riferito solo più tardi a suo padre. Questo punto sarà discusso nel Capitolo X. Ancora una volta, la convinzione che Marduc aveva sofferto per il bene dell'umanità avrebbe suggerito, oppure avrebbe confermato, l'idea che anche Giosuè avrebbe sofferto, oppure aveva sofferto, per il bene dell'umanità. Ci sono alcune prove a supporto di questa congettura. È stato preservato da Ippolito un frammento di un inno naasseno (e i Naasseni o gli Ofiti, ricorda, erano pre-cristiani) che recita come segue: “Disse allora Gesù: Per questa ragione mandami, Padre. Portando i sigilli io discenderò; Passerò attraverso gli Eoni; Rivelerò tutti i misteri e mostrerò la forma degli dèi: Trasmetterò i segreti della santa via, che chiamerò Gnosi”. I Naasseni, essendo gnostici, identificarono Giosuè o Gesù con il Logos e pensarono che il miglior servizio che egli potesse fare agli uomini fosse quello di portarli a conoscenza di Dio. Altri ebrei avrebbero avuto una diversa concezione della sua missione. Il signor Loisy ammette che questo inno “possiede una rassomiglianza straordinaria al dialogo tra il dio Ea e suo figlio Marduc in certi incantesimi babilonesi”. Dobbiamo, dunque rammentare la possibilità che, per lo meno, dopo il ritorno da Babilonia, Giosuè fu considerato da alcuni ebrei come il figlio di Dio, e l'ulteriore possibilità che si credeva che era giunto sulla terra e aveva sofferto per la redenzione del genere umano. Tenendo presenti quelle possibilità, possiamo continuare a dimostrarle alla luce di prove ulteriori. Ora c'è una dichiarazione nel Talmud, risalente ad un periodo subito dopo la caduta del Tempio, che ci fu un rituale ebraico “Settimana del Figlio” o, come alcuni lo chiamano, “Gesù il Figlio”, in connessione con la  circoncisione o redenzione del figlio primogenito — una circostanza che suggerisce che un Giosuè era considerato il figlio di Jahvè. Questo nome non può essere stato copiato veramente dai cristiani. Inoltre, quando il nome Barabba si presenta nella storia evangelica della crocifissione, una lettura antica del manoscritto recita “Gesù Barabba”, ed ora si ammette che questa lettura potrebbe essere quella originale. È impossibile che il nome “Gesù” sia stato interpolato in questa connessione, mentre è facile capire perché fu lasciato fuori.
Ma Gesù Barabba significa Gesù il Figlio del Padre. E l'occorrenza di questo nome in questo punto particolare non può essere stata accidentale; deve esserci stata qualche ragione importante per la connessione di un uomo che reca quel nome con gli altri dettagli della Crocifissione. Senza dubbio questo Gesù Barabba è una figura simbolica, e il suo nome non è il nome di un individuo. Qualche luce è gettata su questo problema da un resoconto in Filone di una mascherata che aveva visto ad Alessandria. Un pazzo fu addobbato come un finto re in veste e corona, e poi condotto in processione, recando con sé uno scettro. Filone dice che il nome dell'uomo era Karabba. La K in questo nome può essere un errore di trascrizione al posto di B. L'episodio ci rammenta fortemente le pantomime popolari di cui così tante sono descritte nel Ramo d'Oro di Frazer, e che sono le reliquie degenerate di antichi riti di sacrifici umani o animali. Questo rito particolare suggerisce la processione sacrificale della vittima che veniva offerta come un sostituto del re o del figlio del re. A volte la vittima in questi sacrifici era un criminale condannato. In relazione a Gesù Barabba ci viene detto che era consuetudine che un prigioniero venisse rilasciato ogni anno alla festa. Questa usanza potrebbe essere stata un'antica consuetudine nazionale, continuata dai governatori romani. Cosa potrebbe essere stata l'origine di questo rilascio annuale di un criminale in relazione ad una festa? Si presenta la possibilità che il criminale fosse stato liberato in origine per essere la vittima di un rito in cui veniva sacrificato annualmente Gesù il Figlio del Padre. Se un tempo in Palestina vi fosse esistito un rito in cui il sostituto di una vittima regale veniva sacrificato al dio Giosuè, il Figlio del Padre (la stessa vittima, com'era consuetudine in quei sacrifici, rappresentava il dio), l'episodio, altrimenti inspiegabile, verrebbe spiegato. Il racconto della Crocifissione è una descrizione del rito sacrificale, con alcuni dettagli aggiunti la cui fonte è stata rintracciata. Gesù Barabba rappresenta il criminale sostituito che, quando tali sacrifici erano una realtà, era la vera vittima. Dato che lo scrittore che trascrisse la storia della Passione volle rappresentare la crocifissione di Gesù come un evento unico e dovette affrontare la possibile obiezione che il rito di Gesù Barabba non era un evento unico, egli fece la distinzione più netta che poteva tra il suo Gesù Nazareno e Gesù Barabba, rappresentando quest'ultimo mentre viene liberato ma non per essere messo a morte.
