venerdì 4 luglio 2014

Il Maestro e Margherita di Bulgakov: quando fantasticare sul Gesù storico diventa Elogio della Follia (non apologetica)

...Dunque tu chi sei? 
Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene.

(Goethe, Faust)



Non si può certo negare che in particolare l'incipit d'esordio del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov costituisca un autentico capovaloro della letteratura del 900, sia pure nella sua apparente incomprensibilità per il profano lettore. A interessarmene, lo confesserei fin da subito, è la menzione, forse la prima in un romanzo, dell'affermazione che Gesù non è mai esistito. Il primo miticista ufficiale che la Storia ricordi fu a dire il vero il deista Thomas Paine, l'uomo al quale Napoleone auspicò che ogni città d'Europa da lui conquistata dedicasse una statua. Ma Paine era un filosofo ma non uno scrittore, al contrario di Michail Bulgakov.
Il fatto curioso, però, è che il Bulgakov non dà mostra, dove ne parla, di tifare per l'una o per l'altra conclusione, se miticista o storicista. Ma è bene riassumere i fatti.

Il romanzo si apre con due intellettuali moscoviti che discutono mentre fanno colazione.
CAPITOLO PRIMO
Non parlare mai con sconosciuti 

Nell'ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni Patriaršie due persone. Il primo - che indossava un completo grigio estivo - era di bassa statura, scuro di carnagione, ben nutrito, calvo; teneva in mano una dignitosa lobbietta, e il suo volto, rasato con cura, era adorno di un paio di occhiali smisurati con una montatura nera di corno. Il secondo - un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci arruffati e un berretto a quadri buttato sulla nuca - indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri. 
Il primo altri non era che Michail Aleksandroviè Berlioz, direttore di una rivista letteraria e presidente di una delle piú importanti associazioni letterarie moscovite, denominata per brevità MASSOLIT; il suo giovane accompagnatore era il poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, che scriveva sotto lo pseudonimo Bezdomnyj.
Giunti all'ombra dei tigli che cominciavano allora a verdeggiare, gli scrittori si precipitarono per prima cosa verso un chiosco dipinto a colori vivaci, che portava la scritta «Birra e bibite».


Non si dice l'oggetto della discussione,
perchè all'inizio uno dei due, il direttore, ha quasi un'allucinazione, della durata di un attimo, di ''Un personaggio alto piú di due metri, ma stretto di spalle, magro fino all'inverosimile, e dalla faccia - prego notarlo - beffarda.'' Come sospeso in aria.
Qui successe una seconda stranezza, che riguardava soltanto Berlioz. A un tratto egli smise di singhiozzare il suo cuore diede un forte battito, per un attimo non si sentí piú, poi riprese, ma trafitto da un ago spuntato. Inoltre, Berlioz fu preso da un terrore immotivato, ma cosí potente che gli venne voglia di correre via senza voltarsi dagli stagni Patriaršie. Si guardò in giro angosciato, non comprendendo che cosa avesse potuto spaventarlo tanto. Impallidí, si asciugò la fronte col fazzoletto pensò: «Che cos'ho? Non mi era mai successo! Il cuore mi fa degli scherzi... Mi sono affaticato troppo... Forse è il momento di mandare al diavolo tutto quanto e di andarmi a riposare a Kislovodsk...»
A questo punto l'aria torrida gli si infittí davanti, e da essa si formò un diafano personaggio dall'aspetto assai strano. Un berretto da fantino sulla piccola testa, una giacca a quadretti striminzita, anch'essa fatta d'aria... Un personaggio alto piú di due metri, ma stretto di spalle, magro fino all'inverosimile, e dalla faccia - prego notarlo - beffarda.
La vita di Berlioz era cosí fatta che agli avvenimenti straordinari egli non era abituato. Impallidendo ancora di piú, spalancò gli occhi e pensò sconcertato: «Non è possibile!...»
Ma, ahimè, era possibile, e lo spilungone, attraverso il quale passava lo sguardo, oscillava davanti a lui senza toccare la terra. 
Allora il terrore s’impadroní a tal punto di Berlioz che egli chiuse gli occhi. Quando li riaprí, vide che tutto era finito, il miraggio si era dissolto, l'uomo a quadretti era sparito, e insieme l'ago spuntato gli era uscito dal cuore. 
- Accidenti, che diavolo! - esclamò il direttore. - Lo sai, Ivan, c'è mancato poco che mi venisse un colpo per il caldo! Ho avuto perfino una specie di allucinazione...
- tentò di ridacchiare, ma negli occhi gli ballava ancora l'inquietudine e le mani tremavano.
Però a poco a poco si calmò, si fece aria col fazzoletto, e proferendo con una certa baldanza: - Be', allora... - riprese il discorso che era stato interrotto dal succo di albicocca. 

