lunedì 23 giugno 2014

Dell'Angelo necessario

L'ANGELO NECESSARIO


Io sono l'Angelo della realtà,
intravisto un istante sulla soglia.

Non ho ala di cenere, né di oro stinto,
né tepore d'aureola mi riscalda.

Non mi seguono stelle in corteo,
in me racchiudo l'essere e il conoscere.

Sono uno come voi, e ciò che sono e so
per me come per voi è la stessa cosa.

Eppure, io sono l'Angelo necessario della terra,
poichè chi vede me vede di nuovo

la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto

monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d'acqua; come un significato

che si cerchi per ripetizioni, approssimando.
O forse io sono soltanto una figura a metà,

intravista un istante, un'invenzione della mente,
un'apparizione tanto lieve all'apparenza

che basta ch'io volga le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?


(W. Stewens, da Angel surrounded by paysans, mia enfasi)
L'Angelo necessario (Adelphi, 2008) è un libro del filosofo veneziano Massimo Cacciari che, a detta dello stesso autore, ambisce ''a chiarire il problema teologico e filosofico dell'Angelo'', problema che fa del testo l'ennesimo, incomprensibile polpettone gnostico come ne esistono fin troppi in giro, e che tuttavia non assilla evidentemente l'autore: ''ma coloro i quali mai hanno meditato la sentenza plotiniana «sempre l'anima metaforizza», continueranno a ignorarlo. E così sia.'' Dunque mi si perdonerà se, dopo averci dato una rapida occhiata, non ho capito una grinza del libro.

Eppure ne subisco il fascino suggestivo. Perchè va ad esplorare i mille rivoli diversi in cui si è ''approfondita'' nelle varie epoche e istanze mistico-filosofiche l'angeologia.

L'interesse per gli angeli mi deriva dal fatto che il Gesù di Paolo era un arcangelo celeste e ipostasi divina, entità cosmica, pre-esistente al mondo e co-creatore con Dio stesso.

E nella descrizione che dà Massimo Cacciari della figura dell'Angelo per se, immancabile sopravviene in me il continuo riferimento all'oggetto dell'estasi paolina:
Nel suo guidare dalle cose visibili alle invisibili, l'Angelo è figura di quella anagogia, di quel sensus anagogicus, che attiene alla vita futura e alle cose celesti. Esso edifica, anzi: fonda la speranza per la Gerusalemme celeste, oltre il movimento allegorico, che attiene alla edificazione della fede, e a quello della tropologia, che edifica la carità. L'anagogia può condurre hic et nunc ad una sorta di visione dell'eschaton, «ad contemplanda mysteria caelestia». Ma per quanto alto voli, mai neppur essa potrà disvelare il vero Volto di Dio. «Quaerite faciem eius semper; ut non huic inquisitioni, qua significatur amor, finem praestet inventio, sed, amore crescente, inquisitio crescat inventi» (Agostino, In Psalmos, 104).
Lo studio della Scrittura e l'ascesa attraverso i suoi sensi possono concludersi nella grazia dell'ek-statis che il volo anagogico-angelico rappresenta. Le ali dell'Angelo attengono alla contemplazione. Ma neppure quelle dell'intelligenza angelica, le più rapide di tutte, giungono all'identificazione con il Punto del loro desiderio. Esse testimoniano della libertà spirituale raggiunta rispetto al 'servizio' nei confronti della lettera e della Legge, piuttosto che del perfetto godimento del Fine. Così il simbolo compare anche in Dante: le «penne» liberano dalle «sirene»: «ma dinanzi da li occhi d'i pennuti / rete si spiega indarno o si saetta» (Purgatorio, XXXI, 43-63). Se l'uomo sa non volgere «le penne in giuso», potrà, ad immagine dell'Angelo, 'liberamente' muoversi, immediatamente aderire, grazie alla forza della sua attenzione, al Punto cui è spiritualmente diretto; come l'Angelo, egli potrà finalmente fare ciò che gli piace: «lo tuo piacere omai prendi per duce» (ibid., XXVII, 131).

