domenica 25 ottobre 2015

Del perchè Luciano di Samosata disprezzava, e temeva, “Peregrino Proteo”. E Gesù (“che fu chiamato Cristo”)

Simon Mago. Il mago simboleggiò per i proto-cattolici ciò che “Peregrino Proteo” rappresentò per il pagano Luciano di Samosata: un emblema di impostura e sovversione insieme.

MONDO: Nello spirito di un cristiano molto devoto, il mondo è la cosa più detestabile del mondo. Deve distaccarsene per pensare solo all'altro mondo. E per farlo bene, deve cominciare con il donare tutti i suoi beni ai preti il cui regno non è di questo mondo.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)
Luciano di Samosata, com'è noto, disprezzava profondamente i cinici nella singolare figura di “Peregrino Proteo”:
Io, non appena giunsi nell'Elide, mentre vagavo per il ginnasio sentii un Cinico che con voce forte e aspra gridava le solite cose strombazzando in pubblico la virtù e in una parola biasimava tutto e tutti. Poi il suo vociare finì per parlare di Proteo, e per quanto posso cercherò di rammentarti quelle parole proprio come furono dette. Tu le riconoscerai certamente, avendo spesso assistito alle urlate di quegli individui.
(De Morte Peregrini, 3)
Io a dire il vero mi rivolgerei con un simile tono sprezzante in merito, più che ai filosofi cinici, semmai ai folli predicatori cristiani (o cripto-cristiani) di tutte le epoche che continuano ad esercitare fino alla noia il loro medesimo mestiere, “strombazzando in pubblico” con la sbavante schiuma alla bocca il loro “Gesù Cristo” dall'alto dei loro pulpiti (non sempre, mia disincantata constatazione, all'interno delle loro chiese).

La cosa non sfuggì affatto a Luciano, che ben riconobbe delle forti analogie tra i vagabondi cinici emblematizzati da questa singolare figura di illusionista (tanto storica come avrebbe potuto esserlo quella di Socrate se soltanto tutto quello che conoscessimo di lui si fosse ridotto al Socrate satireggiato da Aristofane nelle Nuvole) e gli stessi cristiani del suo tempo (170 EC), dato che la stessa temporanea conversione (vera o presunta che fosse) di “Peregrino Proteo” al cristianesimo permetteva e facilitava quell'assai caustico paragone.
Ma ciò che [Peregrino Proteo] fece al padre è sì degno di essere udito: eppure tutti voi lo sapete, e vi è giunta la notizia che soffocò il vecchio, non sostenendo che avesse ormai superato i sessant'anni. Poichè in seguito il fatto fu risaputo, si condannò da sé all'esilio e andò errando da un luogo all'altro.
Propio allora imparò la straordinaria sapienza dei Cristiani, vivendo in Palestina assieme ai loro sacerdoti e scribi. Ma che? In breve li fece apparire dei fanciulli: lui era profeta, tiasarca, guida, insomma lui da solo era tutto. Interpretava e spiegava i loro libri, molti ne scrisse egli stesso, e quelli lo veneravano com un loro dio, ricorrevano a lui come legislatore e lo dichiaravano il primo tra loro, ovviamente dopo il tizio che ancora adorano, l'uomo crocifisso in Palestina perchè introdusse questa nuova religione nel mondo.
Per questo motivo allora Proteo fu anche arrestato e finì in carcere; la qual cosa gli procurò una non piccola autorità per il tempo a venire, per la ciarlataneria e l'ambizione che tanto amava. Dopo che fu dunque messo in ceppi, i Cristiani, ritenendo il fatto una disgrazia, fecero di tutto per tentare di strapparlo da lì. Poichè ciò non fu possibile, si presero cura di lui in ogni altro modo, e non alla leggera, ma con molto zelo: sin dall'alba si potevano vedere vecchie, vedove e orfanelli stazionare nei pressi del carcere, mentre i loro capi, corrotti i carcerieri, dormivano dentro assieme a lui. Inoltre gli venivano portati pranzi sontuosi ed erano pronunciati i loro discorsi sacri, e l'illustrissimo Peregrino - si chiamava ancora così - era chiamato da loro novello Socrate.
E anche dalle città asiatiche giunsero uomini, mandati dai Cristiani con beni tratti dal loro patrimonio comune, ad aiutarlo, sostenerlo e incoraggiarlo. Straordinaria è la rapidità che mostrano quando accade un fatto del genere che li riguarda tutti: in breve non danno rispamio d'alcuna cosa. Davvero molte furono le ricchezze che allora Peregrino ricevette da loro col pretesto del carcere, e se ne fece una rendita non piccola. Quegli sciagurati infatti si sono convinti che saranno del tutto immortali e vivranno per l'eternità; per questo motivo non fanno conto della morte e i più si danno ad essa spontaneamente. Inoltre il loro primo legislatore li convinse che sono tutti fratelli tra loro una volta che, disprezzati e rinnegati gli dèi ellenistici, prendano ad adorare quel sofista messo in croce vivendo secondo le sue leggi. Pertanto disdegnano in ugual misura tutti i beni e li ritengono comuni, accogliendo tali precetti senza una fede provata. Se dunque si presentasse a loro un illusionista, un imbroglione che sappia trarre vantaggio dalle circostanze, diventerebbe subito in breve tempo ricco facendosi beffe di quei semplicioni sotto il loro naso.

