domenica 23 novembre 2014

Sul solo testo ebraico di tutto il Nuovo Testamento: l'Apocalisse





Il titolo vuol essere volutamente provocatorio, ma coglie bene l'idea che voglio esprimere in questo post. Io so benissimo che Paolo ''disse'' di essere un fariseo, che Marco non è un vangelo anti-ebraico, che Matteo sarebbe ''giudeocristiano'', che Luca-Atti intendeva presentare ''continuità'' con l'ebraismo, che infine il protocattolicesimo ''derivò'' dall'ebraismo...

Ma è davvero così? Così può essere solo se smercifico a basso prezzo il concetto di ebraicità di un testo al punto da ritenere ebreo ogni testo cristiano per il solo fatto che si richiama alle Scritture sacre dell'Antico Testamento.

Ma come posso veramente ritenere un ebreo l'autore del vangelo di Matteo - il vangelo considerato più ''giudeocristiano'' di tutti - quando, nonostante tutto il suo dichiarato amore e utilizzo delle Sacre Scritture ebraiche, non è mai riuscito a spiegarmi perchè ha abbandonato del tutto le pratiche ebraiche? Ma al contrario tradisce da tutti i pori il desiderio di convergere a sempre più indipendenza dall'ebraismo, perfino quando vuole dichiararsi indipendente all'interno di esso?

Come posso ritenere l'uomo chiamato Paolo un ebreo quando dichiarava esplicitamente che a dare a Mosè la Legge furono angeli inferiori, non Dio, e che per giunta quelli angeli inferiori non erano affatto buoni, ma erano i famigerati demoniaci
τά στοιχεία του κόσµου? Un vero ebreo si sarebbe spinto così audacemente in territorio ''eretico'' al di là del rispetto della Torah che accomunava e accomuna tuttora da che mondo e mondo ogni ebreo del globo? E non sto neppure ricordando, per puro amore di discussione con un decadente consensus, il mero sospetto che insinua dubbi sulla vera fedeltà dell'uomo chiamato Paolo allo stesso dio dei giudei...

Ma in realtà, se davvero trascuriamo le lettere di Paolo e qualche altra epistola del I secolo, se davvero il prof Markus Vinzent riuscirà a convincermi definitivamente che tutti i quattro vangeli canonici non sono del I secolo ma furono scritti nel II secolo in risposta a Marcione e al suo Vangelo, allora i loro autori di ebraico potrebbero avere solo un generico rispetto per le Scritture ebraiche e la morale ebraica, potrebbero pure avere genitori ebrei ed essere nati in quel di Israele, ma chiaramente non potrò considerarli veramente ebrei senza far torto a chi Ebreo lo è veramente nel sangue e nello spirito. Nel presente come nel passato come nel futuro.


Quando una religione come quella ebraica coincide così tanto con l'appartenenza etnica ad un popolo, ogni tentativo di dichiararsi partecipe e/o continuatore di quella gelosa esclusività etnica non può che essere interessata, e dunque tradire una sottile volontà politica di cooptazione. E i protocattolici erano maestri in questo. La loro Reductio ad Judaeum - espressione col quale indico la loro apparente infatuazione pubblicitaria per l'ebraismo - celava in realtà da sempre, come tuttora, una spregevole e ideologica Reductio ad Unum. Il mito dell'unica, ''legittima'' origine: Gesù detto Cristo.

E questa loro mossa dettata da ragioni ideologiche, perchè l'amore per la verità trionfi, deve meritare lo stesso disgusto e lo stesso scandalo che provocano alle nostre orecchie le sedicenti pretese di un Giustino Martire, il folle apologeta del II secolo:

La famosa affermazione di Giustino Martire che Socrate era un cristiano illumina il problema di chiamare la comunità dell'Apocalisse "cristiana". Giustino scrive: "Coloro che hanno vissuto ragionevolmente sono cristiani, anche se sono stati ritenuti atei, come tra i greci, Socrate, Eraclito, e uomini come loro" (Prima Apologia 46). Il problema è evidente. Il passo presenta un vicolo cieco, un'aporia, per l'interpretazione all'interno di una tradizione storico-critica, piuttosto che teologica: Socrate ed Eraclito non sono cristiani.
(John W. Marshall, Parables of War Reading John's Jewish Apocalypse, pag. 19, mia libera traduzione e mia enfasi)

Il libro le cui parole ho appena citato, Parables of War Reading John's Jewish Apocalypse, di John W. Marshall, dichiara senza mezzi termini quella allora che è un'ovvia verità, in un mondo dove niente è come appare:

Per metterla senza mezzi termini, io sostengo che l'Apocalisse è un documento ebraico e non cristiano.
(pag. 2, mia libera traduzione e mia enfasi)