(pag. 19-20, mio grassetto)

Anche per Paolo e per i primi apostoli la rivelazione e visione personale dell'entità angelica chiamata Gesù dava il diritto al titolo stesso di Apostolo, ossia il diritto di parlare in vece di Dio, dopo esserne divenuto, assieme alle Scritture, canale di ricezione del Suo Messaggio mediante la visione dell'arcangelo celeste che muore e risorge.
Con relativo danno conseguente, o almeno potenziale minaccia, per chiunque ambisse a proclamare l'essenziale unicità del vangelo di Cristo, fosse pure lo stesso Paolo. Ma quella riottosa diversità di Cristi celesti rivali è l'esatta conseguenza dell'assenza fin dal principio di un ''Gesù storico'' in grado almeno lui di mettere tutti d'accordo, sia pure con la sua sola mera presenza recente in Judaea.

Ma merito di Massimo Cacciari, dal mio modesto punto di vista, è di rappresentare con estrema dovizia di particolari il pattern, ripetitivo nei secoli, del profeta (o mistico gnostico, islamico o cattolico non fa differenza) che vede l'Angelo e riceve dall'Angelo il messaggio da rivelare all'umanità. E il tratto costante di queste continue estasi e unioni mistiche con l'Angelo, il suo lato più oscuro e sinistro e tuttavia più profondamente inquietante, è altresì la costante minaccia della sempre latente e insidiosa '''disincantata' negazione della figura angelica'', ovvero il rischio per lo stesso mistico di percepirne, al risveglio drammatico della coscienza,  l'assoluta inconsistenza ontologica.

