sabato 19 aprile 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — Lo Stato Teocratico di Giudea

 (segue da qui)

2. Lo Stato Teocratico di Giudea.

La teocrazia ebraica, come è chiamata — cioè la direzione della vita da parte di un sacerdozio che parla in nome di Dio e si appella a libri sacri — fu istituita sotto la supremazia persiana molti anni dopo che i capi della nazione erano stati esiliati a Babilonia in seguito alla conquista di Giudea da parte di Nabucodonosor. Gli esuli, che nel frattempo erano entrati in contatto con la civiltà del Nuovo Impero Babilonese, devono averne subìto una notevole influenza. Per quanto fosse in continuità con la lunghissima tradizione rappresentata dalle monarchie assira e antico—babilonese, essa rappresentava un sistema di vita e di pensiero molto più elaborato del loro. L'effettiva influenza è stata in parte chiarita da recenti scoperte, ma è ancora troppo presto per affermare risultati definitivi. Quando il dominio babilonese aveva lasciato il posto a quello dei re di Persia, alcuni sacerdoti riformatori, ereditando gli ideali del movimento profetico che aveva preceduto l'esilio e ottenendo alcuni temporanei successi politici in Giudea, furono autorizzati a ricostruire il tempio del Dio nazionale e a rimodellare la nazione come una teocrazia. A questo periodo e a quello successivo risale non solo la rielaborazione di tutta la letteratura sacra, ma anche la composizione originale di gran parte di essa. 

Se si tenta di tracciare la storia degli ebrei prima di questo periodo, la condizione dei documenti pone molte difficoltà; ma è storicamente certo che dal nono secolo A.E.C. essi si erano già divisi in due regni: il regno settentrionale di “Israele” e il regno meridionale di “Giuda”. Il primo fu travolto dalla potenza assira verso la fine dell'ottavo secolo; il secondo era sopravvissuto fino all'inizio del sesto. Un “regno di Israele” indiviso, descritto come esistente in precedenza, era stato probabilmente governato in successione dai due sovrani biblici, Davide e Salomone. I resoconti su di loro, però, sono molto abbelliti e questa parte dei documenti non è ancora stata confermata dai monumenti dei grandi imperi allora esistenti. È stato ipotizzato che intorno al dodicesimo secolo A.E.C. gli Israeliti facessero parte di un gruppo di tribù del deserto che fecero incursioni nella terra coltivata di Canaan. Queste tribù, avendo conquistato per sé dei territori, iniziarono una vita stanziale e, a poco a poco, formarono le nazionalità che conosciamo come Israele, Edom, Moab e Ammon. 

Tutto ciò anteriore a questo è leggendario o del tutto mitico. Ai confini tra la Palestina e l'Egitto, tribù semitiche, affini agli israeliti, erano di tanto in tanto soggette al governo egiziano; ma non c'è nulla di nulla che confermi la storia che ci è familiare della cattività di Israele in Egitto e dell'esodo sotto Mosè. [1] Quando risaliamo ad Abramo, Isacco e Giacobbe e ai dodici patriarchi, ci troviamo in una regione di figure mitiche trasformate in racconto letterario; forse di antichi dèi semitici abbassati allo stato di comuni mortali. Gli inizi effettivi della letteratura risalgono a malapena a prima del nono secolo. Da questo periodo provengono le parti più arcaiche dei primi testi.

Gli Israeliti furono originariamente politeisti, al pari delle tribù circostanti; ma, al pari delle altre, avevano il loro dio tribale. Il Dio di Israele fu dapprima venerato con riti simili a quelli del “paganesimo” semitico in generale. Talvolta egli era rappresentato da un'immagine a forma di uomo o di bue. Sotto il nome di “Re” (Molech), egli veniva propiziato in tempi di sciagura nazionale per mezzo di riti di sacrificio umano; come lo era Chemosh, il dio degli affini Moabiti, e la divinità cartaginese che i Greci chiamarono Crono. Tra gli ebrei, tuttavia, nell'ottavo secolo sorsero i riformatori definiti profeti. Essi pretesero di parlare in nome di Jahvé (come il Dio d'Israele è stato a lungo chiamato nella letteratura europea); denunciarono molti culti immorali e disumani in quanto contrari alla sua volontà; e soprattutto mirarono all'estirpazione dell'“idolatria”: cioè la rappresentazione di Jahvé con qualsiasi tipo di immagine. Egli era in primo luogo un “dio geloso”, che non avrebbe tollerato altre divinità accanto a lui. L'intolleranza verso altri culti costituì per gli israeliti un dovere sacro. Dei sovrani che non l'avevano praticata rigorosamente, ma che avevano permesso culti stranieri nei loro domini (anche se avrebbero potuto adorare Jahvé per prima), fu detto più tardi che essi “fecero ciò che è male agli occhi del Signore”

