venerdì 18 aprile 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — Prefazione


Il Dio di Coincidenza   

Può qualcuno negare che  

Una cosa dopo l'altra  

In sequenza e logica  

Mai vista prima   

Non può essere che la  

Interferenza di un Dio  

Determinata a provare che 

Ognuno che pretende  

Di conoscere ora  

Una cospirazione è   

Demente? 

(Kent Murphy)

«Constatazioni necessarie»

Anche se ti sembra di aver capito una cosa

Dubita e non dar tregua.

Dubita di tutto ciò che sembra bello ed è vero,

Chiediti sempre: a quale scopo?

Non creder che una cosa sia soltanto buona,

Diritto non è diritto e storto non è storto.

Se per qualcuno un valore è assoluto,

Chiedigli sottovoce: perché?

La verità d'oggi può già mentir domani,

Segui il fiume da dove è ancora un ruscello.

Non t'accontentar delle singole parti,

Chiediti sempre: da quando?

Ricerca le cause, collega e risolvi,

Osa guardare dietro le parole.

Se uno dice: «Ciò è buono (o cattivo)»,

Chiedigli sottovoce: per chi?

(Autore sconosciuto)

I extend and amend van Manen's insights regarding the suggested date and social setting of Pauline letters. Van Manen argued for a late-first- or early-second-century date of the Pauline letters, seeing the Jewish revolt of 70 CE as triggering debates regarding the ongoing necessity of Jewish law and practices. Comparative textual evidence, however, indicates otherwise, namely, that these debates emerge later, in the period surrounding the Bar Kokhba revolt. 

(Livesey, Nina E., The Letters of Paul in Their Roman Literary Context: Reassessing Apostolic Authorship. Cambridge: Cambridge University Press, 2024, p. 200, mia recensione qui)

Non sono seri i sedicenti storici che sostengono la mancanza di serietà della tesi che l'apostolo chiamato Paolo non è mai esistito storicamente. Non si può cancellare impunemente con un tratto di penna una serie di studi portati avanti fin dal Sette-Ottocento, con Bruno Bauer a fungere da capofila, e che arrivano a riconoscere l’inesistenza storica di Paolo e a prendere partito per l'inautenticità di tutte le lettere attribuite al suo nome. Sta a chi afferma l’esistenza di Paolo e la sua paternità almeno delle lettere cardinali l’onere di fornire delle prove. Lasciamo quindi che i sostenitori dell'autenticità delle 4 (o 6, o 7) lettere “paoline” invochino la follia, la mancanza di serietà, il dilettantismo e il complottismo dei negatori del Paolo storico, e costringiamoli però poi a portare le prove di una corrispondenza reale dell'Apostolo; il fatto è che, per il momento, un momento che dura da duemila anni, di prove non ce ne sono! A meno di non voler credere che gli Atti degli Apostoli siano “storia ricordata” (e non delle pie favole belle e buone). In presenza dell’assenza flagrante di prove da due millenni, il minimo che chiedo sulla questione dell’autenticità delle epistole è che non venga regolata con sufficienza e presunzione, o con disinvoltura e disprezzo. Sappiamo tutti quello che valgono le scienze religiose o l’esistenza storica di Paolo. I folli apologeti cristiani affermano in maniera decisamente perentoria che la mancanza di una prova non è la prova di una mancanza. Cosa, in effetti, tutta da dimostrare! La formula è certo ben equilibrata e produce il suo bell’effetto narcotico; si tratta, in realtà, di un espediente ridicolo che permette di non ingaggiare lo scambio, o lo scontro, e di fare un bel passo in avanti continuando a rimanere fermi al proprio posto, con il problema lasciato irrisolto. Perché, non c’è niente da fare: sono duemila anni che mancano le prove dell’esistenza storica di Paolo, e sono duemila anni che continuano a saltarne invece fuori un’infinità sulla natura fabbricata delle cosiddette “epistole”. Nulla di spendibile dal punto di vista storico: non una sola testimonianza, non un solo artefatto in grado di fornire qualche certezza; in compenso, una folla di testi, di parole, di frasi, di concetti e di pensieri. Mai uomo assente è stato tanto presente grazie alla sua stessa assenza. Mancando una prova dell'esistenza del Paolo storico, cioè l’unico che a me interessa in questa sede, quella del Paolo degli Atti e quella delle lettere si rivela una semplice pelle intellettuale, un Paolo di carta. Paolo nasce da una santa favola, ossia da Atti degli Apostoli, cioè Paolo è una figura letteraria fittizia. Se vogliamo imparare qualcosa su di lui, è in testi che non sono storici ma religiosi che siamo costretti a cercare. Nessuno storico del 1° secolo della nostra era ne parla. Ed è invece alla letteratura religiosa che dobbiamo rivolgerci, nel caso specifico agli Atti degli Apostoli e alle lettere attribuite a Paolo. Nei testi pagani degli storici ebraici e romani vissuti nel secolo che stiamo prendendo in considerazione, o nel secolo successivo, non esiste una sola prova dell’esistenza storica di Paolo. Il fatto è che, dai “suoi” Atti, più che la prova dell’esistenza storica di Paolo, desumiamo quella dei suoi primi inventori.  Mentre dalle “sue” lettere ricaviamo solo l'esistenza della scuola (di Marcione) che le produsse. In altre parole, tutto quello che possiamo ricavare è che, in quel preciso momento storico, esistono dei cristiani e questi cristiani si richiamano a un personaggio di nome Paolo. Niente che ci fornisca la prova che questo Paolo sia esistito storicamente, nei fatti.