I diversi episodi della Passione hanno provocato una notevole perplessità ai teologi critici, che si sono duramente rovellati su di essi pur di dare loro una spiegazione ragionevole. Le spiegazioni fornite non sono affatto soddisfacenti. Per esempio, più di uno scrittore di una Vita di Gesù ha capito che il processo notturno è un'impossibilità. Il metodo di Brandt e Loisy nel trattare tali difficoltà consiste nel ricostruire il racconto per sé stessi nella maniera più arbitraria. Per quanto riguarda l'ingresso trionfale a Gerusalemme, Wrede osserva che questo episodio in Marco è un evento completamente isolato. Poiché quest'episodio non ha conseguenze, così anche non vi è ad esso alcuna preparazione. Può però essere spiegato semplicemente e naturalmente come la descrizione di un cerimoniale che persisteva ancora all'inizio del primo secolo, e costituiva una sopravvivenza di un rito sacrificale che prevedeva l'incoronazione e la derisione della vittima. A volte le vittime venivano comprate. Questa usanza trovò posto anche nel racconto evangelico, nella dichiarazione che Giuda, per trenta pezzi d'argento, vendette la vittima, Gesù, a coloro che erano intenzionati a sacrificarlo. Anche i teologi hanno riconosciuto il fatto che non c'era bisogno che i sacerdoti pagassero per il tradimento di un uomo facilmente individuabile. Lo storico Berosso, che fu un sacerdote babilonese, ha fornito un resoconto di una festa chiamata festa delle Sacee, celebrata ogni anno a Babilonia, che durava per cinque giorni. Un prigioniero condannato a morte era addobbato con le vesti del re, assiso sul trono del re, e rivestito del potere regale e della piena licenza di divertirsi in qualunque maniera gli compiacesse. Alla fine dei cinque giorni egli veniva spogliato delle sue vesti regali, flagellato, e impiccato o impalato. Il lettore riconoscerà ora questa festa come il tipico rituale in cui il criminale recitava la parte che in tempi più antichi era stata assegnata al re stesso. Ora, è abbastanza probabile che quelli ebrei che adoravano Giosuè come un essere divino o come il figlio di Jahvè, avessero copiato questo rito sacrificale dai babilonesi, siccome sappiamo che altri credi e costumi religiosi furono copiati da loro da parte di alcuni ebrei. Certamente, se consideriamo la materia senza pregiudizi, dobbiamo accorgerci che la rassomiglianza tra questo rito e le circostanze della Crocifissione è così vicina da rendere probabile che ci sia qualcosa di più della coincidenza accidentale. Qualsiasi storico che potesse considerare la questione in modo perfettamente distaccato giungerebbe sicuramente alla conclusione che dopo l'Esilio babilonese un rito di Gesù Barabba, basato sulla festa delle Sacee, fu celebrato in Palestina; che originariamente c'era stato un vero sacrificio, successivamente l'imitazione di uno; che questo sacrificio, forse, fu alla fine interrotto e sostituito dal dramma misterico del culto, anche se le due rappresentazioni potrebbero aver continuato ad essere praticate insieme. Il racconto dell'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, incredibile come Storia, fu una riproduzione della processione regale del finto re; l'intervallo di cinque giorni tra questo e la Crocifissione corrisponde alla licenza di cinque giorni consentita alla vittima, un esempio della cui licenza o fruizione del potere regale è l'espulsione dei mercanti dal tempio, che in realtà non sarebbe mai stata compiuta da un uomo sprovvisto di uno status ufficiale. Finalmente abbiamo la flagellazione e altri dettagli del rito come praticato durante la festa delle Sacee. Alla descrizione di tutto questo rituale nei vangeli fu aggiunto un resoconto del pasto sacramentale durante il quale i devoti mangiavano simbolicamente il corpo e bevevano il sangue del dio ucciso.
