venerdì 18 aprile 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — Critica Biblica e sua Verifica

 (segue da qui)


LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO

1. Critica Biblica e sua Verifica. 

L'analisi critica delle Scritture ebraiche le ha risolte, per la maggior parte, in una stratificazione di documenti pseudo-epigrafici. Questo è un carattere generale non solo della letteratura religiosa orientale, ma anche degli stadi iniziali della nostra letteratura occidentale. Ritroviamo qualcosa di simile anche nei testi scientifici e filosofici della tarda antichità classica, anche se in questo caso il carattere è quello della semplice compilazione; non c'è una falsa attribuzione di paternità a santi e sapienti dell'antichità. Perciò va sempre ricordato che, applicando la norma europea antica e moderna della paternità individuale a una letteratura religiosa orientale, è più probabile sbagliare che avere ragione. Il Corano, che indubbiamente provenne da una persona nota, Maometto, è un caso eccezionale tra i libri che sono stati posti a fondamento delle religioni orientali, cioè di tutte le grandi religioni storiche. 

Sebbene il Nuovo Testamento fosse scritto in greco molto tempo dopo che la paternità individuale era diventata la norma nella letteratura greca, esso appartiene chiaramente al tipo orientale. Le sue idee scaturiscono esplicitamente da una religione orientale; e la letteratura che la precedette immediatamente nella sua stessa linea, cioè la successiva letteratura apocrifa ebraica, con le sue aspirazioni messianiche  —  è riconosciuta interamente pseudo-epigrafica. Vale la pena notare che anche la letteratura religiosa o semireligiosa nell'Occidente ha manifestato questa tendenza. Si prenda il caso dei poemi orfici e di gran parte delle composizioni presentate dalla scuola neopitagorica. Il pensiero greco colto, però, era critico nel nostro senso del termine. Esso si preoccupava davvero di sapere se una composizione fosse del suo presunto “autore”, non solo se fosse edificante. Perciò, mentre la critica moderna è stata in grado di spingersi oltre, la critica antica aveva già individuato il vero carattere di gran parte di questa letteratura. Quando Giamblico, scrivendo in un'epoca così credulona come il quarto secolo della nostra era, si scusò per quello che alcuni ritenevano un inganno da parte dei neopitagorici, la situazione era evidentemente ben nota. E la sua apologia era esattamente quella di alcuni europei moderni, che hanno trovato negli autori orientali il merito di non far emergere così tanto la loro personalità come facciamo noi, di non avanzare alcuna pretesa personale per il loro pensiero. Egli sostenne che quella procedura fosse da raccomandare come segno di modestia. Se potessimo essere perfettamente imparziali, senza dubbio non dovremmo né lodare né biasimare, ma semplicemente riconoscere che si tratta di un modo di scrivere normale in un ambiente intellettuale diverso.

Quando una letteratura che è sorta in questo modo è diventata la base di una grande religione — specialmente di una religione ancora accettata nel nostro tempo e nel nostro paese — le difficoltà del critico sono accresciute naturalmente. È necessaria una dimostrazione più rigorosa del carattere pseudo-epigrafico di Mosè che di Orfeo. L'oppositore della “critica distruttiva” può aggrapparsi alla possibilità astratta che gli scritti appartengano al tempo ipotizzato, anche se il peso delle prove induttive vi si oppone. Egli può sfidare tranquillamente il critico a produrre i manoscritti originali dei documenti riprodotti. È evidente che la verifica non può essere ricercata lungo questa linea. Quale è allora il vero metodo di verifica, quello che alla lunga dovrà portare alla convinzione generale se la cultura scientifica non ricadrà in uno stadio inferiore? 

Ciò non è altro che il metodo storico o “deduttivo inverso” formulato da Comte e da Mill. Una generalizzazione si fa induttivamente dai fatti della Storia. Poi la si deduce mostrando come la sequenza degli eventi fosse resa necessaria secondo le leggi conosciute della natura umana. Nel caso particolare della critica biblica, un certo ordine cronologico dei libri e delle porzioni di libri, diverso da quello tradizionalmente assegnato, è dedotto da analisi, linguistiche e non. Questo ordine, e la sequenza dei fatti storici da esso derivati, è poi dimostrato che rende comprensibile naturalmente o razionalmente il processo della storia, mentre il resoconto tradizionale non lo fa. 

Tramite un metodo di cui questo fondamentalmente è il carattere, la convinzione della verità di ciò che è definito l'alto criticismo, per quanto riguarda l'Antico Testamento, è già stata portata a conoscenza della maggior parte degli intelletti che vi si possono dedicare. “Eppure”, dicono i tradizionalisti più ingegnosi e ostinati ai critici radicali, “voi eludete il problema. Voi assumete l'assoluta uniformità della natura. Voi non ammettete alcuna spiegazione che non derivi da cause naturali. Noi, d'altro canto, crediamo in interferenze soprannaturali con il corso della natura. Ma vi sfidiamo a confutare un miracolo per mezzo della logica formale. Finché voi non riuscirete a ridurci all'autocontraddizione, noi ci atterremo alla tradizione della religione in cui noi siamo stati educati.  E, come vedete, noi possiamo farlo senza abbandonare l'uso del ragionamento. Insistere sul fatto che noi dobbiamo ammettere ovunque le ferree leggi della natura  equivale, per pregiudizio scientifico, a negarci il diritto di provare la nostra tesi anche se dovessero esserci reali eccezioni alla legge naturale”. 