(De Morte Peregrini, 10-13)

Al di là dell'ironia strisciante e della parodia corrosiva di cui trabocca la fiction (non riesco a non chiamarla tale) di Luciano, colpisce soprattutto un aspetto di quella caustica critica contro “Peregrino Proteo”: Luciano è in realtà disgustato profondamente, direi quasi intimamente turbato, dietro la sua superficiale serena e “illuministica” presa di distanza dagli eventi così abilmente satireggiati, dall'abisso da lui stesso artificialmente riprodotto tra l'altissima, invero vertiginosa, esaltazione di “Peregrino Proteo” da parte dei gonzi e boccaloni di turno che aveva buggerato (non solo i cristiani) - ravvisabile in chiare espressioni quali ad esempio: “...e quelli lo veneravano come un loro dio, ricorrevano a lui come legislatore e lo dichiaravano il primo tra loro...” - ...e la sostanziale assoluta oscurità, insignificanza e marginalità storica che avvolge quasi per definizione questo singolare individuo “Peregrino Proteo”, la cui precisa identità è resa ironicamente sfuggevole già nel nome stesso:

peregrinus, peregrinator significa “viaggiatore” (non è certo una coincidenza che “Peregrino Proteo” si spostò di luogo in luogo nella fiction di Luciano), mentre proteus allude al mostro marino egizio Proteo, famigerato soprattutto per la sue capacità metamorfiche in grado di fargli assumere ogni genere di aspetto, specialmente per sfuggire al nemico e per evitare di dover dire la verità.
...e la divina fra le dee mi rispose:
“Tutto io ti dirò, sinceramente, straniero. Qui vive il Vecchio del mare che sa la verità, Proteo d'Egitto, immortale, suddito di Poseidone, che ben conosce tutti gli abissi marini. È lui che mi ha generata, è mio padre. Se tu riesci a catturarlo con un agguato, ti dirà la lunghezza del viaggio, ti indicherà la strada del ritorno che compirai sul mare ricco di pesci. E ti dirà anche, principe, se tu lo vuoi, quel che di male e di bene è avvenuto nella tua casa mentre compivi il tuo lungo e difficile viaggio”.
Disse così e io così le risposi:
“Dimmi tu quale agguato tendere al Vecchio del mare, che non mi veda prima e mi sfugga. E' difficile per un uomo mortale vincere un dio”.
Dissi, e mi rispose la dea:
“Tutto io ti dirò, con molta chiarezza. Quando il sole ha raggiunto la metà del cielo, allora esce dal mare, il Vecchio infallibile, celato fra le onde scure che rabbrividiscono al soffio di Zefiro, esce per andare a dormire in antri profondi. Emerse dal mare bianco di schiuma, dormono intorno a lui numerose le foche, figlie della bella Anfitrite, emanando un acuto odore di salso. All'alba ti condurrò là e vi farò distendere in fila: scegliti tre compagni, i migliori che hai sulle tue solide navi. Ti spiegherò tutti gli inganni del Vecchio. Conterà, per prima cosa, e passerà in rassegna le foche, e dopo averle tutte contate e guardate, si stenderà in mezzo a loro, come un pastore tra le greggi di pecore. Appena l'avrete visto giacere disteso, allora, chiamando a raccolta tutta la forza e il coraggio, tenetelo stretto, anche se si dibatte e cerca di fuggire. Tenterà di trasformarsi in acqua, in fuoco fulgente, in ogni essere che sulla terra si muove. Voi tenetelo forte e stringetelo ancora di più. Ma quando lui stesso ti rivolgerà la parola, con l'aspetto che aveva quando lo vedesti giacere, allora non usare più la forza, principe, libera il Vecchio e domandagli quale degli dei ti perseguita e come potrai ritornare attraverso il mare ricco di pesci”.

(dal Libro IV dell'Odissea)
Merito di Luciano è di farci toccare con mano il paradosso tra lo Sfuggevole, l'Anonimo, il “Privo di Forme” per eccellenza, e la stellare apoteosi alla quale riuscì ogni volta a farsi elevare spacciandosi per qualcun altro agli occhi degli idioti di turno che riuscì a buggerare.
Da questa prospettiva, “Peregrino Proteo” personifica, sotto la parodia malcelatamente inquieta che ne fa Luciano, non tanto un preciso bersaglio polemico (a momenti io stesso, se non fosse perchè “Peregrino Proteo” è citato anche da Aulio Gellio - il quale addirittura pretese di averlo conosciuto di persona -, sono tentato di dubitare della sua reale consistenza storica) quanto tutto ciò che è sfuggente, inafferabile - il potere dell'assenza di forma.