Molte persone potrebbero dubitare che il sacrificio umano era possibile in Palestina dopo l'Esilio. Ciò non può, tuttavia, essere dubitato a fronte delle prove. Era certamente possibile, e c'è un buon motivo per credere che fu reale. Plutarco menziona un esempio di sacrificio umano in Grecia al suo stesso tempo. Se ciò poteva accadere in Grecia nel primo secolo A.E.C., per non parlare del rogo di eretici in Inghilterra fino al XVI secolo e dell'uccisione di streghe anche più tardi,  poteva sicuramente essere accaduto in Palestina nel quinto, o addirittura nel secondo, secolo A.E.C.. Sicuramente nessuno che legge Geremia o Ezechiele può non essere colpito dall'intensità dell'indignazione e dell'aberrazione che ispirò gli scrittori di quei testi. Naturalmente, come ferventi monoteisti, si sarebbero indignati alla vista di culti stranieri e di un'adorazione idolatrica; ma si sente che ci dev'essere qualcosa di più di quello per spiegare il grado di avversione che è espresso. E, anzi, possiamo trovare nei loro scritti prove che sono abbastanza chiare. Per esempio, leggiamo, Geremia 19:4: “Mi hanno abbandonato e hanno destinato ad altro questo luogo per sacrificarvi ad altri dèi......E hanno riempito questo luogo di sangue innocente”; 2:29 e 34: “Tutti voi mi siete stati infedeli. Oracolo del Signore......Perfino sugli orli delle tue vesti si trova il sangue di poveri innocenti”; Ezechiele 16:20: “Inoltre prendesti i tuoi figli e le tue figlie......e li sacrificasti loro [divinità straniere] per essere divorati.”; 22:4: “Per il sangue che hai sparso, ti sei resa colpevole e ti sei contaminata con gli idoli che hai fabbricato”. Che lo spargimento di sangue qui riferito non sia semplice omicidio è provato dal contesto; e che si verificò durante la vita personale degli scrittori è provato dall'ira e dall'avversione che provocò in loro. Non è in questi termini appassionati che si scrive perfino di crimini che furono commessi cento o duecento anni prima. L'interruzione graduale di quei sacrifici può essere rintracciata nel linguaggio più mitigato di Isaia, le cui più aspre invettive sono rivolte ai nemici della Giudea; e nel linguaggio ancora più mite di Zaccaria. L'insieme delle prove ci giustifica nel concludere, con un notevole grado di probabilità, che dopo il ritorno da Babilonia un rito di Gesù Barabba, con un vero sacrificio umano, fu solennizzato da qualche parte in Palestina e che il racconto evangelico della Crocifissione fu una descrizione di questo rito; che alla fine il sacrificio fu eseguito solo simbolicamente, e la vittima non fu veramente uccisa; che l'intero rituale fu rappresentato drammaticamente nei “misteri” del culto; e che, infine, il dramma fu trascritto e aggiunto al vangelo, che era stato scritto in precedenza, ma in un primo momento non lo conteneva. Il fatto che uno sviluppo simile prese luogo nei culti di altri dèi-salvatori conferma la tesi che prese luogo anche nel culto di Gesù. E che un culto di questo tipo fosse possibile, anche in Giudea, dopo il ritorno da Babilonia, è dimostrato dall'esistenza del culto di Tammuz, che era di una natura simile. Il culto fu per lungo tempo insignificante e oscuro, ma con la migrazione degli ebrei, esso gradualmente si radicò nelle città dell'Asia, e cominciò a competere con i culti di altri dèi-salvatori simili. È molto probabile che ci sia un riferimento al culto di Gesù in Atti 13:6-11, dove Paolo si confronta con un certo falso profeta a Pafo. Il nome dell'uomo, vi viene detto, era Bar-Gesù, che significa “figlio di Gesù”. Egli fu anche chiamato Elima. Ora, El significa dio, ed Elima il dio forte o grande. L'uomo, naturalmente, potrebbe essere stato il figlio di un Gesù, poiché quest'ultimo non era un nome ebreo insolito; ma se un nome è simbolico è quasi certo che anche l'altro lo sia. Nelle due porzioni degli Atti degli Apostoli si può riconoscere un parallelismo tra gli atti e i discorsi di Pietro nell'uno e quelli di Paolo nell'altro. Quest'incontro di Paolo con Elima sembra essere un pezzo corrispondente all'incontro di Pietro con Simon Mago, Atti 8:20. Il signor Robertson [3] ha provato che questo Simone simboleggia la divinità samaritana Sem; e come Sem fu chiamato dai samaritani “il più grande dio”, si potrebbe pensare che sia riferito lo stesso dio nel nome di Elima. Questo è, però, molto improbabile, poiché su questo assunto non