sabato 31 maggio 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — Indizi di un Tempo Posteriore

 (segue da qui)


 C. Indizi di un Tempo Posteriore. 

Molto nell'Epistola ai Romani, a parte queste suddette improbabilità, indicano una data successiva al 59 o al 64, anno in cui, secondo la tradizione, Paolo subì il martirio. A questo ordine di fatti appartengono, in primo luogo, i seguenti:  

Pronunciamenti dottrinali. 

La legge ebraica è stata definitivamente infranta. La luce che i gentili avevano per natura (1:19-21) poteva portarli alla conoscenza di Dio tanto quanto la loro rivelazione poteva portare gli ebrei. La legge era tanto inadeguata quanto la luce naturale al bisogno universale. Per salvare gli uomini in generale dalla schiavitù del peccato, era necessaria una nuova rivelazione. Se, in effetti, tra il popolo eletto sono stati trovati alcuni “che mettono in pratica la legge”, ciò non è più di quanto sia stato ottenuto tra i gentili, i quali, “non avendo legge, sono legge a se stessi” (2:13-14). Lungi dal salvare gli uomini, la legge richiamò piuttosto alla vita il male assopito, risvegliando il desiderio opposto ai suoi comandi. Per il cristiano essa ha perso il suo significato. Egli è liberato dal peccato nell'essere liberato dalla legge (6:14). La nuova rivelazione è “senza legge” (νυνὶ δὲ χωρὶς νόμου δικαιοσύνη θεοῦ πεφανέρωται, 3:21). [1] Dio ha trovato i mezzi per la salvezza dei peccatori, che la vecchia legge non poteva attuare. Egli ha mandato suo Figlio, per la “fede” nel quale gli uomini devono essere salvati, cioè resi capaci di vivere una vita gradita a Dio. Non c'è questione di merito; tutto è “grazia”. La nuova dispensazione dello “spirito”, opposta alla “lettera” dell'Antico Testamento, è una dispensazione della grazia di Dio. A Paolo è stata concessa una grazia speciale, cosicché egli può parlare del “mio Vangelo”, che non è altro che “il Vangelo di Dio” o semplicemente “il Vangelo”. Lui e i credenti del suo Vangelo sono sotto la guida dello Spirito Santo. Essi camminano “secondo lo Spirito” (κατὰ πνεῦμα, 8:4). Questo nuovo Vangelo della fede nel Figlio di Dio è “la rivelazione del mistero che fu tenuto nascosto fin dai tempi più remoti” (16:25). 

Per lo scrittore dell'Epistola nella sua forma attuale, il Dio che è l'autore di questa rivelazione è identico al Dio degli ebrei; ma ci sono indizi che in origine non fosse così. Quando si parla semplicemente della legge di Dio (8:7), non si intende la legge mosaica, ma la “legge della fede”, distinta dalla “legge delle opere” (3:27). L'ebreo si illude quando pensa di avere “la forma della conoscenza e della verità” (2:20). Il vero Dio non è, come potremmo supporre, il governatore del mondo. Piuttosto egli sta in opposizione a questo mondo (12:2), come lo spirito alla carne. Il mondo creato dei sensi o del caos fu sottoposto alla vanità “da colui che ve l'ha sottoposto” (διὰ τὸν ὑποτάξαντα, 8:20) - cioè non da Dio, né tantomeno dal diavolo, ma da un potere che rassomiglia al demiurgo degli Gnostici. (Questo potere Basilide definì “il grande arconte”. Il suo impero si estendeva fino al cielo visibile; egli si illudeva di essere il Dio supremo, ma in seguito fu reso consapevole del suo errore dal Figlio e si pentì). I “dominatori di questo mondo” (ἄρχοντες τοῦ αἰῶνος τούτου), che non seppero ciò che fecero quando crocifissero il Signore della gloria (1 Corinzi 2:8), non furono autorità terrene, ebraiche o romane, ma potenze soprannaturali, i “molti dèi e molti signori”, i “demoni” (cfr. Romani 8:38, ἄγγελοι e ἀρχαὶ). Per amore dell'uomo, allo scopo di salvarlo dalle potenze del mondo, Dio mandò suo Figlio a morire sotto il loro dominio, per poi liberarlo nuovamente dalla “morte”, una di queste potenze inferiori e ostili. Il Dio supremo non è più l'Ignoto. Egli si è rivelato. I credenti nella nuova rivelazione lo conoscono come loro Padre, siccome in un senso più speciale egli è il Padre del “suo proprio Figlio”. Essi lo servono “in spirito”; non più, al pari degli ebrei e dei pagani, in templi fatti da mano d'uomo. Gesù, da Messia o Cristo dei primi discepoli, è diventato Cristo il Figlio di Dio, un'entità soprannaturale preesistente, inviato a somiglianza della carne, ma non di carne. Dichiararlo allo stesso tempo uomo secondo la carne e il Figlio di Dio secondo lo spirito costituì un'evoluzione successiva derivante dallo sforzo di riconciliare la concezione più recente con quella più antica. Nell'Epistola ai Romani non è detto quasi nulla della sua vita sulla terra: alla croce c'è solo un'allusione (6:6). 

