venerdì 29 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (VI) — Gesù

(prosegue da qui)


Capitolo VI

GESÙ

1. Gesù e Giosuè

Il nome
“Gesù”, come è stato detto prima, è una forma greca dell'ebraico “Giosuè”. Porterebbe ad apprezzare la situazione reale se la forma “Giosuè” potesse essere usata per tutto il Nuovo Testamento ovunque occorra il nome “Gesù”. Ora, c'è una buona ragione per credere che Giosuè oppure Gesù fosse un nome divino in alcune parti della Palestina prima dell'era cristiana. È dichiarato nel vangelo che i discepoli cacciavano demoni nel nome di Gesù — vale a dire, Giosuè. Ma cacciare i demoni fu un atto di esorcismo; e l'esorcismo fu sempre praticato mediante la recitazione di una formula che conteneva il nome di qualche deità. Si immaginava che questo nome incutesse timore nei demoni e li inducesse all'obbedienza. Giustino dice, per esempio: “Se fate l'esorcismo nel nome di uno dei vostri re o giusti o profeti o patriarchi, nessun demonio verrà sottomesso, mentre se uno di voi esorcizza nel nome del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il demonio viene ugualmente sottomesso”. E assurdo supporre che qualcuno avrebbe immaginato che i demoni potessero essere espulsi nel nome di un falegname sconosciuto. L'uso della frase ¨nel nome di Giosuè” indica che al principio dell'era cristiana il nome fosse parte di una formula riconosciuta impiegata nell'esorcismo. A dispetto dell'assiduità con cui successivamente i capi della chiesa cercarono e distrussero ogni prova documentale da cui si potessero ricavare i fatti del primo sviluppo cristiano, un poco è sopravvissuto, e ci è stato preservato il ricordo di una forma di parole usate negli esorcismi, che recita: “Io ti scongiuro per il dio degli ebrei, Gesù”. In questa formula di esorcismo noi abbiamo una prova che conferma la conclusione derivata dalla dichiarazione evangelica che il nome “Gesù” fosse di efficacia divina negli esorcismi in parti della Palestina dove Gesù non era mai stato. In altre parole, la formula fu pre-cristiana ed ebraica.
Di nuovo, come ha sottolineato il signor Thomas Whittaker, nell'epistola di Giuda, nel quinto verso, dove si presentano le parole
“il Signore”, la lettura più antica, che è riconosciuta al margine della Versione Riveduta, era Gesù — ossia, Giosuè. Così che la forma originale del verso era: “Ora voglio ricordare a voi......che Gesù dopo aver salvato il popolo dalla terra d'Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere”.  Nel verso successivo è detto che questo Gesù o Giosuè aveva relegato in catene eterne nell'oscurità, gli angeli che non mantennero il loro primo stato. Ma uno che aveva il potere di legare angeli erranti poteva essere concepito solamente come un essere divino o soprannaturale. Sedersi in giudizio degli angeli caduti era una funzione del Messia celeste, secondo il libro di Enoc. Quindi noi abbiamo qui una prova diretta che Gesù fu considerato un essere divino oppure il Messia da alcuni ebrei, poiché quest'epistola fu scritta o per ebrei oppure per giudeo-cristiani. Lo scrittore identifica Gesù col Giosuè dell'Antico Testamento, da lui considerato un essere divino. Giosuè, perciò, dev'essere stato considerato così da alcuni ebrei in tempi pre-cristiani.
C'è, inoltre, una prova nell'Antico Testamento dello status divino di Giosuè. Nel libro dell'Esodo, 23:20-21, è scritto:
“Ecco, io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via, e per introdurti nel luogo che ho preparato. Davanti a lui comportati con cautela e ubbidisci alla sua voce......poiché egli non perdonerà le vostre trasgressioni; poiché il mio nome è in lui”. Nel verso 23 è fatta la promessa che sotto la guida di questo angelo le tribù vicine saranno conquistate: gli Amorrei, gli Ittiti, i Ferezei, i Cananei, gli Ivvei e i Gebusei. E quelle tribù furono davvero conquistate sotto la guida di Giosuè, come è riportato nel libro di Giosuè. I libri storici dell'Antico Testamento furono composti dalla casta sacerdotale di Gerusalemme, il cui scopo principale era la costituzione di un culto puramente monoteistico di Jahvè; da qui la continua condanna degli ebrei e di alcuni dei loro sovrani per idolatria e adorazione di falsi dèi. È davvero improbabile che al tempo in cui quei libri furono scritti qualche ebreo adorasse ancora gli dèi di Moab e Ammon, ma è risaputo che ci fossero culti di dèi-salvatori tra di loro, ed è probabile che quelli fossero i culti condannati nei libri storici sotto i nomi appropriati al periodo al quale si riferivano. Se il culto di Giosuè era uno di questi, gli scrittori non potevano assolutamente tollerarlo e così ridussero il suo status a quello di un angelo. Successivamente, comunque, qualcuno che rieditò il libro di Giosuè evidentemente ritenne che anche questo fosse pericoloso, e così inserì i versi da 13 a 15 nel capitolo 5, che descrivono l'apparizione a Giosuè di un essere ovviamente soprannaturale, probabilmente inteso a rappresentare l'arcangelo Michele, in modo che lui potesse venire preso per l'angelo di cui si parla in Esodo. Questo passo è chiaramente un'interpolazione, in quanto non udiamo niente più di questo angelo, e le conquiste sono tutte fatte sotto la guida di Giosuè. L'interpolazione è essa stessa una prova che vi esisteva qualche concezione di Giosuè che aveva bisogno di essere ridimensionata. Che quel passo di Esodo si riferisce veramente a Giosuè è provato dalle sue parole: “infatti il mio nome è in lui”. Il nome “Giosuè” potrebbe essere interpretato Jahvè-salva, oppure Jahvè è salvezza. Quest'interpretazione è affermata da Giustino nel suo Dialogo con Trifone, ed egli si affanna a derivare analogie tra Giosuè e Gesù. E in Matteo leggiamo: “Tu lo chiamerai Gesù [ossia, Giosuè]: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
Una conferma ulteriore è presente in una collezione eterogenea di versi greci, profetici nella forma, gli Oracoli Sibillini, evidentemente scritti da ebrei, nei quali capita il passo: Allora di nuovo verrà dal cielo un uomo eccelso, lui che distese le mani sul legno fruttifero, il migliore tra gli ebrei, lui che una volta fermò il sole chiamandolo con belle parole e con labbra pure”. Qui, di nuovo, abbiamo una dimostrazione che Giosuè fu considerato un essere soprannaturale, dal momento che egli sta per giungere di nuovo dal cielo. In altre parole, egli è l'atteso Messia.
Abbiamo, alla luce di tutti i fatti qui esposti, prove abbastanza sufficienti per giustificare il signor J. M. Robertson nell'affermare che un culto di Giosuè esisteva fin da tempi remoti in alcune parti o in parte della Palestina. Il signor Robertson aggiunge qualche ulteriore prova a supporto di questa tesi. [
The Jesus Problem, pag. 85.] Egli menziona che nella liturgia del Nuovo Anno ebraico fino ad oggi Giosuè figura come il “Principe della Presenza”, la qual cosa sembra identificarlo col Metatrone del Talmud, poichè Metatrone è equivalente alle parole greche meta thronon, “dietro il trono”. Espressioni simili difficilmente si possono spiegare altrimenti se non supponendo che Giosuè fosse una deità palestinese subordinata a Jahvè Troviamo anche un “Angelo della Presenza” menzionato in Isaia 63:9 : “L'Angelo della sua presenza li salvò; nel suo amore e nella sua compassione li redense”. Quelle parole suggeriscono chiaramente Giosuè, visto che il nome implica una salvezza. Il termine “Angelo della Presenza” ci rammenta anche la descrizione del Messia nel libro di Enoc mentre sta di fronte a Jahvè alla testa dell'esercito angelico.