ci sarebbe alcuna spiegazione del nome Bar-Gesù; Inoltre,  è detto che l'uomo era stato un ebreo. Vi è forse un legame tra Elima e Sem, che verrà indicato in seguito. La spiegazione più probabile è che il falso profeta stesso rappresenta, non un dio, ma il sacerdote di un dio e che gli adoratori del dio definirono sé stessi “figli di Gesù”. Il fatto che l'uomo è chiamato falso profeta suggerisce che egli fosse un sacerdote del culto, perché nel secondo secolo il termine “profeta” non era più usato tra i cristiani nel senso dell'Antico Testamento. I capi delle comunità cristiane furono chiamati profeti. È già stato menzionato che il sacerdote di un culto  recava spesso il nome del dio. La contesa tra Paolo e questo falso profeta fu provocata da una differenza dottrinale. Ci viene detto nel verso 8 che l'uomo cercò di distogliere il proconsole dalla fede; Anche Paolo gli dice: “Non la smetterai tu di pervertire le diritte vie del Signore?”. Da cui si può dedurre che egli insegnò qualcosa sul Signore che fu, a giudizio di Paolo, una falsa dottrina. Anche se è detto che egli era stato un ebreo, la differenza tra lui e Paolo non è quella che emerse altrove tra Paolo e gli ebrei ortodossi. Questo è chiaro dal passo in generale, ma in particolare dalle parole con cui Paolo lo affronta: “Tu figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia”. Paolo non avrebbe potuto parlare in tal senso ad un ebreo ortodosso, oppure ad un giudeo-cristiano dell'antico tipo messianico. Nell'Antico Testamento, quando si fa riferimento a Jahvè, il plurale è quasi sempre usato “Elohim”; il singolare “El” è impiegato in particolare quando si parla di un dio diverso da Jahvè, per esempio, nel salmo 81:9, 10: “Non vi sia in mezzo a te alcun El straniero e non adorare alcun El forestiero”. In Isaia la parola è nuovamente applicata ad un idolo: “egli fabbrica un El”. Possiamo ragionevolmente concludere che questo falso profeta ebreo, che è a sua volta, come Simon Mago, chiamato stregone, rappresenta una comunità che adorava un dio diverso da Jahvè, al cui nome essi aggiunsero l'epiteto “forte” oppure “grande”. E se i membri si chiamavano Figli di Gesù, il dio che essi adoravano non poteva essere stato nient'altro che Gesù. Questo sarebbe coerente con l'accusa di Paolo che l'uomo insegnava una falsa dottrina riguardante il Signore; infatti Paolo non insegnava che Gesù fosse Dio. Sarà mostrato qui di seguito che ci sono alcune ragioni per pensare che la dottrina del Paolo originale fosse di natura gnostica, nel cui caso egli avrebbe un ulteriore motivo per accusare il sacerdote di un dio che morì come sacrificio espiatorio di pervertire le giuste vie del Signore. Sembra impossibile dubitare che esista qualche legame tra Simon Mago ed Elima. Simone è uno stregone; così lo è Elima. È detto che il primo aveva preteso di essere qualcuno di grande, e di essersi considerato la potenza di Dio; Elima significa “il dio forte o grande”. Simone è in conflitto con Pietro, Elima con Paolo. Simone, però, era un samaritano, Elima ebreo. La conclusione  naturale è che Elima fosse una controparte ebraica del samaritano Simone. Ora, i Samaritani credevano che il loro dio Sem fosse apparso tra gli ebrei come il Figlio, mentre in Samaria egli discese come il Padre; da qui segue che, se Simone rappresenta il Sem Samaritano, Elima rappresenta la sua controparte ebraica: vale a dire, il figlio, Gesù. Il nome “Elima” può essere applicato a Gesù perché i samaritani consideravano Gesù una manifestazione di Sem, come i cristiani in seguito lo ritennero una manifestazione di Dio. Il fatto che il falso profeta sia stato chiamato stregone può indicare che il culto di Gesù venne da Samaria; infatti Adriano, in una lettera al cognato, Servio, scrive: “Non vi è capo della sinagoga giudea, né samaritano, né presbitero di Chrestus che non sia un matematico” — ossia, astrologo, indovino, o ciarlatano. Chrestus qui
Significa il dio egiziano Serapide. Vi è un indizio nel vangelo di Giovanni che il culto di Gesù è nato in Samaria, poiché si afferma che gli ebrei hanno accusato Gesù di essere un Samaritano — un'asserzione che Gesù non ha negato. La storia dell'incontro tra Paolo e Elima è probabilmente fondata su un episodio reale. Si può ricavare che il racconto corrispondente del conflitto tra Pietro e Simone sia ispirato all'altra storia e sia mitico o simbolico.