 Sono solo gli Atti degli Apostoli e le epistole “paoline” che danno per certa l’esistenza storica di Paolo; nessun altro testo pagano porta una sola prova inconfutabile. Atti degli Apostoli, favola religiosa per eccellenza, è l’unica fonte originaria. A noi però servono altre fonti, fonti diverse, fonti che non siano endogene o religiose ma esogene e storiche. Non esiste alcuna prova tangibile dell’esistenza storica di Paolo perché tutte quante le prove sono state inventate o da Atti degli Apostoli, o da quelli (Marcione in primis) che sfruttarono a fini propagandistici quella figura di carta! È Atti degli Apostoli che inventa a tavolino Saulo/Paolo. È la scuola di Marcione che fabbrica la prima collezione di lettere “paoline”. In effetti, prima degli Atti degli Apostoli, non sembra esserci nessuna preoccupazione di provare l’esistenza storica di Paolo, peggio ancora: non lo si nomina nemmeno. In una parola: Silenzio. Il catalogo di queste false prove (Atti ed epistole), che sono in realtà dei deliri veri e propri, ci è utile a mettere a fuoco soprattutto la sconfinata vastità dell’immaginazione degli uomini, addirittura la loro doppiezza. Perché, diciamolo, le epistole sono alquanto redditizie per parecchia gente: per i marcioniti, che consideravano Paolo il solo legittimo apostolo, e per i proto-cattolici, a cui la cooptazione degli scritti di Marcione rappresentò un’occasione ghiottissima. È a questa pretaglia che dobbiamo la scoperta delle famose prove dell’esistenza storica di Paolo! 

Noi, però, chiudiamola qui. Paolo non ha mai avuto un passato da persecutore; non è mai stato allievo di Gamaliele, il suo nome non era Saulo e non faceva il fabbricante di tende a Tarso; non ci sono mai state epistole scritte o dettate da lui; non ha mai dato istruzioni alle comunità sparse nella Diaspora; non ha mai navigato per il Mediterraneo orientale, non è mai andato a Roma né ha fondato chiese, non ha mai incontrato i cosiddetti “Pilastri”, o pattuito con loro per rivolgersi ai soli pagani; non è mai stato martirizzato sotto Nerone; non è mai asceso al terzo cielo, non ha mai aspettato la Parusia, non ha mai avuto reali corrispondenti di epistole. Ancora una volta: questo Saulo/Paolo è il puro prodotto di Atti degli Apostoli. E le primissime epistole sotto il suo falso nome sono il puro prodotto della scuola dell'eresiarca Marcione.  


LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO

CON 

UN RIASSUNTO DELL'ANALISI DI VAN MANEN DELLA LETTERATURA PAOLINA 

DI

THOMAS WHITTAKER


σώφρονος δ᾽ ἀπιστίας

οὐκ ἔστιν οὐδὲν χρησιμώτερον βροτοῖς.

[“Una prudente diffidenza, questa è la dote più utile per l’uomo”]

 —  EURIPIDE, Elena, 1617.


Nihil enim in speciem fallacius est quam prava religio.

[“Non c'è nulla di più ingannevole in apparenza di una falsa religione”]

 — Tito LIVIO, 34:16.