Ed è da questo manifesto potere di “Peregrino Proteo” che il pur caustico Luciano si sente in qualche modo minacciato: egli potrà sviluppare, in sè e negli altri, ogni sorta di sufficiente senso critico per guardarsi a dovere dalle truffe e dagli illusionismi di guru e santoni di tal fatta, eppure sa in cuor suo che non è abbastanza, che contro individui come “Peregrino Proteo” perfino l'arma del Dubbio, tuttavia, sembra essere sfortunatamente destinata a fallire, nella stragrande maggioranza dei casi. E prova ne è alla fine il fatto che nessuno riesce a smascherare “Peregrino Proteo” sbugiardandolo agli occhi di tutti, neppure i critici perspicaci come Luciano, nonostante tanto dispendio di attacchi satirici contro l'illusionista. L'impostore “Peregrino Proteo” potrà essere sconfitto alla fine unicamente grazie al suo eccesso di hybris, che lo farà cadere nella trappola mortale finale da lui stesso intentata appositamente per farvi cadere, ancora e ancora di nuovo, innumerevoli altri al suo posto.
Questa fu la fine del maledetto Proteo, uomo, per stringere il discorso in poche parole, che mai ha mirato alla verità, che sempre ha detto e fatto ogni cosa per avere fama e lode dal volgo, al punto da saltare perfino nel fuoco, quando non poteva neppure più godere delle lodi perchè più non le sentiva.
(De Morte Peregrini, 42)
La frustrazione di Luciano trapela tra le righe: un'illusionista di tal genere si può sconfiggere non grazie alle razionali diffide di gente istruita e dotata di senso critico quale è lo stesso Luciano, ma solo scommettendo sugli inevitabili falli ed errori del medesimo illusionista in questione, paradossalmente l'unico che, per eccesso di hybris, potrà smascherare sé stesso definitivamente agli occhi delle stesse masse da lui prese per i fondelli. 
E Luciano è doppiamente frustrato perchè per arrivare a tanto l'epilogo non poteva che essere cruento, per quanto tragicomico: la morte dello stesso “Peregrino Proteo”, tra le fiamme della pira che lui stesso aveva preparato di fronte a migliaia di spettatori.
Quel disgraziato di Peregrino, o, come egli stesso si compiaceva di chiamarsi, Proteo, ha subito lo stesso destino del Proteo di Omero: dopo essere diventato qualsiasi cosa per acquistarsi fama ed essersi trasformato infinite volte, alla fine è diventato anche fuoco. Da tanto amore per la fama era posseduto! E ora eccotelo, il grand'uomo, carbonizzato come Empedocle, se non che quello fece prova di gettarsi nel cratere senza essere visto, il nostro egregio amico, invece, ha atteso la più frequentata delle feste elleniche, ha ammassato la pira più grande che poteva e vi si è gettato sotto gli occhi di tanti testimoni, dopo aver pronunciato tra l'altro, non molti giorni prima della sua ardita impresa, alcuni discorsi su questo argomento di fronte ai Greci.
(De Morte Peregrini, 1)

“Peregrino Proteo”, se nella fiction o nella Storia, poteva pure essersi lasciato sconfiggere con le sue stesse mani, eppure l'onta rimane, nonostante la sua morte, di quello che santoni, guru, avatar o icone del genere rappresentano agli occhi dei benpensanti pagani come Luciano di Samosata. 

Non era solo una mera questione di denunciare le truffe di questo o quel santone. La posta in gioco era evidentemente più alta. E Luciano lo fa trasparire dallo stesso comportamento di “Peregrino Proteo” nella fiction, allorchè scrive:
Dopo essersi così istruito, navigò da lì verso l'Italia e non appena salì sulla nave si mise subito a offendere tutti, in particolare l'imperatore, sapendolo molto benevolo e mite, così che il suo ardire era privo di pericolo; a quanto pare infatti a quello poco importava degli insulti e non credeva giusto punire uno che si era rivestito di filosofia a parole e che soprattutto aveva fatto dell'offendere un'arte. Anche in seguito a ciò la sua fama s'accresceva, ovviamente presso gli stupidi, ed era molto in vista per la sua dissennatezza, finchè il prefetto dell'Urbe, uomo saggio, lo cacciò perchè approfittava senza misura della situazione, dichiarando che la città non aveva bisogno di un tale filosofo. Ma anche questo fatto divenne celebre e fu sulla bocca di tutti, il filosofo scacciato per la sua franchezza e la sua troppa libertà, e contribuiva ad accostarlo a Musonio, a Dione, a Epitteo e a chiunque altro si fosse trovato in una circostanza simile.
(De Morte Peregrini, 18)

L'imperatore in questione “benevolo e mite” era Marco Aurelio. Il paradosso che infastidì l'inviperito Luciano in questo punto nasce tra il suo naturale rispetto per un imperatore che abbassava sè stesso con la sua umiltà di filosofo stoico, e il suo assistere impotente alla sfacciataggine di quello stronzo di “Peregrino Proteo”, reo di approfittare della magnanimità di Marco Aurelio pur di innalzarsi al suo stesso livello, da quel verme che era, osando criticare nientemeno che l'imperatore in persona e perfino guadagnandone in popolarità e prestigio come risultato!

È evidente allora che non era il singolo “Peregrino Proteo” a infastidire il benpensante Luciano di Samosata. Ma lo erano virtualmente tutti quei avatars, guru, “fondatori” di culti, icone settarie, i cui seguaci  approfittavano del loro stato apparentemente innocuo e marginale per lanciare in realtà strali e messaggi sovversivi verso tutto, o quasi tutto, l'ordine sociale e culturale esistente, volto essenzialmente ad esautorare e logorare a poco a poco dalle fondamenta ciò che garantiva la giustificazione di tale ordine tra gli hoi polloi. Non erano sediziosi (altrimenti i loro cadaveri putrefatti già avrebbero penzolato da sopra le croci romane). Ma erano sovversivi.

Nella rivelante descrizione che Luciano fa di “Peregrino Proteo” & fans, abbiamo un assaggio di come un pagano avrebbe osservato gli stessi cristiani del II secolo. Erano simili, almeno in superficie, ai nuovi Cinici: entrambi disprezzavano la morte, entrambi mostravano una totale indifferenza verso i beni materiali, entrambi credevano che tutto fosse di tutti, entrambi erano inclini a instaurare un nuovo senso di fratellanza reciproca tra i loro membri, entrambi rigettavano gli dèi, ed entrambi erano irrazionalmente propensi a pratiche e fedi superstiziose. E da ultimo, la cosa peggiore, entrambi potevano finire facilmente manipolati e manipolabili - e Luciano ne era evidente testimone in prima persona - da impostori senza scrupoli come “Peregrino Proteo”, opportunisticamente mimetizzati dietro di loro.