IL CORPO DELL'ANGELO

Il profeta è l'uomo la cui anima è giunta alla perfezione, il cui intelletto è divenuto intelletto in atto. Egli può perciò intendere la Parola di Dio (le forme incorruttibili dell'Intelligenza agente, Nous Poietikós) e vedere gli Angeli: l'Angelo spirituale perfettamente immateriale si trasforma per il profeta in un'immagine che egli può vedere (Avicenna, La Métaphysique du Shifâ', a cura di G. C. Anawati, vol. II, Paris, 1985, pp. 169-170). Ma occorre sempre mantenere ferma la differenza tra questo segno, la sua ri-velazione, e il significato, di cui è solo ad-verbum. Tanto la tradizione mistica europea, quanto il sufismo islamico non cesseranno dal mettere in guardia contro le seduzioni che il segno, in quanto tale, può produrre. In al-Ghazâli, prima e in Ibn 'Arabi, poi, la preoccupazione di purificare la visione angelica da ogni influsso psichico-mentale è dominante. Proprio per il suo ineliminabile tratto sensibile, la visione rimane pericolosamente affine ai caratteri dello stesso 'sogno' diabolico. Perciò il confine con ogni cura tracciato (cfr. Asìn Palacios, El Islam cristianizado, Madrid, 1981, pp. 233-239). L''immaginazione' angelica non può accompagnarsi a fenomeni allucinativi, a stati di agitazione, di confusione, di vaga inquietudine. Essa è un'emozione estatica, per così dire, assolutamente chiara e precisa. Essa in-forma con parola che non lascia dubbio. Esprit de géométrie mistico!
Le visioni angeliche andranno, dunque, distinte con esatto discernimento dalla generica moltitudine delle  «aprehensiones imaginarias» che possono prodursi naturalmente in noi per il nostro temperamento o anche per le pratiche ascetiche cui ci sottoponiamo; ma in quanto tuttavia anch'esse 'usano' della 'porta' all'anima rappresentata dall'immaginazione o phantasia, e dunque debbono 'tenere' al sensibile, mai potranno risolvere in sé l'anelito all'unione.  «Para poder estar desasida, desnuda, pura y sencilla» (san Juan de la Cruz, Subida del Monte Carmelo, II, 16, 6), l'anima dovrà 'liberarsi' anche di tali visioni, o, meglio, dovrà appunto intenderle come semplice ad-verbum dell'Amato. Tra tutte le creature, nessuna ha somiglianza essenziale con Dio, e perciò Davide, parlando di quelle celesti, dice:  «Non est tibi par inter deos, Domine» (Sal, 85, 8),  «e chiama dèi gli angeli e le anime sante» (san Juan de la Cruz, Subida, II, 8, 3).
Che questo discernimento non debba affatto concludersi in un dubbio radicale sulla funzione dell'Angelo, o addirittura nella sua negazione, lo mostra santa Teresa, la quale, da un lato, distingue, come san Juan, fantasia da visione immaginaria, e visione immaginaria (che si vede con gli occhi dell'anima) da quella «grazia insigne» che fa sentire il Cristo vicino, senza che neppure gli occhi dell'anima possano vederlo (Vita, XXVII) -- ma tuttavia, dall'altro, gode della apparizione del Puer dalla lunga freccia d'oro con la cuspide infuocata. A tale apparizione  «il corpo partecipa alquanto» (ibid,. XXIX) ed è perciò di minor pregio di quella 'visione' di Cristo che nessuna immagine può contenere e a cui nessuna immagine si accompagna; tuttavia la Santa non dubita un istante della sua provenienza celeste.
Il mistico, insomma, discerne, con quella chiarezza che sempre ne caratterizza la parola, la figura dell'Angelo, senza in nessun modo 'oltrepassarla' o renderla oziosa. Nell'esperienza mistica l'Angelo è l'intermediario tra la dimensione puramente estetica della phantasia e la Visione invisibile, sovra-immaginativa: 'salva' la prima nell'ultima, ma, ad un tempo, ri-vela l'ultima nella prima. Soglia d'estremo arrischio, come in questo libro continuamente si ripeterà - ma necessario arrischio, a meno di non fraintendere in toto la parola mistica come dia-bolicamente negatrice dell'estetico e non realistica consapevolezza del suo essere bivio. Su tale bivio Angelo e Demone stanno, perfettamente distinti nella loro inseparabilità. Distinzione radicale, poichè l'apparizione angelica è donata dal Principio (ed è, dunque, il Principio che qui in realtù [si] media) e ordinata nell'amore al Principio. Inseparabilità, poichè essa coinvolge sempre una dimensione visibile, sensibile *1*[Perfino nel centro del fuoco, nel cuore del Roveto Ardente, appare ancora una morphé, un agalma, una forma sensibile, per quanto splendidissima e  «a nessuna delle cose visibili comparabile». Questa figura-non-figura, questa forma invisibile, quest'icona dell'Invisibile, Filone la chiama col nome di Angelo (Filone, De vita Moisis, I, 66).], analoga a quella del sogno, della fantasia, dell'immaginazione o di quel «sillogizzar sognando» (Tasso, Il Messaggero, in Dialoghi, a cura di E. Raimondi, Firenze, 1958, p. 253), che sono gli stessi mezzi per cui quell'amore e quell'ordine possono anche essere dimenticati, strumenti per eccellenza del Seduttore.
In molti casi, la 'disincantata' negazione della figura angelica non nasconde che disagio o paura di fronte al pericolo che rappresenta. Ma esso è stazione obbligata per chi, come santa Teresa o san Juan, riceva la grazia eccelsa della Visione invisibile, dell'immagine eterna che si dà soltanto nella perfetta assenza di immagine (e dunque nel perfetto annullarsi di ogni dimensione psichica e dello stesso Io). A tale immagine siamo 'vocati' dall'Angelo. Gli Angeli ci infondono questo spirito «di vacazione, di unione. Essi come trombe infondono quel suono a noi incognito, dico da pochi conosciuto e da manco participato» (Maria Maddalena de' Pazzi, Le parole dell'estasi, a cura di G. Pozzi, Milano, 1984, p. 85). Anche se l'Angelo, come afferma Lutero, non potesse neppure intercedere per noi, pure da lui proverrebbe tale benedizione, il suono dell'Incognito. E con la benedizione dell'Angelo si compie la lotta di Giacobbe. 

 (pag. 147-149, mio grassetto)

E quando ''Questa figura-non-figura, questa forma invisibile, quest'icona dell'Invisibile, Filone la chiama col nome di Angelo'' non posso non ricordarmi del nome che lo stesso Filone assegnò al suo Angelo o Logos impersonale «a nessuna delle cose visibili comparabile», ossia Gesù.


E quando Massimo Cacciari avverte:
Tanto la tradizione mistica europea, quanto il sufismo islamico non cesseranno dal mettere in guardia contro le seduzioni che il segno, in quanto tale, può produrre. In al-Ghazâli, prima e in Ibn 'Arabi, poi, la preoccupazione di purificare la visione angelica da ogni influsso psichico-mentale è dominante.

...non fa che ribadire la costante necessità, per gli οἱ πολλοί non sufficientemente mistici come il profeta, di rappresentare col SEGNO e con le sue immancabili ''seduzioni'', ciò che nella sua più pura ed elevata concezione merita invece di appartenere al dominio dell'invisibile e là di rimanervi per l'eternità.