PREFAZIONE

Dopo aver letto il celebre articolo su “Paolo” nel terzo volume dell'Encyclopaedia Biblica, il mio pensiero fu che, se le conclusioni esposte potessero essere stabilite dall'analisi, allora il professor van Manen avrebbe dovuto essere considerato il Copernico della critica neotestamentaria. Collocare gli scritti paolini, assieme al resto del Nuovo Testamento, nel secondo secolo, rimuoverebbe un'anomalia e renderebbe possibile una deduzione coerente del processo mediante cui giunse in esistenza il cristianesimo. Lo studio della sua opera originale ha finora confermato la mia opinione. Allo stesso tempo, avevo l'impressione che il risultato potesse anche disvelare uno strato di tradizione storica genuina nella narrativa evangelica. Non pensavo, infatti, che si potesse determinare, ad esempio, un solo detto indubitabile di Gesù. Quello che immaginavo potesse diventare un problema pratico era far risalire il movimento giudeo — cristiano originario, in quanto distinto dal cristianesimo paolino o gentile, ad un impulso di un maestro personale che avesse lasciato una profonda impressione mediante la sua continuazione dello sforzo del profetismo ebraico verso l'universalizzazione dell'etica prevalentemente nazionale dell'ebraismo più antico. Il Gesù reale sarebbe stato quindi un maestro che fece, da una base religiosa, ciò che era già stato fatto filosoficamente dai successori di Platone e di Aristotele, e soprattutto dagli Stoici, i quali prima dell'era cristiana avevano definitivamente universalizzato la moralità civile di una fase precedente della vita sociale. Secondo questa opinione, la concezione di Gesù come il Messia ebraico, e in seguito come il Figlio di Dio in senso speciale, non procedette da lui stesso, ma dai suoi seguaci e dalle generazioni successive. Il paolinismo fu la forma assunta da un movimento di teologia speculativa che progredì tra i convertiti cristiani di lingua greca in Siria e in Asia Minore. 

Ciò è qualcosa di simile all'opinione suggerita dallo stesso professor van Manen, anche se non sono consapevole che egli abbia dichiarato precisamente che tipo di maestro concepisca che fosse stato Gesù. In un punto egli attribuisce ai primi “discepoli” una concezione di sé stessi come “dediti a Dio” in un senso religioso arcaico, piuttosto che qualcosa che dovremmo definire una direzione riformatrice distintamente etica. Se questa opinione è corretta, non c'è motivo di attribuire a Gesù stesso un'enfasi particolare su un insegnamento etico progredito. Il periodo che precede il paolinismo è lasciato, quindi, alquanto vago. Il professor van Manen, infatti, si attiene per lo più rigorosamente al proprio problema delle origini del paolinismo, proponendosi solo un profilo della formazione iniziale del cristianesimo che sembri ipoteticamente sufficiente. 

Che questo profilo fornisca un'ipotesi sufficiente sono del tutto d'accordo. Un maestro a cui non si può attribuire nulla di autentico se non qualche impulso indefinito su una serie di discepoli, i quali in seguito misero insieme, da fonti ebraiche, il corpo di detti etici e religiosi che definiamo l'“insegnamento di Gesù”, avrebbe potuto plausibilmente, allorquando il suo nome fosse portato in un contesto sociale diverso e lui fosse dimenticato come persona, crescere nel “Cristo” soprannaturale della scuola paolina. Se, però, volessimo indagare risolutamente sulle origini del cristianesimo fin dall'inizio, la domanda andrebbe posta: l'ipotesi è necessaria come pure sufficiente? Il risultato di ulteriori considerazioni mi ha convinto di no. Accetto la conclusione recentemente esposta da J. M. Robertson in una trilogia di opere valide, ossia che la storia evangelica è, a tutti gli effetti, non solo leggendaria, ma anche mitica. 

La tesi del signor Robertson, a mio avviso, può persino essere portata oltre. Anch'egli si è trattenuto  —  come lui sottolinea che hanno fatto i critici precedenti  —  dal non mettere in discussione la tradizione ecclesiastica abbastanza radicalmente. Egli concede che il cristianesimo, come setta specifica, possa essere sorto all'incirca nel momento in cui sorse secondo la visione autorizzata della Chiesa, cioè vale a dire nella generazione precedente alla distruzione di Gerusalemme. Egli ritiene, infatti, che a quel tempo esso non fosse altro che una setta ebraica; anche se in questo caso il paolinismo, se le Epistole attribuite a Paolo e che ne comportano l'attività sono autentiche, sarebbe quantomeno un'anomalia. Le indagini del professor van Manen, però, rimuovono questa difficoltà. Infatti, la sua tesi può essere perfettamente combinata con quella del signor Robertson. Fatto ciò, sostengo che dobbiamo fare un ulteriore passo nella direzione negativa. Prima della caduta del Tempio non dobbiamo ipotizzare nulla di nulla che corrisponda al cristianesimo, se non un culto oscuro  —  le cui prove il signor Robertson ha fatto molto per portare alla luce  —  e un indeterminato movimento messianico. La vita e la morte quasi storiche di Gesù, attorno a cui giunsero a formarsi una nuova setta o più sette, presero forma solo dopo l'anno 70. Il periodo di gestazione  —  di creazione orale del mito  —  perdurò fino alla fine del primo secolo. Poi iniziò la produzione della letteratura neotestamentaria  —  pseudo-epigrafica senza eccezioni  —  che fu completata approssimativamente entro la metà del secondo secolo. 