Quando si ridesta e torna in sè immediatamente poco dopo,
si convince di quello che stava facendo, ovvero spiegare al suo subalterno interlocutore l'intrinseca ragionevolezza della tesi miticista, come rimedio agli errori storicisti del suo poema.
Questo discorso, come si seppe in seguito, riguardava Gesú Cristo. Infatti, il direttore aveva commissionato al poeta, per il prossimo numero della rivista, un grande poema antireligioso. Poema che Ivan Nikolaevič aveva composto, e in brevissimo tempo, ma purtroppo senza minimamente soddisfare il direttore. Bezdomnyj aveva tratteggiato il personaggio principale del suo poema, cioè Gesú, a tinte molto fosche, eppure tutto il poema, secondo il direttore, andava rifatto di sana pianta. Ed ecco che il direttore stava tenendo una specie di conferenza su Gesú, allo scopo di sottolineare il principale errore del poeta.  È difficile dire che cosa avesse sviato Ivan Nikolaevič se la potenza figurativa del suo ingegno o l'ignoranza totale del problema che si accingeva a trattare, fatto sta che il suo era un Gesú del tutto vivo, un Gesú che un tempo aveva avuto una sua esistenza anche se, a dire il vero, era un Gesú fornito di tutta una serie di attributi negativi. Berlioz invece voleva dimostrare al poeta che la cosa principale non era chi fosse Gesù, se fosse buono o cattivo, ma che questo Gesù storicamente non era mai esistito sulla terra e che tutti i racconti che si facevano su di lui erano semplici invenzioni, che si trattava di un normalissimo mito.
Occorre notare che il direttore era un uomo di vaste letture, e con gran perizia nel suo discorso si rifaceva agli storici antichi, al celebre Filone d'Alessandria ad esempio, e a Giuseppe Flavio, uomo di splendida cultura, che non avevano mai fatto la menoma menzione dell'esistenza di Gesú. Dando prova d'una robusta erudizione, Michail Aleksandrovič comunicò tra l'altro al poeta che quel passo del libro decimoquinto, capitolo 44, dei celebri Annali di Tacito, dove si parla della morte di Gesú, era un'interpolazione apocrifa molto posteriore. 
Il poeta, per il quale tutto ciò che gli veniva comunicato era una novità assoluta, ascoltava il direttore con attenzione, fissandolo coi suoi vivaci occhi verdi e solo a tratti emetteva un singhiozzo, imprecando sommessamente contro il succo di albicocca. 
- Non esiste una sola religione orientale, - diceva Berlioz, - in cui manchi, di regola, una vergine immacolata che metta al mondo un dio. E i cristiani, senza inventare nulla di nuovo, crearono cosí il loro Gesú, che in realtà non è mai esistito. E questo il punto sul quale devi insistere... 
L'alta voce tenorile di Berlioz si diffondeva nel viale deserto, e a mano a mano che Michail Aleksandrovič penetrava in un labirinto in cui solo una persona coltissima può penetrare senza correre il rischio di rompersi il collo, il poeta veniva a scoprire un numero sempre maggiore di cose interessanti e utili sull'egizio Osiride, dio benevolo e figlio del Cielo e della Terra, su Tammuz, dio fenicio, su Marduk, e perfino su un dio meno noto, ma terribile, Huitzilopochtli, un tempo molto venerato dagli aztechi del Messico. Ma proprio nel momento in cui Michail Aleksandrovič raccontava al poeta che gli aztechi foggiavano con pasta lievitata una figurina di Huitzilopochtli, nel viale apparve la prima persona.