La natura contro-culturale del nascente movimento cristiano non era dunque sfuggita a Luciano. E con essa il suo sincero stupore misto ad una punta di sottile frustrazione nel constatare, dati alla mano, l'evidente enorme golfo di separazione tra la più assoluta insignificanza del fondatore o “legislatore” di turno e le vertiginose altezze metafisiche alle quali i medesimi erano proiettati dai loro fanatici e deliranti seguaci. Luciano ne era intimamente turbato. Luciano si sentiva giustamente minacciato.

E quando Luciano scrive:
...e quelli [i Cristiani] lo veneravano come un loro dio, ricorrevano a lui come legislatore e lo dichiaravano il primo tra loro, ovviamente dopo il tizio che ancora adorano, l'uomo crocifisso in Palestina perchè introdusse questa nuova religione nel mondo.

precisando che “ovviamente” i Cristiani collocano “Peregrino Proteo” al secondo posto nel loro pantheon “dopo il tizio che ancora adorano, l'uomo crocifisso in Palestina”, Luciano sta facendo sostanzialmente di quest'ultimo nient'altro che un mero precursore di “Peregrino Proteo” sulla base della loro comune TOTALE insignificanza storica unita per contrasto alla vertiginosità del culto di cui sono resi assurdamente oggetto presso i Cristiani.




E qui non posso che ricollegarmi alla conclusione del perspicace ricercatore Richard C. Miller, il quale nota:
Sebbene si potrebbe opportunamente dubitare che un uomo storico, Gesù di Nazaret, mai ricercò onori personali tali come un'imperiale exaltatio, egli era divenuto, nella sua Nachleben, l'emblema di un potente movimento contro-culturale nel primo e secondo secolo dell'Era Comune. Come tale, le sue descrizioni mitiche, iconiche nei vangeli del Nuovo Testamento servivano a sovvertire le istituzioni culturali di quel mondo, sia ebraico che romano, attraverso una mimesi trasvalutata, una metafora, e un'alterità ibridizzante, quindi promulgando un nuovo paradigma alternativo, sebbene comprensibile, per la struttura di una società antica.
Luciano ha offerto una finestra piuttosto rivelante nel programma politico dei primi cristiani nel suo De Morte Peregrini (170 E.C. circa). Luciano satireggiò il suicidio spettacolare del famoso filosofo cristiano poi divenuto cinico Peregrino Proteo ai Giochi Olimpici del 165 E.C. Come uno show della sua ascesi filosofica, ad imitazione della morte di Eracle e dell'antica tradizione indiana braminica, Proteo si gettò sulla sua pira massiccia e ne fu bruciato vivo di fronte alla sua folla di spettatori. Proteo era diventato famoso per la sua retorica anti-imperiale e per la sua prominenza come maestro e scrittore di successo nel nascente movimento cristiano. Secondo Luciano, i primi cristiani conferirono a Proteo i più alti onori, prossimi a Cristo stesso, chiamandolo ὁ
καινός Σωκράτης (il nuovo Socrate). Più tardi nella sua vita, comunque, egli era divenuto un Cinico in tutto e per tutto, preso residenza ad Atene, e, nonostante l'apparente disdegno di Luciano per lui, aveva raggiunto una fama considerevole come un saggio filosofico e critico di Roma. Invero, Aulo Gellio, incontrando Proteo ad Atene, lo descrive come un uomo venerabile e fermo di tremenda sapienza (Noct. att. 12.11.1-6). Dopo la sua morte, uno dei suoi discepoli giurò di aver incontrato il trasceso Proteo avvolto in una veste bianca mentre passeggiava lungo il Portico dei Sette Echi al festival di Olimpia (Luciano, Peregr. 40). Per questa volta, comunque, l'asprezza politica di un racconto simile si era probabilmente placata, oltre la semplice osservazione che Proteo non era stato parte dell'establishment politico. Analogo a Gesù nei vangeli, la favola della sua traslazione sottolinea la generica funzione onorifica della tradizione in quanto posta in contestazione al romano imperium. Mentre probabilmente isolato dalle mire complessivamente politiche delle apparizioni postmortem di Gesù, in particolare, dal momento che quelle imitavano la leggenda di Romolo, il racconto di Proteo permette un'occhiata ad un incidente relativo, sebbene rifratto attraverso l'evoluzione e le permutazioni culturali dell'Atene del secondo secolo e con un sottotesto filosofico cinico. Mediante tacite associazioni tra le due figure, l'obiettivo di Luciano riguardo Proteo e il fondatore crocifisso dei Cristiani espone parecchie delle implicate fondamenta e convenzioni culturali dei precedenti racconti evangelici come venivano letti nelle estese strutture culturali e ideologiche ellenistiche che coincidono vividamente coi ritrovamenti del presente studio.
(Resurrection and Reception in Early Christianity, pag. 177-178, mia libera traduzione e mia enfasi)

Lo stupore misto a rabbia di Luciano nell'assistere alla immeritata popolarità del turlupinatore “Peregrino Proteo” a fronte della moltitudine dei suoi galvanizzati e superstiziosi seguaci, contra factum che si trattava in realtà di una totale insignificante figura di filosofo cinico (forse inventata, chissà?, dallo stesso Luciano, checchè si insista sulla sua storicità, come parodia di tutte le icone contro-culturali settarie del tempo), è lo stesso stupore misto a rabbia provato da Luciano nel vedere la diffusione del culto di Gesù, anch'esso un movimento contro-culturale assai simile a quello cinico, contra factum che verteva attorno ad un altrimenti totalmente oscuro, insignificante “crocifisso in Palestina” a sua volta distintosi “perchè introdusse questa nuova religione nel mondo” - un mondo che evidentemente, secondo quella “nuova religione”, meritava di essere distrutto o sovvertito.