Da questa ricapitolazione del Paolinismo, dev'essere evidente che fu necessario un notevole lasso di tempo prima che si potesse arrivare a un siffatto sistema da un punto di partenza così ebraico come quello dei discepoli di Gesù. E, se i dati delle Epistole sono considerati storici, non si può sfuggire alla conclusione che il Vangelo specifico di Paolo, la rivelazione del Figlio in lui, coincide nella sua origine con la sua conversione (Galati 1:11-24). Non si può interporre alcun periodo durante il quale egli fu un giudeo-cristiano. E La cronologia ricevuta non può essere modificata sostanzialmente in modo coerente con l'accettazione delle Epistole come genuine.  Così dobbiamo supporre il suo Vangelo in sostanza già presente al suo pensiero, non più di tre anni dopo Gesù, cioè nel 35 o 36, ed esistente nella forma che conosciamo tra il 52 e il 58 o 59. Lo zelota del giudaismo ortodosso non ha fatto in tempo a vedere in Gesù di Nazaret il Messia promesso che già comincia a considerarlo il Figlio di Dio mandato sulla terra per il bene degli uomini; predica liberazione dalla Legge e si appella, per la sua nuova convinzione, a una rivelazione dello Spirito. Se non avessimo familiarità con questa rappresentazione fin dalla nostra giovinezza, la rifiuteremmo subito in quanto incredibile. La difficoltà di un progresso così rapido per uno che era stato ebreo si capisce quando pensiamo alla forte opposizione che il cristianesimo paolino incontrò ancora nel secondo e nel terzo secolo. Che Paolo stesso si fosse presentato con il Vangelo “paolino” in una data così prematura come quella assegnata, se ci pensiamo bene, è un'impossibilità psicologica. È semplicemente impensabile che l'ebreo Paolo, che aveva perseguitato la comunità cristiana per una motivazione religiosa, introducesse quasi subito questa colossale riforma di un credo che aveva appena cominciato a condividere. Se non fosse stato per l'influenza della gnosi orientale non ebraica, che assimilava le concezioni filosofiche greche e la mitologia pagana, il monoteismo di Israele avrebbe trattenuto per sempre il cristianesimo dalla “divinizzazione” del suo “fondatore”. Enoc, Mosè ed Elia erano già immaginati aver raggiunto per via eccezionale il cielo, senza che sorgesse il pensiero che fossero stati altro che esseri umani. Se si dice che “Paolo di Tarso” avrebbe potuto facilmente entrare in contatto con la filosofia greca e la gnosi orientale, la risposta è a portata di mano in un'osservazione che è stata fatta sulla religione di Maometto. Non ci fu alcuna divinizzazione del suo fondatore da parte dell'Islam, perché esso “nacque fin troppo alla luce della Storia per una crescita incontrollata di leggende”. Ciò si applica completamente a Paolo, perché per lui Gesù fu ancora nella piena “luce della Storia”. [2] Si potrebbe dire che, psicologicamente possibile o meno, c'è il fatto che Paolo si presentò con il suo Vangelo. A ciò  si risponde che il fatto presunto si basa solo sulle Epistole, di cui stiamo indagando la genuinità. Si guardi al passo di Galati già citato; è invano che tentiamo di ricavarne qualcosa sul modo di rivelazione del nuovo Vangelo. “Nessuno lo sa”, come ha giustamente osservato un critico francese; ed è ozioso immergersi in ipotesi pur di spiegare un fatto presunto per il quale non c'è alcuna giustificazione storica.