Ci tiene subito dopo a non voler essere affatto contraddetto, pena il rischio di semplificazioni e travisamenti sempre in agguato:
Il mio argomento non è affatto qualcosa di simile a "tutti i cristianesimi prima del 70 CE devono essere intesi come giudaismi." Né sto derivando da una distinzione che vede in Giovanni un "Ebreo per nascita, Cristiano per fede" e quindi intende il suo documento etnicamente ebraico.
(pag. 5, mia libera traduzione)


E come effetto collaterale, viene a cadere l'aggettivo che così spesso si è abusato nei riguardi del vangelo di Matteo, per accomunarlo in qualche modo al testo dell'Apocalisse:
La categoria "giudeocristiano" .... funziona, come fa spesso, come marcatore di un cristianesimo derivato, come l'etichetta di un terreno torbido tra due alternative ben scolpite, come un ibrido che è improbabile esser in grado di riprodurre.
(pag. 7-8, mia libera traduzione e mia enfasi)


Ma qual è allora il problema?

Semplice. Il cosiddetto autore ''giudeocristiano'' del vangelo di Matteo aveva pronunciato quelle agghiaccianti parole:
E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli»
(Matteo 27:25)

...dove l'ironia implicita è che, pur rovesciando sul popolo ebraico la collera divina per il tentato deicidio dietro un'improbabile parvenza ebraica di facciata, comunque il sangue di Gesù sulla croce ha scopo espiatorio dal momento che salverà nominalmente, lavando paradossalmente i suoi peccati, di quel popolo minacciato nella sua stessa esistenza (con le guerre giudaiche del I e del II secolo) perchè reo di invocare su di sé la sua stessa distruzione, almeno le credenziali, preservandole nel Novus Israel che è la nascente chiesa proto-ortodossa. Come teologia della sostituzione, questa non può e non potrà mai essere considerata qualcosa di ebraico, qualcosa che un vero ebreo potrà mai rischiarare. Perchè si tratta della sottile negazione nichilistica della propria identità.  L'antigiudaica teologia della sostituzione, perciò, è l'essenza del proto-cattolicesimo.


Ecco invece quali sono le parole di un vero ebreo sicuro di essere tale senza nessun'obiezione di sorta:
Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – eppure sei ricco – e la bestemmia da parte di quelli che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono sinagoga di Satana.
(Apocalisse 2:9)

Un vero ebreo non sente la necessità di rinnegare l'ebraicità di altri ebrei, se davvero quelli altri ebrei sono di diritto membri di Israele. Un vero ebreo, se impugna quelle parole, lo farà con fondato motivo: i suoi nemici non sono ebrei.

Eppure, a detta di un consensus che non è più tale, i suoi nemici sarebbero ''ebrei'':
.... una tendenza che continua per quasi diciassette secoli: tutto di nascosto, trasforma "quelli che si dicono giudei" in "i giudei che si dicono giudei e non lo sono''.
(pag. 13, mia libera traduzione e mia enfasi)

Il prof Marshall si riferisce al vizio diffuso di considerare cristiano l'autore del libro dell'Apocalisse.

Per Yarbro Collins, Cristo funziona qui come conditio sine qua non del cristianesimo nell'Apocalisse. Senza riferimenti a Cristo, non è cristiana; con i riferimenti, lo è.
(pag. 49, mia libera traduzione e mia enfasi)

Qual è la differenza, allora?
Gli studiosi sono pronti a dire che l'Apocalisse procede da una matrice ebraica; io sostengo che si muove all'interno di una matrice ebraica. La differenza è piena di significato.
(pag. 69, mia libera traduzione e mia enfasi)


Dunque siamo in presenza di un documento ebraico. Perciò quel documento dev'essere piuttosto antico:
L'interpretazione delle sette teste come sette re e la gematria di 666, però, puntano a Nerone e al mito di Nerone redivivis/redux, come la stessa Yarbro Collins riconosce (1984a: 59, 100). L'episodio dei due testimoni o profeti sottolinea anche il contesto della guerra giudaica. L'evidenza esterna, soprattutto la testimonianza di Ireneo, non è abbastanza affidabile per ribaltare questi indicatori. I risultati di queste indagini suggeriscono che l'Apocalisse è stato scritta nel 69 o 70 CE con echi risalenti al regno di Nerone che ha fissato la cornice della narrazione ("Ero a Patmos...") in quel tempo.
(pag. 89, mia libera traduzione e mia enfasi)

Saruman? No: l'autore dell'Apocalisse!

