domenica 6 luglio 2014

Del vero scopo di Paolo prima e dopo la sua conversione a Cristo Gesù

C'è un passo nella lettera ai Galati che mi ha fortemente impressionato, perchè getta nuova luce nel tormentato e controverso rapporto tra Paolo e i Pilastri, e si tratta di Galati 6:12.
Tutti coloro che vogliono far bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere e ciò al solo fine di non essere perseguitati a causa della croce di Cristo.

Sembra quasi che Paolo volesse insinuare che i suoi avversari, insediatisi nella sua comunità, ovvero il cosiddetto ''partito dei circoncisi'', pretendessero la circoncisione (e come corollario, il rispetto delle norme alimentari ebraiche) non solo per preservare l'ebraicità originaria del movimento a fronte del notevole afflusso di nuovi proseliti pagani, ma anche e soprattutto perchè solo assicurando il rispetto almeno esteriore delle pratiche ebraiche (la circoncisione in primis) si poteva rendere il movimento cristiano appetibile agli occhi degli altri giudei, e guadagnare da parte loro, da ultimo, se non la conversione, almeno la tolleranza. Dunque così si spiega perchè il fariseo Paolo perseguitò la chiesa dei Pilastri prima di convertirsi. Ovviamente non bisogna intendere la persecuzione nei termini leggendari sfacciatamente apologetici in cui la volle vendere di proposito la tendenziosa  propaganda cattolica di Atti degli Apostoli, a maggior ragione se per ostacolare un movimento del genere a Paolo era sufficiente diffamarlo a dovere, dicendone tutto il male possibile tra la gente e presso le autorità: in una parola, diffamandolo pubblicamente in tutte le sedi pubbliche (ottenendo in qualche caso perfino la condanna a morte di qualche suo adepto).
Ricordiamo che la predicazione della Croce era uno ''scandalo per i giudei'', ma uno scandalo che poteva venire tollerato (al modo in cui poteva esserlo presso i pagani in quanto mera ''follia'') dall'ebraismo ufficiale solo a patto di non costituire per se una minaccia alla stessa cultura e tradizione ebraica: i Pilastri erano tollerati freddamente a Gerusalemme invece d'essere perseguitati, nonostante credessero nello ''scandalo'' della Croce, per la semplice ragione che costringevano i loro proseliti di Giudea, se gentili, a farsi circoncidere.  Da questo punto di vista, l'ambiente ebraico di Gerusalemme esercitava sui Pilastri in qualche modo una pressione e un condizionamento indiretti dai quali Paolo nelle altre città dell'Impero era pressochè esente. Per questo Paolo, dopo la conversione, rimase poco tempo a Gerusalemme la prima occasione in cui si incontrò con Pietro mentre trattò in segreto coi Pilastri durante la seconda occasione. Il primo incontro con Pietro fu probabilmente pubblico e formale, perchè Paolo stesso, pur di convincere i Galati della sua buona fede, necessitò di incontrare il maggior numero di persone per chiamarli eventualmente a testimonianza verace della sua avvenuta conversione: non solo Pietro, non solo gli apostoli (se ebbe la fortuna di trovarli a Gerusalemme in quei giorni), ma anche Giacomo, ''il fratello del Signore'' (al di là di cosa questo volesse poi significare).
Il secondo incontro con i Pilastri avvenne invece in gran segreto -  quasi ricalcando la segretezza delle religioni misteriche pagane più esoteriche -, per impedire alla ormai famigerata fama anti-Torah di Paolo di precederlo, destando allarme e preoccupazione a Gerusalemme non solo nel partito dei circoncisi ma anche tra gli ebrei anticristiani, la cui intolleranza anticristiana sarebbe riesplosa con o senza più Paolo tra le loro fila.

Quindi tre aspetti sembrano chiari, da questa mia analisi:


1) che gli ebrei tradizionali non vedevano di buon occhio la predicazione della Croce, considerandola uno ''scandalo'', nonostante fossero ebrei in tutto e per tutto i suoi promotori.

2) che quella disapprovazione della Croce da parte ebraica rischiava in qualunque momento di sfociare in aperta intolleranza (fino alla persecuzione fisica) qualora alla predicazione della Croce si accompagnasse anche il solo sentore del consentito ripudio della circoncisione e con essa, impliciter, dell'accusa di tradimento della propria ebraicità. Ne deriva come corollario che ad avere maggiore motivo di odiare i cristiani, in virtù delle loro eccessive concessioni ai gentili, erano proprio i più gelosi, tra gli ebrei, della propria identità culturale e religiosa.

3) che i Pilastri, stando a Gerusalemme, si guadagnavano giorno dopo giorno la loro tolleranza e sopravvivenza in parte grazie ai fondi inviati loro da apostoli come Paolo per provvedere al loro sostentamento, in parte assicurando al pubblico pressochè ebraico di Gerusalemme la fedeltà alla loro ebraicità di fondo con tanto di ossequioso rispetto della Torah e di esortazione alla circoncisione almeno ai gentili di Gerusalemme.

Dunque Paolo, da fariseo, perseguitò la chiesa giudeocristiana perchè, avendo quella chiesa dato inizio alla predicazione ai non ebrei residenti fuori della Giudea, evidentemente già aveva concesso, ancor prima della sua conversione, a quei medesimi neoconvertiti gentili (specie se ''ex timorati di Dio'') l'abbandono della circoncisione e di riflesso dell'intera Torah.
Paolo era stato così ''zelante nella tradizione dei Padri'' da ricercare e ottenere la persecuzione dei cristiani forse non in Giudea (oppure, non solo in Giudea) ma diffidando gli ebrei della Diaspora dall'accogliere i missionari cristiani: ai suoi occhi di fariseo conservatore, i cristiani erano colpevoli in primo luogo di tradimento della propria appartenenza religiosa, dal momento che non costringevano i pagani a diventare ebrei, col battesimo. Dopo la sua conversione, la chiesa continuò a ricevere l'ostilità degli ebrei per lo stesso motivo, ma i Pilastri cercarono in tutti i modi di rivendicare la loro (eventualmente maggiore) fedeltà alla tradizione ebraica, non esitando ad accusare altri come Paolo di volersi sbarazzare troppo facilmente di ogni legame con l'ebraismo e del rispetto della Torah. Forse i Pilastri ci riuscirono, per qualche tempo, nel tentativo di presentarsi come ebrei in nulla diversi dagli altri (in fondo, non erano i soli tra gli ebrei a venerare un essere cosmico intermediario tra l'uomo e Dio), o forse no (se c'è qualche nucleo storico dietro la leggenda del martirio di Giacomo il Giusto che affiora in Egesippo e forse anche qualche legame tra questa leggenda e la creazione del fittizio proto-martire cattolico noto come ''Stefano'' - ''Corona'', evidentemente del martirio - di Atti degli Apostoli).
Fatto sta che molto probabilmente anche prima della sua conversione Paolo era un apocalittico, e tale rimase, nonostante cessò di essere fariseo.
Già prima di diventare cristiano, Paolo credeva di essere stato scelto da Dio, ancor prima della sua nascita, per compiere una speciale missione. Persino la sua persecuzione ai danni dei primi che ''videro'' Gesù faceva parte del piano di Dio, dato che l'apparente ''voltafaccia'' di Paolo avrebbe conferito maggiore impatto alla sua predicazione per conto del Signore.
 È curioso che lo stesso Paolo non offra alcun dettaglio della sua conversione nelle lettere, limitandosi a dire che Dio ''scelse di rivelare suo Figlio in me'' (e non ''a me'' come appare in molte traduzioni ''ufficiali'', tra cui quella italiana della CEI).
 Quindi sono dell'idea che Paolo seppe dei cristiani, nonostante fossero così pochi, a causa del suo interesse, da apocalittico qual era, verso i movimenti apocalittici marginali rispetto all'ebraismo ufficiale. Da cittadino romano (se questo è ciò che il suo nome lascia intuire) o da fariseo filoromano (come il suo enfatizzato ossequio alle autorità lascia pensare) o da tutte e due le cose, Paolo non poteva accettare che l'apocalitticismo ebraico si declinasse nell'indirizzo zelota e/o filo-zelota (a la Qumran) e da fariseo non poteva neppure accettare una critica più o meno implicita al culto del Tempio, come si manifestava nei profeti apocalittici più o meno anti-sistema dell'epoca (vedi Giovanni il Battista). Ma neppure poteva accettare che i non ebrei venissero salvati nel gran giorno della Fine: era sua piena convinzione invece che la piena salvezza degli ebrei e la distruzione dei non ebrei fosse collocabile nel futuro prossimo, in quanto solo gli ebrei erano i legittimi depositari del favore divino come garanzia presente della salvezza divina. Per questo motivo, quello che stavano facendo i primi cristiani, costituiva agli occhi del Paolo pre-cristiano un pervertimento delle sue più sincere speranze apocalittiche: i cristiani avevano introdotto prima di Paolo l'idea rivoluzionaria che i non ebrei potessero salvarsi nel giorno della Fine senza essere prima diventati ebrei in tutto e per tutto. Il Paolo fariseo non poteva accettare un'idea del genere, perchè per lui equivaleva a introdurre implicitamente l'idea che l'ebraismo non fosse poi così fondamentale e necessario, contrariamente a cosa aveva sempre creduto, per scongiurare la distruzione dell'intera umanità, perfino della sua sola parte ''migliore'', agli occhi di Dio. Ma con la sua conversione, Paolo capì di dover portare fino alla più estrema e rigorosa applicazione pratica quell'innovazione cristiana: portare la salvezza a tutti i non ebrei più di quanto l'avessero già portata i primi cristiani prima di lui, perchè solo così poteva ad un tempo anche salvarsi (e correggersi) l'intera civiltà ebraica nel suo complesso.
Paolo non fu di certo il primo a favorire l'armoniosa convivenza tra ebrei e gentili, ma fu il primo a farne il preciso marchio distintivo della sua predicazione, al punto di associare per sempre quella politica di apertura ai non ebrei al suo nome, nel bene e nel male.
Paolo era profetico, in fondo: percepiva l'oscuro presentimento che il gran giorno della Fine doveva passare ineluttabilmente per la distruzione della Giudea e del Tempio di Gerusalemme, complice la stessa riottosità ebraica, prima o poi. Ma se già prima della sua conversione cercava un modo di migliorare l'apocalitticismo ebraico per farne uno strumento di risanamento morale e sociale del popolo ebraico, una volta scontratosi con l'impossibilità materiale di farlo (a causa dei molteplici e contradditori modi alternativi, difficilmente tra loro conciliabili, in cui si declinava per un ebreo l'esser apocalittico), Paolo ''scelse'' di sentirsi predestinato da Dio - e dalla sua ipostasi, Gesù - a completare fino in fondo la missione che lo stesso Dio aveva da poco fatto iniziare ai cristiani: risanare il mondo con l'estremo e ultimo messaggio di salvezza, finalmente svelato dopo millenni, prima della Fine.
Quella di Paolo non fu la conversione alla quale siamo abituati a pensare, da una vecchia religione ad una nuova religione. Non fu un drastico cambiamento del suo destino ultimo e designato ''fin dal seno di mia madre'' (Galati 1:15) -- l'intima percezione di preparare sé e gli altri ebrei al temuto gran giorno della Fine -- ma fu l'acquisizione di una maggiore consapevolezza della propria missione ultima e soprattutto DEL MODO in cui poterla portare a termine con successo: ossia partecipando delle stesse visioni e rivelazioni del Cristo celeste delle prime comunità cristiane.
CONCLUSIONE:
1) Da Galati 6:12 vengo a sapere che i Pilastri ricercavano l'approvazione degli altri ebrei (e così, di essere in qualche modo legittimati nel loro desiderio di mantenersi entro i confini dell'ebraismo) predicando la circoncisione come prerequisito indispensabile al battesimo. Se non l'avessero fatto in primis almeno i cristiani residenti a Gerusalemme, sarebbero stati come minimo ostracizzati dal resto del popolo ebreo e forse di quella ostilità ne avrebbero patito anche le peggiori conseguenze fisiche. In altre parole, il fariseo Paolo non era il solo ad aver attentato alla vita dei primi cristiani.

2) Questo mi ha indotto a pensare che il movente più plausibile - perchè letto nell'immediato contesto di Galati - alla base della persecuzione dei cristiani da parte del fariseo Paolo (dunque prima della sua conversione) è proprio la sua opposizione naturale, da ebreo e fariseo, al vedere altri ebrei che consentono ai gentili di partecipare al loro stesso culto (che ricordiamolo: era un culto misterico ebraico imperniato attorno ad un dio che muore e risorge) senza diventare a loro volta ebrei ma rimanendo gentili a tutti gli effetti pratici, e dunque in definitiva svendendo a scopi di mero proselitismo religioso l'appartenenza culturale all'ebraismo e perciò macchiandosi di tradimento del più vero e autentico spirito della Torah.

3) Da Galati 1:15 vengo a sapere che Paolo si sentiva un predestinato da Dio ancor prima della sua conversione: in altre parole, Paolo parlava e operava già come un apocalittico ancor prima di ''vedere'' Cristo Gesù.
Proprio come apocalittico, Paolo giunse a contatto con uno dei principali (se non il principale) movimenti apocalittici marginali ebraici del suo giorno.

4) Paolo da ultimo si convertì perchè intravide nella declinazione cristiana dell'apocalitticismo ebraico una specie di teodicea ai mali inguaribili dei quali pativa la civiltà ebraica, in un momento così travagliato e foriero di incipienti sventure della sua Storia: se gli ebrei -  e soprattutto gli ebrei ''apocalittici'' - non fossero riusciti a trovare nel cristianesimo in generale, e nel cristianesimo paolino in particolare, un efficace compromesso di armoniosa convivenza (e dunque, sopravvivenza) con i gentili, allora la Fine dell'intera civiltà ebraica, temeva Paolo, si sarebbe profilata all'orizzonte ancor di più.

Perchè, rischiando continuamente di equivocare sui modi e sui termini in cui quel nuovo apocalittico Ordine Mondiale sarebbe stato imposto da Dio nel giorno della finale apocalisse, quello stesso apocalitticismo ebraico rischiava di risvegliarsi, in misura crescente, come una delle cause, se non la causa principale, che avrebbe favorito da ultimo l'insurrezione generale di tutti gli ebrei contro i romani.

In tutte le sue lettere è fin da subito chiaro quello che stava facendo Paolo:
voler creare una comunità in grado di trascendere per sempre tutti i pregiudizi razziali e sociali e comprendere ogni individuo, per porre fine fondamentalmente ad ogni disgraziata tensione tra Roma e il popolo di Dio, indicando la via della pace e della convivenza armoniosa. Ecco il Nuovo Israele quale doveva essere per Paolo: una comunità che realizzasse finalmente l'utopia della fratellanza universale con i suoi soli sforzi, senza violenza o sedizione. Totalmente libera dall'influenza, che sempre nascondeva una pervicace manipolazione, del corrotto Sinedrio, dai corrotti sadducei come pure dalle caste (economiche, politiche o militari) greco-romane. Paolo cercò con ogni mezzo e con ogni sforzo di perseguire questa sua utopia peregrinando per tutto l'impero romano:
Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
(1 Corinzi 9:23)

Sorprende forse il suo straordinario successo? Certamente Paolo non guadagnò tutto il mondo al suo Cristo Gesù. Ma riuscì tuttavia nel vendere un'idea davvero bella e attraente, e di certo possedeva tutte le qualità e la cultura necessarie per presentare quell'idea al pubblico in qualunque modo allettante avesse desiderato, convincendo e persuadendo senza posa chi lo ascoltava.
Se non ci fosse stato Paolo, non ci sarebbe stato il cristianesimo come oggi lo conosciamo. Il suo ruolo nel salvaguardare la sopravvivenza del cristianesimo, per garantire come secondo fine quella dell'ebraismo in un mondo sempre più minaccioso, non deve affatto essere trascurato.


E dunque Paolo non solo fallì nella sua previsione apocalittica (in nulla di diverso, sotto questo punto di vista, da qualsiasi altro profeta millennarista) ma non riuscì ad evitare che l'esito esasperato di quell'accesso apocalitticismo venisse coniugato da ultimo con il messianismo militare di stampo zelota, portando irrimediabilmente all'inevitabile Disastro del 70 e alle schizofreniche e allucinate visioni del Cristo xenofobo e antipaolino dell'Apocalisse.