Come Luciano non sopporta l'exaltatio applicato all'altrimenti oscuro “Peregrino Proteo” da parte dei suoi fans e seguaci, così sempre Luciano non sopporta di pari grado l'exaltatio applicato dai Cristiani al “tizio che ancora adorano”, l'altrimenti oscuro e totalmente irrilevante e insignificante “Gesù che fu chiamato Cristo”.

E Luciano non sopporta questa contraddizione paradossale tra la vertiginosa exaltatio e l'oscurità del personaggio oggetto di exaltatio (nel caso dei Cinici, “Peregrino Proteo”, nel caso dei Cristiani, “Gesù detto Cristo”) non perchè parte dal presupposto che “Peregrino Proteo” e Gesù fossero a priori degli impostori truffatori (quella semmai è la sua personale reazione di scrittore satirico al caso “Proteo” e al caso “Cristo”) dei loro rispettivi seguaci, ma perchè è abbastanza perspicace da saper cogliere la natura squisitamente contro-culturale, e perciò intrinsecamente SOVVERSIVA, dell'operazione di exaltatio di altrimenti evanescenti figure: rendere quest'ultime in ciascuna specifica istanza, come si è espresso sopra Richard Miller, gli “emblemi” di movimenti e comunità miranti da ultimo a “sovvertire le istituzioni culturali di quel mondo” ... , “...promulgando un nuovo paradigma alternativo ... per la struttura di una società antica”.

Non era la prima volta che santoni, guru, avatars, eroi e semidei più o meno esotici e anonimi venivano fatti oggetto di exaltatio e venduti come tale ad un pubblico ellenistico. Ma quando quell'exaltatio imperiale veniva applicata ad un anonimo “uomo crocifisso in Palestina”, oppure ad un critico del potere imperiale quale è il filosofo cinico “Peregrino Proteo”, allora non poteva che suonare sovversiva nelle intenzioni.

E in cosa consisteva questa pretesa sovversione, più precisamente?
Nel fatto, come auspicò il folle apologeta cattolico Jerim Pischedda, che l'oggetto del culto cristiano fosse un “uomo crocifisso” ?

Per nulla affatto.

Spiega Miller:
Cosa significò per un'antica società salutare un individuo per essere stato traslato ad una statura divina? Visto tramite varie lenti dal dominio di studi culturali e letterari, il generale significato culturale di un tale pattern semiotico porta alla luce un distinto protocollo ricamante una vasta panoplia di antiche narrazioni mediterranee. Lo shock dei vangeli non deve allora essere stata la presenza di questo tropos letterario standard, ma l'adattamento di una tale suprema esaltazione culturale ad un povero contadino ebreo, un individuo altrimenti marginale e oscuro sulla grandiosa scena dell'antichità classica. L'investigazione illustra che ciascuno dei quattro vangeli e Atti applicarono questa convenzione con perspicacia sempre-ridondante, per timore che il lettore possa intrattenere qualche dubbio riguardo alla propria inferenza.
(pag. 181, mia libera traduzione e mia enfasi)
Ma se l'esaltazione a vertiginose altezze metafisiche del “Peregrino Proteo” di turno poteva ancora rientrare nella serie delle frequenti innocue anomalie, per non dire delle bizzarrìe, alle quali ci ha abituati da tempo il mondo antico, nel caso specifico del “Peregrino Proteo” a cui fa riferimento Luciano, era percepito come non poco disturbante il fatto che “Peregrino Proteo” fosse l'emblema di una critica filosofica cinica al potere imperiale nella persona dell'imperatore, così come era percepito di gran lunga ancor più disturbante il fatto che l'emblema dei cristiani fosse diventata l'“icona di un nuovo paradigma, una nuova metafora di ordine classico”.
L'innovazione dei racconti postmortem del vangelo non risiedeva nell'impiego della convenzione della favola della traslazione per se, ma nello scandalo dell'applicazione dell'abbellimento ad un controverso contadino ebreo, un povero Cinico, altrimenti marginale e oscuro sulla grandiosa scena dell'antichità classica. La credulità e lo zelo degli antichi cristiani salutavano non l'uomo stesso, ma la metonimia che la figura letteraria venne ad incarnare e rappresentare come l'icona di un nuovo paradigma, una nuova metafora di ordine classico. Tali fedeltà esaltò e salutò quest'immagine di una ideologia contro-culturale attraverso i protocolli dell'antico mondo ellenistico romano.
(pag. 180, mia libera traduzione e mia enfasi)