Ecco la vivida descrizione del Sitz im Leben di quei tempi drammatici:

...(1) all'interno della diaspora, durante la guerra in Giudea, ci sono stati vari modelli di rapporti tra ebrei e gentili, che vanno dall'indifferenza passando per la condanna congiunta dei ribelli alle rivolte contro gli ebrei della Diaspora; (2) i vari modelli di interazione implicano una serie di atteggiamenti e disposizioni da parte degli ebrei della diaspora, per esempio, l'assimilazione confortevole, distinzioni sofisticate tra gli ebrei, e la resistenza al grande complesso culturale greco-romano; (3) nella parte occidentale dell'Asia Minore, l'Apocalisse di Giovanni testimonia di un gruppo di ebrei che intraprendono un modello di resistenza al più ampio complesso culturale greco-romano.
(pag.98, mia libera traduzione e mia enfasi)


Si preferì la terza opzione: una resistenza non violenta, ma pur sempre riluttante ad ogni compromesso col nemico esterno, e perciò fatalmente condannata all'estinzione.
 
Nel caso dei passi sulla "sinagoga di Satana", suggerisco che l'asse di differenziazione lungo il quale Giovanni divide la sua comunità da quella dei suoi nemici non è fede in Gesù, ma disposizioni verso l'impero romano e il più vasto complesso culturale greco-romano, soprattutto per quanto riguarda il consumo di cibo offerto agli idoli. Nel caso dei testi sui "comandamenti di Dio",  rendo il semplice suggerimento che la frase ha tenuto tutto il suo significato comune (e polemico) nell'ebraismo del primo secolo e che il valore di un nuovo orientamento durante la lettura di questi testi è quello di riconoscere questo e, per di più, di capire le frasi "testimonianza di Gesù" e "la fede di Gesù" a sostegno di questa semplice comprensione dei "comandamenti di Dio."
(pag. 124, mia libera traduzione)


Dunque i nemici dell'autore dell'Apocalisse non sono gli ebrei che non credono in Gesù, ma sono ebrei che, credendo o meno a Gesù, hanno deciso di scendere a patti col regno di questo mondo, Roma.

La sua descrizione dei suoi nemici in termini di idolatria e come figure al di là del recinto del legittimo ebraismo chiarisce che gli avversari da lui caratterizzati come seguaci di Balaam, Gezebele, o Nicolaiti non sono definiti dall'essere ebrei, ma dalle loro relazioni con non-ebrei e con una pratica non-ebraica.
(pag. 130-131, mia libera traduzione e mia enfasi)
Non stupisce allora che il mondo fintamente ebraico condannato dall'autore ebreo dell'Apocalisse sembra molto simile allo stesso mondo dove trovò terreno fertile a suo tempo non solo il vangelo di Paolo, ma dove germogliarono anche, nel II secolo, il protocattolicesimo e lo gnosticismo cristiano.
 ...sembra che le preoccupazioni di Giovanni riguardo l'integrazione con la religione e la cultura greco-romana così come le sue preoccupazioni nell'utilizzo del termine "Ebreo" suggeriscono che il gruppo da lui opposto consiste di una fusione di pagani timorati di Dio ed ebrei comodamente ellenizzati che accolgono i timorati di Dio senza richiedere a sé o ai loro adepti una sostanziale (agli occhi di Giovanni) separazione dalla cultura greco-romana.
(pag. 134, mia libera traduzione e mia enfasi)

 

La parabola dell'Apocalisse non può che presentarsi pertanto nei tratti di una vera e propria parabola di guerra.
Interpreto la parabola di Apocalisse 12, quindi: Israele come entità celeste lavora per portare alla luce il Messia, e l'avversario di Israele si sforza di contrastare la venuta del Messia. Il Messia è nato e poi ripreso a Dio, mentre la donna lotta con il suo destino sulla terra sotto la protezione di Dio. Cioè, la venuta di Gesù funziona come un evento che inaugura il culmine della lotta tra il bene e il male. Questa lotta avviene sia tra le  potenze del cielo che tra i seguaci dell'agnello sulla terra, che conquistano attraverso il sangue dell'agnello (12.11).
...
Con la nascita e l'ascensione del Messia, Israele entra in un tempo provvisorio di persecuzione mista e protezione. Con la nascita e l'ascensione del Messia, il conflitto in cielo si risolve nel cielo dalla potenza dell'angelo Michele e deve solo essere elaborato sulla terra con la testimonianza costante dei seguaci del agnello.