C'è un oscuro riferimento ad un sommo sacerdote Giosuè, il figlio di Iosedec, nel libro di Zaccaria. Ora, questo libro segna la transizione tra i libri profetici e le apocalissi. Nello stile e nel metodo presenta affinità con entrambi. Tutti quelli scrittori, sebbene collocandosi in un tempo precedente, volgono le loro opere a circostanze, eventi, o questioni scottanti del loro stesso giorno. Come dice Dujardin: “Gli autori delle profezie, come tutti gli scrittori della Bibbia, desiderano dare una lezione ai loro contemporanei; e, come tutti gli scrittori della Bibbia, si rifiutano di predicare in termini astratti”. Lo scrittore del libro di Daniele, desiderando pubblicare un manifesto riguardante gli eventi del suo giorno, pone la scena del suo libro nei giorni di Nabucodonosor, Baldassar, e Dario, e narra un romanzo storico inteso ad essere applicato dai suoi lettori alle circostanze politiche del loro tempo. In questo egli stava sviluppando un metodo che Zaccaria aveva utilizzato prima di lui. Lo scrittore più antico attribuisce la sua opera ad un profeta che visse nel regno di Dario, poco dopo il ritorno degli ebrei da Babilonia; ma il suo libro fu composto probabilmente non prima del 198 A.E.C. [
1] Egli non stava scrivendo Storia, non più dell'autore di Daniele; e sebbene menziona un evento storico — la ricostruzione del Tempio da parte di Zorobabele e Giosuè, il sommo sacerdote — il suo scopo è veicolare qualche lezione ai suoi contemporanei che essi avrebbero senza dubbio compreso, ma di cui noi non possediamo più la chiave. Tutto ciò che è detto circa Giosuè nella prima parte del libro dev'essere capito come simbolismo, ma quanto al significato del simbolismo è ora possibile solo far delle ipotesi. Lo scrittore profetizza che Giosuè “riceverà gloria, si siederà e dominerà sul suo trono”, e tuttavia egli sapeva che Giosuè, il figlio di Iosedec, che da lungo tempo era morto, non regnò, e fu, in realtà, un uomo di nessun significato particolare. Cos'è il significato di questo? Siccome è stato provato che Giosuè fu per alcuni ebrei un nome messianico, si potrebbe suggerire che nel passo messianico lo scrittore stava usando il nome di Giosuè, il sommo sacerdote, come un simbolo per Giosuè, il figlio di Nun. Alcuni degli scrittori profetici e apocalittici profetizzarono che quando il Messia sarebbe apparso tutte le nazioni del mondo sarebbero venute sotto la Legge di Mosè, e che il Tempio di Gerusalemme sarebbe diventato il comune centro di adorazione. Zaccaria poteva aver avuto in mente quell'idea quando scrisse: “Egli costruirà il tempio dell'Eterno......Anche quelli che sono lontani verranno per aiutare a costruire il tempio dell'Eterno”.
Lo scrittore dell'Apocalisse di Giovanni, che probabilmente comprese Zaccaria meglio di noi, credeva ovviamente che i passi in questione fossero simbolici, poiché introduce nel suo undicesimo capitolo “due testimoni” che sono chiaramente il Zorobabele e il Giosuè di Zaccaria e Aggeo, come si potrebbe osservare facilmente confrontando i versi 1 e 4 di quel capitolo con Zaccaria 2:1, e 4:2 e 3. Il “sacco” di Apocalisse 11:3 potrebbe anche rappresentare le “vesti immonde” menzionate da Zaccaria. Quei “testimoni” sono rivestiti di attribuiti soprannaturali e recitano una parte quasi-messianica. Dopo venir uccisi dalla bestia essi sono riportati in vita ed innalzati al cielo. Ci dev'essere nascosto di più dietro quei nomi di quanto è finora stato immaginato. Le vesti immonde e la figura di Satana sono anche, senza dubbio, simbolismo, e non hanno alcun riferimento al reale sommo sacerdote Giosuè.