Gli intelletti più elevati tra i profeti riuscirono alla lunga — quanto presto o quanto tardi è difficile dirlo — a giungere a un monoteismo etico. Jahvé era il Dio dell'universo; non c'era altro dio; egli ricompensava la giustizia e puniva l'iniquità; non domandava sacrifici. Questa concezione, è superfluo sottolinearlo, non si realizzò mai nella religione pubblica. La concreta realizzazione dei profeti fu, mediante la formazione di un'alleanza con i sacerdoti di Gerusalemme, la centralizzazione del culto, la soppressione dei culti locali illeciti e l'eliminazione delle “immagini scolpite”. Con il ritorno degli esuli dal sesto al quinto secolo A.E.C. — scomparsa la monarchia nazionale — lo Stato fu identificato con “la comunità del Signore”. La pura teocrazia costituì da allora in poi l'ideale. Un sistema elaboratissimo di sacrifici e di osservanza cerimoniale fu stabilito e fu dichiarato valido per ogni tempo in nome di Mosè. Jahvé fu identificato, come lo avevano identificato i sommi profeti, con il Dio dell'universo; ma rimase essenzialmente un sovrano invisibile che doveva essere riconosciuto dallo Stato e che esigeva per mano del suo popolo eletto un servizio perpetuo di spargimento di sangue e di offerte propiziatorie. 

Nondimeno, l'interesse per le questioni di condotta morale continuava a prescindere dal culto sacrificale. Esso si propose di risolverle con l'applicazione della “legge”. Nacque quello che è stato definito un sistema di “dialettica giuridica”. Apparve la caratteristica istituzione ebraica della Sinagoga. Nelle scuole rabbiniche sembra esserci stata una relativa libertà di vita morale e religiosa analoga a quella del protestantesimo. Il movimento riformatore, con la sua enfasi sulla disposizione interiore, non era stato vano. Il giudizio privato poteva essere utilizzato per interpretare i testi sacri. La gerarchia non si trasformò in un'organizzazione anti—umana per la repressione del pensiero. Il concetto di “eresia” non si era ancora evoluto. Un culto elaborato non era ancora accompagnato da un credo elaborato. Le domande più profonde sul destino dell'uomo potevano essere poste liberamente e la loro discussione senza restrizioni era ammessa nei libri che arrivarono ad essere considerati sacri. 

Col passare del tempo le famiglie sacerdotali manifestarono propensione al tipo di aristocrazia secolare. Tra i loro membri vi furono in seguito gli scettici Sadducei. Quando la Giudea, con la caduta dell'Impero persiano, passò sotto il dominio dei sovrani greci di Siria, fu necessaria una rivolta nazionale per impedire ai capi religiosi stessi — piuttosto che al re straniero — di “ellenizzare” la loro religione e le loro istituzioni. La contesa fu combattuta, nel secondo secolo A.E.C., tra gli ideali di una raffinata decadenza e di una teocrazia esclusiva; e quest'ultima trionfò. Sotto i Maccabei fu conquistata l'indipendenza nazionale, per poi perderla di nuovo quando la dissoluzione dell'impero mondiale di Alessandro aprì la via all'avvento di Roma. Nel frattempo, la linea distintiva di vita spirituale che la nazione aveva tracciato per se stessa fu seguita fino a nuovi esiti.

NOTE

[1] Cfr. Ed. Meyer, Geschichte des Alterthums, i. 


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