sabato 21 settembre 2024

ECCE DEUS — ESEMPI DI SIMBOLISMO

 (segue da qui)


ESEMPI DI SIMBOLISMO 

50. Che non ci sia motivo di perdersi d'animo, anche se alcuni aspetti della narrazione evangelica dovessero resistere a lungo all'analisi, è chiaramente illustrato dal caso del “giovane avvolto solo in un panno di lino” (Marco 14:51, 52). Per quasi 1800 anni questo giovane è stato la disperazione dell'esegesi. Wellhausen pensa che fosse solo uno sconosciuto nei dintorni che, udito il frastuono dell'arresto, saltò giù dal letto, con solo una camicia da notte, e si precipitò sulla scena come la giovane America si precipita a un combattimento tra cani. Come uno studioso così colto e acuto possa per un istante intrattenere una visione così banale di un elemento in questo Vangelo così sintetico, compresso e ricco di spunti di riflessione, sembra incomprensibile. Zahn (seguendo Olshausen?) ha il notevole merito di aver intuito chiaramente che questo giovane non fu un semplice sconosciuto, che la sua menzione deve essere provvista di un qualche significato profondo. Di conseguenza, Zahn scopre in lui nientemeno che Marco stesso! I due versi, a suo avviso, sono in realtà la firma concreta di Marco, per identificarlo come autore, nascosto come quella di un pittore in modo modesto e senza pretese in un angolo buio del suo grande quadro storico! È impossibile non ammirare l'ingegnosità di Zahn e il vigore della sua immaginazione. Ma il suo suggerimento non può essere preso sul serio. Fintantoché non c'è alcun accenno di paternità in nessuna parte del Vangelo, sembra una strana specie di firma e di identificazione quella che consiste in un segno del tutto incomprensibile senza nemmeno la traccia di un fecit. Wohlenberg si rifà a Zahn e immagina che Marco volesse “nascondere e allo stesso tempo rivelare sé stesso” come autore; e ipotizza inoltre che i soldati avessero già esplorato la casa di Marco alla ricerca di Gesù, dove Gesù, come pensa Wohlenberg, aveva appena consumato la Pasqua! 

51. Questi versetti appaiono a prima vista piuttosto inspiegabili, eppure il loro significato è abbastanza chiaro. [1] Notiamo che il termine “giovane” [2] non è frequente in Marco; ricorre solo qui e in 16:5. In entrambi i casi si tratta di un “giovane avvolto solo in un panno”; [3] in questo caso in un tessuto di lino fine e costoso, [4] usato soprattutto per le sepolture; in 16:5, in una veste bianca. [5] Anche Leibnitz avrebbe ammesso che le due figure sono quasi indistinguibili. In entrambi i casi la veste è bianca ed è l'unico indumento. [6] Nel primo caso il giovane “lo seguiva”, nel secondo è “seduto sulla destra”. Questi due passi, 14:51, 52 e 16:5, non sono molto distanti tra loro; la fraseologia è sorprendentemente simile: i giovani sembrano stranamente simili. Sono forse correlati? 

52. Volgiamoci all'Antico Testamento e vediamo se riusciamo a trovare un prototipo. Subito ci accorgiamo di Ezechiele 9:2, dove troviamo “un uomo vestito di lino, che aveva un corno da scrivano alla cintura”; lo stesso “uomo vestito di lino” (’îsh labûsh baddîm), senza cambiamenti significativi nella fraseologia, ricorre anche in 9:3, 11; 10:2, 6, 7. In Daniele 10:5; 12:6, 7, incontriamo di nuovo la stessa frase. In nessun altro punto dell'Antico Testamento si trova questa frase. In tutti questi nove casi l'“uomo vestito di lino” è un'espressione tecnica che indica un'entità celeste, un angelo o una divinità. In Ezechiele 9:2 egli è un Registratore (o Angelo che ricorda), e Zimmern (K.A.T. 404) non esita a identificarlo come “chiaramente il dio planetario e registratore babilonese Nabu”, affine al greco Ermes, da cui potrebbe spiegarsi molto naturalmente il termine “giovane” usato da Marco. Sembra, allora, che abbiamo a che fare con un'espressione tecnica per indicare un personaggio celeste. [7] In Marco 16:5, il “giovane vestito d'una veste bianca, seduto sulla destra” del sepolcro aperto è indiscutibilmente una siffatta entità; in dieci casi su undici sappiamo certamente il significato; quale è, allora, il significato nell'undicesimo caso? Non è il caso di invocare la noia del calcolo delle probabilità. La sana comprensione umana non aspetta un istante, ma dice subito che il significato deve essere lo stesso anche nell'undicesimo caso, a meno che non ci siano ostacoli insuperabili. Ma non ci sono affatto ostacoli. Al contrario, è una logica conclusione. Il Celeste è l'Angelo Interiore dell'antropologia ebraica, il ferhouer persiano (rappresentato su una moneta esistente come Sapore II, il rivale dell'Imperatore Giuliano), una sorta di corpo astrale che “seguiva” il Gesù, vestito di fine lino per attenuarne lo splendore intollerabile. I soldati cercano di afferrarlo, ma esso fugge via nudo, lasciando dietro di sé solo la veste di lino. Il fatto che tale idea non fosse estranea agli Evangelisti è testimoniato chiaramente da Matteo 18:10 (“i loro angeli vedono sempre” — cioè hanno accesso a —  “la faccia del Padre mio”). 

53. Che cosa intende dire l'Evangelista con queste parole ambigue? Finora ha rappresentato il Gesù esclusivamente come un dio, come un'entità dalla potenza infinita; e ora questa divinità viene arrestata e portata al processo, alla condanna e alla morte! Arresto, giudizio, condanna, esecuzione di un dio! Come possono accadere queste cose? Apparentemente l'Evangelista vorrebbe darci un indizio che non va preso alla lettera. Vorrebbe sussurrare al suo lettore: “Naturalmente il Dio Gesù non poteva essere arrestato, ma solo il rivestimento che nascondeva la sua divinità, il rivestimento di carne che ha indossato in questa mia narrativa simbolica”. Da qui l'uso ripetuto della parola “nudo”, sia in 51 che in 52. Ma “nudo” (γυμνός) è l'equivalente di disincarnato quando applicato a uno spirito, come in 2 Corinzi 5:3. Dell'esatta sfumatura e forma del pensiero dell'Evangelista non possiamo, infatti, essere del tutto sicuri, ma non sembrano esserci dubbi sull'identificazione generale del “giovane” con un'entità soprannaturale. 

54. Ecco allora un esempio decisivo di un profondo simbolismo in questo Vangelo, e per di più al centro di una massa di dettagli apparentemente storici. È degno di nota che gli altri Vangeli, più umanizzanti, sembrano essersi offesi per questo passo marciano — almeno, nessuno lo ha ripetuto. Non è strano. Qui, infatti, possiamo cogliere un accenno di spiegazione dell'assenza della giusta conclusione del Vangelo marciano. In origine potrebbe benissimo essersi orientato verso il Docetismo, essere incorso così nello sfavore della Chiesa ed essere caduto vittima dello zelo che in una piccola diocesi (per ordine del Vescovo) distrusse centinaia di documenti non ortodossi come il Diatessaron di Taziano. 

55. Un altro vivido esempio del simbolismo di Marco si trova nell'episodio del Fico Sterile (11:12-14, 20, 21). Sicuramente nessuno può capire per un momento questo fatto in senso letterale. Maledire un fico, abbatterlo e farlo appassire perché non recava frutti fuori stagione (“perché non era la stagione dei fichi”), è inconcepibile per qualsiasi essere razionale, tanto più per un uomo perfetto o un uomo-dio. Se ci si chiede: Quale è dunque il simbolismo? La risposta non è affatto certa. Potrebbe sembrare una condanna di qualche tentativo prematuro, di qualche promessa non adempiuta. Una volta era la mia idea, ritenuta suscettibile di revisione e di correzione, che la condanna fosse rivolta al movimento guidato da Giovanni il Battista, che sembrava forzare il messianismo e il culto di Gesù prematuramente allo scoperto. È degno di nota che in Marco si trovano poche parole di elogio per il Battista. Certamente il movimento avrebbe potuto essere non a torto paragonato a un fico carico di foglie e improvvisamente appassito dalle radici. Matteo e Luca sembrano aver pensato meglio a proposito del precursore e l'apologia che introducono (Matteo 11:7-15; Luca 7:24-28) potrebbe sembrare una correzione perfettamente consapevole di Marco. Non c'è bisogno di insistere su questa congettura; è importante solo riconoscere che l'intero racconto è certamente un simbolismo. 

56. Matteo ha dato a questo episodio una forma ancora più enfatica (21:17-22), in cui l'albero appassisce all'istante (παραχρῆμα, sul posto) per la maledizione di Gesù. È impossibile anche per Zahn (Ev. d. Matt., pag. 616) non riconoscere qui un simbolo; ma, con la strana perversione di un intelletto acuto, egli considera ancora storico il tutto! Egli respinge, giustamente, la pretesa che il Gesù abbia semplicemente “finto la sua inutile ricerca di frutti per ragioni pedagogiche”; né la sua ira fu sconsiderata. Ma la sua vicenda con l'albero divenne istantaneamente per lui l'emblema (Sinnbild) di ciò che dovette sperimentare a Gerusalemme, di cui il fico era il simbolo. Fintantoché “Gesù non spiegò il simbolo ai discepoli” e questi sembrano non averlo capito, parrebbe, nell'esegesi di Zahn, che egli abbia praticamente parlato a sé stesso e recitato parabole che nessuno potesse comprendere.

57. Passando a Luca 13:6, 7, troviamo la parabola di un tale che aveva un fico piantato nella sua vigna, e venne a cercarne i frutti che non trovò, e perciò ne ordinò la distruzione. Naturalmente, in Luca non incontriamo l'episodio matteano-marciano; la sua allegoria della vigna sembra prenderne il posto. Luca dichiara apertamente che si tratta di una “parabola” e l'applicazione al giudaismo è evidente. Sembra difficile che gli episodi lucani e matteano-marciani non siano varianti di una stessa idea generale, dal momento che i fatti centrali di vedere il fico, di avvicinarsi ad esso per ottenere un frutto e di non ottenerlo, sono gli stessi in tutti. Come illustrazione di come un simbolo possa subire, in modo del tutto innocente e naturale, la metamorfosi in Storia reale, questa parabola è molto interessante e istruttiva. Sembra che Matteo e Marco avessero preso questa “parabola”, l'avessero elaborata e poi l'avessero narrata come un fatto storico: naturalmente senza alcun intento di ingannare nessuno, ma molto opportunamente convinti che chiunque potesse vedere a colpo d'occhio che essa era puramente simbolica. Ma Zahn e la sua scuola vogliono che anche le allegorie più evidenti siano storiche, che Gesù avesse recitato letteralmente i suoi detti. 

58. Su questo punto sarebbe bene soffermarsi un attimo. Ci può essere chi non nega il significato simbolico, spesso evidente, di un episodio evangelico, ma ritiene comunque che l'episodio fosse realmente accaduto. In 1 Re 22:11 (2 Cronache 18:10), leggiamo che Sedecìa, figlio di Chenaana si fece delle corna di ferro e disse: “Dice il Signore: Con queste cozzerai contro gli Aramei fino al loro sterminio”; e ci sono altre azioni simboliche di questo tipo menzionate nell'Antico Testamento. Ma ognuno ammetterà che Sedecìa (se davvero fece quanto ricordato) sprecò sicuramente il suo metallo e la sua energia, e dovette aver fatto una figura ridicola piuttosto che impressionante. Inoltre, Sedecìa e gli altri spiegano le loro azioni emblematiche le quali, senza tale spiegazione, rimarrebbero del tutto inutili. Ma non sentiamo di tali spiegazioni nei Vangeli. Considera il caso della guarigione della mano avvizzita. Girolamo, come già osservato (a pag. 31), ne percepì il chiaro simbolismo: era l'Umanità ebraica ferita dalla Tradizione, guarita dalla nuova Dottrina. Nessuno può negare che la dichiarazione simbolica in Marco sia una metafora audace, bella e poetica. Per gli scopi di una cerchia familiare [8] con tali allegorie, essa sembra scelta mirabilmente. Ma supponi che l'episodio si fosse realmente verificato. Cosa ne sarebbe risultato? Stupore, senza dubbio; ma qualcuno avrebbe immaginato il significato simbolico? Certamente no. Perfino supponendo che Gesù avesse fatto seguire al miracolo una spiegazione del suo significato, esso non avrebbe procurato alcuna impressione. Ognuno avrebbe pensato al miracolo stupefacente in sé; a nessuno sarebbe importato della spiegazione, che sarebbe sembrata banale. Mentre, allora, un uomo potrebbe (abbastanza scioccamente) fare una qualche esibizione bizzarra (di per sé priva di significato), e poi spiegarla come simbolo di questo o quel fatto o idea, tuttavia è del tutto impossibile che qualcuno compia qualche miracolo sconcertante, qualche meraviglia di per sé altamente significativa, e poi la spieghi in senso simbolico. Un'azione del genere vanificherebbe il suo stesso scopo, perché il prodigio del simbolo attirerebbe tutta l'attenzione, e farebbe del tutto dimenticare il significato simboleggiato. Possiamo allora respingere l'idea che Gesù avesse compiuto prodigi simbolici, in quanto semplicemente puerile. Né si può dire che il simbolismo fosse inteso non per allora, ma solo per oggi, ad insegnarci. Impossibile, perché a meno di non avere già le idee simboleggiate, non possiamo capire il simbolo. No! Questi episodi, così spesso miracolosi, sono semplicemente simbolismi; non fanno altro che affermare, in forma più o meno convenzionale, di frequente con vigore e vivacità, qualche verità o dottrina sostenuta dal simbolista e attribuita al Gesù come la fonte di ogni autorità.

59. Ancora più trasparente è il racconto audace e possente dell'indemoniato di Gerasa (Marco 5:1-20), che tanto ha provocato l'indignazione, il disprezzo e l'ilarità del militante Huxley. Inteso come Storia reale, mito o leggenda, è certamente del tutto impossibile, un'offesa a ogni ragione; ma come simbolo è poco meno che sublime. Appena il Gesù esce dalla barca sulla riva, ecco che gli si presenta un Uomo (nota la singola parola ἄνθρωπος) che esce dai sepolcri con uno spirito impuro. Segue poi la vivida descrizione, che non è il caso di ripetere. L'Uomo è posseduto da una schiera di spiriti immondi il cui nome è Legione. Tutti sono espulsi, mandati nei porci e con questi gettati a capofitto nel mare; al che l'indemoniato si siede ai piedi del Gesù, vestito e sano di mente. È possibile non riconoscervi l'Umanità — l'Umanità pagana — posseduta dalla sua legione di falsi dèi immondi, riottosi alle leggi e alle ordinanze di Jahvé, che il culto di Gesù riporta alla ragione e sottomette al mite dominio della verità e della ragione? Sembra che la semplice affermazione di questa interpretazione sia quasi una dimostrazione inoppugnabile, mentre la sua perfetta armonia con il resto di questo grande poema simbolico che è il Vangelo non fa che rendere la certezza doppiamente sicura. Chi dubita di questa interpretazione può suggerirne un'altra? 

60. Ripetiamo ancora una volta che non c'è un solo tratto o atto esplicitamente umano attribuito da Marco al Gesù. Forse l'esempio che si presenterà istantaneamente al cuore e alle labbra di ciascuno è la benedizione dei bambini piccoli (Marco 10:13-16; Matteo 19:13-15; Luca 18:15-17). Certamente questo è di gran lunga il gesto umano più tenero descritto nei Vangeli, e ha determinato più di ogni cosa e persino di tutto il resto l'attuale concezione del mite Gesù. Tuttavia, considera solo questo. Questi “piccoli” erano credenti! “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono (in me)Nota, inoltre, che la domanda verte intorno all'ammissione di questi piccoli bambini al Regno; e si dichiara che il Regno è (composto) da questi, [9] cioè da loro, non da persone come loro. Nota, inoltre, che i discepoli rimproverano coloro che portano i bambini al Gesù, il che è del tutto incomprensibile se si intendono bambini o neonati comuni. Che senso ha scandalizzare un bambino? Nessuno. 

61. Ora, passa per un momento al Talmud e leggi Jebamoth 22a, 48b, 62a, 97b, Bechoroth 47a: “Il proselita è come un neonato” [10] e, ancora, Maimon. Mishneh Torà, Issure Biah, capitolo 14,  paragrafo 2: “Il gentile che diventa proselita e lo schiavo che è libero, ecco, è come un piccolo appena nato”. Qui, allora, la questione è resa perfettamente chiarita. Questi “bambini” o “piccoli” non sono né più né meno che proseliti o convertiti gentili; la questione verte attorno alla loro ammissione nel Regno in condizioni di parità con l'ebreo, la difficile questione che assillò così tanto la Chiesa primitiva. Gli scrittori sono tutti liberali; insistono sugli eguali diritti dei gentili; e Matteo, con la sua solita splendida retorica, denuncia la rovina di chiunque li scandalizzi, cioè li faccia offendere imponendo loro riti e cerimonie ebraiche o restrizioni che essi avrebbero mancato di osservare, e così li avrebbe presi come in una trappola. Particolarmente degno di nota è l'uso del termine “piccoli” sei volte nel Nuovo Testamento (Matteo 10:42; 18:6, 10, 14; Marco 9:42; Luca 17:2), sempre nel senso di convertiti gentili, in perfetto accordo con il Talmud, che non dice bambino (yeled), né lattante (yanik) né niente altro che piccolo (qaton).

62. Ora vediamo con perfetta chiarezza il significato nobile e bellissimo di questo passo, e vediamo anche che non reca la più debole o remota testimonianza dell'umanità del Gesù; al contrario, testimonia eloquentemente a favore del sistema di interpretazione che illustra. La questione se Paolo, l'apostolo, sia obliquamente accennato nel bambino posto in mezzo ai discepoli può essere lasciata aperta. 

63. Il simbolismo prevalente, ripetutamente esemplificato nelle pagine precedenti, è intrecciato così profondamente nell'intima trama dei Vangeli che illustrarlo adeguatamente richiederebbe un'interpretazione versetto per versetto, come quella già menzionata a pag. 96, ma del tutto impossibile a questo proposito. Però non deve passare inosservato che l'incapacità di osservare il senso, spesso sottilmente velato, di queste scritture, ha indotto i critici più eruditi a fallacie a cui essi avrebbero sfuggito facilmente. Così, in una recentissima intervista (Baltimore American, 13 febbraio 1910), il rinomato assiriologo della Johns Hopkins, respingendo le posizioni del professor Drews (noto allora, forse, solo attraverso i resoconti molto inadeguati, e persino fuorvianti, della stampa quotidiana), dichiara che un “uomo unico”, una personalità carismatica, si cela dietro ogni movimento mondiale, e che perciò il Gesù fu storico — il che suona come una rettifica o una correzione del famigerato oracolo di Bacbuc di Hegel, secondo il quale “al culmine di tutte le azioni, quindi anche di quelle storico-mondiali, stanno individui”. Eppure l'opinione comune è che “nel sistema hegeliano le idee sovrastano le persone”; e il compianto professor Friedrich Paulsen, nella sua ben nota Introduzione alla filosofia, pag. 3, 4, afferma esattamente il contrario, riferendo i fenomeni “mitico-religiosi” al “pensiero collettivo”: “Oggi nessuno parla di un fondatore della religione egizia o greca”. È vero che dice: "“Le religioni cristiana e maomettana hanno i loro fondatori religiosi”; questi li cita come peculiari ed eccezionali, e in modo molto naturale, perché allora non aveva letto Der vorchristliche Jesus e non era stato “accecato dalla moltitudine di nuove opinioni”, come scrisse poco prima della sua troppo precoce scomparsa. [11] 

64. Ma, per fare un solo esempio decisivo, si vorrebbe sapere chi fosse la personalità umana, “il comitato costituito da una sola persona”, dietro al Mitraismo, che approssimò o incrociò il cristianesimo su così tanti punti vitali, e che per così tanti anni gli contese l'Impero romano — infine, invero, senza successo, ma in gran parte perché era una religione di uomini, di soldati (come protettore dei guerrieri Mitra ricevette per sua compagna Verethragna, ossia la Vittoria — Cumont), e non riuscì a fare affidamento sull'Eterno Femminino. Mitra, il cui culto, testimoniato da monumenti, abbracciò l'intero Impero Romano dal Mar Nero fino ai laghi della Scozia e al deserto del Sahara, Mitra fu davvero una personalità storica? Oppure fu una divinità ancestrale, la Luce “sempre desta, sempre vigile”, “il Signore degli ampi pascoli”

65. Nella stessa intervista troviamo un'interpretazione liberale del miracolo di Cana. Le giare contenevano acqua, non vino. Gli invitati brontolavano per un banchetto così “povero”; ma dopo, ricordando quanto meravigliosamente parlò loro Gesù, dissero che era davvero meraviglioso; nessuno badò alla mancanza; sembrò  “che fosse stato compiuto un miracolo e che egli avesse trasformato l'acqua in vino”. “Tu sei così vicino eppure così lontano”. Sembra strano che un'interpretazione possa andare così ampiamente fuori strada e tuttavia imboccare la strada giusta su un punto importante. Con questa esposizione l'intero miracolo è ridotto alla massima banalità e il Gesù viene equiparato a qualche affascinante oratore postprandiale. Che una cosa del genere possa essere stata nella mente del Quarto Evangelista, profonda e solenne come l'etere stesso, l'aquila che vola lontano della Scrittura neotestamentaria, è come se Hegel avesse inserito la Ballata di Nancy Bell nel secondo capitolo della sua Scienza della logica. Eppure il significato dell'Evangelista gnostico non è affatto lontano da ricercare. Nei Sinottici leggiamo: “E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi” (Marco 2:22); e ancora: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?” (Marco 2:19, 20). Ecco allora che abbiamo la presenza di Gesù con i suoi discepoli raffigurata come un banchetto di nozze, e la sua “nuova dottrina” come vino nuovo che non poteva essere versato in otri vecchi, che altrimenti scoppierebbero. Nel Quarto Vangelo troviamo elaborate queste stesse idee in un racconto distinto di un miracolo, proprio nel modo minuzioso e artistico del Quarto Evangelista. In confronto al vino della “nuova dottrina”, il vecchio formalismo degli ebrei era solo acqua nelle giare “di pietra, usate per la purificazione dei Giudei”. Al suo comando il vino sgorga in abbondanza, un vino che gli ospiti non avevano mai bevuto prima. Quale vino, ti chiederai? Lo stesso vino contemplato nei Sinottici: il vino della “Nuova Dottrina”. È proprio qui, invero, che il mondo si meraviglia; è qui che il nuovo Dio manifestò invero la sua gloria e non sorprende che i suoi discepoli credettero in lui. 

66. Questo è il miracolo di Cana, la trasformazione della dottrina formale ebraica di riti e di cerimonie, che operavano una purificazione esteriore, nella nuova dottrina spirituale del Gesù, che purifica, ravviva e ispira “l'uomo interiore”. L'abbondanza di questo grande “dono dello spirito” è accennata chiaramente in un piccolo aspetto della narrativa: i recipienti d'acqua erano ricolmi fino all'orlo. Erano sei, ciascuna di due o tre otri, cioè di 18 o 27 galloni; i sei otri avrebbero contenuto da 108 a 162 galloni: certamente una scorta completa in ogni caso, soprattutto dopo che il “vino delle nozze era stato consumato”. [12] Stranissima suona questa clausola del Codice Sinaitico, confermata da innumerevoli autorità, per la quale altrettante hanno l'espressione del tutto diversa “essendo venuto a mancare il vino”; [13] pare per cui che la clausola sia un'interpolazione successiva, volta a spiegare la concisa dichiarazione originale, “non hanno più vino”, cioè la “nuova dottrina”, il culto di Gesù, non era ancora il loro. Ora vediamo chiaramente chi è questa “Madre del Gesù”: nient'altro che la Chiesa ebraica, come Girolamo intuì chiaramente da lungo tempo; [14] la stessa madre che “con i fratelli stava fuori” (dal Regno), chiamandolo e cercandolo (Marco 3:31-35). 

67. Questa grande festa delle nozze di Cana non è altro allora che l'introduzione del culto di Gesù nel mondo, le nozze tra la religione greca e quella ebraica nella “nuova dottrina” destinata a ringiovanire la terra. Molto appropriatamente, è chiamata il “primo dei suoi segni”, dove potremo quasi tradurre σημείων con “simboli”. Naturalmente, in tutte queste elaborazioni certi dettagli sono introdotti semplicemente per effetto artistico, e sarebbe puerile soffermarsi su di essi o tentare di forzarne un'interpretazione; ma sembra davvero sorprendente con quanta accuratezza sia realizzato il simbolismo e con quanta vividezza sia delineata la situazione generale. Osservazioni simili valgono per tutte le narrazioni evangeliche. Molti particolari possono essere solo delicati tocchi di matita dell'autore, concepiti semplicemente per accentuare il colore o per migliorare l'ambientazione drammatica; e occasionalmente può essere stato attivo qualche antico motivo mitico, oppure qualche reminiscenza storica (non del Gesù); eppure è impressionante come una vasta porzione del totale evangelico inviti insistentemente ad un'interpretazione simbolica. [15] 

68. La suddetta esegesi di questo passo sembra così ovvia che non si può attribuire molto onore all'originalità e nemmeno alla priorità. Però non sarà inutile osservare che essa è stata elaborata pienamente dal presente scrittore in un articolo scritto circa vent'anni anni fa sul Simbolismo Numerico nel Quarto Vangelo (non pubblicato, ma diffuso privatamente), e che per lui era originale. Da allora egli ha letto la discussione di Thoma in Das Johannes-Evangelium (1882), pag. 411-418, dove la storia è interpretata simbolicamente con grande minuzia; mentre, stranamente, il nocciolo della questione, l'identificazione del vino con la “nuova dottrina”, è omesso. Kreyenbühl, nel suo Evangelium der Wahrheit (1905) guarda ripetutamente a questo “segno”, intendendolo abbastanza correttamente (i, 441, 587 e seguenti; ii, 372, 481-483). In effetti, per chi ha sensibilità per l'atmosfera intellettuale che avvolge questo Vangelo non pare facile sbagliarsi.

69. Resta da osservare che l'idea del vino al posto dell'acqua è molto familiare e si trova in Filone (Leg. Alleg. 2:76a): “Ma Melchisedec, anziché acqua, porti del vino e ne abbeveri e ne disseti le anime, affinché si ubriachino della divina ebbrezza, che è più sobria della stessa sobrietà. Il Sacerdote, in effetti, è il Logos che ha come eredità Colui che è, e per questo esprime su di Lui i pensieri più alti, più elevati e più belli: è infatti il Sacerdote dell'Altissimo......” 

70. Ecco, allora, un esempio ben pronunciato di simbolismo evangelico, evidente al di là di ogni ragionevole dubbio. Quasi altrettanto chiari sono tutti gli altri (sei) segni di questo Vangelo “spirituale”. Così considera il miracolo dei pani e dei pesci, riportato in diverse forme anche nei Sinottici. Il professor Paul Haupt pensa che gli uditori di Gesù ascoltassero come in trance, “nessuno pensava al pranzo”, e “questa storia, detta e ridetta, venne ad assumere l'evidenza e la natura di un miracolo” — un'interpretazione di cui sarebbe difficile trovare anche solo un debole accenno in qualsiasi testo (Matteo 14:17-21; 15:32-38; Marco 6:34-44; 8:1-9; Luca 9:12-17; Giovanni 6:5-71). Cosa ancora più grave, l'essenza della questione è di nuovo evaporata o resa del tutto banale. Chi avrebbe potuto avere una qualche venerazione per una religione che si originò da tali sciocchi fraintendimenti ed esagerazioni? I quattro Vangeli vanno interpretati come esempi di umorismo delle Montagne Rocciose? Per quanto ammiriamo sinceramente e senza riserve l'erudizione e l'abilità di tali espositori, noi dobbiamo respingere le loro spiegazioni senza esitazione, in quanto inadeguate storicamente e inadeguate in ogni modo alle esigenze psicologiche del caso. [16]

71. Giovanni stesso è l'interprete più antico dei Sinottici; e la sua interpretazione, pur dovendo essere interpretata, è nondimeno una guida affidabile e inequivocabile. Notiamo il lungo discorso con cui espande il suo breve racconto. Il Gesù stesso vi figura come il pane della vita, il pane disceso dal cielo. Mangiare lui è saziare la fame per sempre. “Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita”. “Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”. Sembra che il linguaggio non possa essere più chiaro, che il significato debba essere chiaro anche al senso più ottuso. È semplicemente certo che questo pane e questo vino dello spirito devono essere una dottrina, un'idea, un culto. Mangiare, nutrirsi di sapere, è una forma di linguaggio familiare per tutti i tempi, tanto moderni quanto antichi. “Mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele” (Ezechiele 3:1), è il comando dell'angelo al Figlio dell'Uomo. “Presi quel piccolo libro dalla mano dell'angelo e lo divorai” (Apocalisse 10:10). 

72. Questo pesante fondamentale dell'appropriazione completa della “Nuova Dottrina” sotto i simboli del vino e del pane (della vita) ha trovato un'impressionante espressione simbolica nell'Eucarestia, ed è tuttora conservato con nomi come transustanziazione o consustanziazione — quantum mutatus ab illo! Nota che sono i discepoli, i primi ad apprendere la “Nuova Dottrina”, a distribuirla alla moltitudine; né vi si intende un insegnamento personale ricevuto da Gesù, poiché in nessuna parte del Nuovo Testamento, né nell'età apostolica né in quella immediatamente post-apostolica, troviamo un insegnamento di questo tipo che costituisca in qualche misura il tema della loro proclamazione.  Al contrario, non fu un insegnamento da parte del Gesù, ma una dottrina intorno al Gesù, [17] che essi diffusero ovunque da una sponda all'altra, come fece l'eloquente missionario Apollo in tutto il Mediterraneo molto prima di aver sentito parlare della storia neotestamentaria, “sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni” (Atti 18:24, 25). 

73. Come già detto, manca lo spazio per discutere ulteriormente i miracoli del Gesù e per mostrare il profondo simbolismo che li pervade tutti. Ma prima di concludere questi esempi, mi si permetta di insistere ancora una volta che è sul Vangelo di Marco che si concentra in modo più marcato la questione. “I dati principali della sua vita enumerati nei Vangeli, specialmente in Marco, potrebbero essere realmente accaduti” (Open Court, gennaio 1910, pag. 30)! Anzi, è proprio in questo Vangelo che il processo di umanizzazione è appena cominciato, che possiamo vedere i lineamenti divini più inconfondibili, l'umano quasi per niente. “E in quell'istante”, dice la Medea di Pindaro, “tutto solo venne il Dio, assunta la parvenza luminosa d'un uomo venerabile”. In effetti, in questa più antica storia evangelica esistente non c'è un tratto umano particolare; è a malapena nelle vesti di uomo, ma apertamente e inequivocabilmente come Dio, che il Leone della tribù di Giuda si muove attraverso questo Vangelo. Chi ribalterà questa constatazione negativa universale presentando un solo caso affermativo inequivocabile?


NOTE

[1] Curioso lo sconcerto di Strauss (Das Leben Jesu kritisch bearbeitet, § 127). Bacon “riassume” così: “Ma c'era un certo uomo che lo aveva seguito fin lì dal suo letto, col lenzuolo avvolto intorno a sé”. Sembra che il senso dell'umorismo avrebbe dovuto risparmiare a chiunque di riassumere συνηκολούθει αὐτῷ in una maniera così grottesca. Il verbo greco è molto enfatico; inoltre, è imperfetto, ed è tradotto adeguatamente con “accompagnava abitualmente”. In Aristotele è usato per indicare un accompagnamento necessario, un coinvolgimento logico. Il termine è particolarmente inadatto a indicare la presenza accidentale o casuale immaginata da Wellhausen. Volkmar, seguito da Keim, Holtzmann, Loisy, Reinach e altri, rammenta Amos 2:16: “Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno”; nella Septuaginta: “l'ignudo fuggirà via in quel giorno”. Ma questo è l'Amleto senza Amleto; non c'è nessun “giovane avvolto solo in un panno di lino”. Inoltre, non c'è alcun senso, alcun significato, nell'allusione, che sarebbe stata possibile solo per uno scrittore deciso a rispettare i passi più inusuali dell'Antico Testamento; uno scrittore come Marco non lo era. Il suggerimento di Volkmar non spiega ciò che è più necessario spiegare, anche se il passo di Amos potrebbe essere stato nella mente dell'autore.

[2] νεανίσκος.

[3] περιβεβλημένος.

[4] σινδόνα.

[5] στολὴν λευκήν.

[6] ἐπὶ γυμνοῦ, 14:51; γυμνὸς, 14:52.

[7] Confronta Apocalisse 19:14, dove gli eserciti celesti appaiono “vestiti di lino fino bianco e puro”.

[8] A chiunque dubiti di questa familiarità e dell'uso abbondante di tale simbolismo, si raccomanda di considerare questi passi tratti da Les Pharisiens di Cohen: “Non osando attaccare apertamente i tiranni e i nemici della Giudea, si alimentò contro di loro l'odio popolare tramite una guerra di allusioni che, comprensibili solo agli ascoltatori, li appassionavano contro gli oppressori del loro paese. È così che, al tempo degli Zeloti, Edom ed Esaù, simboli di tirannia e di ateismo, divennero la personificazione della dominazione romana. Si inventarono e si misero in circolazione, su questi due avversari di Israele, una serie di racconti leggendari applicabili agli eventi contemporanei, che si sono conservati, benché il loro significato oscuro si sia perso nel corso del tempo. Si predicava così la guerra santa in termini velati e quella forma di polemica, ardente come una lotta dichiarata, infiammava l'entusiasmo popolare” (Volume 2, pag. 282).  Similmente, altri assalirono la dinastia asmonea, con la scusa della domanda accademica: l'acqua pura perderebbe la sua purezza nel passare da un recipiente puro a uno impuro? I Farisei dissero di no e attribuirono ai Sadducei l'opinione che l'acqua potesse essere pura anche se proveniente da un campo disseminato di cadaveri. Ora, dice Cohen: “L'acqua pura è la discendenza asmonea che, pur essendo arrivata nella persona di eredi meno raccomandabili dei primi Maccabei, non si è però deteriorata, come pretendono i Sadducei, desiderosi di legittimare l'usurpazione di Erode screditando il valore morale degli ultimi Asmonei. Il campo di cadaveri si riferisce ai massacri sui quali Erode ha fondato il suo potere, potere che i Sadducei dichiarano legittimo e rispettabile, benché provenga da quella origine criminale” (1, pag. 362). Pare così che il simbolismo che troviamo nei Vangeli non fosse semplicemente una pianta nativa, ma fosse una importante componente del suolo da cui essi spuntarono. 

[9] Confronta qui il detto di Eraclito (Ippolito, Confutazione di tutte le eresie 9:9): “Eone (la vita? Zeus?) è un fanciullo che gioca, che gioca alla pesséia, il Regno (è) di un fanciullo”. Esso sembra essere stato famoso, ed è sicuramente abbastanza “oscuro” da soddisfare i più esigenti. Nota anche che i “piccoli” e i “bambini” sono gli stessi, come si evince da Matteo 18:1-6.

[10] Confronta qui con 1 Pietro 2:2: “Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che Chrestus è il Signore. Chrestus è qui solo un'altra forma per Christus, come intuirono Clemente Alessandrino e Agostino. Simile è il senso di “bambini” nel grande Inno Gnostico (Matteo 11:25-30): “Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. È il rifiuto del culto di Gesù da parte degli ebrei e la sua accettazione da parte dei gentili. Nota che si tratta di una dottrina di cui i nuovi nati si nutrono e godono. La traduzione comune, “Il Signore è buono” o “benevolo”, non può essere corretta, perché non si accorda con il contesto. 

[11] Qualche lettore ben disposto potrebbe citare il buddismo e il confucianesimo; ma né del Buddha né del venerabile Confucio sappiamo abbastanza per valutare il suo contributo personale al sistema che reca il suo nome. Possiamo essere sicuri, però, che la dottrina, al pari del comandamento evangelico, si fece per coloro che potevano riceverla: che fosse propria del suolo in cui fiorì. 

[12] ὅτι συνετελέσθη ὁ οἶνος τοῦ γάμου.

[13] ὑστερήσαντος οἴνου.

[14] Infatti, commentando Galati 1:19, egli dice: “Ora sia sufficiente la considerazione che Giacomo è chiamato fratello del Signore a causa della singolare moralità, della fede senza pari e della sapienza non comune nonché per il fatto che fu il primo ad essere messo a capo di quella chiesa che, credendo per prima in Cristo, si era radunata fra i Giudei. Anche tutti gli altri apostoli vengono certo chiamati fratelli (Giovanni 20:17, Salmo 22:22). Ma principalmente è chiamato fratello colui al quale il Signore, andando al Padre, aveva affidato i figli di sua madre” (ossia i membri della Chiesa di Gerusalemme, come è evidente ed è dichiarato nelle parole Hierosolymae, scilicet nell'Index locupletissimus delle opere di Girolamo).

[15] Il paragrafo precedente sembra importante. Trascurare il contributo della facoltà poetica e insistere sull'interpretazione simbolica di ogni dettaglio sarebbe fatale per una comprensione adeguata persino della confessata allegoria. A titolo di esempio, prendi la famosa parabola del Popolo d'Israele come una vigna, presente in Isaia 5:1-7. Qui il senso generale è subito evidente, e l'interpretazione è fornita espressamente nel versetto 7. Ma chi può interpretare i vari dettagli del versetto 2? Nessuno. Servono semplicemente a rendere vivida l'idea principale che Jahvé era stato buonissimo con Israele; sono semplici abbellimenti. Nei Vangeli si presentano decine di casi simili. Dobbiamo accontentarci di riconoscere il contenuto generale nelle grandi linee, nello schema del simbolo, e non cercare di rintracciarlo nelle sfumature più delicate.

[16] Più interessante è la “soluzione” offerta da Schweitzer (Storia della ricerca sulla vita di Gesù, pag. 374), secondo cui “l'intero racconto è storico, eccetto l'osservazione finale relativa alla sazietà di tutti”. Lungi dall'essere “sazio”, “ognuno ne ebbe un piccolo pezzo”; si tratta di un “pezzetto di pane fatto distribuire dai discepoli ai presenti”. Sembrerebbe esserci poca magia in un simile miracolo; ma come sarebbe piaciuto alle folle affamate? Avrebbero sperato molto dalla regalità di un simile taumaturgo?

[17] τὰ περὶ τοῦ Ἰησοῦ.

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