È ora di finirla finalmente con chi vede Gesù una minaccia al potere imperiale romano a causa del fatto più preteso che reale secondo cui la crocifissione di Gesù, come venduta nelle fiction evangeliche, era in odore di sedizione politica ad un pubblico pagano:
Mentre il recente slancio nelle letture politiche del Nuovo Testamento ha beneficamente allertato il discorso sul linguaggio imperiale di quelli antichi documenti, come per esempio fornite da Richard Horsley, John Dominic Crossan, e vari teorici post-colonialisti, tale interpretazione sembra trascurare la disposizione ascetica, oltremondana degli antichi movimenti cristiani, cedendo spesso a conclusioni riduzionistiche, pretestuose. I quattro vangeli, come composizioni favolistiche, resero Χρίστος il re trascendente, non un oppositore mondano delle strutture politiche del giorno.
I nemici letterari di Gesù nel suo processo nelle narrazioni evangeliche della passione commettono questa stessa trasgressione, precisamente, incorniciare il protagonista come un ribelle sedizioso, un insurrezionista contro-imperiale che ha cercato di fomentare un conflitto politico oppure che ha tentato di fondare un movimento mondano, concorrente in opposizione a Roma. Le narrazioni evangeliche, comunque, articolano drammaticamente e potentemente un sottotesto tout àu contraire. In ciascuno dei quattro vangeli, la narrazione conduce il lettore attraverso una disturbante sequenza di ingiustizia, confrontando il lettore con la singolare questione: Se non un sedizioso mondano rivoluzionario, allora che cosa?

(pag. 179, mia libera traduzione e mia enfasi)
Non si trattava di una concorrenza al potere imperiale sul suo stesso terreno politico, tantomeno militare. Bensì, per quanto possa sembrare una mossa più subdolamente ipocrita, si trattava di qualcosa di più sottilmente pervicace e profondo: una concorrenza al potere imperiale sul terreno culturale e sociale. Chi scrisse i vangeli voleva conquistare le anime dei greco-romani, non i loro corpi. Miravano a rivaleggiare col potere trascendente, non col potere fisico, reale, concreto.
Quei testi portavano alla viscerale attenzione del lettore antico la bruciante questione di colpevolezza dietro la drammatizzata morte di Gesù. Il suo sangue doveva ricadere sulle mani delle autorità settarie ebraiche di Gerusalemme, non sul governo di Cesare.
La sola critica del potere politico romano nei vangeli, o latente oppure esplicito, sembra essere evidente in una tacita assenza di impegno per la giustizia per la pacificazione di disordini e accuse contro Gesù al suo processo.
...
Le opere del Nuovo Testamento erano spesso sovversive, ma mai sediziose, nel loro tentativo di trascendere le strutture politiche del loro giorno.

(pag. 136-127, mia libera traduzione e mia enfasi)

I Cristiani autori dei vangeli miravano ad una “rivoluzione socio-culturale, non ad un rovesciamento politico” (pag. 37).

Non era e non poteva essere la crocifissione di un ebreo ciò che poteva scandalizzare e turbare un pagano istruito come Luciano (al più ciò era motivo in lui di disprezzo, ma mai di inquietudine), bensì la malcelata Volontà di Potenza dei cristiani che traspirava a tratti da dietro il loro emblema contro-culturale, al risveglio finale della coscienza. I cristiani, rinunciando alle lusinghe del mondo, rinunciando al mondo, in realtà volevano impadronirsene ancor più in profondità di quanto avesse mai voluto farlo qualsiasi conquistatore politico e militare del passato o del futuro:
La descrizione proposta in questo studio “trascendente rivalitasfondamentalmente riallinea il discorso al più esteso fenomeno classico intrapreso dai più antichi cristiani, precisamente, una critica ascetica della civiltà mondana, quindi una transvalutazione dei codici e delle strutture dell'antichità, rivolgendole sottosopra.
...
Congruente con le numerose varietà di imitatio, aemulatio e rivalitas nei vangeli, l'imitazione imperiale nei vangeli non serviva a minacciare o a inquietare Cesare; tale imitazione serviva a promuovere il significato trascendente del fondatore, in confronto e in rivalità alla fedeltà prestata alle principali istituzioni classiche del potere. Per questa ragione, la lettera apostolica poteva formalmente decretare (1 Pietro 2.17):
τὸν  βασιλέα  τιμᾶτε.

(pag. 137, mia libera traduzione e mia enfasi)
La minaccia cristiana al mondo pagano era più insidiosa, perchè la mira non era sul mondo in quanto tale, ma era da sempre stata sull'oltre-mondo. E l'aspirazione all'oltre-mondo comportava di necessità una critica radicale, spietata, e quindi pericolosamente sovversiva, al mondo stesso, romano ed ebraico insieme.
4 Maccabei deriva la stessa connessione tra regalità trascendente e certezza ascetica di fronte al duro martirio (“O ragione, più regale dei re e più libera dei liberi”; 4 Macc 14.2. La “tirannia” da conquistare attraveso lo spettacolo del martirio nei vangeli, a differenza del sovrano seleucide Antioco IV, comunque, diventò l'autorità istituzionale dell'ebraismo (-ismi) palestinese.
(pag. 136, mia libera traduzione e mia enfasi)
Questa rivalitas trascendente, sovversiva, appare ora mitigata nei nostri quattro vangeli canonici dal momento che in essi, come spiega Miller:
Mentre, per esempio, si potrebbe riconoscere che le rese di Gesù nel Nuovo Testamento intenzionalmente rivaleggiavano con le antiche rese di Mosè, Elia e Davide mediante la loro imitazione, si sbaglierebbe ad addurre quelle come istanze di un'implicita ostilità. La mimesi dell'Odisseo di Omero, se con Gesù nei vangeli oppure con l'Enea di Virgilio, significò rivaleggiare ed eclissare il precedente, ma mai soppiantarlo.
(pag. 137, mia libera tradizione e mia enfasi)
Miller sta descrivendo giustamente solo ciò che osserva all'opera nei nostri quattro vangeli canonici, e cioè un compromesso, a volte efficace, altre volte goffo, tra Gesù e le figure dell'Antico Testamento sul solco dell'eclissi - e non del soppiantamento - delle seconde da parte del primo. Un'eclissi che ne prefigurava al momento stesso l'interessata cooptazione per ridurre tutta la letteratura sacra precedente a mera profezia del neonato Gesù proto-cattolico.