A questo la replica è che, naturalmente, il metodo scientifico presuppone l'uniformità della natura, ma che non esclude assolutamente la dimostrazione dei miracoli, qualora essi si verificassero. Supponiamo che in certe regioni del tempo e dello spazio l'assunto dell'uniformità ci porti fuori strada, che ci scontrassimo con fatti empirici che lo riducono a un'assurdità in certi punti: allora dovremmo riconsiderare la questione della sua validità universale. Supponiamo, per esempio, che un sacerdozio affermi alcuni eventi non spiegabili naturalmente, e che ne incontriamo conferme specifiche che si distinguono dalla massa di fatti che possiamo spiegare. Mettiamo il caso che ragionare a partire dalle conoscenze naturali abbia portato a un errore manifesto intorno alla formazione della terra o agli eventi della storia egizia, mentre un resoconto dichiarato rivelato per via soprannaturale sia supportato da scoperte inaspettate e ci permetta di pensare all'ordine degli eventi con coerenza logica, posto che si abbandoni il pregiudizio scientifico a favore dell'uniformità. Ciò ci obbligherebbe a riconsiderare la nostra posizione, o comunque a cercare leggi sconosciute. Ma quanto è diverso, nel caso in questione, lo stato reale delle cose! Indicare il problema del conflitto tra le asserzioni quasi scientifiche, in cosmologia, in geologia, nella storia antica, a cui si sono impegnati i teologi, e la carriera ininterrotta della scienza, sa quasi di un'epoca passata. Come una religione che si basa fin dall'inizio su siffatte asserzioni possa vivere senza di esse non è ancora rivelato; ma dobbiamo capire che la Chiesa non insiste più su nulla che possa in qualche modo entrare in conflitto con la scienza verificata; e dobbiamo dimenticare che l'avesse mai fatto. Non dobbiamo più preoccuparci di un'apologetica fondata sulla pretesa immaginaria di aver fornito un resoconto verificabile dell'universo. 

In realtà, la scienza critica ha fatto progressi altrettanto trionfali della scienza fisica. Il postulato secondo cui la storia degli ebrei, al pari di quella di altre razze, è razionalmente spiegabile mediante cause naturali, ha condotto a una comprensione sempre maggiore. Da Spinoza nel diciassettesimo secolo a Wellhausen nel diciannovesimo, il movimento è stato paragonabile a ogni altro movimento scientifico che si possa nominare. Spinoza riuscì ad abbattere i presupposti soprannaturalisti per mezzo dell'analisi, ma egli non propose una teoria costruttiva che potesse dare una soddisfazione permanente. Egli prese l'idea della comunità ebraica (Respublica Hebraeorum) fin troppo “staticamente”, ragionando come se una società fondamentalmente dello stesso tipo fosse sempre esistita. La critica moderna alla fine ha trovato la vera soluzione nel collocare la realizzazione del tipo — nella misura in cui si fosse mai realizzato — alla fine, e spiegarla mediante l'evoluzione, in circostanze particolari, da uno stato di cose primordiale che era assai meno determinato. Coloro che elaborarono i loro libri sacri durante quell'ultima fase della vita nazionale che definiamo la “teocrazia” proiettarono il loro ideale nel passato; attribuirono il codice legislativo finale a un presunto primo legislatore primitivo, “Mosè”, al quale la legge era stata divinamente rivelata; e, a scopo di edificazione, attribuirono tutti gli errori e le disgrazie del popolo alla deviazione dall'immaginario codice rivelato posto all'inizio. In questo processo, però, gli editori posteriori non riscrissero completamente i documenti precedenti su cui operarono. Porzioni della letteratura ebraica più antica giacciono incorporate come frammenti con una struttura più recente attorno a loro. Questo modo di composizione, portato avanti talvolta per un periodo di tempo considerevole, ha portato all'esistenza di libri “storici”, non solo di due, ma di molti strati; ogni nuovo strato comportava modifiche nella storia, a seconda del tipo di edificazione a cui si mirò di periodo in periodo. I frammenti più o meno arcaici, le cui parole erano state preservate in una certa misura non modificate in quanto già sacre, fornirono preziosi indizi alla critica, la quale poteva così districare la struttura estremamente complessa e, entro certi limiti, spiegare il processo con cui arrivò alla forma in cui essa fu fissata. 

Essendo questo il carattere dell'Antico Testamento come letteratura e storia, dovremmo aspettarci fenomeni simili nel caso del Nuovo Testamento, che ne è il diretto discendente. E, poco più tardi, i critici stanno arrivando a un ripudio altrettanto completo della tradizione sotto la quale esso è stato a lungo presentato. Ciò che sembra probabile è che troveremo nell'insegnamento attribuito al fondatore della nuova religione e ai suoi apostoli il risultato di un accumulazione graduale, proiettata indietro nell'immaginazione fino agli inizi, al pari dell'ideale dell'antica teocrazia. La domanda è: questa ipotesi spiegherà razionalmente i fenomeni di stratificazione rilevati nei libri dall'analisi? Infatti indubbiamente i libri presentano siffatti fenomeni. Essi non sono composizioni unitarie come quelle di uno storico greco o romano, o persino di un romanziere. Contribuirà a chiarire il problema se ritorniamo alla storia degli ebrei e a tentare di esporre in modo sintetico alcuni risultati generali della critica.

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