Familiarità col Paolinismo. 

Per il tempo in cui fu scritta l'Epistola ai Romani esistette già un intero vocabolario di termini tecnici appartenenti al Paolinismo. Con questi il lettore è ritenuto familiare. Espressioni come “Fede” e “grazia”, “giustizia” e “amore”, “giustificazione per fede” e “per mezzo delle opere della legge”, e così via, [3] sono usate senza alcuna difficoltà in significati del tutto particolari. Ci sono ogni sorta di problematiche legate al Vangelo paolino. C'è, nei confronti di ebrei e greci, favoritismo presso Dio (προσωπολημψία παρὰ τῷ Θεῷ, 2:11)? L'ebreo, in quanto tale, ha qualche vantaggio sul greco, visto che entrambi peccano? In che senso Abramo può essere chiamato il padre dei cristiani? Se il cristiano non vive più sotto la legge, ma sotto la grazia, non c'è il rischio che pensi che il peccato gli sia permesso? Come spiegare il rifiuto di Israele? I lettori dell'Epistola conoscono e hanno accettato il Paolinismo come una forma specifica di dottrina (ὑπηκούσατε ἐκ καρδίας εἰς ὃν παρεδόθητε τύπον διδαχῆς, 6:17). Ora, tutto ciò depone contro la sua presunta origine prematura. Se, d'altro canto, l'esistenza di una comunità o di un gruppo paolino a Roma intorno all'anno 59 è trattata come una finzione dello scrittore, il quale visse in una generazione successiva, il caso non presenta alcuna difficoltà.   


Affinità con la Gnosi. 