Ad un certo punto, al sentire che ''Gesù non è mai esistito'', interviene a interrompere il dialogo tra i due un terzo individuo, il quale si mostra visibilmente interessato all'opinione dei due non solo su Gesù, ma anche su Dio.

- Tu, Ivan, - diceva Berlioz, - hai dato un bel quadro satirico, ad esempio, della nascita di Gesú, il figlio di dio. Ma il fatto è che prima di Gesú era nata tutta una serie di figli di dio, come, diciamo, l'Adone fenicio, l'Atti frigio, il Mitra persiano. Insomma, nessuno di loro è mai nato né esistito, neppure Gesú, ed è necessario che tu, invece di raffigurare la nascita oppure, diciamo, l'arrivo dei re magi metta in evidenza le assurde dicerie su questo evento. Se no, da quello che hai scritto, sembra che sia nato per davvero!... 
In quel mentre Bezdomnyj, trattenendo il respiro, tentò di far cessare il singhiozzo che lo tormentava, perciò gli venne un singulto ancora piú tormentoso e forte, e nello stesso istante Berlioz interruppe il suo discorso perché il forestiero si era alzato all'improvviso e si era diretto verso i due scrittori.
Questi lo guardarono sorpresi.  - Vogliano scusarmi, - disse egli con accento straniero ma senza storpiare le parole, - se io, pur non conoscendoli, mi permetto... ma l'argomento della loro dotta conversazione è talmente interessante che... 
Qui si tolse urbanamente il berretto, e agli amici non rimase altro da fare che alzarsi e salutare. 
«No, è piuttosto francese...», pensò Berlioz. 
«Un polacco?...», pensò Bezdomnyj. 
Si deve aggiungere che sin dalle prime parole il forestiero aveva prodotto una pessima impressione sul poeta mentre a Berlioz era andato piuttosto a genio, cioè, non che gli fosse andato a genio ma, come dire... lo aveva incuriosito. 
- Posso sedermi? - chiese gentilmente, gli amici si scostarono meccanicamente, il forestiero si sedette svelto tra loro ed entrò subito nella conversazione.
- Se non ho sentito male, lei stava dicendo che Gesú non è mai esistito - disse volgendo verso Berlioz il suo occhio sinistro verde. 
- No, ha sentito benissimo, - rispose con cortesia Berlioz, - stavo proprio dicendo questo. 
- Oh, com'è interessante! - esclamò il forestiero. 
«Che diavolo vuole costui?», pensò Bezdomnyj e aggrottò la fronte. 
- E lei era d'accordo col suo interlocutore? - s'informò lo sconosciuto volgendosi a destra verso Bezdomnyj. 
- Al cento per cento! - confermò questi, che amava esprimersi in modo metaforico e ricercato. 
- Stupefacente! - esclamò l'inatteso interlocutore, e, gettata intorno un'occhiata furtiva, e smorzando la voce già bassa, disse: - Vogliano scusare la mia insistenza, ma mi sembra di aver capito che, oltre tutto, loro non credono in dio -. I suoi occhi presero un'espressione spaventata, ed egli aggiunse: - Giuro che non lo dirò a nessuno! 
- Infatti, non crediamo in dio, - rispose Berlioz, sorridendo lievemente del timore del turista straniero, - ma di questo si può parlare con la massima libertà. 
Il forestiero si appoggiò allo schienale della panchina, e chiese, quasi stridulo di curiosità: 
- Loro sono atei? 
- Sí, siamo atei, - rispose Berlioz sorridendo, mentre Bezdomnyj pensava arrabbiato: «Che rompiscatole, questo straniero!»
- Ma che bellezza! - esclamò il sorprendente forestiero e cominciò a girare la testa di qua e di là guardando ora l'uno ora l'altro letterato. 
- Nel nostro paese, l'ateismo non stupisce nessuno, disse Berlioz con diplomatica cortesia. - Da tempo la maggior parte della nostra popolazione ha consapevolmente smesso di credere alle fandonie su dio. 
A questo punto lo straniero ebbe questa uscita: si alzò e strinse la mano allo stupito direttore, proferendo queste parole: 
- Mi permetta di ringraziarla di tutto cuore! 
- Perché lo ringrazia? - chiese Bezdomnyj sbattendo le palpebre. 
- Per un'importantissima informazione che per me, viaggiatore, è del massimo interesse, - spiegò lo strambo forestiero alzando un dito con fare significativo.
L'importante informazione doveva aver impressionato molto il viaggiatore, perché lanciò tutt'intorno un'occhiata spaurita alle case come se temesse di vedere un ateo ad ogni finestra. 
«No, non è inglese», pensò Berlioz, mentre Bezdomnyj pensava: «Dove avrà imparato il russo cosí bene, lo vorrei proprio sapere», e aggrottò di nuovo la fronte. 
- Mi permetta di domandarle, - riprese l'ospite dopo una preoccupata riflessione, - che ne fa delle prove dell'esistenza di dio, le quali, come è noto, sono esattamente cinque?  - Ohimè, - rispose Berlioz con commiserazione, - nessuna di queste dimostrazioni vale un soldo, e da tempo l'umanità le ha messe in archivio. Deve convenire che nella sfera della ragione non ci può essere alcuna prova dell'esistenza di dio. 
- Bravo! - esclamò lo straniero, - bravo! Lei ha ripetuto per intero il pensiero del vecchio irrequieto Immanuel. Ma guardi la stranezza: egli distrusse fino in fondo le cinque prove, ma poi, come per dar la baia a se stesso, ne ha costruito proprio lui una sesta. 


