giovedì 3 ottobre 2024

ECCE DEUS — ADDENDUM I

 (segue da qui)

ADDENDUM I.

Integrazione al § 17. 

In Luca 2:52, leggiamo che “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”. Il Professor Schmiedel fu troppo prudente o astuto per annoverare questo passo tra i suoi pilastri fondativi; ma il suo abile discepolo, il dottor Arno Neumann — che è profondamente toccato dai “fatti semplici, sobri e innocenti della storia come li troviamo nei” “Vangeli” sinottici — non ha mostrato una tale perspicacia. Con esso inizia il suo elenco (per il resto in accordo con Schmiedel) di “Affermazioni che non possono essere né più né meno che sopravvivenze della verità, frammenti preziosi”, ecc. e aggiunge: “Se lo scrittore fosse stato un adoratore di Gesù come divinità, ce lo avrebbe presentato come già adulto” (Jesus, pag. 10). Anche questo è un “frammento prezioso” che esemplifica le abitudini di critici illustri; è, infatti, inestimabile ai fini della nostra argomentazione. Uno o due aspetti sembrano richiedere un'attenta indagine. 

Il dottor Neumann è sicuro che “un adoratore di Gesù come divinità ce lo avrebbe presentato già adulto”. Ma come può essere così sicuro? Le storie degli dèi, inventate dai loro adoratori, non sono forse piene di racconti della nascita e dell'infanzia? Il dottor Neumann ha forse dimenticato Bacco e Zeus? Non ci racconta forse Pindaro che Leto fissò col suo piede sacro l'isola fluttuante di Delo e la rese l'immobile meraviglia della terra, e che vi portò alla luce e sorvegliò la sua prole benedetta? E qualcuno dubita che Pindaro adorasse Apollo e Artemide come divinità? Le storie della nascita e dell'infanzia di Gesù sono abbastanza in linea con altre teogonie inventate dagli antichi, che adoravano tutti questi nati in maniera prodigiosa come divinità. 

Osserva bene, però, che queste storie in Matteo e in Luca non appartengono alla narrativa più antica. È riconosciuto da tutti che si tratta di aggiunte tardive; esse sono il fiore e quasi il frutto maturo della tendenza all'umanizzazione che ha fatto scempio della dottrina originale del Gesù. Additare loro, o qualcuna di loro, come esempi della concezione evangelica primitiva è una procedura critica notevole. Forse sarebbe stato più degno della nuova divinità essere introdotta sulla scena nel pieno splendore della potenza celeste, senza alcuna flebile suggestione di parentela terrena. E questo è proprio ciò che fa Marco (1:1-3): “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio: come è scritto nel profeta Isaia: Ecco, io mando il mio Angelo davanti a te, egli ti preparerà la strada; voce di uno che grida nel deserto: 'preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri'.” È il Signore (Jahvé) che viene, e viene con potenza. Similmente il Quarto Evangelista, con una nota meno altamente poetica, ma più profondamente filosofica. Sono soltanto Matteo e Luca a cedere alla debolezza della natura umana e ad aprire la porta alla faticosa processione dei Vangeli dell'Infanzia. A causa della durezza dei nostri cuori fecero ciò, ma all'inizio non fu così.  

Questo versetto, con cui il dottor Neumann precede l'elenco schmiedeliano, è in realtà un'illustrazione sorprendente del processo con cui è venuta in essere l'intera storia evangelica e apocrifa. All'inizio, come nella narrativa di Marco, non si pensò minimamente a umanizzare la figura divina introdotta sulla scena. Tuttavia, se mai dovesse esserci una storicizzazione, drammatizzazione o simbolizzazione delle grandi idee che covavano nel pensiero dell'Evangelista, allora si doveva seguire il principio di Senofane: la Divinità doveva essere rappresentata come un uomo: che parla, cammina, dorme, compie atti di potenza e infine muore. Similmente, sebbene ancora in misura minore, nella raccolta più antica di Detti (Logoi, Logia) del Gesù, egli è rappresentato di necessità come umano, mentre parla. Un Detto era regolarmente introdotto dalla frase “Il Gesù dice”, o varianti. Ciò era esattamente parallelo al preambolo abituale dei profeti: “Così dice Jahvé”, “Oracolo di Jahvé”, ecc. e, di fatto, presenta il Gesù come un nuovo Jahvé, o almeno come un pro-Jahvé, la concezione che regna in tutta l'antica letteratura cristiana. 

Gradualmente e molto naturalmente, il sentimento artistico si affermò sempre di più, e vennero ideate situazioni drammatiche, poi elaborate come ambientazione dei Detti, che subirono a loro volta un grande sviluppo ed espansione. Di questo processo il Quarto Vangelo fornisce illustrazioni perfette. Allo stesso tempo o più tardi si fece sentire la tendenza universale a umanizzare indebitamente e persino irragionevolmente; ad attribuire al Dio le passioni e persino le debolezze dell'uomo, e soprattutto ad accentuarne il lato commovente e il lato compassionevole. Così il Quarto Evangelista insiste che Gesù amò, e persino che pianse; mentre gli ultimi racconti di Matteo e di Luca, profanando il sacro riserbo di Marco (1:13), ci informano che digiunò e poi ebbe fame. Ultime e meno perdonabili, anche se perfettamente naturali, sono le storie della nascita, dell'infanzia e della fanciullezza. Dopo che il processo verso l'umanizzazione ebbe trionfato sulla solenne e terribile divinità della concezione originale, fu inevitabile che la fantasia umana ponesse le domande e rispondesse ad esse: Come fu generato? Come nacque? Come fu nutrito? Quali meraviglie glorificarono i suoi primi anni? In tutto questo sviluppo riconosciamo i meccanismi più familiari della natura umana. “L'uomo è misura di tutte le cose”, disse Protagora; in tutte le epoche l'uomo stesso è stato il canone che egli ha posto sull'universo, con cui lo ha misurato, interpretato e costruito nel pensiero.

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