2. L'Apocalisse di Giovanni

I critici tradizionalisti in maniera proprio non scientifica identificano il Gesù dell'Apocalisse di Giovanni col Gesù dei vangeli; ma, constatando che le due rappresentazioni hanno a malapena qualcosa in comune, il metodo scientifico richiede che l'identità dev'esser provata, e non semplicemente assunta sulla base del nome comune. Le due figure potrebbero avere la stessa origine ultima, ma lo sviluppo ovviamente è proceduto lungo linee davvero diverse; e il punto di divergenza di quelle linee è molto probabilmente pre-cristiano. Chi, venendo ad uno studio di quest'opera senza pregiudizi cristiani, poteva mai immaginare che i versi da 13 fino a 18 del capitolo 1 sono intesi ad essere una descrizione del mite e gentile maestro che i teologi liberali vedono nel vangelo?
Quest'Apocalisse non offre alcun supporto al concetto tradizionale di Gesù; in realtà, non si può riconciliare con esso. La probabilità è che il libro fosse originariamente un'opera ebraica ed abbia sofferto interpolazione da cristiani. Quell'opinione è tenuta da parecchi studiosi competenti. La misura dell'interpolazione potrebbe, comunque, esser meno di quanto è assunta generalmente. Il libro è supposto da alcuni critici essere stato scritto nel regno di Domiziano, e questo concorda colla datazione ecclesiastica (96 E.C.). Altri hanno mantenuto che fu composto intorno all'anno 69. Non è impossibile (c'è qualche prova interna che punta a quella via) che l'opera ebraica originale fosse scritta all'incirca in quella data, e che sia stata combinata con uno scritto cristiano posteriore. Anche la porzione puramente ebraica potrebbe essere composita. Apocalisse 17:6 che appare riferirsi a martiri cristiani, è probabilmente una interpolazione più tarda. Secondo l'ipotesi che l'opera originale sia ebraica, Apocalisse 13:7, che dice che fu concesso alla bestia (Roma) di far guerra ai santi e travolgerli, potrebbe riferirsi alla guerra tra gli ebrei e i romani, i santi essendo ebrei. Ed è molto probabile che la bestia con due corna menzionata nel verso 11 simboleggi la casa flaviana coi suoi due imperatori, Vespasiano e Tito. In quel caso, dal momento che Domiziano non vi è compreso, la parte del libro dove si presenta questo verso potrebbe essere stata scritta nel regno di Tito. Un'ipotesi che spiegherebbe alcune delle caratteristiche del libro è che esso è composto principalmente di due scritti ebraici, con frammenti aggiunti (lo scritto più antico datato attorno al 69 E.C., e il più recente nel regno di Tito oppure di Vespasiano), e che quest'opera composita fu rilevata dai cristiani e da loro interpolata.
Il libro nel complesso porta più supporto al credo che Gesù (Giosuè) fosse un essere divino per alcuni ebrei di quanto ne porta all'ipotesi di uno storico Gesù uomo. La figura ivi raffigurata non presenta affatto aspetti umani — un fatto che è abbastanza incomprensibile, considerando l'antica data del libro, se esso fosse stato basato sulla vita e morte di un uomo reale.
Non c'è nulla in comune tra il Gesù dell'Apocalisse e il Gesù evangelico al di là del nome e del fatto che ciascuno fu ucciso come sacrificio espiatorio. Dal momento che il Gesù dell'Apocalisse è dipinto come un essere celeste, la presunzione è che il suo sacrificio espiatorio sia un dogma; e ricondurlo come fosse un dato di fatto ad un evento storico è non scientifico. E, constatando che ci sono profe sufficienti che Giosuè, oppure Gesù, fosse un Messia, oppure un essere divino, per certi ebrei, l'assunzione che la sola base possibile per il Gesù dell'Apocalisse sia il Gesù evangelico è molto ingiustificata.
È vero che è detto che il primo Gesù era stato ucciso Non è detto, comunque, che egli fu crocifisso; è implicato, in realtà, che egli non lo fu. Lo scrittore dice:
“In mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani, stava un Agnello in piedi, che sembrava essere stato immolato”; che può solo significare “sacrificato”. L'Agnello è una vittima sacrificale; e se lo scrittore non si sta riferendosi alla crocifissione storica di un uomo particolare, del quale non c'è nessuna prova, e che è resa improbabile dall'intera natura dell'opera, egli ha in mente un rito sacrificale. Gli scrittori evangelici, avendo fissato la crocifissione del loro Gesù ad una data specifica nel primo secolo, di necessità considerarono come profezie i passi del Nuovo Testamento che furono immaginati riferirsi alla sua morte, perfino se essi figurano al passato. Lo scrittore dell'Apocalisse, comunque, dice che l'Agnello fu ucciso “dalla fondazione del mondo”, il cui significato naturale è che la morte sacrificale dell'Agnello è di ancestrale antichità. L'interpretazione prevalente è forzata, e vi si fa ricorso solo a causa della volontà di identificare il sacrificio dell'Agnello con la crocifissione di un uomo Gesù. Lo scrittore, allora, non ebbe bisogno, e di fatto evitò, di comprendere i passi cosiddetti messianici come profezie. Egli copia dettagli dall'Antico Testamento, specialmente dagli scrittori più apocalittici, Ezechiele, Zaccaria, e Daniele; ma in nessun caso egli utilizza un testo dell'Antico Testamento alla stessa maniera degli scrittori evangelici, senza dubbio perché la sua concezione della morte dell'Agnello fu diversa dalla loro della Crocifissione. Forse si potrebbe dedurre che i tre scrittori sopra nominati e alcune delle Apocalissi, compresa quella di Giovanni, appartennero ad una cerchia di pensiero in cui l'idioma peculiare impiegato era divenuto tradizionale e fosse ben compreso dai membri della cerchia, sebbene a noi non proprio comprensibile. Gli scrittori evangelici avevano il loro idioma, ma fu uno differente. In ogni caso, è proprio ragionevole supporre che lo scrittore dell'Apocalisse di Giovanni comprese il linguaggio figurativo e le allusioni di Zaccaria ad una misura che è impossibile per un lettore moderno. Egli adotta veramente qualcosa del linguaggio figurativo di Zaccaria, e senza dubbio intese utilizzarlo, e probabilmente lo utilizzò, nello stesso senso in cui lo fece Zaccaria.
In Apocalisse 1:7 leggiamo:
“Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto”. Questo passo è una riproduzione di Zaccaria 12:10 — parole che sono poste ovviamente sulle labbra del Messia come il rappresentante di Jahvè: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto”. Quei due passi meritano una considerazione accurata. Il termine “trafitto”, che nell'Apocalisse è riferito a Gesù, l'Agnello, conferma il credo che in quel libro Gesù non è considerato crocifisso, ma uno che è stato trafitto da una lancia nella maniera in cui venivano di solito sacrificate le vittime. È certo che lo scrittore del vangelo di Giovanni comprese  Zaccaria in questo senso, perché, riconoscendo nel passo una profezia messianica, quale effettivamente è, osservò che la crocifissione non vi avrebbe corrisposto, e di conseguenza introdusse nel suo racconto l'episodio di Gesù che viene trafitto con una lancia. Ora, lo scrittore dell'Apocalisse utilizza il passo in una maniera diversa; egli lo adotta semplicemente e lo fa suo. Sembra impossibile per una persona priva di pregiudizi dubitare che egli intese con ciò la stessa cosa intesa da Zaccaria. Il suo Gesù, che era stato trafitto come un sacrificio da tempo ancestrale, sarebbe venuto nella gloria, e coloro che lo avevano trafitto lo avrebbero visto ed egli sarebbe stato compianto. Zaccaria fa dire al Messia: “Io sono stato trafitto [che, naturalmente, è implicato dal contesto] e quando io vengo a distruggere i nemici di Gerusalemme essi guarderanno a me, a colui che hanno trafitto”. Ma nell'Apocalisse fu Gesù — ossia, Giosuè — che era stato trafitto. È possibile evitare la conclusione che lo scrittore capì che anche in Zaccaria fu Giosuè che era stato trafitto? Nel cui caso è altamente probabile che quello è ciò che intese Zaccaria. Questa conclusione è favorita dal fatto, già provato, che Giosuè fu il Messia per certi ebrei; e dal fatto ulteriore, per cui sarà fornita una prova nel capitolo successivo, che vi era esistito da tempi antichi un culto di Gesù in cui un Giosuè, o Gesù, era stato infatti trafitto come una vittima.
È possibile che in Zaccaria il
“lutto” di cui si parla ha un riferimento ad una cerimonia del culto, come lo ha il pianto per Tammuz.

NOTE

[1] Ragioni per questa data sono fornite nell'Appendice A.

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