E man mano che sosddisfava il suo interesse,
destava quello sconosciuto un misto di allarme e curiosità nei primi due individui, nonchè un impenetrabile senso del mistero.  Derivato in ultima istanza dalla manifesta stranezza di quello strano curioso. Il quale darà subito un serio motivo di dubitare della sua sanità mentale allorchè, dopo aver spiegato la sua teoria sul Gesù storico - in contrapposizione dunque al dichiarato miticismo del direttore - alla domanda di quest'ultimo su quale prova recasse a favore della storicità di Gesù, così risponde:
- Di che cosa si occupa? - s'informò Berlioz. 
- Sono un esperto di magia nera. 
«Perbacco!...» pulsò nella testa di Michail Aleksandrovič. 
- E... e l'hanno invitato qui per questo? - chiese, dopo un singulto. 
- Precisamente, - confermò il professore, e spiegò: Nella Biblioteca di Stato hanno scoperto manoscritti originali del negromante Gerbert d'Aurillac, del decimo secolo. Occorre che io li decifri. Sono l'unico specialista al mondo. 
- A-a-ah! Lei è uno storico? - chiese Berlioz con grande sollievo e rispetto.
 - Sí, - confermò lo scienziato, e aggiunse senza alcun nesso: - Questa sera ci sarà un incidente interessante ai Patriaršie.  Di nuovo il direttore e il poeta si stupirono immensamente ma il professore fece a entrambi un cenno perché si avvicinassero e quando si chinarono verso di lui, sussurrò: 
- Tengano presente che Gesú è esistito. 
- Vede, professore, - replicò Berlioz con un sorriso forzato, - noi rispettiamo il suo vasto sapere, ma al proposito abbiamo un punto di vista diverso. 
- Non c'è bisogno di alcun punto di vista, - rispose lo strano professore, - è semplicemente esistito e basta. 
- Ma ci vuole qualche prova... - cominciò Berlioz. 
- E neppure di prove c'è bisogno, - rispose il professore,
e parlò con voce sommessa: la sua pronuncia straniera era scomparsa. - È tutto molto semplice: al mattino presto del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere...