Che ci sia una stretta relazione tra Paolinismo e Gnosticismo è generalmente ammesso, in qualsiasi modo possa essere spiegata, se da una gnosi prepaolina che influenzò Paolo o dall'esistenza nei suoi scritti di germi che gli Gnostici svilupparono in seguito. Si sa che la maggior parte degli Gnostici cristiani avevano tenuto in grande onore “Paolo”. Tertulliano si impegna a confutare gli “eretici” mediante la testimonianza del loro stesso Apostolo (“Apostolus vester”, Adversus Marcionem 1:15). E, in effetti, gli scritti paolini sono ricolmi della fraseologia e delle idee caratteristiche dello Gnosticismo. La stessa enfasi particolare è posta sulla “conoscenza” (γνῶσις). Sentiamo parlare della “sapienza” (σοφία) che è pronunciata tra “i perfetti” (τοῖς τελείοις, 1 Corinzi 2:6-16). La conoscenza più elevata non si basa né sulla tradizione né sulla Scrittura, ma su una rivelazione speciale. È piaciuto a Dio, dice Paolo, “rivelare suo Figlio in me” (ἀποκαλύψαι τὸν υἱὸν αὐτοῦ ἐν ἐμοί, Galati 1:16; cfr. 1 Corinzi 2:10, ἡμῖν ἀπεκάλυψεν ὁ θεὸς διὰ τοῦ πνεύματος). Per lui e per i suoi c'è una continua “manifestazione della verità” (φανέρωσις τῆς ἀληθείας, 2 Corinzi 4:2). Essi non hanno nulla a che fare con la lettera (Romani 2:29, 7:6; 2 Corinzi 3:6). Al pari degli Gnostici, essi sono “spirituali” (πνευματικοί), in possesso dello “spirito” (τὸ πνεῦμα). L'antigiudaismo, nonostante le frasi di senso contrario sparse per le Epistole, è una caratteristica tanto dell'insegnamento paolino quanto di quello gnostico. I “chiamati” (οἱ κλητοί) si contrappongono sia agli ebrei che ai greci di fuori come i “salvati” (σωζόμενοι) si contrappongono ai “perduti” (ἀπολλύμενοι, 1 Corinzi 1:18, 24). Per l'uomo naturale o animale (ψυχικὸς ἄνθρωπος), che “non riceve le cose dello Spirito di Dio”, si intende l'ebreo come pure il greco. Al pari di ogni gnosi, il Paolinismo si preoccupa poco degli eventi storici se non come materiale per l'allegoria. Questa indifferenza si estende non solo all'Antico Testamento, ma anche all'intera vita di Gesù sulla terra (2 Corinzi 5:16). Se il dualismo è un segno dell'insegnamento gnostico, non lo è meno di quello paolino. Troviamo contrapposti Dio e il mondo, che ha i suoi “dominatori” e i suoi “elementi”; la sapienza di Dio e la sapienza del mondo; Dio e Satana; Dio e suo Figlio da un lato e una serie di potenze a loro ostili dall'altro; “la luce del vangelo della gloria di Cristo” e l'accecamento derivante dal “dio di questo mondo” (2 Corinzi 4:4); l'animale e lo spirituale (τὸ ψυχικόν e τὸ πνευματικόν); la carne e lo spirito; e così via. Le differenze tra Paolinismo e Gnosticismo non sono maggiori delle differenze reciproche dei sistemi gnostici a noi noti. Riconosciamo entrambi per il particolare significato che danno a certe parole [4] e frasi (Romani 11:33) e alle antitesi (8:38, 39). Si può quindi affermare senza ombra di dubbio che ci sono elementi gnostici negli scritti paolini, compresa l'Epistola ai Romani. Ora, se il Paolinismo vada collocato all'origine della gnosi cristiana o più avanti nella sua evoluzione può essere lasciato per ora indeterminato. In ogni caso, questi elementi sono fatali alla pretesa delle Epistole che li contengono di essere state scritte da Paolo. Infatti, l'origine dello Gnosticismo cristiano, se forse alquanto anteriore agli ultimi anni del regno di Traiano (117 circa), a cui è comunemente assegnato, non può essere ricondotta a un periodo contemporaneo alla vita dell'Apostolo. [5]


La Comunità. 

Nulla ci impedisce di ipotizzare una comunità cristiana già esistente a Roma quando Claudio (41-54), secondo una dichiarazione di Svetonio, espulse gli ebrei da Roma (“Judaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit”, Claudio 25). Se riferiamo la causa di questa espulsione degli ebrei [6] a un conflitto che era sorto tra di loro per il credo di alcuni che Gesù fosse il Messia, possiamo ragionevolmente supporre che nel 59 la comunità cristiana (o messianica) avesse già una ventina d'anni. L'Epistola ai Romani, però, implica un'antichità notevolmente maggiore. Infatti essa presuppone più che la crescita di una setta messianica — una “setta dei Nazareni” — simile alle sette dei Sadducei e dei Farisei e, al pari di loro, compresa nei limiti del giudaismo. La comunità a cui si rivolgeva contava Paolinisti tra i suoi membri, e anche dei Paolinisti attenti alle diverse sfumature all'interno della dottrina generale. Ciò non è pensabile in una data così prematura, anche se per un momento supponiamo che la dottrina si sia sviluppata nella mente di Paolo stesso fino allo stadio che essa ha raggiunto nell'Epistola ai Romani. 