3. I club comunisti

In relazione a ciascuno di quei culti c'era un'associazione che è stata definita un club comunista. In questi club i culti offrirono un'attrazione irresistibile ai lavoratori poveri delle grandi città. Erano completamente democratici, gli schiavi erano ammessi da pari a pari ai lavoratori liberi; anche le donne potrebbero esserne state parte e autorizzate a partecipare alle discussioni. Dopo una discussione nell'assemblea tutte le decisioni venivano prese e le regole venivano fatte coi voti di tutti i membri presenti. È facile comprendere il sollievo dalla stanca monotonia della vita quotidiana che queste associazioni offrono agli schiavi e ai poveri artisti. E, malgrado alcuni abusi, avevano un effetto emozionante. Veniva inculcato l'amore fraterno e in un momento in cui non c'era nessuna libertà politica, quando la vita umana era di poco conto e quando ricchi padroni disprezzavano e tiranneggiavano i loro schiavi e dipendenti poveri, nell'assemblea religiosa ciascun membro era libero, la sua opinione aveva il suo dovuto peso — quello dello schiavo più miserabile non meno di quello del più ricco uomo libero — e si insegnava che la sua vita era qualcosa di prezioso, poiché un dio era morto per la sua salvezza. Era in una riunione dell'associazione che venivano proclamati i misteri religiosi. C'era periodicamente un pasto comune, generalmente in combinazione con un sacrificio. Ma il pasto comune, l'agape o il banchetto amorevole, potrebbero essere stati tenuti separati dal sacramento sacramentale, com'era apparentemente il caso nelle comunità cristiane. Il primo sembra essere indicato in 1 Corinzi 11:20, dove lo scrittore biasima i disordini che talvolta si verificavano al pasto comune. Durante il pasto venivano cantati inni al dio del culto. Prima dell'ammissione i neofiti venivano esaminati dal presidente per quanto riguarda la loro purità. Era imposta l'astinenza da certi atti e cibi. Quando il neofita era considerato idoneo all'ammissione, veniva solitamente purificato dal battesimo. Questo sembra mostrare che l'origine del battesimo era allo scopo della purificazione corporea, come lo era tra gli esseni. Nel culto di Gesù esso acquisì gradualmente un significato simbolico. Questi gruppi di culto erano ovviamente un fattore molto importante per la rapida crescita della popolarità dei culti. Inoltre, procurarono ai membri del culto un'influenza politica: come individui erano insignificanti, ma agendo in concerto quando erano diventati numerosi si potevano farsi sentire. Di conseguenza, a volte sembravano pericolosi alle autorità e vennero pubblicati decreti per sopprimerli. Senza dubbio in quel caso avrebbero continuato come società segrete. La comunità cristiana venne ad essere chiamata il corpo di Cristo e i decreti della sua assemblea pronunciamenti dello Spirito Santo.

NOTE

[1] The Jesus Problem, pag. 96.

[2] Si veda anche Appendice A.

[3] The Jesus Problem, Appendice B.

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