(Non posso fare a meno di notare con una certa punta di sarcasmo che anch'io, discutendo con folli apologeti del net cristiani e non, ho sperimentato aihmè lo stesso genere di dogmatismo, pur con tutte le mie migliori intenzioni, allorchè mi sentivo replicare frasi come  ''è semplicemente esistito e basta.'')


Ecco la sua prova della storicità di Gesù:
Questi disse infatti guardando con attenzione il volto dello straniero: - Il suo racconto è estremamente interessante, professore, anche se non corrisponde affatto a quanto raccontano i vangeli.
- Per carità, - ridacchiò con condiscendenza il professore, - lei piú di tutti deve pur sapere che niente di quanto è scritto nei vangeli è mai successo; se cominciamo a considerare il vangelo come una fonte storica... - ridacchiò ancora una volta, e Berlioz restò di sasso perché aveva detto le stesse identiche cose a Bezdomnyj mentre camminavano lungo la Bronnaja diretti verso gli stagni Patriaršie.
- Sono d'accordo, - rispose Berlioz, - ma temo che nessuno ci potrà confermare che quello che lei ci ha raccontato, è avvenuto per davvero.
- Oh no! C'è chi lo può confermare! - rispose con straordinaria sicurezza il professore, cominciando a storpiare le parole, e con un'inaspettata aria di mistero fece segno ai due di avvicinarsi.
Questi si chinarono verso di lui da entrambi i lati, ed egli disse, questa volta con un'ottima pronuncia che (chi sa perché) ora gli veniva e ora spariva:
- Il fatto è... - qui il professore si guardò intorno con fare impaurito, e proseguí in un sussurro: - che ho assistito personalmente a tutto questo. Ero sul balcone con Ponzio Pilato, nel giardino quando parlava con Caifa, e sul palco, ma in segreto, in incognito, per cosí dire; vi prego quindi di non farne parola con nessuno e di serbare il segreto piú assoluto, tsss...
Subentrò il silenzio, e Berlioz impallidí.

Per i suoi interlocutori, quella risposta ebbe il sapore di un'autentica rivelazione. Poichè avevano finalmente la giusta risposta ai loro dubbi, nonchè la conferma dei loro più reconditi sospetti: quell'uomo era matto. Matto da legare.
- Sí, sí, sí, - diceva eccitato Berlioz, - del resto, tutto questo è possibile... anzi, possibilissimo, e Ponzio Pilato e la loggia, eccetera, eccetera... Lei è venuto qui da solo o con la sua signora?
- Solo, solo, sono sempre solo, - rispose amaro il professore.
- Dov'è la sua roba, professore? - indagava con aria insinuante Berlioz. - Al Métropole? Dove alloggia?
- Io?... Da nessuna parte, - rispose il tedesco pazzo mentre il suo occhio verde sorvolava, malinconico e stralunato, l'acqua dello stagno.
- Come?... Ma allora... dove abiterà?
- Nel suo appartamento, - rispose con disinvoltura il pazzo, e ammiccò.
- Io... ne sarò lietissimo... - borbottò Berlioz, - ma veramente, a casa mia non starà comodo... al Métropole, invece, ci sono camere splendide, è un albergo di prim'ordine...
- E neppure il diavolo esiste? - chiese allegramente l'alienato a Ivan Nikolaevič. - Neppure... - Non contraddirlo, - disse Berlioz col solo movimento delle labbra, nascondendosi d'impeto dietro le spalle del professore e facendo smorfie.
- Non c'è il diavolo! - esclamò Ivan Nikolaevič, confuso da tutto quel garbuglio. - Proprio a me doveva capitare? La smetta di dare i numeri!
Qui il folle scoppiò in una risata tale che dal tiglio sopra le loro teste si alzò in volo un passero.
- Questa sí che è bella, - proferí il professore, ridendo a crepapelle. - Ma come mai? Di qualunque cosa si parli, non c'è mai niente! - Cessò di ridere all'improvviso e, cosa comprensibilissima in un malato di mente, dopo il riso cadde nell'estremo opposto, si irritò e gridò con severità: - Dunque, non c'è per davvero? 
- Si calmi, si calmi, si calmi, professore, - borbottava Berlioz, temendo di agitare il malato. - Stia seduto qui un momentino col compagno Bezdomnyj, corro qui all'angolo, faccio una telefonatina, poi la accompagniamo dove vuole. Lei non conosce la città...
Si deve ammettere che il piano di Berlioz era giusto: occorreva fare una corsa fino al piú vicino telefono pubblico e comunicare all'ufficio stranieri che un consulente arrivato dall'estero si trovava agli stagni Patriaršie in uno stato tutt'altro che normale. Bisognava perciò prendere delle misure, se no sarebbe successo un pasticcio.