I precetti pratici, non meno degli sviluppi dottrinali, indicano l'esistenza di un passato che non è dell'altro ieri. Si pensi, ad esempio, a quelli che riguardano l'esercizio di una varietà di funzioni da parte delle molte membra di un unico corpo (12:4-8). Alcuni membri sono “deboli nella fede” (capitolo 14); essi evitano la carne e il vino, oppure prestano una scrupolosa attenzione alla distinzione dei giorni e dei cibi “puri” e “impuri”. Altri ritengono lecito mangiare e bere di tutto, e trattano tutti i giorni allo stesso modo. Queste differenze sono durate così a lungo che lo scrittore confonde con i giudaizzanti coloro che si fanno scrupolo di consumare carne e vino, e non ha una soluzione migliore da offrire di quella genuinamente “cattolica” di lodare la libertà e consigliare di non metterla in pratica. 


Persecuzioni. 

Le allusioni a persecuzioni da subire che troviamo in 12:12, 14 e in altri punti, indicano una data successiva al 59. Prima di quella di Nerone non c'è traccia di una siffatta persecuzione a Roma; e quella che che è detta avvenuta col pretesto del grande incendio del 64 non aveva il carattere di una persecuzione generale dei cristiani. Inoltre, Paolo non avrebbe potuto pensare di rammentare ai suoi lettori di ciò, cinque anni prima che accadesse.


Il Ripudio di Israele. 

La questione così intensamente dibattuta (capitoli 9-11), per cui Israele, il popolo eletto di Dio, rimane fuori dal cristianesimo, non poteva sorgere fino a quando non fosse diventato evidente che questa, con poche eccezioni, doveva essere la condizione permanente delle cose. Per questo era necessario che il Vangelo fosse predicato in ampie cerchie, come del resto è ovunque presupposto e quasi affermato in tante parole (10:13-18). L'opportunità è stata offerta a tutti, ma la maggior parte ha rifiutato di accettarla (11:7). Ma nel 59 non era ancora accaduto nulla che giustificasse la concezione che Israele dovesse essere considerato staccato dalla radice, un ramo rifiutato (11:17-21). Per spiegare l'appello dello scrittore: “Vedi la severità di Dio” (ἴδε......ἀποτομίαν Θεοῦ, 11:22), fu necessaria almeno la caduta di Gerusalemme nell'anno 70. Quello fu il primo evento di rilievo dalla morte di Gesù in cui i cristiani poterono vedere un giudizio sugli ebrei. 


Difetti di Forma. 

Espressioni di tanto in tanto usate inavvertitamente evidenziano che lo scrittore non è Paolo, ma qualcuno che parla a suo nome in una data successiva. È il caso, ad esempio, dei passi in cui l'Apostolo tradisce la consapevolezza di essere il rappresentante di un partito (3:8, ecc.). Paolo, il nativo ebreo, non si sarebbe definito debitore a “greci e barbari” (1:14). L'appello all'israelita Paolo come prova che Dio non ha rigettato il suo popolo (11:1) è abbastanza chiaramente cosa capiterebbe a un ammiratore più giovane e non all'Apostolo stesso. A meno che Paolo realmente operasse miracoli, l'asserzione in 15:19 indica qualcuno abbastanza distante da confondere verità e finzione nella sua vita. Quando, come si suppone, egli scrisse la sua Epistola da Corinto, era un uomo libero e di conseguenza non poteva parlare dei suoi “compagni di prigionia” (16:7). L'ammonimento contro i falsi maestri (16:17-20) è spiegabile come messo in bocca all'Apostolo affinché gli “ortodossi” potessero appellarsi alla sua autorità in una qualche contesa in corso: non poteva essere venuto in mente a Paolo stesso che scriveva ai Romani nell'anno 59. 


Vangeli Scritti. 