Lo stesso problema, lo stesso contrasto ''bellezza della visione versus bruttezza dell'allegoria'' -- specie quando l'allegoria è orrendamente storicizzante quando maneggiata dagli οἱ πολλοί --, è intravisto a chiare lettere da Earl Doherty laddove così osserva, dopo aver decantato la qualità artistica delle Odi di Salomone:
Nella misura in cui alcuni filoni del pensiero ebraico videro sempre più Dio come uno spettro emanante in un flusso continuo di azione, impulsi di sapienza divina, della Legge, di grazia salvifica e di figure o forze redentrici,  e del riscatto di forze o figure redentrici, crearono per se stessi una ricchissima dimensione spirituale e un universo mistico le cui sottigliezze sono state in gran parte a noi perdute e la cui visione ha da tempo cessato di parlare ai tempi che sopraggiunsero in seguito. Anzi, era una fase che degenerò abbastanza rapidamente in qualcosa di meno ricco, meno mistico, e tuttavia di più accessibile, non appena sette elitarie si ampliarono in popolari movimenti religiosi. Non appena questa preponderante volta spirituale, illuminata dalle scritture sacre, scese al mondo materiale e venne tradotta in storia mondana, perse gran parte della sua meraviglia, e la scrittura si degradò a ricettacolo di mere profezie di eventi legati alla terra.  Chi ne soffrì fu la letteratura cristiana, perché d'ora in poi fu costretta a calpestare la terra. Si potrebbe sostenere che nessun poeta in grado di eguagliare l'autore delle Odi di Salomone fu mai più prodotto.
(Jesus: Neither God Nor Man: the case for a mythical Jesus, pag. 278, mia libera traduzione e mia enfasi)

Insomma, la '''disincantata' negazione della figura angelica'' di cui parla Massimo Cacciari e che minaccia ''disagio o paura di fronte al pericolo che rappresenta'' per il mistico, emerse in tutta la sua concreta evidenza quando l'arcangelo Gesù fu sostituito in tutte le sue occorrenze (perfino dove occorreva l'angelo o il Figlio ma non il nome di Gesù), dal malinteso ma persuasivo concetto di ''Gesù storico''. 
Il processo che portò a domare quella riottosa diversità all'insegna del ''Gesù storico'' e del più insistente ''Ipse dixit'' è vividamente così descritto dal prof. Price:

I nascenti cattolici bisognarono di una garanzia più oggettiva per le loro rivendicazioni dottrinali e istituzionali. Dire che Gesù Cristo era apparso ad un eremita in stato di trance e disse così e così era incontrollabile. Ci si ritrovò ben presto a disagio e paralizzati dall'indecisione quando si basò la propria vita su tale effimera autorità, con nessuna garanzia obiettiva per credere alla profezia del Cristo interiore. L'insistenza di Luca-Atti su un'interpretazione ufficiale della Scrittura avanzata da un carnale Cristo risorto ai suoi discepoli, e da lì in poi ermeticamente sigillata e consegnata a vescovi-successori, fu un passo necessario verso l'istituzionalizzazione. ''Il resto di voi può andare pure ad avere le vostre visioni'', dissero i vescovi, ''ma noi abbiamo il reale deposito della verità. Divertitevi pure con i vostri oracoli. Noi abbiamo la Chiesa. Noi abbiamo un obiettivo Gesù che morì e risorse nella carne e non apparve in forme diverse simultaneamente a diversa gente, comunicando loro cose diverse.'' Più o meno così si espresse la gerarchia.
Sicuramente Pagels e Talbert hanno ragione, ma così aveva ragione pure Arthur Drews, che aveva già approfondito ulteriormente lo stesso concetto. Egli realizzò che non si trattava di una mera questione di apparizioni post-mortem di Gesù conflittuali tra loro. Non c'era mai stato uno storico Gesù sulla terra. Gesù fu un rivelatore celeste dentro il cuore di ognuno.

(Robert M. Price, The Amazing Colossal Apostle: The Search for the Historical Paul, pag. 137, mia libera traduzione e mio grassetto)

Ma questo accadde dopo. Dopo che l'anonimo autore del vangelo di Marco si sedette a tavolino per scrivere una storiella.