E nella tensione derivata dal dover subito correre ai ripari e in fretta, sotto l'impellente necessità di dover segnalare al primo manicomio la presenza di quel folle in libera circolazione, quasi fosse peggio del crimine consentire ad un folle di aggirarsi libero per la strada, il direttore non fa a tempo a guardarsi alle spalle che viene travolto tragicamente da un tram, con un epilogo tragico quanto grottesco di quella quasi-farsa:
Il prudente Berlioz, benché fosse al sicuro, decise di tornare dietro il cancello, spostò la mano sul tornello e arretrò di un passo. In quell'istante la sua mano scivolò e perse l'appoggio, il piede, come se si fosse trovato sul ghiaccio, sdrucciolò inarrestabile sul selciato che scendeva declive verso le rotaie, l'altro piede volò in aria, e Berlioz fu sbalzato sulle rotaie.
Tentando di aggrapparsi a qualcosa, Berlioz cadde riverso, urtando leggermente la nuca sul selciato, e fece in tempo a vedere in alto, se a destra o a sinistra questo ormai non lo capí, la luna dorata. Riuscí a girarsi sul fianco, stringendo con un movimento impetuoso le gambe alla pancia, e, voltatosi, vide slanciarglisi addosso con una forza irrefrenabile il volto, completamente bianco di terrore, della conducente e il suo fazzoletto scarlatto. Berlioz non emise un grido, ma intorno a lui tutta la via strillò in un coro di disperate voci femminili. La conducente diede uno strappo al freno elettrico, la vettura s'impuntò, poi sobbalzò all'istante, e con uno schianto e un tintinnio i vetri volarono via dai finestrini. Allora nel cervello di Berlioz qualcuno gridò disperatamente: «Possibile?...» Ancora una volta - l'ultima - balenò la luna, ma ormai rovinando in pezzi, poi fu buio.
Il tram coprì Berlioz, e, sotto il cancelletto del viale Patriaršij, sul pendio lastricato fu gettato un oggetto tondo e scuro, che rotolò giú dalla china, saltellando sul selciato.  Era la testa mozzata di Berlioz.