(pag. 137-138, mia libera traduzione)


Ne deriva che l'Apocalisse è preziosa per sapere quali contrastanti sentimenti serpeggiavano intorno al 70 presso la Diaspora ebraica:
 Entrambi gli elementi del commento di Giovanni - sopportazione e rispetto dei comandamenti -, sono presenti nella descrizione dei 144.000. In primo luogo, i 144.000 non fanno altro che stare in piedi e cantare, cioè, sopportano la situazione specifica e la posizione dei guerrieri di Sion è anche importante alla luce della situazione dei difensori di Gerusalemme. Con diverse legioni romane che circondano la città, i suoi difensori potevano fare poco più che adorare Dio e sperare nell'aiuto divino. In secondo luogo, la caratterizzazione della condotta morale dei guerrieri (Apocalisse 14:4-5) specifica (ma di poco) cosa potrebbe significare l'osservanza dei comandamenti. In un certo modo, le testimonianze di Giovanni e Flavio Giuseppe concordano qui: la diaspora non ha fatto nulla per togliere l'assedio di Gerusalemme. La differenza è che Giovanni intende chiamare la sua comunità alla resistenza, alla fedeltà e all'obbedienza come mezzi attivi di partecipazione nella comunità delle creature di Dio come in cielo così sulla terra, mentre Flavio Giuseppe cercava di ritrarre una diaspora pacifica colma di un ragionevole disgusto per la ribellione.
(pag. 141, mia libera traduzione e mia enfasi)

Di nuovo e ancora di nuovo mi rendo conto di quanto fosse meramente propagandistica e pubblicitaria l'opera di Flavio Giuseppe, al confronto con le più sincere note dolenti ascoltate nell'Apocalisse:

Nel loro insieme, con le sue accuse che i suoi nemici sono una "sinagoga di Satana" (e la sua chiara polemica contro l'idolatria), l'affermazione di Giovanni che la sua comunità fa (e dovrebbe) obbedire ai comandamenti di Dio articola la sua preoccupazione per la loro condotta nel contesto della Guerra Giudaica. Essi devono allontanarsi dal più ampio complesso culturale greco-romano e attenersi alle pratiche specifiche derivanti dall'alleanza di Dio con il suo popolo. Si tratta di una nuova immagine della Diaspora ebraica durante la guerra giudaica - anche se non erano di alcuna rilevanza militare per gli atti di guerra, ne erano, in un certo senso, i sostenitori. L'invito di Giovanni a tener duro fra le nazioni smentisce l'omogeneità del disprezzo per la guerra che Giuseppe Flavio descrive nella diaspora.
(pag. 148, mia libera traduzione e mia enfasi)

L'autore dell'Apocalisse raggiungeva forse punte quasi di schizofrenia nel suo odio xenofobo e fondamentalista, ma non si può certo negare che era libero, principalmente libero di vendere quello che voleva come frutto della sua pretesa allucinazione spacciata per rivelazione divina, nonchè di fare quello che voleva col mito di Gesù (in questo non diverso dagli altri): 
In Apocalisse 11:1, Giovanni riceve il comando di misurare il tempio di Dio nella città santa. In Apocalisse 11:8, i due testimoni di Dio giacciono morti per la strada della grande città, che è spiritualmente chiamata Sodoma ed Egitto. Il mio scopo è quello di presentare la tesi che la città santa "è" Gerusalemme e la grande città "è" Roma, senza ricorrere a speculazioni su fonti poco associate. Inoltre, è mio compito sostenere l'ambiente storico di questa interpretazione all'interno della guerra giudaica.
...
Sulla base dell'impiego di Giovanni del termine "città" e la coerenza con cui le altre occorrenze del termine si modificano negativamente o positivamente per fare riferimento a Roma o Gerusalemme, non è non-problematico identificare la città santa e la grande città in Apocalisse 11 . Gli usi di primo-ordine delle designazioni "città santa" e "grande città" sono Gerusalemme e Roma, rispettivamente. Diverse ipotesi tradizionali, i quali mi sforzo di sovvertire, sottendono l'identificazione della città santa e della grande città in Apocalisse 11. La prima ipotesi, che ho contestato nel corso di questo studio, è che l'Apocalisse di Giovanni è un documento cristiano ed è quindi suscettibile di avere una visione negativa di Gerusalemme come quello che Apocalisse 11: 3-13 implica della ''grande città''. Non è necessario, a questo punto, entrare in una critica dettagliata della prima parte di questa vista. La seconda parte - l'ipotesi che un documento cristiano potrebbe liberamente denigrare Gerusalemme - è problematica, e secondaria ricerca, che non è direttamente interessata con l'Apocalisse di Giovanni, argomenta contro tale idea. Esaminando più specificamente l'Apocalisse di Giovanni, molti commentatori suggeriscono che l'autore valorizza una "celeste" o una "nuova" Gerusalemme ma svaluta una "terrena" o "vecchia" Gerusalemme. Qui, i commentatori spesso confondono distinzione e opposizione. Giovanni distingue tra i fenomeni celesti e terrestri, ma, allo stesso tempo, li intende analoghi. Così vede in Roma l'analogo terreno dell'entità cosmica Babilonia; nei santi per i quali egli scrive, l'analogo terrena dei santi che sono sotto l'altare del tempio celeste; nei figli della donna vestita di sole, l'analogo terrena dell'esercito di Michele che sconfigge il drago in cielo. In Gerusalemme - la Gerusalemme terrena, Giovanni vede l'analogo terreno della città celeste che considera i suoi compagni sulla terra già cittadini. Ci sono diversi modi di ritrarre il conflitto che è fondamentale per l'Apocalisse di Giovanni: Satana contro Dio, la bestia contro i santi, Roma contro Gerusalemme. È sempre un atto di scelta, di selezione, e anche di riduzione distillare un'opera letteraria e precisare cos'è in merito all'utilizzo personale di Giovanni, tuttavia, suggerisce che il conflitto di città, Roma /Babilonia contro Gerusalemme, è una prospettiva sull'Apocalisse a cui l'autore sembra desideroso di portarci. Così, è possibile e vantaggioso capire l'Apocalisse di Giovanni come una narrazione sul conflitto di due città: Gerusalemme e Roma. Il progetto persuasivodell'Apocalisse può essere inteso nel rivelare Roma - centro di  potere economico, politico, e rituale - negativa in tutti i sensi e nel sostituire l'orientamento a quel centro con l'orientamento alla Nuova Gerusalemme.  Formulata in termini più antropologici, la domanda in questione nell'Apocalisse di Giovanni è il rapporto del pubblico con la cultura romana/ellenistica dominante. Il progetto di Giovanni è quello di garantire che la relazione sia controculturale piuttosto che sottoculturale (con la promessa che il pubblico sarà la cultura dominante nell'eschaton, se mantengono la loro relazione controculturale). I suoi principali mezzi per realizzare questo è la metafora della città e della cittadinanza. La mia proposta è che Apocalisse 11:1-13 è da leggersi come una parabola sulla guerra giudaica posta in due scene: la prima è posta a Gerusalemme durante la guerra giudaica, la seconda a Roma, allo stesso tempo. In questa parabola della guerra, Giovanni ammette la terribile situazione di Gerusalemme, ma promette che la sua vulnerabilità è solo parziale e temporanea e offre una visione della distruzione di Roma come punizione per il suo rifiuto del messaggio di Dio e, più sorprendentemente, per la sua crocifissione di Gesù a Roma (intesa "spiritualmente"; si veda Apocalisse 11:8).

