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3. Escatologia Post-Biblica degli Ebrei.
Un'opera famosa dell'età maccabea segna la transizione ad una nuova epoca. Il Libro di Daniele fu scritto per incoraggiare i pii ebrei nella loro resistenza al movimento di ellenizzazione, iniziato dall'interno, ma preso in mano con violento arbitrio dal sovrano seleucide Antioco Epifane. La composizione fu attribuita al veggente Daniele, un presunto esule ebreo in Babilonia quattrocento anni prima della data del libro. La maggior parte di ciò che si pretende come profezia è quindi un racconto di eventi passati in forma simbolica. Il libro divenne il modello di tutte le apocalissi successive, sia per gli ebrei che per i cristiani. Lo Pseudo-Daniele non fu accolto nel numero dei libri profetici ebraici, ma solo nella categoria degli scritti noti come Agiografi. Il primo critico a individuarne il vero carattere fu il filosofo Porfirio nella sua ampia opera contro i cristiani, a noi nota solo grazie ai riferimenti di autori ecclesiastici.
Renan ha descritto il Libro di Daniele come un primo tentativo di una filosofia della storia. Gli ebrei, osserva, erano in una posizione centrale tra i grandi imperi, fungevano da intermediari e potevano osservare le loro trasformazioni da un punto di vista esterno. Erano quindi pronti a vedere una direzione generale del movimento mondiale e a cercarne la legge. Le apocalissi successive, con tutto il loro apparato soprannaturale, hanno qualcosa dello stesso sguardo ampio.
La legge della storia, secondo Daniele, è chiaramente la dissoluzione successiva dei regni di questo mondo, per dare luogo alla fine alla teocrazia universale predetta dai profeti. E il sogno si realizzò in un certo senso, anche se non per gli ebrei, non a loro vantaggio e non con l'effetto idilliaco anticipato in alcune profezie. Quando il loro regno di Dio arrivò, portò “non la pace, ma la spada”. Ci sono invero profezie il cui tono era del tutto unanime; ma in molte prevale la speranza che “le nazioni” sentiranno alla fine l'attrazione della religione pura rivelata a Israele e si sottometteranno volontariamente ai suoi ordinamenti. Israele è concepito come destinato ad essere un sacerdozio per la razza umana. E sforzi furono fatti in entrambe le direzioni. Mentre il proselitismo pacifico era costantemente in corso, non ci si faceva scrupolo di fare la guerra ai popoli vicini per interesse religioso. Durante il periodo dell'indipendenza ebraica, gli abitanti pagani della Galilea furono sottomessi e convertiti al culto del tempio con la forza. In generale, però, ci si aspettava un cambiamento catastrofico che avvenisse senza la volontà dell'uomo, come parte del disegno di Dio per il mondo.
Nel periodo successivo, il regno di Dio sulla terra era di solito concepito stabilito dal “Messia” — il “Re Unto” — una figura derivata da vari passi dei profeti e con attributi non del tutto coerenti. Tra le ipotesi correnti c'erano quelle di un Messia ben Davide che doveva essere trionfante e di un Messia ben Giuseppe che doveva soffrire. Occasionalmente, anche negli scrittori apocalittici non c'è alcun Re o Messia prescelto: Dio domina direttamente. Tracce di un sentimento teocratico antimonarchico come quello dei Puritani, come possiamo apprendere dagli stessi libri canonici, non erano ignote agli ebrei.
Il Messia sofferente combinava le idee del giusto che lotta con le avversità e del popolo santo perseguitato dai pagani per l'adesione all'unico vero Dio. Entrambe queste modalità di sofferenza si erano imposte come fatti al pensiero ebraico e avevano contribuito a modificare le idee prevalenti sul destino dell'anima che, a prescindere da influenze esterne, sembrano aver subito cambiamenti curiosamente paralleli a quelli che si erano verificati in maniera altrettanto spontanea in Grecia.
Come è ben risaputo, nel grande periodo della letteratura e della religione ebraica non c'è praticamente nulla che faccia riferimento all'immortalità personale. Gli scrittori profetici ritengono che il problema della giustizia divina trovi la sua completa soluzione nella vita terrena, nazionale o individuale. Non è che avessero rinunciato consapevolmente a quell'“animismo” che è la prima concezione dell'uomo sulla fonte della vita e del pensiero individuali. Nelle parti arcaiche della Bibbia ci sono prove sufficienti che gli ebrei non furono originali nelle loro prime idee. Anche loro avevano la nozione di anima come una sorta di soffio o di ombra. Essi avevano il loro “Sheol” per le anime defunte, come i greci avevano il loro “Ade”. La riforma religiosa dei profeti, tuttavia, non si interessò particolarmente di questo. Jahvé era il Dio non dei morti, ma dei vivi, al pari degli dèi dell'Olimpo in Grecia. Gli ideali di giustizia dovevano essere realizzati e trovare la loro giustificazione sulla terra. Non c'è ragione di supporre, però, che l'idea di un'individualità perenne, o anche della sua manifestazione come “fantasma”, fosse mai scomparsa dal pensiero popolare. Proprio come in Grecia ciò svolgeva un ruolo più ampio nella religione generale di quanto si potesse dedurre da Omero o da Sofocle, così senza dubbio in Giudea continuava a non essere intaccata dal silenzio della letteratura profetica. Così, quando la teodicea dei profeti, sotto la pressione dei fatti del destino di Israele, si sentì vacillare, i pensatori religiosi furono in grado di ricorrere all'idea animistica, pur di ristabilire l'equilibrio mediante visioni di una vita futura.
Sebbene il parallelo con la Grecia non venga del tutto meno in quest'ultima fase, le differenze sono più evidenti delle rassomiglianze. In Giudea c'era un'influenza molto più decisa di quella che dovremmo chiamare la “ragione pratica”. Le aspirazioni etiche non suggerirono invero il pensiero della sopravvivenza: esso già lì, ma esse furono le motivazioni che spinsero i pensatori a lavorare sul problema. E la piccola parte che la metafisica recitò in questo processo si vede nella forma che l'aspettativa di sopravvivenza assunse di solito: quella di una “resurrezione del corpo”.
Nella letteratura apocalittica ebraica la futura resurrezione corporea dei morti era associata alla venuta del Messia. Quando il liberatore predetto avrà stabilito il regno, abbattendo tutti coloro che gli resistono tra “le nazioni”, i morti risorgeranno e si uniranno ai fedeli israeliti che sono vivi alla sua venuta. Non è incoerente con questo, che è l'immaginario generale, che il regno messianico sia raffigurato duraturo sulla terra. Quel regno naturalmente è la teocrazia universalizzata. Gerusalemme è il suo centro e tutti i nemici sono messi sotto i piedi del suo Re Unto. Nella resurrezione talvolta solo i giusti hanno parte; talvolta anche i malvagi sono resuscitati per essere puniti assieme ai nemici viventi del Messia. Per alcuni veggenti la sorte dei pagani alla resurrezione è passata sotto silenzio, per altri essi sono inclusi di diritto tra i “malvagi”. L'agente della punizione — talvolta della distruzione — è il fuoco della “Geènna”. Sebbene di origine diversa come immaginario, la Geènna corrisponde nella concezione al “Tartaro” che, mediante una mescolanza di idee etiche con la nozione primitiva e più indeterminata del futuro, era giunto ad essere considerato dai Greci e dai Romani un luogo di punizione per i crimini che erano sfuggiti al giudizio in questa vita.
Siamo ora evidentemente giunti a uno stato dell'atmosfera spirituale che spiega molte cose del Vangelo; ma ci sono ancora alcune premesse ulteriori.
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