Ma quel compromesso era frutto di una reazione proto-cattolica ad un precedente vangelo, un vangelo nel quale al contrario la rivalitas trascendente” di Gesù contro i profeti e i re dell'Antico Testamento non aveva intenzione nè di eclissarli nè di soppiantarli, e neppure di diseredarli dei loro legittimi lettori ebrei. Bensì mirava a porsi in aperta, esplicita contraddizione con tutta la letteratura sacra precedente. 

Solo alla luce di quel primo vangelo Luciano di Samosata poteva accusare quell'“uomo crocifisso” di aver introdotto “questa nuova religione nel mondo”. L'enfasi qui è sulla parola “nuova”.
Come Paolo “era giunto a conoscere Dio nella manifestazione di Gesù Cristo, completamente ed esclusivamente come il Padre di pietà e il Dio di ogni comforto”, così Marcione “fu sicuro che nessun'altra espressione circa Dio è valida, e invero che ogni altro è solo un errore del genere più grave e doloroso. Da qui egli proclamò questo Dio coerentemente ed esclusivamente come il buon Redentore, ma allo stesso tempo come il Dio Ignoto e l'Alieno. Egli è ignoto perchè in nessun senso può essere riconosciuto nel mondo e nell'uomo; egli è alieno perchè non esistono semplicemente nessun legame e nessun obbligo che connettono lui con il mondo e con l'uomo, con neppure lo spirito dell'uomo. Questo Dio entra nel mondo come uno straniero e un Signore alieno. Egli è un tremendo paradosso, e la religione stessa anche può solo essere esperita come tale se è da essere la vera religione e non una falsa religione. Ora, realmente e per la prima volta nella storia delle religioni, “lo sconosciuto e alieno Dio” era apparso, indotto dal compassionevole amore soltanto, in una missione redentrice in un mondo che non lo riguardava per nulla, perchè egli non vi aveva creato nulla. Coloro che nella loro pietà subalterna e timorosa avevano eretto altari agli “dèi alieni e sconosciuti” erano lontani dal pensare ad un tale Dio come questo, e così lo erano gli ebrei che avevano vissuto sotto l'incantesimo della Legge e le minacce dei Profeti. “L'uomo che proclamò questo Dio era il cristiano Marcione di Sinope. Tutti i cristiani di quel tempo credevano di essere alieni sulla terra. Marcione corresse questo credo: è Dio che è l'alieno, che li sta trascinando fuori dalla loro patria di oppressione e miseria in una casa paterna completamente nuova, una casa che non era neppure stata immaginata in precedenza.”
(A. v. Harnack, Marcion, letto attraverso Marcion and the Dating, M. Vinzent, pag. 135-136, mia libera traduzione)


Scrive il prof Vinzent:
Solo qualche tempo dopo narrazioni apologetiche (anti-)marcionite raffigurano un quadro di una distanza tra lui e l'ortodossia, un golfo che doveva crescere in un incolmabile abisso. La realtà storica, comunque, fu presumibilmente più complessa di questa. Prima che Marcione fu reso l'“arci-eretico”, egli sembra di essere stato l'arci-teologo, “il fondatore di una religione” e di un nuovo culto, il Cristianesimo.
(ibid., pag. 135, mia libera traduzione)
Lo shock creato dal primo vangelo, almeno nella sua prima esegesi pubblica data, fu provocato dall'enorme abisso tra un Dio Ignoto e Alieno e un mondo di deprecabile orrore senza fine e redenzione alcuna.

La comunità cristiana di Roma si risvegliò dovendo affrontare gli ''angeli di Satana'' che le svolazzavano attorno, tentando di dividere la Chiesa nascente. Quella comunità doveva reagire contro colui che il protocattolico Policarpo definì l'anticristo, il diavolo e il ''primogenito di Satana''. Le sfide ellenistiche introdussero un'identità ecclesiastica a malapena definita e decisa, accademicamente riassunta come ''proto-ortodossia'' o ''proto-cattolicesimo''.


Ma per rimediare a quello shock iniziale, visto che era troppo grande da sopportare, troppo radicale nelle stesse premesse (e per gli stessi cristiani!), si preferì un altro shock più mitigato ma non meno radicale e rivoluzionario del primo, quello che espressamente turbò i sogni dei greco-romani come Luciano di Samosata: l'esaltazione imperiale di un'altrimenti totalmente oscura, anonima - solo allora divenuta necessaria -, evanescente figura di messia ebreo pienamente divino e, contro Marcione, pienamente umano.

Una figura tanto insignificante e irrilevante quanto il suo supposto luogo di provenienza: Nazaret. [1]

Non stupisce allora che Luciano temeva, e disprezzava in tutta risposta, “il tizio che ancora adorano, l'uomo crocifisso in Palestina perchè introdusse questa nuova religione nel mondo”.