Come il lettore a quel punto avrà già intuito, quello stano individuo, così insistentemente e dogmaticamente storicista, era nientemeno che il Diavolo, Satana, l'Antico Avversario, giunto a Mosca sotto le spoglie di un mago per sconvolgere la pigra routine della Capitale sovietica. Il suo mestiere, per così dire, lì a Mosca, nella capitale dell'Ateismo di Stato e del miticista Lenin (il quale, ricordiamo, divenne miticista dopo essere stato persuaso in tal senso dal tedesco Arthur Drews), era di tastare, sperimentare, quasi toccare con mano, la strana flaccidia spirituale che aveva investito la società russa sotto la dittatura sovietica, una flaccidia dal riflesso quasi plastico e manifesto nella più totale mancanza della prima caratteristica dell'uomo libero: la fantasia e la capacità di sognare. L'Homo Sovieticus, in altri termini, non sognava più. Era letteralmente privo di fantasia. Ridotto ad un automa, ad un mero ingranaggio destinato all'eterna auto-consumazione di sé, in quell'enorme catena di montaggio che fu storicamente l'U.R.S.S.
E sintomo di quella invincibile incapacità di sognare, di percepire anche solo soltanto con la pura e sola forza dell'immaginazione l'enorme territorio del solo possibile -- del solo possibile, ricordiamolo ancora una volta, e non dell'anche probabile - era e restava l'incapacità congenita di poter concepire un Gesù storico. E ci voleva di sicuro molta, troppa fantasia per poter immaginare un Gesù storico della stessa lega di quello immaginato, anzi testimoniato!, dal Diavolo di Bulgakov: un sedizioso antiromano proveniente da Gamala, tanto per cominciare.
- Nome? 
- Il mio? - replicò in fretta l'arrestato, esprimendo con tutto il suo atteggiamento che intendeva rispondere a tono, senza piú provocare l'ira. 
Il procuratore disse con voce sommessa:  - Il mio lo so. Non far finta di essere piú stupido di quanto sei. Il tuo. 
- Jeshua, - rispose rapido l'accusato. 
- Hai un soprannome? 
- Hanozri. 
- Di dove sei? 
- Della città di Gamala, -
rispose l'arrestato indicando con un movimento della testa che laggiú, lontano, alla sua destra, verso nord, esisteva una città chiamata Gamala.

E allora, cosa ha fatto evidentemente Bulgakov?


Sventolare un bizzarro ed eccentrico Gesù storico, come fa appunto il Diavolo all'inizio del suo romanzo, diventa un sintomo di libertà dinanzi al cupo grigiore del miticismo (ed ateismo) in salsa sovietica, di una società colpevole prima di tutto di aver perso, oltre a Dio, oltre a Gesù, oltre allo stesso Diavolo, anche il gusto stesso della vita e della libertà e della fantasia. Per Bulgakov lo scrittore, allora, e per il Diavolo nel suo romanzo, il Gesù storico aveva una precisa funzione nell'essere sventolato quasi irrazionalmente (fino al grottesco) dinanzi a due attoniti miticisti negatori dell'esistenza di Dio e del suo opposto che è il Diavolo: alla loro Ragione, alla Razionalità del Mito di Cristo (imposto però con la forza) che tutto illumina e che rischierebbe di far sì che ''la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura'', si contrappone la Follia più libertaria e disconnessa, all'insegna del Gesù storico più indimostrato e bizzarro che mai si possa immaginare (nientemeno che il Gesù storico gamaliota sedizioso antiromano).

Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano,
ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia.
Infuse nell'uomo più PASSIONE che ragione perchè fosse tutto meno triste,
difficile, brutto, insipido, fastidioso.
Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza,
la vecchiaia neppure ...esisterebbe.
Se solo fossero più leggeri, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza.
La vita umana non è altro che un gioco della FOLLIA.
Il cuore ha sempre ragione.

(Erasmo da Rotterdam)

 

 Contrapporre ai miticisti sovietici il Gesù storico è indubbiamente un atto di libertà, un elogio della follia, ma non quella apologetica, la follia degli stronzi e dementi apologeti delle varie chiese cristiane sotto mentite spoglie che vogliono tappare la bocca ai miticisti dovunque si presentino, bensì, nella migliore traduzione erasmiana e pre-illuminista, un elogio della Follia PER SE, un elogio della capacità tutta umana di sbagliare - perchè, in definitiva, credere nel Gesù storico È un atto di profonda irrazionalità, comunque lo si voglia nascondere - perchè solo sbagliando l'uomo è libero, e solo sbagliando si può imparare dai propri errori. E infine correggersi.
L'esatto motivo per cui, al termine di una libera e infruttuosa, quanto sterile e pomposa, ''Ricerca del Gesù Storico'', più o meno avulsa e detersa da ogni condizionamento ideologico o religioso di qualunque sorta, si deve riconoscere serenamente che quel Gesù storico non è mai veramente esistito, senza dover neppure ostinarsi a persuadere i creduloni e coloro che vogliono, per loro limite innato, rimanere tali.

Con buona pace perfino del Diavolo storicista di Bulgakov.