(pag. 163-165, mia libera traduzione e mia enfasi)

Con le mani così libere, l'autore dell'Apocalisse decise per la prima volta nella Storia di istanziare, seppure ancora in forma rozzamente allegorica (al pari della sua cristologia), la crocifissione dell'agnello Gesù sulla Terra. E quale luogo scelse come sede di un tale così nefando atto? ''Sodoma ed Egitto'', cioè: Roma.

 E i loro cadaveri giaceranno sulla piazza della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il nostro Signore è stato crocifisso.
(Apocalisse 11:8)

La sua logica era la seguente, ed era impeccabile:

1) secondo il mito, il Gesù mitico doveva soffrire e morire nel luogo più malefico dell'intero universo, che non fosse l'Ade o Sheol dal quale non c'era via di ritorno.

2) per l'autore ebreo dell'Apocalisse, il luogo più malefico dell'universo è Roma,
''Sodoma ed Egitto''.

3) perciò: il Gesù mitico doveva soffrire e morire a Roma.

 
Tutto questo è straordinariamente atteso sotto l'ipotesi del Mito di Cristo.
Al contrario, è ''sorprendente'', come lo stesso storicista Marshall riconosce, che ciò accada sotto l'ipotesi della storicità. Ma ''sorprendente'', docet Richard Carrier e il suo oramai classico On the Historicity of Jesus, significa insolito, inatteso, inspiegabile, in una parola: improbabile. 
 
Il dr Carrier non fa il medesimo punto perchè pur di dialogare con un fasullo consensus ritiene l'Apocalisse del 95 EC, ma Marshall ha dimostrato efficacemente, a mio parere, che quel documento è molto più antico. Più antico certamente della Lettera agli Ebrei.


Ecco in sintesi la visione del prof Marshall:
Nel loro insieme, i quattro complessi di testo che ho discusso come parabole della guerra sostengono un programma completo di resistenza al complesso culturale greco-romano all'interno del quale la comunità di  di ebrei asiatici di Giovanni vivevano le loro vite. La sua accusa che coloro che mangiavano cibo offerto agli idoli erano "una sinagoga di Satana" costituisce la più dura condanna di integrazione culturale. La sua esortazione ripetuta a "osservare i comandamenti di Dio" ribadisce le basi per la condotta che ritiene adeguata e gli standard a cui vuole che aderisca il suo pubblico. È particolarmente degno di nota che mantenere "la testimonianza di Gesù" e "la fede di Gesù" ha molto senso in questo contesto; queste frasi supportano l'esortazione a osservare i comandamenti di Dio, e non vi è alcuna giustificazione per diluire il significato di "comandamenti" da quello che qualsiasi altro Ebreo del I secolo avrebbe capito. Questa accusa e questa esortazione sono parabole di Giovanni che istruiscono il suo pubblico a mantenere la loro purezza di fronte alle nazioni. Per quanto riguarda l'andamento della guerra in Giudea, Giovanni rappresenta, con le sue visioni dei 144.000 tratti dalle tribù d'Israele e  raccolte a Sion, una forza di guerrieri puri guidati dall'agnello. E nella parabola della città santa e della grande città, Giovanni promette che la distruzione che appare imminente su Gerusalemme sarà effettivamente realizzata su Roma. Anche se Giovanni intravede l'agnello e il Signore crocifisso come forze centrali nella risoluzione dei conflitti che affronta, egli parla in queste parabole come un Ebreo che si muove all'interno dell'ebraismo e completamente fedele all'ebraismo.
(pag. 172-173, mia libera traduzione e mia enfasi)


Anche se Vero Ebreo, l'autore dell'Apocalisse, lui , e lui solo, vero ''giudeocristiano'', cerca per quanto solo parzialmente, di rompere lui stesso la dura dicotomia ''noi''/''loro'', e lo fa in questo modo:
Il terzo punto importante dell'agenda di persuasione di Giovanni è forse il più peculiare: prevede una trasformazione del popolo di Dio, per mezzo di una massiccia infusione di gentili. Nell'ambito del programma narrativo dell'Apocalisse, questa trasformazione può essere intesa come il movimento tra le categorie antropologiche iniziali e finali. Le categorie di partenza sono (a) gli ebrei o Israele e (b) le tribù, lingue, popoli e nazioni. Le categorie finali sono (a) coloro che abitano nel cielo e (b) quelli che abitano sulla terra. Tra queste categorie iniziali e finali, quattro movimenti sono logicamente possibili:

Figura 1. Categorie e Trasformazioni dell'Apocalisse
Il primo e il quarto movimento ricevono una certa attenzione, ma non sono trattati come problemi. Gli ebrei si spostano, o più propriamente mantengono il loro status all'interno, nel popolo di Dio in virtù del loro patto di elezione con Dio e della loro partecipazione a tale patto; con questi mezzi, essi dimorano nel cielo. I gentili confermano il loro status di coloro che abitano sulla terra mediante la loro caratteristica (da molti punti di vista ebrei) empietà e immoralità, cioè, mediante idolatria, promiscuità sessuale, disonestà,  pratica della magia, omicidio, impurità (si veda Apocalisse 21:8). Il movimento interessante è l'ingresso dei gentili nel popolo di Dio, il popolo che vive in cielo; e il movimento assente è l'ingresso degli ebrei nelle persone che sperimentano la "seconda morte", le persone che vivono sulla terra.
(pag. 185-186, mia libera traduzione e mia enfasi)



E finalmente, il prof Marshall si rende conto dell'ampio ventaglio di possibilità e di implicazioni che la sua tesi si porta inevitabilmente seco: primo tra tutti la riconsiderazione del rapporto di Paolo con l'ebraismo.
Ecco la sua idea:
  La metafora di un espatriato può descrivere in modo appropriato Paolo:  è un Ebreo che vive al di fuori del del giudaismo per il bene dei Gentili e, in una prospettiva più lunga, per il bene degli ebrei. Giovanni, d'altra parte, vive all'interno del giudaismo, anche se è all'interno di un ebraismo della Diaspora, e si sforza di separare sé e la sua comunità dal complesso culturale più ampio greco-romano, convinto che i Gentili si uniranno in un tale ritiro.
(pag. 196, mia libera traduzione e mia enfasi)


Molto più evidente della presunta ebraicità di Paolo è la grande differenza rilevata dall'acuto studioso Roger Parvus in merito al responsabile delle persecuzioni rispettivamente per Paolo e per l'autore dell'Apocalisse. E sono sicuramente convinto che le parole di Parvus possiedono una grande verità al di là della sua tentata identificazione dell'uomo chiamato Paolo con Simone di Samaria:
Ho il sospetto che ciò che l'autore dell'Apocalisse vedeva come persecuzione era diverso da ciò che Paolo intende con quella parola. Per l'Apocalisse, la persecuzione era qualcosa di essenzialmente fisico e vi era lo Stato dietro la persecuzione. Ho il forte sospetto che ciò non era il caso per Paolo,
In Galati 5:11 l'Apostolo dice: "Ma se io, fratelli, predico ancora la circoncisione, perché sono ancora perseguitato? In tal caso l'ostacolo della croce sarebbe rimosso."