L'esaltazione di Gesù divenne tanto più alta nei nostri quattro vangeli canonici tanto più doveva servire a sostituire il precedente abisso tra Gesù e il mondo con un nuovo abisso, non meno insuperabile e paradossale del primo: tra l'umanità di Gesù e il suo Regno celeste.

Il precedente abisso, introdotto col primo vangelo, servì a dividere un (ancora) incorporeo Gesù da un mondo di deprecabile orrore senza fine che non fu creato dal vero dio.

Ma i quattro vangeli canonici scritti in reazione al primo vangelo, Mcn, servirono a colmare il precedente abisso sostituendolo con un nuovo abisso non meno radicale e contro-culturale del primo nelle sue più recondite mire: quello tra la semplice umanità di un “Gesù storico” - solo a quel punto venuto pienamente alla luce - e le estreme, vertiginose altezze metafisiche del suo imminente e già fin d'ora presente Regno celeste e trascendente, a suggellarne la definitiva exaltatio imperiale (secondo le convenzioni letterarie dell'epoca) e nel contempo, quasi per costruzione, il crepuscolo inevitabile del vecchio ordine classico. Perchè quel nuovo “Gesù storico” appena ideato era diverso da ogni altro “Peregrino Proteo”, guru, avatar o semidio evemerizzato sulla Terra, nella misura in cui non riservava loro alcuno statuto ontologico nel suo prossimo celeste Regno a venire.
L'apostolo più necessario. - Tra dodici apostoli, uno deve sempre essere duro come la pietra, affinchè su di lui possa costruirsi la nuova chiesa.
(Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, aforisma 76)


[1] Di solito si sente dire dai folli apologeti cristiani che Nazaret esisteva nel I secolo E.C. ''perchè tutti gli studiosi dicono così''. Eppure un recente studioso accademico storicista, nonchè prete cattolico, nonchè sostenitore dell'autenticità ''parziale'' del Testimonium Flavianum (sic!), è del parere opposto:

La successiva osservazione riguardante l'arrivo di Gesù da Nazareth (Mc 1:9b) è in realtà piuttosto strana. Non c'è traccia dell'uso del nome 'Nazareth' prima della composizione del vangelo marciano. Questo nome non occorre nè nelle fonti bibliche e neppure nelle fonti extrabibliche pre-cristiane. Non fu mai menzionato da Flavio Giuseppe nei suoi dettagliati resoconti della sua attività in varie parti della Galilea. Inoltre, non fu menzionato nè nelle lettere di Paolo e neppure nel secondo riferimento di Marco alla città natale di Gesù (Mc 6:1-6).
Pertanto, è ragionevole supporre che il nome 'Nazareth' (Mc 1:9b) è in realtà un nome artificiale, che è stato creato da Marco al fine di illustrare la successiva idea di Paolo delle sue radici tipicamente ebraiche (Gal 1:13). Marco ha combinato questa idea con quella dell'origine ebraica e identità davidica di Gesù 'secondo la carne' (Rm 1:3; cfr Mc 1:9), a differenza della sua identità di Figlio di Dio rivelato 'secondo lo Spirito di santità' (Rm 1:4; cfr Mc 1:10-11). Pertanto, l'evangelista ha creato il nome artificiale 'Nazareth', che per mezzo di assonanze linguistiche, ricordando la parola ebraica
נשר (nēser) che fu utilizzata nel testo messianico ben noto in riferimento al 'germoglio' di Jesse (Is 11:1 MT), illustra l'idea delle radici tipicamente ebraiche di Paolo (Gal 1:13), così come quella di Gesù appartenente alla discendenza di Davide (Rm 1:3).Un simile uso  artificiale, non semplicemente geografica, del nome 'Nazareth' (Mc 1:9) si può trovare anche in un altro testo Marciano, in cui la corrispondenza semantica strana di per sé, suggerita dall'evangelista, tra i termini "Nazaret ' e 'figlio di Davide' è costitutiva per la logica narrativa della storia:   Ναζαρηνός   Υἱὲ  Δαυὶδ ('di Nazaret' 'figlio di Davide': Mc 10:47).Si può sostenere che nel suo riferimento allusivo al testo profetico-messianico Is 11:1, che fu utilizzato secondo la logica di Rom 1:3 al fine di illustrare l'identità davidica di Gesù (Mk 1:9), Marco fu influenzato da Paolo, che nella stessa lettera ai Romani citava un relativo testo di Isaia riguardante 'la radice di Jesse' (Is 11:10) come riferente profeticamente a Gesù (Rom 15:12).L'osservazione a quanto pare superflua che Nazaret si trovava in Galilea (Mc 1, 9b) illustra il fatto che le origini ebraiche di Paolo (Gal 1:13) si potevano ritrovare nella diaspora (Gal 1:17c). Coerentemente, per mezzzo della procedura ipertestuale di traslazione spaziale la Galilea marciana rappresenta generalmente il territorio dei Gentili, specialmente quelli tra cui gli ebrei vivono in una diaspora.
La  successiva, abbastanza sorprendente immagine di Gesù che viene da solo dalla lontana Galilea al solo scopo di ricevere l'immersione nell'acqua in stile ebraico (Mc 1:9bc; diversamente 1:5) mediante la procedura ipertestuale di interfiguralità illustra la successiva dichiarazione di Paolo che egli avanzò nel giudaismo più di molti dei suoi contemporanei nel suo popolo, essendo molto più zelante delle tradizioni ebraiche (Gal 1:14).
(Bartosz Adamczewski, The Gospel of Mark, A Hypertextual Commentary, pag. 38-39, mia libera traduzione)


Nessun commento: