domenica 22 settembre 2024

ECCE DEUS — L'ELEMENTO DIDATTICO

 (segue da qui)


L'ELEMENTO DIDATTICO 

74. Quanto ai “Detti” (Logoi, Logia), discesi da una fonte più antica della narrazione, essi sono stati raccolti da ogni punto del contesto letterario. Così, per Matteo 5:25 (Luca 12:58) dobbiamo rivolgerci alle Dodici Tavole, I; [1] che a parlare sia una coscienza romana è evidente dalla parola quadrans (κοδράντην), che Luca trasforma naturalmente in λεπτόν (anche se D, con altri, mantiene κοδράντην). Per il detto giustamente famoso (Marco 2:27), “ll sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato”, torniamo a 2 Maccabei 5:19: “Ma il Signore aveva eletto non già il popolo a causa di quel luogo, ma quel luogo a causa del popolo”. I sentimenti antitetici: “Chi non è con me, è contro di me” (Matteo 12:30; Luca 11:23), e “Chi non è contro di noi (voi) è per noi (voi) (Marco 9:40; Luca 9:50), furono pronunciati il primo da Pompeo, il secondo da Cesare, e molto opportunamente da ciascuno, all'inizio della Guerra Civile, come leggiamo in Cicerone, pro Q. Ligario. [2 “Nessuno è buono, se non uno solo, cioè Dio” (Marco 10:19; Luca 18:19) richiama la massima pitagorica, [3] “Nessuno, infatti, è sapiente, tranne Dio”; mentre l'espressione molto significativa, “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è Buono” (Matteo 19:17), ripete la dottrina di Euclide di Megara: “Il sommo Bene è uno solo, anche se chiamato con molti nomi” (Diogene Laerzio 2:106). È vero che il genere è maschile in Matteo, ma il senso e la pertinenza della risposta alla domanda richiedono il neutro, e i due generi non erano distinti nell'aramaico primitivo. Merx rende il siriaco: “Was fragst du mich über das Gute? Denn einer ist der Gute (oder: der Gute ist einer, oder: Das Gute ist eines). Chiaramente solo l'ultima espressione è rilevante per la domanda. 

75. I più profondi recessi di carattere etico sono messi a nudo nel famoso versetto del Discorso della Montagna, Matteo 5:28; ma le stesse profondità erano già state scandagliate 400 anni prima dal secondo capo dell'Accademia: “Senocrate, il discepolo di Platone, asseriva che fra il mettere piede in casa d'altri e il gettarvi lo sguardo non c'era alcuna differenza: infatti chi guarda là dove non deve e chi entra in luoghi dove non bisogna errano nella medesima misura” (Eliano, Variae Historiae 14:42). La differenza tra i due pronunciamenti non è etica, ma retorica; e lo scrittore non ha nulla da eccepire a chi preferisce la retorica dell'Evangelista a quella del filosofo. 
Naturalmente, il pensiero divenne un luogo comune nell'etica greca, e anche molto prima. “Quando una volta Sofocle lodò un bel giovane, Pericle disse: Sofocle, lo stratego deve avere pure non soltanto le mani, ma anche gli occhi”.
La dottrina del sacrificio di sé (come sta scritta in particolare in Matteo 23:11, 12) sembra a prima vista del tutto peculiare del Vangelo. In realtà, però, era abbastanza ben nota pure nelle imitazioni romane dei moralisti greci, come risulta da Cicerone, De Officiis 1:90: “Cosí che hanno evidentemente ragione coloro i quali ci consigliano di comportarci tanto più umilmente [summissius] quanto più siamo posti in alto”. Sì, possiamo affermare con sicurezza che, se possedessimo l'etica greca nella sua forma originale e nella sua interezza, compresi gli scritti di Antioco e della sua Quinta Accademia, invece di semplici scampoli o di riflessi fiochi e confusi, troveremmo anticipata praticamente l'intera etica del Nuovo Testamento. Anche il dogma del dovere dell'Amore Universale verso l'uomo dovette avervi trovato espressione, perché è solo un corollario immediato e ovvio di quell'altro dogma ancora più profondo dell'Umanità Comune, dell'Uomo come Uomo, che Cicerone ama tanto riecheggiare nella sua parola preferita, humanitas. Ne consegue direttamente che si dovrebbe trattare ogni uomo, anche l'indegno, anche i propri nemici, con gentilezza: sì, con affetto; perché non sono forse i propri simili? Sicuramente, non dobbiamo fare del bene ai persecutori in quanto persecutori, ma in quanto nostri fratelli. Esattamente a questo punto di vista era già arrivato Aristotele, il quale, quando rimproverato di aver fatto del bene a un reprobo, rispose: “Non all'uomo, ma all'umano”. [4] 
È questo stesso dogma che costituisce la base della Legge della reciprocità, la Regola d'oro (Matteo 7:12), nonché della dottrina dell'uguaglianza di tutti gli uomini agli occhi del Dio della natura (Matteo 5:45). 

75a. La dottrina dell'albero che deve essere giudicato dai suoi frutti è prominente nei Vangeli (Matteo 7:16-21; Luca 6:43-46). Ma era un luogo comune molto più antico del Discorso della Montagna. Dice Ovidio (Ars Amatoria 1:747): “Chi spera questo, speri anche che le tamerici diano frutti e cerchi il miele nel bel mezzo del fiume”. Pure Plutarco (De Tranquillitate Animi 13) : “Non si chiede a una vite di produrre fichi o a un olivo di dare grappoli”. Quanto ozioso, allora, chiedersi se la domanda in Matteo 7:16 oppure Luca 6:44 sia l'originale. Entrambe — e nessuna delle due. 

75b. A questo punto diventa necessario notare il fatto che l'aspetto più particolare del Vangelo, o almeno dei discorsi di Gesù, è il loro prevalente carattere sentenzioso. Più di ogni altra cosa, è l'elemento gnomico unito all'elemento parabolico a colpire il lettore e ad aver plasmato l'idea diffusa dell'unicità di queste composizioni e della loro testimonianza incontrovertibile di un'unica incomparabile personalità fondativa. In realtà, però, è proprio questa stessa qualità stilistica a connotare questi scritti non come derivati da un unico individuo straordinario, ma come il prodotto combinato dell'intelligenza collettiva di nazioni ed epoche. Un maestro può, infatti, inframmezzare il suo discorso con aforismi occasionali; ma un discorso vivo, quasi esclusivamente aforistico, sarebbe innaturale e respingerebbe piuttosto che attrarre. I poemi di Focide e Teognide, le Massime di un Rochefoucauld, il Lacon di Colton e altre siffatte “Filosofie Proverbiali” sono il frutto elaborato di anni di riflessione solitaria. Un proverbio è, infatti, la saggezza di molti, ma raramente è l'arguzia di uno solo. Chi esamina anche solo un dizionario di citazioni, o colleziona i proverbi in varie lingue, si accorge subito che le loro espressioni perfezionate sono quasi sempre frutto di una crescita graduale che può risalire attraverso fasi più grezze e più rozze. Anche nei Vangeli stessi troviamo molti esempi di arte raffinata e meno raffinata. Lo testimonia l'energica grandezza di Matteo 7:24-27; quanto è superiore a Luca 6:47-49! Confronta anche il più primitivo Discorso della Pianura lucano con il molto più elevato e spiritualizzato Discorso della Montagna matteano. Confronta parimenti quel brillante gruppo, le Beatitudini, con le sue gemme costitutive sparse in Isaia 50:1, 61:2; Geremia 31:24; Salmi 24:3, 4, 37:11, 109:28, 126:5, 6. Di sicuro non è difficile perdonare lo scriba che, omettendo una sola lettera (σ), ha sublimato il principale cantico angelico, “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” (ossia, il Suo popolo Israele), in “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Tali artifici abbondano in queste scritture. Le parole luminose del Nuovo Testamento evidentemente sono pietre che sono state levigate alla perfezione dal logorio dei secoli. 

75c. Non ci può essere errore più grave che attribuire questa qualità puramente letteraria alla personalità di Gesù o, comunque, a qualsiasi altra. A parte il fatto che con ogni probabilità avrebbe parlato in aramaico, lo stile letterario — che va da Marco a Giovanni — non è in relazione con la presunta personalità. Gesù e Giovanni sono pensati in contrapposizione e persino agli antipodi; eppure i loro stili sono gli stessi. Il grande discorso di quest'ultimo (Matteo 3:7-12), con lievi modifiche, si adatterebbe altrettanto bene alle labbra del primo. Infatti, entrambi denunciano i farisei come una “razza di vipere” (Matteo 3:7; 23:33); entrambi usano proprio le stesse parole intorno all'Albero e al Fuoco (Matteo 3:10; 7:19); proclamano il Regno in termini identici (Matteo 3:2; 4:17). 

75d. A questo proposito, i recenti ritrovamenti di papiri, coi loro nuovi “Detti del Gesù”, sono di notevole interesse. Sebbene ciascuno introdotto dalla solenne formula “Il Gesù dice”, apparentemente del tutto in linea con il preambolo dell'Antico Testamento “Così dice Jahvé”, spesso non sembrano avere nulla in comune con i Vangeli se non l'inconfondibile timbro gnomico, il segno distintivo della letteratura cristiana più antica. Chiaramente essi sono  disiecta membra di una collezione un tempo imponente. Siffatti Logoi potrebbero essere esistiti in passato in numero quasi incalcolabile. L'oblio li ha inghiottiti insieme a tanto altro della letteratura antica. Qua e là ne sono sfuggiti alcuni e si vedono rari nantes in gurgite vasto. Il recupero dei nostri detti canonici è simile a quello delle sette tragedie di Sofocle: sette su ottanta!  Possiamo sospettare però che ciò che è sopravvissuto sia il meglio, non tutto il meglio, né tutto del meglio, ma nel complesso il più degno da salvare. La coscienza cristiana ha vagliato e ri-vagliato, ha verificato se gli spiriti fossero di Dio; ha levigato e raffinato, ha disposto e ridisposto le pietre preziose, finché la grande cittadella della sua fede brilla e lampeggia come le porte decorate della Nuova Gerusalemme. 

75e. Le illustrazioni delle tesi precedenti potrebbero essere moltiplicate all'infinito. Prendi una illustrazione aggiuntiva, sulla quale Eisler (Weltenmantel und Himmelszelt, pag. 733) ha già richiamato l'attenzione. In Erodoto (1:141) Ciro risponde alla richiesta di loni ed Eoli di ottenere condizioni che avevano già rifiutato con il “detto” del pescatore che, avendo catturato in una rete i pesci che aveva invano cercato di attirare a riva con il flauto, vedendoli che guizzavano, disse loro: “Smettetela di ballare, voi che, quando suonavo il flauto, neppure voleste uscire a ballare”. Si trattava evidentemente di una favola familiare, alla quale si rifà il parallelo evangelico (Matteo 11:17; Luca 7:32), in forma espansa e più ritmata, anche se nell'essere adattata al suo nuovo contesto, è stata alquanto cambiata. Tali “detti esopici” (Logoi) abbondavano e costituivano un ingrediente della conversazione a tavola dei greci colti, proprio come l'italiano inframmezza il suo discorso con proverbi e l'americano con esagerazioni umoristiche. Gli Evangelisti non attinsero comunque da Erodoto, ma dal tesoro comune dell'arguzia e della saggezza antiche. Tentare di dedurre il carattere di Gesù dai “Detti” a lui attribuiti è come cercare di distinguere i tratti dell'uomo che ha posato per una fotografia composita. 

76. A ulteriore illustrazione, si noti che la notevole e importante dichiarazione del metodo di Gesù (Marco 4:33, 34), “Senza parabole non parlava loro, ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa”, sembra riecheggiare dal Teeteto di Platone (152, C), dove Socrate esclama: “Ma allora, per le Cariti, Protagora era davvero onnisciente, ma mentre di fronte a noi, volgare moltitudine, ha esposto questa dottrina in forma enigmatica, ai suoi allievi parlava in segreto dicendo la verità?” Per il celebre oracolo relativo alle due vie (Matteo 7:13, 14) rimandiamo ai misteri eleusini; per il detto circa le misure (Matteo 7:2) a Esiodo; per il terribile quadro delle condizioni sociali che precedono l'imminente cataclisma (Marco 13:12, 13; Matteo 10:21) alle iscrizioni cuneiformi. Similmente, in 1 Corinzi 2:9 sentiamo una chiara eco di Empedocle (1:8, 9a, Plutarco, Moralia, 17E): “Così non può queste cose un uomo udire o vedere, né abbracciare con la sua mente”

77. Nel misterioso enunciato di 1 Corinzi 15:28, “affinché Dio sia tutto in tutti”, [5] incontriamo la famosa dottrina (omeomeria) di Anassagora, secondo cui tutti gli elementi o “semi di tutte le cose” erano così completamente mescolati che qualcosa di ciascuno appariva in ciascuno, “tutte le cose sono in ogni cosa”. [6] Così pure la straordinaria combinazione in Efesini 3:18, “l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità”, è una formula ricorrente nei papiri magici. 

78. Anche la commovente esclamazione di Romani (7:24), “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” è udita di nuovo in Epitteto, citato da M. Antonino (4:41), “Sei una povera anima che regge un cadavere”, come  pure il notevole versetto (7:15) che descrive il conflitto interiore delle nature, “Infatti non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio”. Così Epitteto dichiara (Dissertazioni II, 26:4): “(Chi sbaglia) (ὁ ἁμαρτάνων) non fa quel che vuole e fa, invece, quel che non vuole”. Questa epistola (non ai Romani, ma “a tutti quelli che sono amati da Dio”), [7] in effetti, è stoica in somma misura, come testimonia la frequente ricorrenza di “Dio non voglia” (μὴ γένοιτο), il cui uso logico era tipico della dialettica stoica. Esso pervade Epitteto.

NOTE

[1] Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino; igitur em capito.

[2] 33: “Valeat tua vox ilia, quae vicit: te enim dicere audiebamus nos omnis adversarios putare, nisi qui nobiscum essent; te omnis, qui contra te non essent, tuos”. È particolarmente gratificante trovare nella Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft di Preuschen, 1912, I, pag. 84-87, una discussione accurata di W. Nestle, che giunge proprio alla conclusione qui definita ovvia in base alla semplice affermazione. Ma quando dice: “Certamente né i nostri evangelisti né la loro fonte conobbero l'orazione di Cicerone”, parrebbe avveduto su ciò che è scritto, anche se ha ragione nel considerare questi detti “parole alate” che volarono intorno al Mediterraneo. Poco importa che Nestle non menzioni la priorità di Ecce Deus su questo punto. Tali omissioni sono non tanto frequenti quanto banali. Ai critici può non piacere sfigurare le loro pagine con tali personaggi.

[3] Riprodotta da Platone (Fedro, 278, D): Τὸ μὲν σοφόν, ὦ Φαῖδρε, καλεῖν ἔμοιγε μέγα εἶναι δοκεῖ, καὶ θεῷ μόνῳ πρέπειν.

[4] Stobeo, 37, 32: οὐ τῷ ἀνθρώπῳ ἀλλὰ τῷ ἀνθροπίνῳ. 

[5] ἵνα ᾖ ὁ Θεὸς [τὰ] πάντα ἐν πᾶσιν.

[6] κὰι οὔτως ἂν εἴη ἐν παντὶ πάντα, πάντων μὲν ἐν πᾶσιν ἐνόντων, e molte frasi equivalenti.

[7] Così recita il testo più antico di1:7: πᾶσιν τοῖς οὖσιν ἐν ἀγάπῃ θεοῦ — si veda la dimostrazione nell'articolo dello scrittore nel Journal of Biblical Literature, Parte I, pag. 1-21, 1901, e le parole di Harnack in un numero successivo della Zeitschrift di Preuschen (1902, pag. 84): “È consuetudine rimanere soddisfatti del Testo Ricevuto, ma Smith ha ragione nel dichiararlo interpolato”; e ancora, dopo aver esposto le ragioni: “ἐν Ῥώμῃ perciò va considerata un'interpolazione molto antica”. Nella sua Einleitung in das Neue Testament, i, 278 (1897), Zahn parlò dell'assenza di ἐν Ῥώμῃ “in tempi antichi” “da un testo occidentale (Num. 1, 2) e da uno orientale (Num. 5, 6)”, ma mai suggerì che uno dei due fosse il testo originario. Al contrario: “Vediamo quindi piuttosto un processo di corruzione del testo che, essendo cominciato in 1:7, si è sviluppato in G così tanto da coinvolgere pure 1:16”. Dopo avermi scritto due volte al riguardo e aver riflettuto sulla dimostrazione data nel 1901 e sull'accettazione della stessa da parte di Harnack nel 1902, nella terza edizione della sua Einleitung (pag. 273 e seguenti), egli ha abbandonato la sua precedente posizione, e “ha fornito la dimostrazione più precisa” che il testo con “Roma” non possa essere “originale”; e ripete e completa la stessa dimostrazione nel suo commentario recente su Romans, Exc. I, pag. 615 e seguenti, parlando ancora di ἐν Ῥώμῃ (invece di  Ῥώμῃ), come interpolato! Similmente Lietzmann, nel suo commentario appena apparso. Ma nessuno dei due cita il presente scrittore, perché, invero, in quanto mero autore eccentrico, non ha alcun diritto che essi siano tenuti a rispettare. Una strana sopravvivenza della moralità primitiva del “gruppo”.

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