Qui vede la sua "persecuzione", come in qualche modo causata dal suo rifiuto di predicare mai più la circoncisione. E lui collega questo con la "pietra d'inciampo della croce." Nel contesto di Galati, sembra che la persecuzione di cui sta parlando è opposizione da parte dei giudei cristiani che stavano mandando in rovina il suo lavoro in Galazia. Essi stavano mentendo su di lui e deviando il suo gregge lontano dal suo vangelo di Cristo crocifisso in quello che era osservante-della-Legge.

In 1 Corinzi 4:10-13 e 16 c'è questo:


Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.
... Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!


Qui "perseguitati" si trova con "insultati" da un lato e con "calunniati" dall'altro. L'Apostolo si considera l'oggetto di insulti e menzogne. Così appare di nuovo che la persecuzione era verbale. Se Paolo, come sospetto, era Simone di Samaria, la gente poteva andar dicendo che era un megalomane, o un pazzo, o un imbroglione, o un nemico della vera chiesa. Ma non vi è alcuna indicazione che lo Stato fosse quello che gli stava procurando questo. In Corinzi la persecuzione sembra essergli venuta da ebrei cristiani legati alla chiesa di Gerusalemme.
In 2 Corinzi 4:8-11 abbiamo questo: Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte del Signore Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Infatti noi che viviamo siamo sempre liberati dalla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale.

Qui la persecuzione viene immediatamente circondata da sofferenza che è mentale ("perplessi") da un lato e, eventualmente, fisica ("colpiti, ma non uccisi") dall'altro. Ma non vi è ancora neppure alcuna indicazione che l'autorità civile vi sia dietro. Quindi potrebbe essere che per l'Apostolo, la persecuzione è qualcuno o qualcosa che si oppone a lui o al suo vangelo. Corollario all'opposizione è quello che vede come il prendere la croce di Gesù, vale a dire, "che porta nel nostro corpo il morire del Signore Gesù ... sempre per essere consegnati alla morte a causa di Gesù '." Lui e i suoi seguaci non avevano alcun'aspettativa che lo Stato potesse desiderare di crocifiggerli letteralmente.

In breve: la persecuzione degli ebrei cristiani in Giudea potrebbe essere stata diversa da quella delle chiese paoline. In effetti, gli ebrei cristiani possono essere stati i principali persecutori di Paolo e dei suoi seguaci.

E, come la vedo io, se proto-Marco era Simoniano, il tipo di persecuzione che il Gesù di Marco preparava per i suoi seguaci era persecuzione da ebrei e dagli ebrei cristiani. Ciò ha ricevuto una modifica quando proto-Marco è stato trasformato in Marco canonico da un interpolatore proto-ortodosso. Ho il sospetto che il passaggio è stato in gran parte realizzato con l'inserimento del materiale di Giovanni il Battista in esso, tra cui la grande profezia nel suo 13° capitolo. Se la profezia era originariamente emessa da un uomo che fu "un profeta e più che un profeta", la persecuzione di cui parla è fisica ed è proveniente dallo Stato e dagli ebrei che hanno collaborato con esso.
Ma lasciando da parte Paolo, condannato a rimanere per sempre un enigma nel suo rapporto con l'ebraismo e soprattutto con il dio dei giudei, trovo più suggestive e più utili, a tutti gli scopi pratici, queste parole del prof Marshall:


In un certo modo, la semplice affermazione che l'Apocalisse di Giovanni è un documento ebraico fa poco per distinguerlo da, per esempio, il vangelo di Matteo, ma il compito di questo studio è stato proprio quello di prendere quella proposta e capire le sue implicazioni, con il risultato che i particolari contorni del giudaismo di Giovanni e il loro valore nell'illuminare alcuni dei passaggi più aporetici del documento diventano chiari. Argomentazioni accademiche sono state fatte per cui i vangeli di Matteo, Marco e Giovanni possono proficuamente essere intesi come documenti ebraici. Il mio compito è quello di differenziare l'ebraicità dell'Apocalisse da quello che potrebbe caratterizzare ciascuno di questi vangeli. Trovo tale differenza tra l'Apocalisse e il vangelo soprattutto nei loro diversi orizzonti del discorso o assi di solidarietà.
(pag. 197, mia libera traduzione e mia enfasi)


Qual è perciò la differenza che ai miei occhi rende solo (ipocritamente) di facciata l'ebraicità tanto ostentata dagli autori dei vangeli canonici rispetto alla genuina ebraicità dell'Apocalisse?
  La differenza decisiva tra i due documenti può essere la loro posizione relativa al risultato della guerra. L'autore del vangelo di Marco scrive dopo il fallimento della rivolta e intende che la guerra segnala la scomparsa delle strutture di base della pietà ebraica. Giovanni, d'altro canto, scrive prima della conclusione disastrosa della guerra, non impegna la strategia vista in Marco di differenziare tra i leader ebrei e il  popolo. L'identità di gruppo emergente che il vangelo di Marco nutre (anche se le aspettative escatologiche abbreviano la visione dell'autore del futuro di quella comunità) dipende in misura significativa sulla critica di e sulla differenziazione da (un'altra?) pietà e pratica ebraica e sulla comprensione della guerra giudaica e del suo esito come un giudizio di Dio a sostegno di tali critiche e differenziazione.
Il vangelo di Matteo, molto più del vangelo di Marco, è profondamente preoccupato per lo stato della sua comunità all'interno del giudaismo, anche se è sul punto di rifiutare l'ebraismo. Questa preoccupazione si traduce direttamente in una preoccupazione con lo status di Gesù nella tradizione ebraica. Naturalmente, queste preoccupazioni e questo approccio verso il precipizio del rifiuto possono essere provocati da un ripudio attivo da parte degli altri ebrei. Come suggerisce Wilson, "l'impressione costante del vangelo [di Matteo] è che i colpi sono stati scagliati dal lato opposto" (1995: 56; cfr Stanton 1991: 157). Anthony Saldarini sostiene che una sociologia della devianza è necessaria per capire la posizione della comunità di Matteo all'interno del giudaismo (Saldarini 1994; 1995). È importante, comunque, riconoscere che la comunità di Matteo sembra consapevole della propria marginalità, e che i suoi sforzi sono rivolti  a ritagliarsi un posto all'interno del giudaismo.
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Con il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli, il movimento al di fuori del giudaismo è ben definito. Piuttosto che cercare di guadagnare lo status di corretto ebraismo (come il vangelo di Matteo), Luca-Atti si sforza di presentare il cristianesimo come il legittimo successore dell'ebraismo. Nessuna delle varie prospettive che si evince dai vangeli - lotta contro un partito nell'ebraismo, competizione per essere il corretto ebraismo, rifiuto ossessivo degli "ebrei", e lotta per succedere all'ebraismo - descrivono utilmente la situazione dell'Apocalisse. Tenta di parlare dall'interno del giudaismo e sul tema della relazione con il mondo pagano. Non condivide le ansie dei vangeli con (ed entro) l'ebraismo.

(pag. 198-200, mia libera traduzione e mia enfasi)

Quelle stesse ''ansie dei vangeli'' che suonano ai miei occhi così sospette sui volti di veri ebrei. Se la sola forma legittima di continuità con l'ebraismo del 70 EC, DOPO LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO, era il rabbinismo talmudico, allora non posso ritenere ''ebrei'' coloro che a quel rabbinismo talmudico si opposero violentemente ricorrendo alle più infamanti tra le accuse e venendo parimenti contraccambiato con altrettanto disprezzo. Al contrario, per tutto il tempo in cui Gerusalemme resistette e anche dopo, l'Apocalisse non fa distinzione alcuna all'interno dell'ebraismo, quasi che fosse esso IL Problema scomodo, e non piuttosto un mondo greco-romano dappertutto percepito come ostile e minaccioso alla sopravvivenza di Israele tutto.


  [Yarbro Collins] ... capisce l'Apocalisse di Giovanni come un ebraismo contro il giudaismo; cioè intende gran parte della sua energia diretta verso la denigrazione e la polemica intro-ebraica. La posizione che ho sostenuto intende invece che l'energia dell'Apocalisse di Giovanni dirige la sua energia e la sua polemica al di là del confine del giudaismo. Naturalmente, Giovanni vuole che altri ebrei si comportino e credano come lui, e, naturalmente, non avrebbe avuto problemi a trovare altri ebrei che non lo fanno. Tuttavia, la sua Apocalisse non è dedicata alla polemica contro di loro. Nella sua applicazione ad altri ebrei, allora, la frase "congregazione di Belial'' non è parallela alla "sinagoga di Satana". Invece di impostare l'Apocalisse di Giovanni contro gli ebraismi del suo tempo, mi sforzo di impostarlo al loro interno.
(pag. 200-201, mia libera traduzione e mia enfasi)


Laddove un autore protocattolico, che si chiami Marco, Matteo, Luca o Giovanni, mirerebbe per definizione a sentirsi a casa sua in tutta l'ecumene, in tutti gli angoli della terra - e possibilmente da padrone -,
  ...lo scrittore dell'Apocalisse ammonisce i suoi lettori a non sentirsi a casa in qualsiasi luogo della terra.
(pag. 202, mia libera traduzione)