Chiunque a cui queste conclusioni possano sembrare sorprendenti farà bene a leggere, alla luce di esse, La religione entro i limiti della sola ragione di Kant, dove si può trovare anticipata filosoficamente la loro tendenza generale. È chiaro non solo che Kant aveva studiato il Nuovo Testamento con quell'estrema attenzione che Matthew Arnold si rammaricava che Hume non avesse ritenuto opportuno dedicargli, ma pure che era giunto a conclusioni del tutto negative, sia per quanto riguarda la tradizione incarnata nei libri sia per la tradizione intorno a loro. Egli dice chiaramente che non si può attribuire alcun valore storico alle affermazioni della letteratura cristiana per il periodo prima che il cristianesimo avesse un proprio pubblico erudito e critico; e che esso non ebbe un siffatto pubblico finché non emerse nella vita generale dell'Impero romano. E nel dettaglio, egli si astiene deliberatamente dall'impegnarsi nella supposizione che vi sia qualche base storica di sorta per le leggende che egli può utilizzare occasionalmente come testo per una filosofia religiosa. Esse sono trattate semplicemente come ciò che la società che stava costruendo la nuova religione cosmopolita desiderasse far credere ai fedeli. La sua posizione che  —  in totale assenza di prove reali  —  noi siamo liberi di elaborare la migliore interpretazione possibile della dottrina e dell'insegnamento cristiano, in modo da portare il cristianesimo allo stadio di una religione puramente razionale ed etica, poteva sembrare ammissibile solo in un'epoca meno preoccupata dei problemi storici rispetto alla nostra. Il secolo che seguì Kant, invece di accantonare siffatti problemi in quanto irrilevanti per una costruzione razionale, si lanciò con nuovo zelo in indagini sull'embriologia delle istituzioni. I risultati non potranno, alla lunga, non avere un impatto sull'approccio pratico del mondo verso le religioni esistenti. Io spero che le pagine che seguono possano essere utili al compito tradizionale della filosofia inglese: quello di “sgombrare un po' il terreno” per i cultori scientifici del campo.

La mia esposizione del professor van Manen si basa sulla sua grande opera Paulus, di cui le tre parti sono: I. De Handelingen der Apostelen (1890); II. De Brief aan de Romeinen (1891); III. De Brieven aan de Korinthiers (1896). Ho aggiunto un po' di  note, alcune delle quali, però, sono solo trascrizioni di testimonianze più dettagliate dal testo originale. Si fa riferimento occasionale pure al breve Handleiding voor de Oudchristelijke Letterkunde (1900). Siccome l'esposizione della Parte II. fu scritta indipendentemente dall'articolo del professor van Manen su “Romani” nell'Encyclopaedia Biblica, Volume IV, i due resoconti dovrebbero corroborarsi l'un l'altro. 

Il saggio introduttivo è un tentativo di fare più esplicitamente ciò che gli stessi critici biblici fanno in concomitanza col loro lavoro analitico, cioè dedurre l'ordine degli eventi in linea generale secondo i risultati raggiunti dall'esame dei documenti. Il mio metodo è stato quello di prendere la distruzione di Gerusalemme nell'anno 70  —  la cui consapevolezza pervade tutta la letteratura cristiana antica  —  come il presupposto dello sviluppo. Così siamo al punto di vista della causalità storica. Avendo l'analisi mostrato che tutti i documenti sono notevolmente posteriori alla grande catastrofe del giudaismo, la sintesi dovrebbe mostrare come fosse proprio questo l'evento in cui dobbiamo indicare la causa  —  o l'occasione indispensabile  —  della  peculiare confluenza di elementi che concorsero nella Chiesa cristiana.  

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