Nella nostra Epistola ai Romani ci sono tracce di familiarità con un Vangelo scritto. La frase in 2:16 (κατὰ τὸ εὐαγγέλιόν μου, cfr. 1:9, 16:25) è più comprensibile se riferita a un libro, e fu così intesa da Origene, Eusebio e Girolamo. Da espressioni non identiche, ma che richiamano quelle dei nostri Vangeli canonici, si può dedurre che occasionalmente qualcosa fu attinto dal Vangelo di cui si parla. I seguenti sono forse esempi di questa procedura: ὁδηγὸν εἶναι τυφλῶν (2:19), cfr. Matteo 15:14, Luca 6:39; φῶς τῶν ἐν σκότει (2:19), cfr. Matteo 5:14, Luca 6:35; ὁ κρίνων (2:1), cfr. Matteo 7:1, Luca 6:37. Più in particolare si possono citare: εὐλογεῖτε τοὺς διώκοντας, εὐλογεῖτε καὶ μὴ καταρᾶσθε (12:14), cfr. Matteo 5:44, Luca 6:28; l'amore come compimento della legge (13:8-10, anche Galati 5:14), cfr. Matteo 22:34-40, Marco 12:28-34, Luca 10:25-27;  ἕκαστος ἡμῶν περὶ ἑαυτοῦ λόγον δώσει τῷ Θεῷ (14:12), cfr. Matteo 12:36. Forse il Vangelo utilizzato fu quello riconosciuto dai Marcioniti. Gli amici della tradizione che, seguendo i Padri sopra menzionati, vorrebbero identificarlo con il nostro terzo Vangelo, sono posti dinanzi alla necessità di collocare l'Epistola almeno sino alla fine del primo o all'inizio del secondo secolo, a meno che non abbiano il coraggio di accettare il terzo Vangelo come un'opera che Luca, compagno di Paolo, aveva già completato.  In ogni caso, il suo utilizzo indica una data successiva a quella che è assegnata tradizionalmente all'Epistola ai Romani. 


Libri degli Atti. 

Un passo dell'epistola come 15:16-31 ha l'aria non di un vero e proprio resoconto della propria e dei progetti dell'Apostolo, ma di una presentazione decorata di una tradizione. A Paolo, ci viene detto, è stata data la grazia di essere un sacerdote del Vangelo tra le nazioni, che egli deve offrire come sacrificio gradito a Dio (εἰς τὸ εἶναί με λειτουργὸν Χριστοῦ Ἰησοῦ, ἱερουργοῦντα τὸ εὐαγγέλιον τοῦ Θεοῦ, ἵνα γένηται ἡ προσφορὰ τῶν ἐθνῶν εὐπρόσδεκτος, ἡγιασμένη ἐν Πνεύματι ἁγίῳ, 15:16). Questo è il linguaggio di uno che lo conosce come l'eroe di una leggenda e desidera fare un'impressione profonda sul lettore.  Ciò che sentiamo dire della sua attività missionaria, della sua portata e del suo completo successo (15:19, 28), può essere analogamente interpretato come un'esagerazione “consacrata” dalla tradizione. Che i progetti a lui attribuiti gli siano solo messi in bocca è evidente dai versetti 30-31. Se non scegliamo di attribuire a Paolo sia l'abilità di leggere il futuro che il desiderio, malgrado l'aspettativa, di affrettare la propria distruzione senza necessità, possiamo spiegare la paura espressa in questi versetti solo con ciò che la tradizione paolina doveva raccontare dei pericoli che corse a Gerusalemme e della cattiva accoglienza del contributo che recò con sé. Non si tratta, infatti, di una storia la cui conoscenza fu acquisita dagli Atti degli Apostoli, come si potrebbe essere tentati di supporre inizialmente; l'autore degli Atti, infatti, sorvola deliberatamente sulla cattiva accoglienza di Paolo da parte dei “santi” e aggiunge circostanze non alluse nell'Epistola. Il profilo del futuro viaggio di Paolo in questo passo di Romani non fu tratto dagli Atti più di quanto non lo fossero state le affermazioni secondo cui lui e i suoi avevano “le primizie dello Spirito” (8:23), ed egli soprattutto fu chiamato a predicare il Vangelo tra i pagani (1:1, 5); [7] queste prerogative sono lì attribuite a persone del tutto diverse (cfr. Atti 2, 10-11, 15:7). La base tradizionale che riconosciamo è quella degli Atti di Paolo, già svelati come uno dei documenti che contribuirono alla composizione degli Atti canonici. E quel documento, come abbiamo visto nella Parte I, era già di un carattere leggendario, e non può essere stato anteriore alla fine del primo secolo. 

NOTE

[1] Questo è un Paolinismo esposto sì sulla base di affermazioni specifiche, ma reso relativamente libero dalle confusioni e dalle contraddizioni dei nostri documenti. La clausola che segue la precedente (μαρτυρουμένη ὑπὸ τοῦ νόμου καὶ τῶν προφητῶν) è trattata come parte dell'“acqua” con cui l'editore diluì il vino forte del più antico Vangelo “paolino”, dal quale emerse una dottrina simile a quella di Marcione. Il versetto così com'è fornisce una buona illustrazione dell'osservazione di Giuliano sui continui cambiamenti di umore di Paolo (ὥσπερ οἱ πολύποδες πρὸς τὰς πέτρας).

[2] L'argomentazione distruttiva non è invalidata naturalmente se ci spingiamo oltre e adottiamo la posizione che “Gesù di Nazaret” sia mitico. Il punto è che nessuno sviluppo soprannaturalista così esaltato come quello delle epistole paoline poteva essere raggiunto da un ebreo della data presunta di Paolo che fosse entrato in contatto con compagni di un Gesù reale.

[3] Come termini comprensibili solo se riferiti alla teologia paolina, si citano i seguenti: πίστις e χάρις, δικαιοσύνη e ἀγάπη, πιστεύειν e δικαιοῦσθαι, δικαιοῦσθαι ἐκ πίστεως e δικαιοῦσθαι ἐξ ἔργων νόμου, ἁμαρτάνειν ἀνόμως e ἀμαρτάνειν ἐννόμως, παραδοθῆναι e ἀποθανεῖν ὑπὲρ ἀνθρώπων, ἀπολύτρωσις, βαπτισθῆναι εἱς Χριστόν, συσταυροῦσθαι (Χριστῷ), ζῆν ξατὰ σάρκα, κατὰ πνεῦμα, τῷ θεῷ ἐν Χριστῷ. E naturalmente non si tratta di espressioni isolate estratte a caso: esse costituiscono la trama del pensiero.

[4] Ad esempio, γνῶσις, ἀλήθεια, σοφία, κόσμος, χάρις, πνεῦμα, πλήρωμα, ἔκτρωμα, ζωή, ζωὴ αἰώνιος, ἀρχαί, ἐξουσίαι, φῶς, φωτίζειν, φωτισμός. 

[5] Il professor Schmiedel, difendendo la genuinità di Romani nel Hibbert Journal dell'aprile 1903, presenta la posizione che le quattro “Epistole principali” stanno o cadono insieme, cosicché nessuna può essere trattata come un problema isolato. Nel paragrafo precedente questa posizione sembra essere già stata ribaltata con successo a favore della tesi opposta. Si osserverà che ci sono riferimenti a tutte quante, e non solo a Romani, per il loro contributo all'esposizione della gnosi paolina. 

[6] Forse solo minacciata, e comunque non realizzata a fondo.

[7] Senza dubbio tali affermazioni si possono trovare negli Atti, ma (come è stato mostrato) nel substrato rilevato dalla critica, non in ciò che possiamo chiamare la sovrastruttura ufficiale, a cui si fa riferimento nella clausola successiva.

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